Cosa significa essere studenti? Quanto è difficile oggi rispondere a questa domanda, ma il suo senso, il suo valore, sta forse proprio nel continuare a farsela.
In un discorso per il cinquantesimo anniversario dell'Università Soka il presidente Ikeda cita lo storico Arnold Toynbee, secondo il quale «chiunque abbia ricevuto una formazione professionale o un’istruzione superiore dovrebbe prestare un giuramento simile a quello di Ippocrate, il voto di mettere al servizio degli altri le capacità e le conoscenze acquisite attraverso l’istruzione» (BS, 209).
Sembra un grosso carico di responsabilità, che grava sulle spalle di una generazione di ragazzi e ragazze già schiacciati dal peso di un futuro difficile, senza prospettive, a cui sono richieste prestazioni da record per riuscire a farsi strada.
Quello che sembra si sia totalmente dimenticato è il piacere, l'amore di dedicarsi allo studio; tutto è un obbligo, una premessa, un requisito per raggiungere qualcos'altro. Eppure studium, in latino, vuol dire "amore", "passione", "entusiasmo", "desiderio di conoscere qualcosa (o qualcuno/a) fino al minimo dettaglio", proprio come quando si ama.
Il fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi, pedagogista, in un Giappone dove l'educazione era totalmente asservita al potere e aveva lo scopo di formare cittadini al servizio della nazione, ideò e promosse un sistema educativo fondato sulla felicità, una felicità condivisa tra tutti i partecipanti all'avventura dell'apprendimento, che chiamò "educazione per una vita creativa".
Come eredi di questa tradizione rivoluzionaria pensiamo che sia possibile e necessario rimettere la felicità al centro dell'educazione, così come cerchiamo, da buddisti e buddiste, di metterla al centro della nostra vita.
In questo speciale, partendo da una visione chiara delle condizioni attuali, desideriamo promuovere con forza un rinnovamento in tal senso attraverso le idee, le esperienze e le testimonianze di chi vive questa realtà in prima persona.

Essere studenti

Più passa il tempo più sembra che nella scuola si vada perdendo il vero significato dello studio e della conoscenza, mentre il rapporto tra chi insegna e chi apprende si riduce via via a un duro carosello di voti e giudizi, dove la valutazione della prestazione si sostituisce alla crescita umana basata sul dialogo.


Ne discutono in una tavola rotonda Giulietta Stirati, di Roma, professoressa di Italiano, Latino, Storia e Geografia; Stefano Sottile, di Caltagirone, studente del Liceo Scientifico; Maddalena, di Milano, studentessa del Liceo delle Scienze Umane; Donato Ferdori, di Ostia, professore di Filosofia; Gianfranco, di Chieti, studente del Liceo Scientifico; Stefania Fusco, di Sassari, insegnante di sostegno e già professoressa universitaria di Diritto Romano; Elena Benni, di Firenze, studentessa universitaria di Storia; Giordano, di Livorno, studente del Liceo di Scienze Applicate.

Qual è la vostra difficoltà più grande quando studiate?
Stefano: Non aver mai abbastanza tempo per studiare bene tutte le materie e gli argomenti. Questo vale specialmente per la matematica, con argomenti tutti collegati tra loro che si accavallano senza fine; per non parlare degli esercizi che richiedono tanto tempo, specialmente quando non ti riescono!
Gianfranco: Io soffro quando torno da scuola stanco e penso: «O mamma, devo studiare!». Poi mi metto a recitare Daimoku, apro il libro e mi rendo conto che alla fine mi piace un po’ tutto e non faccio più fatica. E poi c’è Sensei che mi sostiene tantissimo con i suoi incoraggiamenti a non arrendermi mai, ad andare sempre avanti e a credere in me stesso.
Maddalena: Più ancora che iniziare, per me è difficile continuare. Apro il libro e dopo pochi minuti penso qualcosa del tipo: «O guarda, una penna!». Mi distraggo molto facilmente. Vedo che la differenza la fa l’interesse che ho verso alcuni argomenti. In quel caso è tutto più facile.
Giordano: Anche io devo confrontarmi con diverse difficoltà di concentrazione: ho problemi di dislessia, discalculia e disgrafia, insomma il pacchetto completo… La distrazione per me è sempre dietro l’angolo, perciò ho imparato a fare degli schemi e delle tabelle di marcia per aiutarmi a tirar fuori la disciplina necessaria. Recitare Daimoku ogni giorno mi sostiene tantissimo e mi aiuta a fare le cose con il cuore e a superare la sensazione, che a volte emerge, che non mi andrebbe proprio di studiare!

