<h2>Spesso la nonviolenza è vista come passività, oppure come una via impossibile e utopistica. Tanti esempi della Storia mostrano invece che è una strada efficace, anzi L'UNICA STRADA per realizzare una società autenticamente pacifica. La nonviolenza non è rinuncia o paura ma, come scrive Daisaku Ikeda, la più alta manifestazione del coraggio</h2>
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L'unica strada della nonviolenza

Daisaku Ikeda iniziò a scrivere il romanzo La nuova rivoluzione umana il 6 agosto 1993. Proprio quel giorno incontrò, presso il Centro di formazione della Soka Gakkai di Nagano, Neelakanta Radhakrishnan, uno dei massimi esperti di Gandhi, attivista ed educatore per la pace. A trent'anni da quella data il Seikyo Shimbun ha intervistato lo studioso presso il Gandhi Memorial Museum, nel Kerala, chiedendogli di raccontare le sue impressioni di quell’incontro e la sua opinione circa il ruolo della Soka Gakkai nell’epoca moderna.

Lei incontrò Daisaku Ikeda il 6 agosto 1993, il giorno in cui lui iniziò a scrivere il romanzo La nuova rivoluzione umana.
Ricordo benissimo quel momento.
Consideravo il 6 agosto, la data in cui fu lanciata la bomba atomica su Hiroshima, come il giorno più buio della storia umana. Speravo che durante il nostro incontro Daisaku Ikeda potesse condividere con me il suo prezioso punto di vista al riguardo.
Ricordo che fin dal primo istante mi si è rivolto con la massima cura e considerazione, cercando di sciogliere la tensione che provavo: «Il suo volo per il Giappone è stato piacevole?», «Ha dormito bene ieri?», «Le è piaciuta la colazione?», «Com’era la vista dal finestrino dell’auto?», «Ha avuto modo di contattare la sua famiglia?».
Via via che rispondevo alle sue domande, Ikeda mi appariva sempre più come un padre affettuoso e questo mi tranquillizzò molto.
Iniziammo così, in un’atmosfera piacevole, il nostro scambio di opinioni sulla visione di Gandhi della guerra e sulle convinzioni che nutriva nei confronti della pace.
A un tratto prese un foglio di carta e porgendomelo mi chiese: «Professore, secondo lei cosa ho scritto?». Dopodiché l’interprete mi tradusse il contenuto.
Sul foglio erano riportate le parole: «Niente è più prezioso della pace. Niente porta maggiore felicità. La pace è il punto di partenza per il progresso dell’umanità» (NRU, 1, 1). Era l’incipit de La nuova rivoluzione umana.
Ikeda condivise con me il suo progetto spiegandomi quale sarebbe stata la struttura del romanzo e di quanti volumi e capitoli sarebbe stato composto. Ciò che mi sorprese di più fu che ricordava perfettamente tutti i dettagli della storia della Soka Gakkai e delle persone di cui avrebbe scritto: parlava in modo chiaro e senza esitazioni, come se stesse leggendo dei dati su un computer.
Rimasi profondamente commosso dal fatto che il 6 agosto – giorno che consideravo il più buio per l’umanità – Ikeda avesse iniziato la sua opera volta a preservare la vera storia della Soka Gakkai attraverso i racconti della vita di innumerevoli persone comuni.

