BS 216 / GENNAIO 2022

Scegliere il dialogo

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La mia mente ha bisogno di pace

È sempre più facile, naturale, quasi scontato essere contro qualcosa o qualcuno.
I meccanismi del conflitto sembrano una rete fitta e sottile da cui è difficile liberarsi. Nichiren Daishonin, Shakyamuni, Daisaku Ikeda ci mostrano un approccio diverso, un modo di confliggere rimanendo vigili, puliti, rispettosi di ogni singola vita.


Che cosa sta succedendo? Giornali, tv, internet, discussioni e schieramenti tra amici, politici, uomini e donne di scienza. C’è come un grande buio che spinge la paura ad armarsi e a cercare nemici dovunque. Dopo quasi due anni di chiusure, sofferenze personali e sociali, e le tante persone andate via per sempre. I meccanismi del conflitto sembrano una rete fitta e sottile da cui è difficile liberarsi. Te la ritrovi a impastarti la mente, le scelte, le mani. Ed è diventato facile, naturale e scontato essere contro qualcosa, qualcuno. Essere contro, quasi una forma mentis che arriva a minare la qualità persino delle relazioni più vicine, con amici, familiari, compagni e compagne di fede.
Il Buddismo insegna fondamentalmente il rispetto della vita. Non in generale. Ma in concreto: di ogni singola vita, una per una.
Purtroppo, spesso, quando parliamo di rispetto è perché lo pretendiamo, perché pensiamo che gli altri ci stiano mancando di rispetto, ci guardino con pregiudizio, giudizio, supponenza. Ma noi? Come li stiamo guardando? Quanto siamo in grado di riconoscere dentro di noi il giudizio, il pregiudizio, la supponenza che ci annebbia la vista e non ci permette di vedere in chi abbiamo di fronte la sua bellezza, la sua preziosità, il suo essere così come è una meravigliosa manifestazione della vita?
Se in nome di una idea, di un valore, di un principio, per quanto giusto o sensato sia, oscuriamo le altre persone, le loro esigenze, differenze, il valore della loro unicità, non stiamo facendo nulla di giusto o di sensato. «Ritengo – scrive Daisaku Ikeda nella serie "Sette sentieri per l’armonia globale" – che l’essenza del bene sia l’aspirazione all’unità mentre il male va verso la divisione e la separazione. La funzione del male è sempre quella di causare divisioni, provocare lacerazioni nel cuore umano, rescindere i legami tra familiari, colleghi, amici e conoscenti, distruggere il senso di unione dell’umanità con la natura e l’universo. Dove regna la divisione, gli esseri umani si isolano per divenire vittime dell’infelicità e della disperazione. Una persona dal cuore chiuso vive incapsulata nel guscio di egoismo e autocompiacimento che si è costruita. Questa azione triste e insensata di separare l’io e l’altro è il marchio di fabbrica del male così come l’ho definito qui e questa profonda tendenza, che accompagna tutta la storia umana, nella nostra epoca si è manifestata in maniera singolare, come una sorta di tratto fatidico della nostra civiltà» (BS, 95, 56).
Sono tornata a leggere questa splendida serie (pubblicata su Buddismo e società nei numeri da 88 a 102) perché la mia mente ha bisogno di pace, e in quelle pagine Ikeda vuole indicarci la strada per costruirla concretamente, a partire dallo svelamento di tanti schemi mentali che portano alla guerra. Come anni fa, mi ha colpito il modo in cui individua chiaramente, all’origine di tante ostilità e divisioni, quello che il filosofo Gabriel Marcel chiama lo “spirito astratto”. Una condizione che inizia a vivere e fare danni quando un sogno, un principio, un valore culturale, etnico, religioso, diventa assoluto, massa granitica che mi impedisce di vedere il valore di chi è diverso da me, dalle mie idee, dalle mie convinzioni. E il conflitto degenera, diventa guerra, imposizione, violenza fisica e verbale, giustificata da quello in cui credo. Il contrario del rispetto. Il contrario dell'umanità. Il contrario del Buddismo.
Non lo si fa consapevolmente, a volte accade di rimanere impigliati in certe dinamiche senza neppure accorgersene. Intrappolati in un pensiero, una regola, una visione che prescinde da me e da te. Nichiren, Shakyamuni, Ikeda stesso ci mostrano un approccio diverso, un modo di confliggere rimanendo vigili, puliti, rispettosi di ogni singola vita. Non solo su un piano teorico, ma con il loro comportamento. Nichiren che offre sakè ai soldati che stavano per decapitarlo, preoccupandosi del karma che avrebbero creato uccidendolo. Shakyamuni che nel Sutra del loto svela di essere stato discepolo di Devadatta in una precedente vita. Proprio quel Devadatta che cercò di ucciderlo «e di rompere i legami fra lui e i suoi discepoli. Egli propose regole monastiche molto più rigorose di quelle vigenti nell’ordine, per apparire più scrupoloso del Budda nell’osservanza delle austerità» (SSDL, 2, 8). Un perfetto esempio di “spirito astratto”, dove l’austerità diventa un valore in nome del quale osteggiare l’autorevolezza persino di Shakyamuni. Eppure davanti ai bodhisattva, agli esseri umani e celesti Shakyamuni disse: «Il fatto che io abbia raggiunto l’Illuminazione imparziale e corretta, e possa salvare un gran numero di esseri viventi, lo devo unicamente a Devadatta, che fu un buon amico» (SDLPE, 259).
Si può, e si deve, rimanere saldi in una convinzione senza chiudersi, difendersi, attaccare, vedere in chi mi contraddice o mi ostacola un nemico. Posso confliggere restando in una condizione di lucida apertura, presente alla complessità, alla bellezza della tua persona. Non sei un'idea da distruggere, da eliminare. Sei una persona, sei Marco, sei Giulia, Francesca o Sofia. Qualcosa scopriremo insieme. (Manuela Vigorita)