Chiedersi lo scopo per cui si sta “coltivando la saggezza” è uno dei capisaldi dell’educazione Soka. Una domanda che rimette al centro la persona, le motivazioni profonde, la passione…
Giulietta: È una domanda che spesso non ci facciamo più nemmeno noi docenti, anche se dovrebbe essere la prima. Dopo due anni e mezzo di pandemia la scuola si comporta come se non fosse accaduto nulla, anzi cerca di recuperare freneticamente quello che si è perso in termini di quantità senza interrogarsi sull’assenza di prospettive, sull’ansia e l’angoscia che spesso studenti e studentesse vivono. Da docente vorrei esprimere il mio profondo disagio: ogni giorno è una lotta tra speranza e rassegnazione. La mia sensazione è che la scuola sia diventata una corsa al voto e stia dimenticando lo scopo fondamentale dell’educazione.
Stefano: Anche io penso che questa corsa al voto stia “ammazzando” la passione per lo studio. Personalmente ho scelto il liceo scientifico perché mi piaceva la matematica, ma poi col tempo ha iniziato a piacermi meno perché mi sono sentito schiacciato da tanti argomenti studiati in modo frenetico. Adesso sono al quinto anno e stiamo studiando i limiti, le derivate, gli integrali… argomenti bellissimi che hanno un significato profondo. Però vivo con l’ansia di dover prendere un certo voto e questo non vale solo per me. Spesso ci impegniamo a studiare, pensiamo di aver fatto bene per poi prendere un voto che delude le nostre aspettative… così ci passa la voglia!
Gianfranco: Credo che sia un discorso diverso da persona a persona. Non è da tutti studiare semplicemente per passione, soprattutto quando si è più giovani. Sono cose che si capiscono con il tempo.
Stefania: Uno dei princìpi ispiratori del Gruppo studenti, di cui facevo parte quando ero all'università, è "essere pionieri", cioè aprire una strada dove non c’è; un pensiero che mi ha spinto a perseverare quando ero tentata di mollare di fronte alle tante difficoltà. Un altro motto è "studiare per chi non può farlo", che restituisce il senso della grande missione che ciascuno e ciascuna di noi ha.
Elena: Ricordarmi di studiare per chi non può farlo mi dà tanta forza nei momenti in cui mi sento incapace e ho paura di non essere all’altezza. E ogni volta che mi viene la paura di non farcela o di non prendere un bel voto, torno al motivo per cui sto studiando. 

Come docenti, qual è il vostro primo impegno?
Giulietta: Per me è riuscire a coltivare la felicità attraverso il dialogo. Ecco, vorrei creare quegli agganci affinché in qualsiasi momento della vita i ragazzi e le ragazze possano ricordarsi alcuni momenti passati insieme. La scuola serve per la vita, per la felicità.
Donato: Il mio primo impegno è vivere pienamente il momento presente. Da una parte sono facilitato dalla vitalità dei giovani, ogni giorno è come se mi facessero una trasfusione rivitalizzante. Attraverso il Daimoku cerco a mia volta di metterci intensità e concentrazione, e poi cerco di far divertire i ragazzi, di trasmettere allegria. C’è infine un approccio che ho fatto mio dai tempi della scuola di specializzazione per l’insegnamento, secondo cui la cultura è una generazione continua tramite il filtro vivo dell’insegnante e quello della mente degli studenti. Noi docenti non trasmettiamo i contenuti in modo meccanico, ma generiamo cultura insieme agli studenti, la inventiamo ogni volta.
Stefania: I ragazzi e le ragazze guardano costantemente al nostro esempio. Possiamo fare bei discorsi, ma loro capiscono bene se mettiamo in pratica quello che diciamo o se stiamo facendo il solito predicozzo da adulti su come si deve vivere. Quindi il mio impegno è essere coerente con quello che dico.

«Più grande e profonda è la ragione per cui studiamo, più alta e luminosa brucerà la fiamma del nostro desiderio di imparare» dice Sensei. Insomma: qual è la ragione per cui studiate?   
Stefano: Che frase fantastica! Da qualche anno ho capito che il motivo per cui studio è trovare ispirazione in tutto quello che faccio nella vita, perché studiando si arricchiscono le giornate, ogni cosa ha un significato più pieno. Questa frase mi colpisce molto perché all’inizio di quest’anno ho scritto tra i miei obiettivi quello di ardere di passione ogni giorno. Non voglio vivere in maniera apatica, andando avanti solo per finire il percorso di studi. Voglio percorrere la strada che sento mia, anche se a volte dovrò rischiare.
Maddalena: Io amo la musica, suono il basso elettrico, e spesso vedo lo studio come un impegno “piatto”. In qualche modo però ce la sto facendo e alla fine alcune materie mi sembrano anche interessanti… ma non come la musica! Desidero finire il liceo per dedicarmi a questa strada, che mi appassiona veramente.
Elena: Io cerco di studiare per migliorarmi, per non cadere nell’arroganza che può derivare dalla mera conoscenza, ma di utilizzarla per sostenere le altre persone, soprattutto chi non può studiare. Il Daimoku illumina il mio studio.
Donato: Per me è sempre stata molto importante la riflessione che fa il Buddismo sui mondi di Studio e Illuminazione parziale, allo stesso tempo meravigliosi e pericolosi, perché ti puoi isolare e cadere nell’arroganza. Per questo credo sia così importante chiarire continuamente qual è lo scopo dello studio. I motti del Gruppo studenti che avete citato sono eccezionali, sono dei riferimenti per cambiare la società. Mi ricordano l’affermazione di Platone che la conoscenza del bene deve poi diventare pratica del bene, come un fuoco da condividere e trasmettere per creare valore.
Giordano: Io studio per avere un mio pensiero critico e per riuscire a vedere il mondo con occhi non solo miei, perché se vogliamo creare armonia è necessario avere più punti di vista. Recitare Daimoku aiuta ad avere questa visione e a osservare la realtà con gli “occhi del Budda”; leggendo gli incoraggiamenti di Sensei ho capito che per concretizzare tutto questo serve sapienza e conoscenza. Il sistema scolastico italiano sembra però voler trasformare tutto in una competizione e questo mette ansia a noi studenti. Sono troppi quelli che arrivano addirittura a togliersi la vita.
Gianfranco: Anche io credo che sia importante avere un proprio pensiero e non farci sviare da chi vorrebbe indirizzarci da una parte o dall’altra. Grazie allo studio possiamo scoprire la nostra strada, quella che ci soddisfa pienamente, e continuare a percorrerla fino a poter dire: «Ce l’ho fatta!».
Stefania: Credo anch'io che studiando percorriamo la strada che ci porta a scoprire la nostra missione. È una scoperta meravigliosa, anche a costo di tanti sacrifici e di risultati che a volte viviamo con senso di fallimento. Ma andando avanti arriviamo a renderci conto che ogni esperienza, anche quella che potrebbe apparire più insignificante e negativa, è stata indispensabile per arrivare dove siamo ora, per proseguire verso il futuro.
Giulietta: Per me il senso di continuare a studiare è ricordarmi che quando nomino le cose nomino la realtà, e quindi desidero dar vita a parole di valore qualunque cosa io stia facendo. C’è una frase di Sensei per i ragazzi delle scuole medie e superiori che mi dà il senso di tutto: «Applicarvi nello studio è la luce della pace» (Il mondo vi attende, p. 110). Grazie per questo incontro, da domani mi sentirò meno sola perché so che abbiamo una meta comune, non importa quanto siamo distanti. Perché poi da soli non siamo mai.