SE GANDHI FOSSE ANCORA VIVO

Professore, quel giorno parlò della convinzione di Gandhi secondo cui «la forza dello spirito è più potente della bomba atomica». Affermò, a tale proposito: «Aiutare le persone a manifestare tale forza spirituale interiore che tutte possiedono e creare la pace: questo è proprio ciò che fa il movimento che lei, dottor Ikeda, sta diffondendo in tutto il mondo».
Attraverso il loro esempio i tre presidenti della Soka Gakkai hanno continuato a incoraggiare le persone a fare della fede una potente fonte di speranza per trasformare la vita. In questo modo ogni persona sperimenta la gioia di vivere e percependo profondamente di poter migliorare la propria esistenza diffonde nel suo ambiente più immediato i valori della giustizia e dell’uguaglianza: in tale prospettiva il cammino verso una pace sostenibile appare come un mosaico che si va via via componendo nel progredire dell’umanità.
Quest’anno, 2023, ricorre il settantacinquesimo anniversario della scomparsa di Gandhi. Sebbene l’India e il mondo intero continuino a subire cambiamenti drammatici, la natura fondamentale degli esseri umani non cambia. Se Gandhi fosse vivo oggi continuerebbe a opporsi a tutte le guerre e alle disuguaglianze, a sostenere la dignità umana e a sfidare qualsiasi forma di corruzione. Naturalmente non con un approccio autoritario, ma entrando in contatto con ogni tipo di persona e imparando da lei, creando armonia tra gli esseri umani.
Sia in Sudafrica sia in India, quanto più Gandhi entrava in contatto con le persone e faceva proprie le loro sofferenze, tanto più la sua fede nella nonviolenza e nella disobbedienza civile diveniva salda e incrollabile. Le incontrava direttamente, ascoltava le loro preoccupazioni e animato da una profonda empatia tendeva loro la mano, infondendo conforto e incoraggiamento. Si rialzava sempre, anche quando, nella sua lunga battaglia per i diritti umani, veniva assalito da sconforto e frustrazione ed era sul punto di arrendersi. Ripartiva dall’azione, lottando contro il rammarico di non aver agito prima, e rifletteva accuratamente sulle mosse da intraprendere da quel momento in poi, cambiando modo di pensare e metodi da adottare. Ciò portò a un risveglio alla nonviolenza su scala globale. Gandhi sapeva bene che ideali come uguaglianza, equità, dignità e pace possono essere trasmessi solo attraverso il cambiamento personale. È solo attraverso la crescita di ogni singolo individuo che si diffondono ondate di cambiamento in grado di trasformare la società. A tale proposito, la convinzione di Gandhi per cui «la mia vita è il mio messaggio» e «sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» è in profonda sintonia con l’atteggiamento dei membri della Soka Gakkai.

PROVATE A IMMAGINARE

Lei una volta ha affermato: «In un’epoca di caos e tumulti, la Soka Gakkai è davvero la speranza dell’umanità».
Ho provato questa forte sensazione più di vent’anni fa e posso confermare che la mia intuizione era corretta. Attualmente la Soka Gakkai si sta assumendo pienamente l’iniziativa di realizzare la pace nel mondo.
Provi a immaginare. Persone di ogni età, genere e posizione sociale, in centonovantadue paesi e territori del mondo, hanno preso l’impegno di creare valore intorno a loro, aiutando gli altri a trasformare l’odio e la tristezza in forza di vivere. E come membri attivi e responsabili delle loro comunità e della società intera trasmettono una visione colma di speranza, basata sul profondo desiderio di realizzare la pace globale.
Questi “creatori di valore” pregano per la pace nel mondo mentre continuano a sfidarsi nella realtà quotidiana, dando il proprio contributo come persone comuni. I loro pilastri sono la filosofia Soka e il principio della “rivoluzione umana”.

A prescindere da ogni differenza
La Soka Gakkai, che era stata messa in ginocchio dall’oppressione del governo militarista giapponese durante la seconda guerra mondiale, rinacque dalle ceneri del dopoguerra grazie al voto di maestro e discepolo tra Tsunesaburo Makiguchi e Josei Toda, intraprendendo un nuovo viaggio di kosen-rufu. In un secolo di guerre, in cui gli individui si uccidevano reciprocamente, la Soka Gakkai ha costantemente fatto crescere persone dedite alla pace.
In altri termini la Soka Gakkai può essere definita “una scuola senza edifici” grande quanto il mondo intero, dove si impara che ogni singola persona possiede dentro di sé una forza e un potenziale incredibili.
Come educatore, l’obiettivo principale di Makiguchi era che gli adulti credessero nel futuro dei bambini e delle bambine, che li aiutassero ad avere una visione più ampia delle potenzialità del loro avvenire e ad acquisire fiducia nella vita.
Secondo il pensiero di Makiguchi, l’educazione non deve essere ridotta a un mero approccio mnemonico e nozionistico. Il suo scopo è aiutare i bambini e le bambine, attraverso una riflessione condivisa, a capire cosa vogliono diventare e quali competenze devono acquisire per raggiungere quell’obiettivo, in modo che possano condurre una vita davvero autentica. La sua proposta di un sistema scolastico a metà giornata, volto a integrare apprendimento e vita quotidiana, è espressione di questi valori. Essenzialmente, il processo di apprendimento dovrebbe sempre avvenire all’interno della realtà quotidiana, per tutta la vita. Il presidente Toda ha espresso la filosofia Soka della creazione di valore attraverso il principio della “rivoluzione umana”. E grazie alla filosofia e alle azioni del presidente Ikeda, la pratica della rivoluzione umana e la rete solidale basata su di essa si sono diffuse in tutto il mondo come “religione per l’essere umano”.
La vita è costellata di difficoltà. Ma nel momento in cui determiniamo risolutamente di affrontarle, e ci sfidiamo nella nostra personale rivoluzione umana, riusciamo a condurre una vita di autentico valore comprendendo che tutte le esperienze vissute fino ad allora servono per affrontare il momento presente e continuare con risolutezza a percorrere questo cammino.
Il principio della rivoluzione umana è un “appello universale” a cercare, approfondire ed espandere la nostra stessa umanità, indipendentemente dal paese in cui viviamo, dalle circostanze in cui nasciamo, dalla lingua che parliamo o dalla situazione economica che abbiamo.