Come dialogava Nichiren

Lettere, trattati, saggi. Dispute dottrinali, rimostranze alle autorità, incoraggiamenti pieni di premura, affetto e calore. Il modo di dialogare di Nichiren Daishonin è l’esempio multiforme di come la compassione del Budda, preoccupata del bene, possa esprimersi a seconda delle circostanze in maniere diverse con la stessa forza ed efficacia.

Da una preoccupazione comune a un impegno condiviso


«Fino a oggi mi sono preoccupato da solo, angustiato nel profondo del cuore, ma ora che voi siete qui possiamo lamentarci insieme e discutere a fondo questi problemi» (RSND 1, 7).

Archetipo di dialogo nel Buddismo, Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese è uno dei più importanti trattati di Nichiren Daishonin, luminoso esempio di processo dialogico che si conclude con una profonda trasformazione, passando anche attraverso accesi scontri verbali.
È strutturato come uno scambio di domande e risposte fra un visitatore, l’autorità secolare, e un padrone di casa, il punto di vista buddista.
All’inizio i due esprimono profonda angoscia per la serie di disastri che ha colpito il paese. Questa preoccupazione comune e la determinazione di riportare sotto controllo la situazione permette loro di guardare oltre le rispettive differenze e iniziare un dialogo. I due espongono francamente le loro convinzioni. Il padrone di casa risponde alla rabbia e alla confusione che il suo ospite a momenti esprime, esaminando ogni suo dubbio fino a risolverlo.
Alla fine di questo drammatico incontro-scontro l’ospite si convince della correttezza delle affermazioni del padrone di casa e riconosce la necessità di credere nelle possibilità illimitate dell’essere umano, essenza degli insegnamenti buddisti del Sutra del Loto secondo i quali ogni persona possiede un potenziale infinito e può far emergere la propria unica ed essenziale dignità.
«Risvegliarsi a tale dignità può riaccendere la fiamma della speranza in una persona immersa nella più profonda disperazione, la quale, a sua volta, può accendere la speranza in un’altra persona. L’impeto di rinnovamento umano che ne risulta ha il potere di disperdere la confusione e l’oscurità che avvolgono la società» (Proposta di pace 2012, BS, 152, 18).