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La parola ai protagonisti

Se l’apprendimento è una grande avventura, dove si svelano i legami tra noi, gli altri e il mondo reale, e della quale, secondo la feconda intuizione di Tsunesaburo Makiguchi, la felicità è motore e fine, il ruolo dell’educazione nella formazione dell’essere umano e nel destino delle società va ben oltre la conoscenza e il “sapere”.
Intanto è uno dei tre pilastri della missione della Soka Gakkai, pace cultura educazione, che si ritrovano emblematicamente tra i princìpi e le finalità dell’Università Soka. Nell’istituirla, il fondatore Daisaku Ikeda ha individuato tre direzioni che dovrebbero guidare il suo operato: essere la principale sede di apprendimento dell’educazione umana, essere la culla di una nuova cultura, essere una fortezza di pace per l’umanità.
La prima di queste linee guida individua nell’Università Soka un centro di eccellenza per la formazione di individui completi, dotati di saggezza e creatività e che possano assumere la guida della società.
La seconda esorta i suoi studenti a sostenere la creazione di una nuova grande cultura che promuova la fioritura infinita del potenziale umano sulla base della filosofia buddista della vita.
La ragione della terza linea guida, che invoca la pace per l’umanità, è che senza la pace non sarà possibile realizzare né la creazione di una nuova cultura né il futuro sviluppo della società. «Non dobbiamo assolutamente permettere che il mondo precipiti in uno stato di guerra, trascinando l’umanità negli abissi della sofferenza. In realtà, la più grande sfida che il genere umano ha oggi di fronte è il raggiungimento e il mantenimento della pace nel mondo» (cfr. NRU, 14, 4-5).
Un’educazione insomma per nulla teorica o fine a se stessa, ma protagonista dell’impresa più rivoluzionaria e concreta che ci sia: “usare” quello che impariamo per il bene dell’umanità, secondo il concetto di “educazione umana” espresso da Ikeda. Un’educazione che “ci aiuta a essere umani”: «Nascere umani non ci rende automaticamente tali. Non è forse che lo diventiamo davvero solo quando compiamo sforzi tenaci per vivere così? [...] Per diventare esseri umani abbiamo bisogno di un’educazione umana» (Daisaku Ikeda, La luce dell'apprendimento, Esperia, luglio 2023).
In sostanza, l’educazione umana ci "educa" a credere nel potenziale di ognuno/a senza perdere mai la fiducia e, al contempo, richiede la piena consapevolezza della portata e delle possibilità della nostra stessa umanità.
«“Essere umani” è un’azione, un processo continuo per esserlo, e diventarlo, sempre più pienamente attraverso un incessante dialogo tra il proprio sé e "l’altro profondamente interiorizzato" in tutte le sue forme», scrive Jason Goulah, curatore del libro sopracitato descrivendo il pensiero di Ikeda.
Dialogo con l’altro da sé “profondamente interiorizzato”: fa pensare all’ingrediente principale di quella autonomia spirituale unita al rispetto delle altre persone che sta alla base di ogni autentica democrazia. Proprio il presidente Ikeda dà questa definizione parlando di cittadinanza globale nel messaggio alla prima cerimonia di laurea dell’Università Soka d’America, in California: «L’educazione e l’apprendimento costituiscono, più di ogni altra cosa, la forza motrice che favorisce lo sviluppo della democrazia, che può essere intesa come espressione della saggezza umana impiegata per l’obiettivo della coesistenza creativa».
Una volta liberate e lasciate manifestare a pieno le capacità insite negli esseri umani, essi si dirigeranno in modo autonomo e spontaneo verso la costruzione di una società democratica; da questa prospettiva, la democrazia può essere considerata «un principio universale», che però deve essere continuamente messo alla prova: ogni generazione deve ripartire da zero per poterla di nuovo realizzare.
Un impegno continuo che il pedagogista John Dewey definisce “il più grande esperimento dell’umanità”; perseguire e condurre questo nobile esperimento, sottolinea Ikeda, è il compito quotidiano dell’educazione (cfr. Ibidem).