Il “maestro” che non hanno mai incontrato
In India i membri della Soka Gakkai sono sempre di più. Molte persone hanno scelto Ikeda come loro maestro dopo aver parlato con lui o aver partecipato a riunioni in cui era presente. D’altra parte sono innumerevoli le persone in tutto il mondo che lo scelgono come maestro anche se non hanno mai avuto l’opportunità di incontrarlo direttamente, e che grazie a questo legame riescono ad aprire la propria vita. 
È il caso delle generazioni più giovani dell’India: sebbene non l’abbiano incontrato nemmeno una volta sentono che veglia sempre da vicino su di loro, e questo li incoraggia e dà loro la forza per affrontare le sfide della vita reale.
A volte mi chiedo: qual è la fonte della forza del legame tra maestro e discepolo?
Ikeda porta così tanta speranza e ispirazione alle persone di tutto il mondo non solo perché parla della rivoluzione umana, ma anche perché lui stesso mette in pratica tale principio più di chiunque altro abbia mai fatto in tutto il mondo e in ogni epoca.
Uno dei libri che in questo periodo porto sempre con me è il suo Diario giovanile (versione inglese), dove sono descritte in modo chiaro e diretto le difficoltà che si è trovato ad affrontare da giovane, un periodo in cui ha continuato a lottare nonostante le sofferenze, senza mai arrendersi.
In questo libro è evidente la sua determinazione (ichinen) a vincere assolutamente e a rispondere al suo maestro. Credo che questo sia il vero valore dell’essere umano. Agire avendo sempre in mente l’esempio del maestro rende la vita più forte e più ricca, e la trasforma in modo significativo.
Credo che anche i membri della Soka Gakkai indiana cerchino di fare proprio questo spirito di maestro e discepolo studiando e mettendo in pratica La nuova rivoluzione umana.
Lo spirito di non lesinare la propria vita, portato avanti fino in fondo dai tre presidenti fondatori, trascende le epoche e lo spazio, ed è una fonte inesauribile di speranza per l’intera umanità.

UN PENSIERO STUDIATO IN TUTTO IL MONDO

Quale pensa sia il ruolo della Soka Gakkai al giorno d’oggi?
C’è una domanda che mi viene posta spesso: «Perché Gandhi è riuscito a realizzare l’indipendenza dell’India senza l’utilizzo delle armi?» Credo sia stato fondamentale che Gandhi, oltre ad aver trovato il “denominatore comune tra gli esseri umani” e ad aver lanciato appelli per la creazione di una rete solidale umanistica, avesse amici in tutto il mondo.
Al di fuori del paese aveva molti amici che lo sostenevano. Inoltre tutte le migliori biografie di Gandhi sono state scritte da autori occidentali, americani, inglesi, tedeschi...
Anche il presidente Ikeda ha molti amici all’estero e credo che forse sia più ammirato e rispettato nel mondo che in Giappone. Come me, ci sono molte persone che a prescindere dal credo e dalla posizione lo considerano il proprio maestro e nutrono una profonda stima nei suoi confronti. Attualmente il suo pensiero è diventato una disciplina accademica riconosciuta e studiata in tutto il mondo. Oltre a essere un maestro fonte della massima ispirazione, che crede nel potenziale illimitato di ogni persona, Ikeda è un “simbolo che unisce l’umanità”.
Con l’obiettivo di aiutare le persone a diventare felici, la Soka Gakkai continua a impegnarsi concretamente a livello sociale e politico, adempiendo alla missione originaria della religione di essere il “baluardo della pace”, restituendole così valore e vitalità. Quando qualcosa di molto grande si trova proprio di fronte a noi, non riusciamo a vederlo nella sua interezza. Una grande montagna può essere vista interamente solo da lontano. Ikeda Sensei deve essere visto allo stesso modo.