RIFLESSIONI


La fermezza e la compassione
Se volessimo imparare da Nichiren come dialogare ci imbatteremmo in una assoluta fermezza. Può sembrare un paradosso, considerando la sua impareggiabile capacità di sintonizzarsi con la vita di chi ha di fronte, per sostenerla e guidarla.
Alcuni l’hanno definita “intransigenza dottrinale”: «Ha ammonito governanti, cosa che nella cultura dell’epoca era considerata molto sconveniente, ha sottolineato la poca purezza dottrinaria della scuola Tendai e delle scuole amidiste, esponendosi ad attacchi anche violenti da parte di comunità di monaci e dei signori che le proteggevano» (“Intervista a Silvio Vita”, BS, 85, 23). E di certo non si mostra tenero quando, citando il Sutra del Loto, ricorda che la punizione per chi attacca colui che diffonde la Legge è di avere «la testa rotta in sette pezzi» (per esempio nell’Apertura degli occhi, RSND, 1, 258).
Temperamento molto diverso da quello del Bodhisattva Mai Sprezzante, che ripetendo la stessa lode si inchina pervicacemente di fronte a chiunque passa per strada per riverire la sua Buddità e non si difende mai dagli attacchi, se non schivandoli.
Atteggiamenti differenti, stessa fermezza. Perché a muoverli è la stessa motivazione: il granitico convincimento che al cuore di qualsiasi vita esiste un valore inestimabile che è la fonte di ogni autentica risposta, e la preoccupazione per il destino degli esseri umani affinché non soffrano inutilmente, cercando il tesoro dove non c’è ignorando di possederlo già.
Credere sempre e comunque nel valore della vita, e agire sempre di conseguenza senza alcun compromesso, non è che l’altra faccia di una infinita compassione.
(Marina Marrazzi)

Le parole e il silenzio
Nichiren conosceva il valore della relazione. Non aveva un solo modo di comunicare, magari astratto, asettico, uguale per tutti/e. A seconda della persona a cui si rivolgeva, a seconda della circostanza, a seconda della situazione sceglieva il metodo più adatto. Con attenzione, con profondo rispetto.
Senza scordare mai chi aveva di fronte.
Potevano essere lettere, trattati, dialoghi o saggi.
Il modo di rivolgerci a chi ci circonda conta tanto. La persona che abbiamo di fronte è, appunto, una persona, non un concetto.
Nichiren era commovente e vicinissimo in alcuni casi, severo e rigorosissimo in altri. Usava esprimersi con lunghe digressioni oppure scegliere frasi secche quasi perentorie.
Una cosa che è efficace con una persona è magari controproducente con un’altra.
Conta l’efficacia non l’efficienza. Che la nostra intenzione venga ascoltata, non imposta. Variare gli stili di comunicazione tenendo conto di chi abbiamo di fronte, non ripetere frasi fatte, senza vita accesa dentro.
Il Daishonin conosceva bene l’arte del dibattere. Conosceva l’arte del confronto sui temi religiosi, sulle questioni dottrinarie, che affrontava confutando, spiegando, esponendo diffusamente. Senza alcuna paura di apparire troppo rigoroso o scomodo (perché rigoroso e scomodo è stato tutta la vita).
Ma conosceva anche l’arte del silenzio. Che non era mai assenza di parola. Ma parola esso stesso.
Accadde ad esempio quando si ritirò sul Monte Minobu. «Proprio come avevo previsto sin dall’inizio, i miei ammonimenti non furono ascoltati. Se una persona ammonisce tre volte il governante e non viene ascoltata, deve lasciare il paese. Perciò lasciai Kamakura [...] e venni qui sul Monte Minobu» (Le azioni del devoto del Sutra del Loto, RSND, 1, 691).
Il silenzio di Nichiren era un’alta forma di parola. Non una forma di chiusura, ma un’apertura più grande.Aria nuova.
«È chiaro che agì così perché aveva obiettivi precisi, uno dei quali era consolidare la propria dottrina per propagare ampiamente la Legge nell’eterno futuro dell’Ultimo giorno. Un altro era far crescere discepoli ben preparati per kosen-rufu» (D. Ikeda, MDG, 627).
(Gianna Mazzini)

Quando ci si connette a sentimenti e bisogni non c'è chi vince e chi perde

Empatia, linguaggio del cuore, bisogno di ascolto, di riconoscimento, di giustizia, in un approccio che non lascia spazio a giudizi morali. Con l’idea di agire concretamente per aiutare chi vive condizioni di marginalità e disagio, Giovanna Carrassi e Benedetta Barabino hanno messo in campo diversi progetti utilizzando la Comunicazione nonviolenta del metodo di Marshall Rosenberg (vedi box a p. 25) trovando così anche un appiglio concreto per rendere vivi i princìpi buddisti che loro praticano nella Soka Gakkai. A Ginevra curano percorsi con giovani migranti che si concludono con performance teatrali pubbliche, un modo concreto per farli entrare in contatto con la realtà sociale svizzera. A Genova invece, insieme all’associazione Mirai, partecipano a progetti nelle carceri, nelle scuole, sia con bambini e bambine sia con formatori, e in collegamento con una delle Asl cittadine lavorano con parenti di malati psichiatrici e nei centri antiviolenza.