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[box] LA LUCE DELL'APPRENDIMENTO

(Esperia, di prossima pubblicazione, luglio 2023)

Questo volume intramontabile, pubblicato ora nella sua terza edizione con un nuovo titolo (quello precedente era L'educazione Soka), con traduzioni riviste e sei ulteriori scritti, presenta la filosofia e la pratica educativa di Daisaku Ikeda. La raccolta e la revisione dei testi, nonché la prefazione, sono state curate da Jason Goulah dell'Università DePaul di Chicago, direttore dell'Istituto per gli studi Daisaku Ikeda sull'educazione e del corso di Educazione alla creazione di valore per una cittadinanza globale. A partire dalla pubblicazione del suo primo articolo, all’età di ventun anni, fino alla fondazione di scuole e università in Asia e America, Ikeda ha promosso per oltre settant'anni un tipo di educazione e di apprendimento che possa continuare per tutta la vita, in quanto strumento che più di ogni altro permette di diventare veramente umani, di realizzare la coesistenza pacifica tra le persone e la vera felicità, per se stessi e gli altri. I testi di questa raccolta rivista e aggiornata, che costituiscono solo una parte dell'intero corpus degli scritti di Ikeda sull’educazione, abbracciano più decenni e rappresentano alcuni degli stili, delle voci e delle modalità di scrittura caratteristici della sua opera: spaziano infatti da componimenti poetici a testi in prosa energica e personale, a saggi, discorsi e proposte ricche di dettagli e approfondimenti. [/box]

L'impresa più rivoluzionaria

“Sempre” vuol dire non smettere mai di chiederselo. È un invito che Daisaku Ikeda rivolge a ogni protagonista dell’avventura del sapere, a chi studia, a chi insegna, alle persone di scienza, di cultura. Un invito a cui ben risponde il giuramento sottoscritto dai nuovi laureati delle facoltà scientifiche appartenenti alle Conferenze Pugwash, il movimento internazionale di scienziati per la pace fondato da Joseph Rotblat: «Prometto di adoperarmi per un mondo migliore, in cui scienza e tecnologia siano usate in modo socialmente responsabile. Non userò la mia preparazione per alcun fine che sia inteso a nuocere agli esseri umani o all’ambiente. [...] Riconosco che l’assunzione di responsabilità individuale rappresenta il primo passo nel perseguimento della pace». Un invito che ci ricorda che possiamo cambiare il mondo, renderlo più bello, più giusto, più pacifico.
«La cultura è luce – afferma Ikeda rivolto agli studenti e alle studentesse – e la conoscenza è potere. Princìpi scientifici e spiegazioni intellettuali trascendono le barriere nazionali e possiedono un’universalità che può essere apprezzata da chiunque. Hanno il potere della verità che può perfino far cadere i tiranni» (Corriamo insieme verso kosen-rufu, p. 76).
Il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, nell'articolo “La diplomazia degli scienziati offre un terreno per costruire la pace” (Huffington Post, 1 dicembre 2022), sottolinea come la circolazione di idee, teorie, filosofie, abbia sempre costituito una tradizione e una risorsa per la pace. A partire dai clerici vagantes, gli studenti girovaghi precursori dei nostri giovani Erasmus (vedi articolo p. 24) che durante il Medioevo si spostavano nelle università di tutta Europa per studiare le discipline che ritenevano più opportune.
Scrive Parisi: «La scienza oggi più che mai è un'attività mondiale estremamente interconnessa e quindi estremamente utile allo scopo». Cita la funzione cruciale svolta proprio dalle Conferenze Pugwash, «esempio di efficacia della cosiddetta diplomazia non convenzionale», nel fornire la documentazione scientifica su cui si fondano i principali trattati per il disarmo nucleare.
Riporta una dichiarazione, sottoscritta con altri premi Nobel, per l'immediato cessate il fuoco in Ucraina, che si appella ai governi possessori di armi nucleari affinché dichiarino di aderire alla politica di Non Primo Uso delle armi nucleari e al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. «Queste richieste – conclude – possono sembrare in controtendenza con l’attuale fase politica. Tuttavia è proprio adesso il momento di preparare la pace. Non credo sia un caso che la stagione dei trattati inizi proprio nel 1963, subito dopo la crisi dei missili di Cuba».
Parole che riecheggiano quelle con cui Ikeda conclude il suo appello che pubblichiamo a p. 6: «Oggi, in un clima politico che alcuni chiamano addirittura “una nuova guerra fredda”, voglio dichiarare: adesso è il momento! Cambiamo ancora una volta il corso della storia tramite il potere delle persone, aprendo la strada a un mondo libero da armi nucleari, un mondo libero dalla guerra».