Il “Gandhi vivente”
Vorrei sottolineare ancora una volta che, a parte Gandhi, non conosco nessuno che abbia riposto una tale fiducia nei giovani e nelle donne quanto Ikeda, nessuno che abbia dato loro forza e continuato a incoraggiarli con la convinzione che sono i “leader del futuro”. Ecco perché lo definisco il “Gandhi vivente”.
Non sono un membro della Soka Gakkai, ma poiché ho fatto numerose ricerche sul Mahatma sono in grado di vedere nella loro interezza sia Gandhi sia Ikeda, due “grandi montagne”.
Le idee di Gandhi continueranno a vivere nel cuore delle generazioni future, creando costantemente valore. Anche le idee di Daisaku Ikeda continueranno a vivere nelle azioni delle persone comuni, sconosciute ai più, persone che non rinunciano alla vita nonostante la tristezza e la disperazione, persone che lottano coraggiosamente contro la divisione e la disuguaglianza, persone che conducono la loro vita con un forte senso di responsabilità per gli altri.
Esorto tutti a leggere i libri di Daisaku Ikeda, a scoprire sempre di più la sua grandezza. Questo genererà un cambiamento nell’umanità. Ma non si tratta di un impegno di uno o due anni. Da quando ho saputo dell’esistenza di Sensei, studiare e conoscere di più su di lui è diventata di per sé una grande gioia nella mia vita. È un viaggio di maestro e discepolo che insieme esplorano la questione di cosa sia la vita e scoprono che è un dono insostituibile.
Abbiamo sempre pensato che questo XXI secolo sarebbe stata un’epoca senza guerre o violenze, in cui l’umanità sarebbe stata unita e la Terra piena di pace e speranza. Tuttavia i libri di storia non potranno fare a meno di riportare che nel primo quarto di secolo il mondo è stato assalito da angoscia e insicurezza mai sperimentate prima. Siamo però sicuri che “trasformare tutto questo veleno” è possibile. E in futuro, nei libri di storia dovrebbe essere scritto: «Il ventunesimo è stato un secolo in cui la leadership di Daisaku Ikeda nella creazione di valore e i suoi discepoli che hanno ereditato le sue idee hanno trasformato un periodo di caos e crisi in un’epoca pervasa dall’umanità».
Per inaugurare un’epoca di umanesimo in cui nessuno viene lasciato indietro è essenziale che ogni individuo realizzi una trasformazione interiore. Questo è il messaggio di speranza della rivoluzione umana. Continuiamo a sfidarci a realizzare questo tipo di trasformazione e aiutiamo gli altri a fare lo stesso.
Per poter affermare di essere discepoli di Ikeda Sensei. Per una pace sostenibile. E per il futuro dell’umanità.

(Ken’ichi Ono, Seikyo Shimbun, 5 agosto 2023)

[box] Neelakanta Radhakrishnan è uno dei massimi conoscitori del pensiero gandhiano. È un attivista per la pace, un educatore e autore di oltre 75 libri in varie lingue. Componente di numerose istituzioni gandhiane e accademiche in tutta l’India, nel 1989 è entrato nel Centro internazionale di studi e ricerche gandhiani, di cui è stato direttore fino al dicembre del 2001, e del museo dedicato a Gandhi situato nel giardino dove il Mahatma venne assassinato. Attualmente è presidente dell'Indian Council of Gandhian Studies e professore emerito in prestigiose università del mondo. Considerato uno dei principali esperti mondiali di nonviolenza, conduce programmi di formazione sulla gestione nonviolenta dei conflitti e seminari sulla filosofia di Gandhi e sulla cultura della pace. Ha scritto vari testi su Daisaku Ikeda, che ha definito il “Gandhi vivente”, e con lui ha realizzato il dialogo Walking with the Mahatma: Gandhi for Modern Times, uscito in lingua inglese nel 2015. Buddismo e società ha pubblicato una sua intervista nel 2001 (BS, 86) e il testo di due conferenze che ha tenuto in Italia nel 2009 (BS, 135).[/box]