Come vi siete avvicinate al metodo della Comunicazione nonviolenta?
Benedetta: Quando ho letto i libri di Rosenberg ho avuto la sensazione che le sue idee avrebbero cambiato la mia vita. Era come se il suo approccio mettesse in pratica, nel dialogo e nella relazione, i princìpi del Buddismo di Nichiren su cui avevo fondato la mia vita. Rosenberg ha sviluppato, infatti, una metodologia ben strutturata il cui punto cardine è che alla base della vita c’è la compassione. Così ho deciso di incontrarlo, partecipando nel 2011 al suo penultimo seminario in New Messico, dove ho visto in azione la sua capacità di ascolto e di empatia. Per approfondire ho partecipato ad altri seminari sulla Comunicazione nonviolenta tenuti in Palestina e in Israele e da lì ho maturato la decisione di elaborare dei percorsi con questo metodo.
Giovanna: Mi sono avvicinata alla Comunicazione nonviolenta grazie a Benedetta, che come amica e compagna di fede conoscevo da tempo. Un giorno mi ha telefonato e mi ha chiesto di collaborare con lei e di contribuire con la mia esperienza teatrale a progetti che sostengono realtà sociali difficili applicando il metodo di Rosenberg. Avevo già lavorato nelle carceri usando un approccio teatrale, ma comprendendo meglio il metodo della comunicazione nonviolenta ho capito che la cosa che mi commuove di più è la possibilità di realizzare un incontro profondo con le persone.

Qual è il cuore del metodo di Rosenberg?
Benedetta
: Rosenberg riteneva che tutti i problemi legati al conflitto, sia dentro sia fuori di noi, derivino dal linguaggio, non dalla natura dell’essere umano. Il linguaggio che abbiamo imparato nella nostra società, chiamato il linguaggio dello sciacallo, si basa su chi ha ragione e chi ha torto, su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Nato per creare strutture di potere, genera l’idea che c’è qualcuno che ne sa più di noi e conseguentemente attiva il meccanismo di punizione e ricompensa. La nostra società si costruisce su questo paradigma. Invece il paradigma della comunicazione nonviolenta, chiamato linguaggio del cuore o della giraffa, non entra nel merito di un giudizio, perché quando ci si connette a livello dei sentimenti e dei bisogni non c’è nessuno che vince o che perde. Se tu hai bisogno di fiducia e io in questo momento ho bisogno di connessione, non c’è, tra noi due, chi ha ragione o torto. Rosenberg immaginava una rivoluzione in cui questo tipo di linguaggio, considerato naturale, diventasse la base delle strutture sociali.
Giovanna: Il metodo di Rosenberg è esperienziale, aiuta a connetterti con te stessa, con i tuoi sentimenti e bisogni. Ti porta a realizzare un processo di auto-empatia in cui, quando ti arriva un messaggio fastidioso, scavi dentro di te e vai a vedere come stai e dove stai. Cioè se mi si dice qualcosa che percepisco come sgradevole, il punto è definire come mi sento io: ferita, triste, spaventata? Con un bisogno di connessione, di empatia, di amore? Così posso portare il processo di empatia verso l’altra persona dicendo semplicemente come sto io, o chiedendole come sta. 

Cos’è l’empatia per la Comunicazione nonviolenta?
Benedetta
: L’empatia è accompagnare l’altra persona a connettersi con una dimensione spirituale profonda e universale. Mi spiego. Il punto di partenza del metodo di Rosenberg è che tutti/e abbiamo dei bisogni, dove la parola “bisogno” non indica vuoti da colmare bensì valori universali come la fiducia, l’amore, la libertà. Ogni occasione esterna permette di connetterti e scavare dentro di te fino a comprendere che dietro le azioni ci sono sempre bisogni. Se, ad esempio, il mio compagno non mi risponde al telefono, posso arrabbiarmi e continuare a bombardarlo di chiamate; ma così resto su un piano superficiale. Se provo, invece, ad ascoltare i miei sentimenti, mi rendo conto che sono triste. Accogliendo la tristezza così come sono e abbracciandola, sento che è motivata da un valore che è un po’ in crisi. Dai sentimenti scendo al valore, e percepisco il mio bisogno di fiducia. A quel livello non c’entra più niente il mio compagno, a quel livello capisco cosa voglio veramente.
Ci sono bisogni anche dietro azioni che consideriamo violente o terribili, come per esempio quando qualcuno mette una bomba. Durante gli incontri chiedo ai partecipanti quali possano essere tali bisogni e piano piano mi viene risposto che può esserci il bisogno di ascolto, di riconoscimento, di giustizia. Questo approccio non giustifica il comportamento, ma non dà giudizi morali.
Anche se la Comunicazione nonviolenta non è una religione, è come se ti connettesse al livello spirituale della vita. Lavoro spesso con giovani di varie religioni e mi sembra di trasmettere valori buddisti pur non parlando di Buddismo, anche perché quando si scende a quel livello di comprensione tutte le religioni si incontrano.  