Cosa può fare la "diplomazia della cultura"

Un territorio fecondo quello del nostro continente, se già nel Medioevo ci si spostava da un’università all’altra per studiare e approfondire. Oggi l’Europa, come luogo emblematico di cittadinanza globale e promessa di unità pacifica tra i popoli, può rappresentare il modello di un fecondo esperimento

L’Europa unita comincia a circolare come sogno di pace già alla fine del Settecento, ma è durante il ventennio nazifascista che l’abbattimento delle frontiere, l’unione dei popoli, la fine del sovranismo cominciano a essere considerati come antidoti alla guerra, che proprio nel nostro continente aveva conosciuto la versione più feroce della insofferenza alla differenza, l’olocausto, e che aveva visto il deflagrare della distruzione di massa con lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone.
Il punto più basso che l’umanesimo abbia toccato, per un certo periodo, è sembrato essere consegnato a un destino di irripetibilità. Invece ci ritroviamo, amaramente di nuovo, a fare i conti con la possibilità atomica dentro un conflitto che vede di nuovo la divisione del mondo in blocchi.
Ma il Buddismo ci insegna che la lotta per la pace è la lotta per un mondo illuminato, che essa non conosce tregua, richiede sforzi continui, non può essere mai data per assodata ma va rinnovata continuamente, ripiantata come seme nel cuore delle nuove generazioni. Da questo punto di vista riscoprire il sogno di una Europa unita è riscoprire anche il sogno del nostro maestro, che nel maggio 1973 (esattamente cinquant'anni fa) fondò un'istituzione su base europea, con sede a Parigi, affinché promuovesse un’alleanza umanistica tra i popoli del nostro continente. In quegli anni il processo di unificazione era al centro del dibattito sociale e politico, e la Conferenza Europea della Soka Gakkai come «lega spirituale dedita alla felicità e alla pace dell’umanità era un importante passo in quella direzione» (cfr. NRU, 17, 232-3).
L’unione armoniosa dei popoli europei è stato il sogno che ha unito molti degli oppositori al nazifascismo. Un sogno nato nel confino di Ventotene, piccola isola pontina, dove il regime esiliò gran parte della resistenza intellettuale ai decreti liberticidi che intanto andava approvando. Questo sogno diventò uno scritto, il Manifesto di Ventotene, la cui grande intuizione lanciata sul tavolo della storia risiedette nell’affratellamento dei popoli come nuova via politica. 

Studenti senza frontiere
Il progetto di una Europa unita è propedeutico, intermedio, rispetto alla nascita di una vera e propria cittadinanza europea, prima, universale, poi. Sotto questo punto di vista si tratta di creare una atmosfera sociale, spirituale e culturale in cui i diritti essenziali dell’essere umano diventino materia non negoziabile. L’orizzonte in cui questo possibile può generarsi sicuramente è quello realizzato dagli scambi tra studenti nell’ambito dei vari progetti pensati dall’Unione europea per immaginare l’attività dello studio in Europa come una attività senza frontiere, senza distanza. Un modello di circolazione dei saperi parallelo a quello della circolazione dei contatti, dei legami, degli incontri.
Cominciare a pensare che conoscere più lingue significa moltiplicare le opportunità di approfondimento e contatti, o che frequentare altri corsi di studio significa apprendere altri metodi di intervento sul reale, imparare a non sentire un limite nella propria appartenenza ma viverla come una moneta di scambio sul tavolo di un sapere più grande. Questa è l’Europa dove la cultura si fa incompatibile con le barriere e i confini: nel bellissimo dialogo di Daisaku Ikeda con il fisico Joseph Rotblat (Dialoghi sulla pace, Sperling&amp;Kupfer, 2006) si sottolinea che durante la guerra fredda gli scienziati dei due blocchi continuarono a cooperare, perché la conoscenza è assai restia a farsi recintare nei finti steccati che creano gli esseri umani contro gli esseri umani.
L’Europa ha conosciuto uno dei momenti di maggiore sviluppo e realizzazione, infatti, grazie al progetto Erasmus (vedi box). Tantissimi universitari hanno svolto parte del loro piano di studi fuori dai propri Paesi di origine. Questo ha permesso loro di aprirsi a nuove prospettive e a nuove metodologie, alla creazione di una percezione di essere “cittadini e cittadine del mondo”, alla nascita di legami umani, professionali, che sono diventati una magnifica rete di relazioni tra persone. In queste pratiche, nel dialogo tra diversi, si trova la formula dell’antidoto alla guerra.

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[box] ERASMUS

Acronimo di EuRopean community Action Scheme for the Mobility of University Students, l’Erasmus è un programma di mobilità studentesca dell'Unione europea, nato il 15 giugno 1987, che dà la possibilità agli studenti europei di studiare per un periodo di tempo presso un’università di un paese membro dell'Unione. Il nome deriva dall'umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536), che viaggiò per diversi anni in tutta Europa per comprenderne le differenti culture. L'idea di permettere lo scambio tra studenti europei ebbe origine nel 1969 grazie all'intuizione della pedagogista Sofia Corradi (soprannominata "Mamma Erasmus"), ordinaria di Educazione degli adulti presso l’Università Roma Tre e consulente scientifica della Conferenza permanente dei rettori delle università italiane, che si impegnò per diciotto anni in attività di ricerca e di promozione affinché la sua idea innovativa diventasse realtà (https://www.sofiacorradi.eu/index.html). Il programma non incoraggia solamente l'apprendimento e la comprensione della cultura ospitante ma anche un senso di comunità tra persone appartenenti a paesi diversi. Per molti giovani l'Erasmus offre l'occasione di vivere all'estero in maniera indipendente per la prima volta: per questa ragione è diventato una sorta di fenomeno culturale molto popolare fra gli studenti universitari europei. Dal 1987 il programma in Italia ha dato la possibilità a quasi 570.000 studenti di usufruire di una borsa Erasmus per un’esperienza di studio o di tirocinio all’estero, mentre negli ultimi 17 anni il nostro Paese ha ospitato 324.232 studenti, ponendosi al quarto posto nella classifica europea delle destinazioni Erasmus.[/box]

Un'antica promessa: il progetto Europa

Nuovo clima, nuovo modo di imparare e soprattutto nuovi amici. Adriana, 25 anni, studentessa di Medicina, l'anno scorso ha colto l'opportunità di svolgere parte del suo percorso universitario in Polonia. 