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Quel giorno di trent’anni fa

Il coraggio della nonviolenza

La nonviolenza non è una scelta codarda ma l’unica risposta lungimirante per risolvere i conflitti e costruire società veramente pacifiche. Pensare in termini di nonviolenza vuole dire non farsi fagocitare dalla logica del nemico da sopraffare ma cercare vie alternative: in questa intervista Valentina Bartolucci approfondisce queste tematiche dimostrando, esempi alla mano, come la nonviolenza sia l’unica strada, impegnativa, per interrompere le spirali della violenza.

Siamo sempre più immersi in una cultura oppositiva dove le opinioni sono costrette in un sistema binario e raramente si riesce ad argomentare un pensiero senza trovarsi schierati da una parte o dall’altra, alimentando polemiche e non confronti di opinioni. Serve un’inversione di tendenza, come innescarla?
Non c'è modo migliore per entrare in una spirale crescente di violenza che dare per scontato che la pace sia, di per sé, duratura. La pace non è una condizione “data” ma è un processo faticoso che necessita di un impegno costante a tutti i livelli. Sta a ciascuno e ciascuna di noi impegnarsi ogni giorno per costruirla. «La nonviolenza», scrive Aldo Capitini nel libro Il problema religioso attuale, «è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata».
Non basta, dunque, rifiutare la guerra e la violenza, è necessario voler costruire alternative a esse. La nonviolenza ci permette di «combattere la barbarie senza diventare barbari», di aprire a processi di ascolto dell'altro in un'ottica di reciproca fiducia.
Ma la fiducia non basta, ed è qui che l'approccio scientifico ci può venire in aiuto. È importante, infatti, tenere a mente che le “verità” sono sempre provvisorie e non vanno assolutizzate.
Nel suo Il mito della cornice, Karl Popper racconta un episodio per lui molto importante. Un po' prima del 1933, anno della presa del potere da parte di Hitler, incontrò un giovane membro del partito nazionalsocialista della Karinzia. Indossava l’uniforme del partito e portava una pistola. Ai suoi tentativi di parlare il giovane rispose: «Cosa? Vuoi discutere? Io non discuto: sparo!». Questo episodio lo portò a riflettere e a sintetizzare nella seguente frase, «Io posso avere torto e tu puoi avere ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità», quello che lui chiamò “razionalismo critico”. Una concezione secondo cui ogni conoscenza è sempre ipotetica e congetturale e se vogliamo progredire in essa dobbiamo essere sempre pronti a metterci in discussione e a imparare dai nostri errori. Purtroppo, soprattutto con riferimento a temi che sentiamo a noi “vicini” forse perché ci coinvolgono in modo particolarmente forte, tendiamo a dimenticare questo fatto e a essere ideologici piuttosto che razionali.
Per esempio, quante volte cercando di discutere in modo critico del conflitto russo-ucraino ci siamo sentiti dire: «C’è un aggressore e un aggredito!». E questo chiudeva nei fatti la discussione. Una sorta di “sparo”, fortunatamente solo metaforico. Oppure, quante volte l’aggettivo “terrorista” attribuito a un movimento politico è stato usato per impedire di analizzare criticamente, contestualizzandole, le sue azioni.
Anche in questo caso un termine usato come uno “sparo”, naturalmente sempre metaforico, ma sufficiente a chiudere il discorso.
È dunque fondamentale lavorare su un'educazione all'ascolto, a partire dalla scuola. 