Quali ricadute ci sono nella vita quotidiana, per chi partecipa a laboratori teatrali e a spettacoli basati sulla Comunicazione nonviolenta? 
Giovanna: Le ricadute di questo metodo sono diverse. Nel gruppo di migranti con cui lavoriamo a Ginevra alcuni hanno ripreso a studiare, anche con successo. Una giovane donna africana, per esempio, ci ha raccontato che, se non avesse fatto il percorso con noi, comportandosi come faceva prima non sarebbe riuscita a tenersi il lavoro. Un ragazzo dello Sri Lanka, che si è molto appassionato al percorso teatrale, è stato assunto in un centro per anziani dove tiene lezioni di teatro usando il nostro metodo. Cambiano tante cose anche nelle relazioni amicali e con la famiglia.
Benedetta: Un giorno, per spiegarmi come è cambiato il suo approccio, uno dei ragazzi mi ha raccontato di quando una volta, nel suo paese, dal litigio in piazza di due cani si è arrivati a uno scontro con venti morti; ora ha capito che la conseguenza di un conflitto non è necessariamente la morte, ma è possibile un dialogo senza dover chiudere le relazioni. 

Come si utilizza il teatro nei laboratori di Comunicazione nonviolenta?
Giovanna: Gli esercizi teatrali che propongo sono elaborati con lo scopo che le persone si conoscano, si fidino di sé, si apprezzino e apprezzino gli altri. Li costruisco per aiutarle a lasciarsi andare e scoprire di avere tante potenzialità con il proprio corpo o con la propria voce. Senza valutare cosa sia meglio o peggio, senza fare confronti. Anche nelle performance che realizzo seguo tutte le indicazioni e i materiali che mi danno i partecipanti, perché il mio scopo è valorizzare e accogliere nuove prospettive e bellezze.
In questo momento storico, in cui è fortissimo il senso di separazione e contrapposizione alimentati dalla situazione della pandemia, come agisce la Comunicazione nonviolenta?
Benedetta: Per quanto mi riguarda ho capito che, al di là delle diverse posizioni, questa situazione mi fa soffrire per il senso di separazione e divisione che genera. A Genova abbiamo realizzato degli incontri tra persone pro e contro i vaccini per attuare un processo di mediazione. Lavorando insieme con il metodo della Comunicazione nonviolenta abbiamo visto che si arriva a un punto fondamentale: la consapevolezza che dietro ogni posizione non ci sono gruppi, schieramenti, ma c’è una vita, una storia. Magari scopriamo che qualcuno fin da bambino aveva una madre contraria ai vaccini e qualcun altro invece l’ha persa a causa del Covid. Nel processo di Comunicazione nonviolenta si supera la valutazione delle posizioni: si può essere d’accordo o non d’accordo, ma non si catalogano le persone.
Per far funzionare il processo di mediazione è necessario creare empatia: è importante che ci sia qualcuno che ascolti davvero, affinché tutti i partecipanti possano esprimere i propri pregiudizi senza sentirsi giudicati. Si deve inoltre creare empatia separatamente con le persone delle due posizioni altrimenti, se ci si confronta troppo presto, finisce che si resta sulla difensiva e non si riesce a dialogare.
Per allenarci innanzitutto noi a questa apertura abbiamo creato una “task force empatia”: un luogo protetto per lavorare sui nostri pregiudizi, sulla nostra immagine di nemico da riconoscere e affrontare. Solo se facciamo un lavoro su di noi riusciamo a incontrare anche persone che la pensano molto diversamente da noi e ad ascoltarle davvero. Perché quando abbiamo paura qualcosa ci riporta al pregiudizio. E lì il lavoro ricomincia. 