Come è nata l’idea di fare l’Erasmus?
Sono buddista fin da piccola e sono cresciuta con il concetto di cittadinanza globale. Per questo la possibilità di vivere in un’altra nazione, in una situazione protetta come quella dell’Erasmus, mi è sembrata un’occasione da non perdere. Tra le possibili mete ho scelto la Polonia, dove c’è un’ottima facoltà di Medicina in lingua inglese. In più mi incuriosiva vivere in un luogo completamente diverso da casa, a partire dal clima. Mi ricordo che dopo sei mesi senza sole, quando a fine aprile ne è comparso un raggio mi sono commossa dall’emozione.

Non ti spaventava lasciare casa per un anno?
In realtà no. Prima di partire avevo ricevuto il mio Gohonzon e l’ho aperto nella mia nuova stanza in Polonia. Anche se c’erano solo un letto e un comodino, con il Gohonzon aperto ho sentito subito un senso di appartenenza, sapevo che qualsiasi luogo sarebbe stata casa.

La terra del Budda…
Direi più la stanza del Budda!

E come è andata?
Ho conosciuto persone da ogni parte del mondo e ho visto come è possibile riuscire a legare con tutti grazie al dialogo: si trova sempre un punto di incontro. Per me l’Erasmus è farsi una chiacchiera con un amico, un’amica con cui non hai nulla in comune, e che non rivedrai probabilmente mai più, ma con cui crei un legame che resta. Ora so che ho amici in Francia, Turchia, Spagna, Kosovo…  abbiamo creato una rete. A proposito dei ragazzi del Kosovo, erano i primi del loro paese a partecipare al progetto Erasmus, non sapevano nemmeno cosa fosse e avevano un’emozione contagiosa. Sono tornati così arricchiti che non si riconoscevano più. 

Cosa porti con te da questa esperienza?
Le amicizie sicuramente. Poi la facilità nel parlare con chiunque: ho abbattuto le barriere di timidezza che avevo e questa intraprendenza mi è rimasta. Inoltre ho sperimentato un nuovo modo di fare didattica, molto più pratico: andare in ospedale, oltre che studiare sui libri in vista dell’esame, mi ha fatto riscoprire il senso di fare medicina. Mi ha aiutato ad uscire dalla mentalità universitaria del voto finalizzato a se stesso.

Cosa credi di aver lasciato?
Ho lasciato la sfiducia di non potercela fare. Mi sono dovuta destreggiare da sola in situazioni nuove e ce l’ho fatta. Poi mi sono sempre considerata una persona pigra, invece ho scoperto una vivacità che mi porto dietro, seppur in forme diverse, anche oggi a Roma. 

Il rientro?
Tornare è stato come una brusca frenata. Ho dovuto ricostruire una routine a un ritmo sicuramente più lento di quello dell’Erasmus, ma comunque diverso da prima di partire. Ho applicato alla vecchia vita la forza interiore con cui ho vissuto fuori.

Piani per il futuro?
Prima di tutto laurearmi. Poi ho già inviato la candidatura per fare il tirocinio all’estero… Questa volta però al caldo della Spagna!

Un'occasione da non perdere

Coordinatrice della Rete delle Università per la Pace (Runipace) e ordinaria di Diritto privato all'Università di Pisa, Enza Pellecchia è convinta che ogni sapere sia il campo giusto per porsi domande sul destino dell’umanità e che l’interdisciplinarietà sia un ingrediente indispensabile per affrontare la complessità della questione. La sfida è far dialogare tutte le discipline per rispondere all'interrogativo: cosa possiamo fare per costruire la pace con mezzi pacifici? 

In una recente conferenza hai sottolineato quanto sia fondamentale mettere insieme amore per la scienza e amore per l’umanità, senza mai scinderli.
L’amore per la scienza dovrebbe essere sempre amore per l’umanità, visto che la funzione della scienza è di migliorare le condizioni di vita degli esseri umani. Ma purtroppo spesso diventa amore per la scienza fine a se stessa (e anche nel Buddismo sappiamo quanto sia insidioso il mondo di Studio, che può portare a una degenerazione narcisistica). È come se lo studioso perdesse il contatto con la realtà e dimenticasse la sua funzione principale, il suo ruolo sociale, innamorandosi perdutamente della scienza e dell’immagine di sé come studioso. Un’ulteriore degenerazione è che spinti da questo tipo di amore per la scienza si sia disposti ad accettare qualsiasi compromesso, anche quelli che si traducono in un danno per l’umanità o per la società purché portino a un avanzamento della conoscenza.
Quindi occorre mettere al centro della riflessione il tema della responsabilità sociale della scienza, utilizzando la parola “scienza” nella sua latitudine più estesa, cioè per tutte le discipline.