Spesso la nonviolenza è vista come passività. Perché invece è una lotta e in cosa consiste? Come metterla in atto oggi?
La lunga storia della nonviolenza dimostra che pensare in modo nonviolento, anche nel caso di un aggressore e un aggredito, non significa negare l'aggressione né tanto meno giustificarla. Nonviolenza non vuol dire neppure passività o neutralità. Significa, al contrario, usare la forza rifiutando la violenza, evitando così di considerare la prima un sinonimo della seconda. Significa impegnarsi nella costruzione della pace con mezzi di pace e non con la guerra che alimenta altra guerra, consapevoli, peraltro, del fatto che una escalation tra potenze atomiche può portare alla distruzione dell’umanità.
Il bagaglio di studi e di esperienze di nonviolenza attiva accumulato negli ultimi decenni ci mostra che la nonviolenza non è la scelta del codardo ma, al contrario, l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per risolvere i conflitti e per costruire società veramente pacifiche. Nel nostro presente rimane ancora forte la tendenza a ricorrere alla guerra (edulcorando talvolta i suoi appellativi, pensiamo a “guerra giusta” o “operazione di pace”) quando ci troviamo in una situazione di crisi apparentemente “irrisolvibile”, e si accetta spesso con facilità (non di rado con entusiasmo) di cedere al suo richiamo, finendo così per piegarci alle sue logiche e alle sue leggi. Tuttavia, sebbene sia una presenza continua della nostra contemporaneità, la guerra è una modalità di intervento sul conflitto arcaica e inefficace che non genera vincitori e vinti, in quanto risulta inevitabilmente per tutti in una sconfitta. E non è neppure ineluttabile né può essere, mai, uno strumento per realizzare la pace. Al contrario della nonviolenza. 

Può farci esempi di lotta nonviolenta nella storia che hanno avuto successo?
Tra i numerosi esempi di resistenza nonviolenta a una prassi violenta che sono riusciti, in qualche modo, ad aprire una breccia nel cuore del nemico si può certamente menzionare la ferma resistenza nonviolenta danese all’occupazione nazista. Fra il 1940 e il 1945 la Danimarca riuscì, unico Paese in Europa, a salvare la quasi totalità (98%) degli ebrei residenti e a rafforzare l'intera società danese. Essa riuscì a mettere in difficoltà lo stesso occupante in qualche modo cambiando il suo atteggiamento, iniziando a non vedere più lo sterminio degli ebrei come una cosa ovvia. Il comportamento degli occupanti cambiò: essi divennero meno violenti. L’intera società danese ne uscì più forte, più coesa e con un maggiore senso della collettività, il che permise di contenere e ridurre l’uso della forza nel rastrellamento degli ebrei.
Un altro esempio è quello della resistenza della Cecoslovacchia del 1968, che nell'immediato fallì ma lasciò comunque segni duraturi nella popolazione.
Ma c'è anche un'altra modalità di resistenza, quella in cui l'oppresso si pone degli obiettivi e realizza una lotta nonviolenta per ottenerli.
Uno degli esempi più significativi è la protesta della “Via delle Rose” (Rosenstrasse) avvenuta nel febbraio-marzo del 1943 a Berlino. Goebbels, il ministro della propaganda nazista, a proposito delle proteste guidate dalle mogli, che ebbero luogo contro gli arresti di circa 2.000 ebrei “privilegiati” (perché sposati con donne non ebree), il 6 marzo riportò sul suo diario che avevano avuto luogo «scene spiacevoli [...] in cui la popolazione si era riunita in numeri significativi e si era per certi versi schierata con gli ebrei».
La nonviolenza, infine, si è dimostrata efficace non solo come strumento di resistenza ma anche nella risoluzione di conflitti violenti. Pensiamo ad esempio alla sanguinosa disputa tra Ecuador e Perù, risolta senza ricorrere alle armi e in maniera soddisfacente per tutte le parti coinvolte. L'elemento probabilmente più significativo di quel processo di risoluzione è stato l'aver allargato lo spazio di dialogo tra le parti su questioni che andavano al di là della demarcazione confinaria. L'accordo di pace si distingue infatti per questa volontà di uscire dall'“ossessione confinaria”, riuscendo a delineare un piano ambizioso volto al miglioramento della qualità della vita delle popolazioni in entrambi gli Stati attraverso l'integrazione economica e investimenti in settori chiave quali infrastrutture, progetti ambientali congiunti, turismo e sanità. In altre parole, gli attori in gioco sono riusciti a “rompere” il tabù del confine, immaginando possibilità diverse di relazionarsi con l'altro improntate sul benessere collettivo, che potessero essere di beneficio per tutti.
Pensiamo, infine, alla controversia in Sud Tirolo, risolta con la “buona politica” e non ricorrendo alle armi. 