Con un cuore grande e la capacità di guardare oltre La Comunicazione nonviolenta, detta anche comunicazione empatica o "linguaggio giraffa”, è un modello ideato nel 1960 dallo psicologo statunitense Marshall Bertram Rosenberg (1934-2015) per imparare a rispettare sé e gli altri e superare i conflitti. Nasce dalla convinzione che tutti gli esseri umani siano naturalmente capaci di empatia e la possano usare in ogni dialogo. Mentre il modello imposto dalla società contemporanea attraverso il "linguaggio sciacallo" veicola una visione conflittuale e giudicante del mondo, la dimensione naturale necessita di un dialogo più profondo, basato sul gran cuore e sulla capacità di guardare oltre, caratteristiche della giraffa. Per imparare questo linguaggio, che permette di comprenderci meglio, aprirci alle altre persone ed essere sinceri senza giudicare, Rosenberg ha ideato un metodo in quattro punti: l’osservazione neutra di ciò che accade, l’analisi dei sentimenti personali che nascono in relazione a ciò che osserviamo, la comprensione di quali siano i bisogni e i valori da cui nascono tali sentimenti, il coraggio di formulare la domanda corretta in relazione al bisogno reale. Per diffondere questo metodo, nel 1984 fonda il Centro per la Comunicazione nonviolenta, un'organizzazione internazionale che opera in 30 paesi del mondo. Uno dei testi per approfondire il "linguaggio giraffa" è il suo libro Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla Comunicazione nonviolenta (Esserci, 2017).

(Ilaria Varriano)

Le parole sono un ponte



 

Questo è il quinto dei dieci punti del decalogo della comunicazione non ostile. Parole O_Stili (https://paroleostili.it/), come leggiamo sulla homepage del sito, è un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole. Nasce nel 2017 come reazione al manifestarsi di un comportamento, l’odio in rete, che stava assumendo proporzioni tali da non poter essere più etichettato come fenomeno marginale. Da allora, la piattaforma si è non solo arricchita di molteplici contributi provenienti dai più vari ambiti della società, ma ha mantenuto e approfondito il proprio principale fuoco, che è quello di far sì che la comunicazione non ostile trovi posto nelle scuole, dalla primaria alla secondaria, non tanto come “argomento” di insegnamento, ma come prassi civile che si può apprendere.
L’idea di base è molto semplice: un decalogo, dieci punti che chiariscono come, se parliamo di comunicazione, stiamo parlando di comportamenti che hanno cause e che generano effetti. Da docente, ho seguito con estrema attenzione la nascita di questo territorio nuovo, in cui si dicevano cose che a me risuonavano, come «le parole hanno conseguenze» o «gli insulti non sono argomenti»: all’uscita del decalogo ho proposto agli alunni e alle alunne delle mie classi di adottarne un punto – secondo il proprio sentimento – e farlo proprio.
Io ho adottato, e da allora continuo a farlo, il quinto punto: “Le parole sono un ponte”. Un ponte, per definizione, unisce da due punti opposti fra loro; un ponte, per reggersi, richiede la conoscenza di regole e princìpi che devono essere applicati con rigore affinché resista; un ponte, per essere costruito, esige la collaborazione di tante persone diverse fra loro per competenza, ma ciascuna egualmente necessaria per la riuscita del lavoro; un ponte permette l’incontro tra ciò che era separato, consentendo il passaggio nelle due direzioni; il ponte è l’immagine stessa della comunicazione. Se ne sono consapevole saprò se, mentre parlo – alla mia classe, a un’amica, ai compagni e alle compagne di fede – sto costruendo un ponte di incontro o se sto abbattendo tutto. Avere in mente e desiderare che le parole siano un ponte mi permette di chiedermi sempre cosa sto facendo, quando parlo: aspetto semplicemente il mio turno per affermare le mie ragioni o accetto di incamminarmi e ascoltare, costruendo quel ponte di parole che si chiama dialogo? (Giulietta Stirati)