Ti riferivi dunque non solo ai Peace Studies...
Desidero chiarire che i Peace Studies non costituiscono un ambito disciplinare specifico ma hanno la caratteristica di essere trasversali e interdisciplinari. Tutte le scienze sono un ambito possibile di Peace Studies se chi le pratica s’interroga sul contributo che può dare alla costruzione della pace, che si occupi di storia, di chimica, di matematica. Ad esempio uno dei fondatori del corso di laurea in Scienze per la Pace ha insegnato per tanti anni modelli matematici di assunzione delle decisioni in contesti di crisi. Anche la teoria dei giochi può essere un validissimo strumento per analizzare il conflitto e ipotizzare modelli di soluzione trasformativa. Quindi i Peace Studies non coinvolgono solo le scienze politiche, il diritto internazionale, la filosofia, ma è indispensabile l’interdisciplinarietà. Perché la pace è una costruzione complessa e quindi una sola disciplina non può esaurire tale compito. La sfida è far dialogare le discipline tutte per rispondere all’interrogativo: cosa possiamo fare per costruire la pace con mezzi pacifici?

È questo lo scopo della Rete delle Università per la Pace?
Esattamente. La sua funzione è promuovere questo interrogativo. In Italia 71 atenei vi hanno aderito e in ognuno di essi ci sono docenti che stanno operando attivamente in tale direzione attraverso gruppi di ricerca che rispondono a precise domande come la giustizia climatica e i conflitti ambientali, la trasformazione dei conflitti, l’educazione alla pace nelle scuole. In questi atenei stanno nascendo corsi trasversali che vengono proposti agli studenti e alle studentesse di tutti i corsi di laurea e vanno a costruire il loro curriculum.
Stiamo poi lavorando all'istituzione di un dottorato nazionale in Studi per la Pace per promuovere queste ricerche a livelli accademici alti, allevando un vivaio di giovani menti, di giovani intelligenze che appartengano a discipline differenti. Abbiamo bisogno che il tema della pace arrivi negli ambiti dove si pensa che sia meno pertinente. Una sfida molto ambiziosa che dovrebbe partire l’anno prossimo.

È possibile mantenere anche in questi tempi di guerra lo scambio scientifico e culturale al di là degli schieramenti?
Oggi mantenere aperti i canali di comunicazione è di importanza ancora maggiore rispetto al passato. Ad aprile dello scorso anno l’Accademia dei Lincei ha organizzato la 22ma Conferenza Amaldi, un incontro su temi legati alle armi nucleari e agli sviluppi sul piano internazionale al quale sono invitati scienziati da tutto il mondo, e dunque una sede di dialogo, di comunicazione, di scambio. C’era il timore che la conferenza fosse un insuccesso e che fosse incompleta, perché si temeva l’assenza degli scienziati russi, che invece hanno partecipato e hanno fatto interventi bellissimi. Con un coraggio che ci ha anche fatto temere per la loro incolumità hanno espresso condanna nei confronti dell’aggressione russa e sottolineato quanto sia importante per loro tenere aperti questi canali di comunicazione.
Sono tanti i progetti internazionali in cui studiosi provenienti da paesi in conflitto tra loro trovano la possibilità di comunicare attraverso la collaborazione scientifica. Tantissimi ci dicono che per loro queste collaborazioni sono uno spazio di libertà, una possibilità di contatto con il mondo. È veramente vitale cercare di mantenere aperti questi canali di comunicazione.

Spesso i ragazzi e le ragazze hanno difficoltà a provare il gusto di studiare. In quanto docente, cosa suggeriresti per farli appassionare, anche rispetto a un progetto più ampio?
Direi che il primo passo è la passione stessa per lo studio: quello strumento formidabile che consente di guardare la realtà con altri occhi. Cose misteriose o indecifrabili diventano decifrabili. Secondo me questa deve essere la spinta: lo svelamento di qualcosa che non capisci e che attraverso ciò che impari diventa comprensibile. Come chi non sa leggere e vive in un mondo dove ci sono sequenze di lettere che sembrano non avere senso: nel momento in cui comincia a metterle insieme e a dare loro significato, il mondo parla e diventa una fonte inesauribile di cose nuove.
Ecco, lo studio ci dà la possibilità di imparare continuamente una lingua nuova, di leggere il mondo attraverso quel linguaggio che stiamo imparando. Già solo questo è appassionante, perché ti rende protagonista, indipendente, ti libera dalla condizione di subalternità, di passività.
Sono sempre un po’ dispiaciuta quando percepisco che la bellezza dello studio non è chiara agli studenti, alle studentesse. Ma la responsabilità è di noi docenti, che abbiamo la funzione di “attivatori di entusiasmo”. C’è poi un passaggio importantissimo: scollegare lo studio dal dovere. Domandarsi: cosa mi può dire questa cosa che sto studiando? Alcuni studenti lo fanno spontaneamente, ma in tutti può essere attivata questa passione.

Il punto è che sono stressati dalla mancanza di tempo.
Lo so bene. Conosco benissimo la loro sensazione costante di stress, di inadeguatezza, di mancanza di tempo. Vedo studenti e studentesse costretti a tenere un ritmo tale per cui “ingoiano” le nozioni in vista dell’esame. È una realtà recente, che deriva dal modo in cui è strutturato ora il percorso universitario, noi non avevamo questo problema.
E poi c’è il tema centrale dell’insuccesso. Viviamo in una cultura che ha orrore dell’insuccesso, tant’è che la parola fallimento è utilizzata come insulto. Ogni bocciatura è un fallimento e ogni fallimento è una tragedia.
A questo proposito bisogna operare un cambiamento radicale, a cominciare dalla scuola. Noi docenti dovremmo fare corsi specifici di formazione sul modo in cui comunichiamo a uno studente l’insuccesso, per esempio in sede d’esame. Un conto è se lo si inchioda al fallimento di quel momento, un altro è se gli si fa vedere che è la tappa di un percorso, che sarà sicuramente positivo, e anzi migliore, proprio grazie a quell’insuccesso. 
Il fallimento non è il contrario del successo ma parte di esso e suo nutrimento. Serve per imparare a fare meglio le cose. I progressi arrivano attraverso gli insuccessi: se non ti assumi il rischio di sbagliare significa che non ci stai neanche provando.