Quanto è importante costruire un terreno nonviolento nella società e come possiamo farlo?
Per poter costruire un “terreno nonviolento” è necessario recuperare spazi pubblici di vita collettiva per massimizzare le possibilità di incontro e di dialogo. In altre parole, andrebbe ripensato il nostro vivere insieme agli altri in un modo costruttivo, mettendo al centro delle riflessioni sul futuro la comunità, i bisogni e le esigenze di tutti, rivoluzionando lo spazio urbano e integrandolo con l'entroterra.
Sarebbe anche importante trovare il tempo per riflettere sulla dilagante retorica bellica utilizzata per “raccontare” eventi che nulla hanno a che fare con la guerra. Pensiamo alla pandemia di Covid-19 descritta come una guerra da vincere a ogni costo, in cui il corpo era diventato un campo di battaglia, in un racconto che ha fortemente plasmato l’immaginario collettivo. O alla retorica aggressore/aggredito che ha plasmato il “racconto” della guerra russo-ucraina con la conseguenza che coloro che invocavano una risoluzione nonviolenta del conflitto sono stati tacciati di essere “anime belle”, poveri utopisti senza presa sulla realtà o, peggio ancora, codardi o collusi con il “nemico”.
Niente di nuovo sotto il sole. Alex Langer, in un contributo pubblicato originariamente nel 1991, in riferimento alla prima Guerra del Golfo scriveva: «“Pacifista” è tornato a essere sinonimo di fifone, piagnone o alto traditore e cospiratore del nemico, “nonviolento” un aggettivo buono per sognatori».
Possiamo, infine, contribuire attivamente all'interno di movimenti per la pace facendo rete tra quelli esistenti o costruendone di nuovi. Non è sufficiente, infatti, dire «Basta violenza!», è necessario darsi da fare, ciascuno secondo le proprie inclinazioni e possibilità, per non farsi fagocitare dalla logica del nemico da sopraffare per cercare, invece, vie alternative a essa.
Giorgio La Pira sosteneva che bisogna «unire le città per unire le nazioni». La pace non si può che costruire dal basso, lavorando attivamente per creare legami di pace, ogni giorno, rifiutando la logica della violenza.
(Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi)

[box] Valentina Bartolucci è ricercatrice aggregata del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace (Cisp) dell'Università di Pisa. Presso lo stesso ateneo insegna “Sociologia dei conflitti e della pace”. Ha vinto una borsa Fulbright Research Scholar per l'anno 2013-14 che le ha permesso di lavorare, presso l'Arizona State University, in un progetto sulla diplomazia pubblica come strumento di anti-terrorismo. Nel 2015 ha vinto una borsa della Fondazione Veronesi per il Progresso delle Scienze in Studi per la Pace. Offre regolarmente consulenze su questioni legate al terrorismo, alla criminalità organizzata, alle politiche pubbliche di sicurezza e alla costruzione della pace per varie organizzazioni nazionali e internazionali e dipartimenti governativi in tutta Europa. È consulente per vari dipartimenti governativi europei su questioni relative alla sicurezza e alla pace. Dei suoi lavori menzioniamo la monografia L'ultimo tabù: il terrorismo tra discorso, politica e paura (Mondadori Università), che si concentra sul capire cosa renda il terrorismo così difficile da comprendere e incasellare ma allo stesso tempo così potente da ridefinire la nostra contemporaneità. Il libro cerca di investigare cos'è che fa sì che non si possa parlare di terrorismo se non demonizzandolo e quali sono le conseguenze di questa sua demonizzazione. In un precedente lavoro, scritto insieme a Giorgio Gallo, intitolato Capire il conflitto, costruire la pace (Mondadori Università), si è concentrata, invece, sulle ragioni del perché scoppino continuamente guerre, sempre più violente e complesse, e sul perché sia così difficile affrontarle. Il libro fornisce strumenti analitici e pratici per analizzare i conflitti in profondità, comprendendone la genesi, le dinamiche e il loro interagire con il contesto globale. Al momento, Valentina Bartolucci sta portando avanti due filoni di ricerca, uno relativo a una nuova concettualizzazione di pace e l'altro alla “sacralizzazione” di terra, confini e identità.[/box]

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Come combattere la barbarie senza diventare barbari

Spesso la nonviolenza è vista come passività, oppure come una via impossibile e utopistica. Tanti esempi della Storia mostrano invece che è una strada efficace, anzi l'unica strada per realizzare una società autenticamente pacifica. La nonviolenza non è rinuncia o paura ma, come scrive Daisaku Ikeda, la più alta manifestazione del coraggio.

L'unica strada della nonviolenza

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