Capaci di ascoltare e di porre le giuste domande

«Essere felici non può che riguardare la nostra capacità di affrontare e vivere i conflitti piuttosto che di saperli abilmente evitare». Così Daniele Novara, pedagogista, fondatore e direttore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti (Cpp, www.cppp.it), conclude il suo libro La grammatica dei conflitti, dedicato «a tutti coloro che considerano le difficoltà e i limiti come occasioni per esplorare le infinite possibilità della vita e cambiare così se stessi e il mondo».
Tra i suoi principali ispiratori c’è Danilo Dolci, sociologo, educatore e attivista della nonviolenza, conosciuto a 24 anni e adottato subito come maestro. «La convinzione che la pace non sia né tranquillità, né bontà, né armonia ma un modo diverso di vivere i conflitti mi viene anche da lui».
Il nostro dialogo si svolge qualche giorno prima della Giornata mondiale dei diritti dei bambini e delle bambine (il 20 novembre). In un breve video pubblicato sulla sua pagina Facebook, Novara dice che «il primo diritto dei bambini è quello alla differenza da noi adulti. È una differenza sostanziale. […] Non possiamo volerli tutti uguali, specialmente uguali a noi adulti».
In qualità di pedagogista, che rappresenta il mondo dei bambini e dei genitori, nel corso della nostra conversazione ci ha detto che, ancora una volta, le loro ragioni non vengono sufficientemente ascoltate. A differenza delle tante esigenze di cui si sta tenendo conto nella gestione dell’attuale pandemia, ritiene che nel loro caso questo non stia avvenendo, per esempio «a proposito dei vaccini ai bambini, rispetto a cui penso non ci sia sufficiente dibattito», e soprattutto per quanto riguarda la scuola: «Mentre in altri settori ci sono stati tanti allentamenti delle restrizioni – si chiede – è possibile che a due anni dall’inizio della pandemia gli alunni debbano stare ancora tutte le ore con la mascherina, distanziati, non possano neppure condividere una biro e debbano ogni giorno portare a casa tutti i libri perché a scuola non può restare niente», e non si tenga conto delle gravi conseguenze che ciò può portare nella loro crescita?
Lo incontriamo, a distanza di dodici anni da una precedente intervista che illustrava in modo ampio il suo pensiero (BS, 136, https://buddismoesocieta.org/a/la-pace-nasce-se-si-affronta-il-conflitto/), per chiedergli, alla luce della sua esperienza e passione riguardo al modo di stare nei conflitti, come porsi in modo creativo e generativo rispetto alla situazione odierna.

Daniele Novara, nato a Piacenza nel 1957, è un pedagogista, scrittore e accademico italiano. Tra il 1983 e il 1991 collabora con Danilo Dolci, con il quale crea un legame forte e continuativo. Nel 1989 fonda a Piacenza il Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di cui è l’attuale direttore. Ideatore del metodo pedagogico che porta il suo nome, descritto in La grammatica dei conflitti (Sonda, 2011), è autore di numerosi altri libri, tra i quali Litigare fa bene (2013), Punire non serve a nulla (2016), Non è colpa dei bambini (2017), I bulli non sanno litigare (2018), Cambiare la scuola si può (2018), I bambini sono sempre gli ultimi (2020). Dirige la rivista trimestrale Conflitti ed è docente del Master in Formazione interculturale presso l’Università Cattolica di Milano.


 

Come interpreta la radicalizzazione delle posizioni che oggi divide il nostro paese?
È vero, attualmente in Italia i toni si sono molto accesi e c’è un continuo tentativo di colpevolizzare chi non condivide le proprie ragioni. È il classico conflitto gestito male, dove invece di stare sul problema si aggredisce la persona, come sta effettivamente succedendo in Italia dove vengono demonizzati reciprocamente i portatori di un’opinione contraria spesso in nome di certezze scientifiche assolute. Ma il pensiero scientifico nasce con Socrate, che fa domande, che dice di esaltare l’errore. Non è scientifico cercare certezze assolute, è scientifico fare domande, ma purtroppo ogni domanda viene vista in modo minaccioso. È uno schema di conflitto gestito male nel vero senso della parola.

Lei scrive: «Se vuoi la pace impara a stare nel conflitto». Nella società attuale è molto difficile dialogare veramente.
Il concetto di dialogo sarebbe perfetto, perché viene dal termine greco dia logos, il logos, discorso, diviso, alternato, come accadeva nelle antiche accademie greche dove si favoriva la contrapposizione delle idee. Oggi purtroppo non è così. A essere esaltati sono il narcisismo, la suscettibilità, la permalosità. Quello che mi preoccupa è lo spegnersi del pensiero critico, del pensiero conflittuale, che è quello che genera il cambiamento. In ogni campo si chiudono i cancelli. Questo è molto pericoloso, anche perché evitare il confronto rischia, a livello generazionale, di far crescere dei ragazzi molto suscettibili. Io lavoro con i genitori, e una delle constatazioni che mi ha più impressionato è che tra i ragazzi adolescenti gira l’idea che se tu hai un’opinione diversa dalla mia mi stai “discriminando”. Ciò vuol dire aver superato la soglia della tolleranza reciproca, essere entrati in un mondo dove non c’è più una vera possibilità di confronto.

Come lei dice, le persone tendono sempre di più a prendere posizioni pro o contro. Come si può promuovere una maggiore problematizzazione e articolazione dei vari punti di vista?
Stiamo andando verso una società della petulanza e del narcisismo. Io speravo, e mi riferisco anche all’intervista che mi avete fatto 12 anni fa, in un’“alfabetizzazione conflittuale”, dove le persone venissero aiutate a vivere le loro relazioni quando ci sono le contrarietà. Siamo capaci tutti di vivere delle belle relazioni quando c’è l’armonia assoluta, ma se vai a fare un pranzo di Natale con un fratello con cui non parli da anni, con cugini che non ti piacciono, con il nuovo marito di tua madre che non sopporti e vorresti mandare tutto a monte, è chiaro che devi organizzarti mentalmente, emotivamente, dal punto di vista comunicazionale, perché quello sarà un pranzo di Natale critico, ed è lì che si gioca la tua capacità. È lì che bisogna formare le persone altrimenti si prende la deriva della permalosità, della suscettibilità.

Leggendo i suoi libri vengono fuori tante strade per affrontare i conflitti: come fare ad applicare il suo metodo (la domanda maieutica, mettersi nei panni dell’altra persona) a questo particolare momento e con chi abbiamo intorno?
Nell’ambito dei conflitti, rispetto a 12 anni fa sono andato molto avanti. Dopo La grammatica dei conflitti è uscita una mia ricerca sui litigi fra i bambini, Litigare con metodo, poi Urlare non serve a niente sui litigi con i figli, e infine Meglio dirsele, sulla gestione dei conflitti in coppia.
Sono partito dal metodo maieutico ispirato a Danilo Dolci, che ho successivamente sviluppato e formalizzato come Metodo Daniele Novara: una panoramica che presenta tra i suoi punti base la capacità di una comunicazione che cerca di andare oltre il pretesto conflittuale stesso. Con alcune mosse: innanzitutto, ascoltare senza commentare; poi, non prendere alla lettera le cose dette da una persona arrabbiata, perché una persona non può essere confusa con le sue parole.
Bisogna andare oltre le parole e cercare la sostanza nell’incontro, nella capacità di un ascolto profondo che io ho definito “senza commento”, nella capacità di chiedere il permesso di esprimere determinate osservazioni e contenuti e, innanzitutto, nella sospensione del giudizio e della ricerca del colpevole. Se confondiamo la gestione del conflitto con la ricerca della giustizia, trasformiamo le nostre relazioni in un tribunale itinerante, facendo del male a noi e a chi interloquisce con noi, perché la cultura giudiziaria è sostanzialmente diversa dalla cultura del conflitto, che è una cultura relazionale.
Il conflitto è quel tipo di relazione che si stabilisce quando noi dobbiamo cambiare qualcosa, vedere la realtà da altri punti di vista. Per questo lo strumento migliore è la "domanda maieutica", che è uno strumento euristico, uno strumento che permette di creare interesse: «Mi puoi fare un esempio? Quando è successo? Non me ne ero accorto. Mi puoi spiegare meglio?». Domande di questo tipo, che definisco maieutiche, permettono all’interlocutore, nella dinamica conflittuale, di essere riconosciuto nel suo essere, di sapere che esiste la possibilità di un ascolto autentico. La domanda maieutica crea un imprinting relazionale meravigliosamente magico, perché si passa dall’incalzamento reciproco, con le accuse più incredibili, alla domanda che libera l’interesse reciproco.

L’approccio maieutico
La parola chiave del metodo formativo del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti è "maieutica", in greco ostetricia, che secondo l'insegnamento socratico vuol dire aiutare a tirar fuori da sé le risposte, che ci sono già, ma di cui non abbiamo la necessaria coscienza. Dopo il rivoluzionario lavoro di Maria Montessori, il cui metodo si focalizza su un insegnamento attivo secondo cui i bambini e le bambine sono già competenti e sta agli adulti strutturare spazi, tempi e occasioni per portare all'esterno maieuticamente il loro potenziale, Danilo Dolci imposta la sua azione pedagogica nella logica della maieutica, centrata sull’idea dell’educazione come forma di ascolto: un metodo fortemente innovativo in cui lo strumento per antonomasia è la domanda. Nella stessa direzione si sviluppa la tematica specificamente legata al conflitto: in una logica maieutica lo scopo non è risolverlo, ma dare al soggetto o al gruppo una nuova capacità di lettura del problema. E parallelamente, a livello pedagogico, il litigio viene visto come necessario momento di crescita. Non più episodio colpevolizzante, ma valorizzato nel momento in cui viene gestito correttamente e diventa occasione di presa di coscienza del proprio essere. (per approfondire www.cppp.it)


(Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi)

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