Tutte le scienze sono un luogo per costruire la pace

Professore di Pedagogia sperimentale e valutazione scolastica all’Università Roma Tre 

«Tutto parte dalla domanda: perché insegniamo? Per cambiare una parte del futuro delle persone che abbiamo di fronte. Se uno non insegna per questo, forse ha sbagliato mestiere». Sono parole di Cristiano Corsini, ordinario di Pedagogia sperimentale e valutazione scolastica all’Università Roma Tre.
In un incontro con Carlo Abrate, Giada Di Lello, Alice Ferrario, Federica Mallus e Alessia Nifosì del Gruppo studenti, approfondisce il senso più autentico dell'educazione, sottolineando quanto il voto non sia formativo mentre un giudizio complessivo e articolato che esprima a parole la distanza dall'obiettivo da raggiungere sia invece uno strumento importante per impostare l'impegno sia di chi insegna sia di chi apprende. Una visione che apre al futuro e non cristallizza al momento presente.

 Alice: Cosa si intende con valutazione educativa?
Si tratta di un giudizio di valore emesso a partire dalla distanza tra obiettivi e realtà, che ha lo scopo di educare e orientare sia l'insegnamento del docente sia l'apprendimento dello studente. È “educativa” perché fornisce informazioni importanti a chi apprende, mettendo in evidenza le cose che funzionano e quelle che funzionano meno, e anche a chi insegna riguardo a come orientare e rendere più efficace la propria didattica in relazione ai bisogni di chi apprende.
La valutazione educativa non è una mera certificazione di un risultato raggiunto, ma uno strumento importante per impostare in modo più efficace la didattica che porterà al raggiungimento di quel risultato.
Il voto non è educativo, non fornisce alcuna informazione. Le parole, invece, lo sono. Sappiamo che un nove è più di otto e meno di dieci, ma ciò non fornisce alcuna informazione utile a chi apprende. Escludere studentesse e studenti dal processo valutativo, senza dare loro la possibilità di partecipare attivamente al proprio apprendimento, non è una prassi né educativa né democratica.
Bisogna capire, allora, quale uso fare della valutazione: vogliamo usarla come arma o come strumento? Perché concepire la valutazione come arma significa concepire l’educazione come una guerra. Invece deve esserci un riscontro valutativo che educhi e che sia orientato al futuro.

Carlo: Come è nato il progetto del Coordinamento per la Valutazione Educativa (Cve)?
Inizialmente il progetto, nato dalla necessità di cambiare modalità valutativa, si è fatto strada spontaneamente e in modo non strutturato tra docenti della scuola primaria e secondaria. Abbiamo iniziato a incontrarci nei licei, nelle piazze, dialogando con studentesse e studenti, famiglie e docenti. Fortunatamente abbiamo riscontrato che ci sono già diverse scuole che usano la valutazione come strumento proattivo di educazione degli studenti. Da questo contesto è emersa la necessità di coordinarci e quindi è nato il Coordinamento per la valutazione educativa (Cve), che sta aggregando realtà su tutto il territorio nazionale. Attualmente stiamo svolgendo incontri di scambio e di confronto tra docenti per creare comunità con valori e prassi condivise e costruire strumenti di valutazione che possano rendere partecipi studentesse, studenti e famiglie.

Giada: Esiste un rapporto tra le prassi educative adottate nei contesti scolastici e formativi in generale e l'idea di società che poi di fatto intendiamo costruire?
Tutto parte dalla domanda: perché insegniamo? Alla base c’è un'idea di cambiamento, noi vogliamo cambiare una parte del futuro delle persone che abbiamo di fronte. Se uno non insegna per questo, forse ha sbagliato mestiere.
Gli insegnanti dovrebbero avere un'idea di cambiamento futuro, un cambiamento che non è solo individuale ma legato al posto che ogni persona occupa all'interno della società. Questo significa che quando noi educhiamo, quando insegniamo, lo facciamo anche perché abbiamo un'idea di società futura.
Chiedersi “perché insegniamo” comporta dunque delle scelte riguardo a “come insegniamo”, almeno sul piano ideale: se insegno perché penso che tu debba sviluppare la capacità di trasformare la realtà in cui vivi, perché credo che la società abbia bisogno della tua capacità di leggere, interpretare e cambiare la realtà, didatticamente farò delle scelte che ti spingano a prendere parola per esprimere il tuo punto di vista.
Mario Lodi, un maestro e un pedagogista molto importante nella nostra storia, circa cinquant’anni fa affermava (ne Il paese sbagliato) che si insegna o per asservire o per liberare. Tutti i docenti diranno che insegnano per liberare, cioè per arricchire le esperienze future, ma quanto la loro didattica è coerente con questa scelta? Purtroppo alcuni insegnano per costruire delle personalità che accettano passivamente la realtà che hanno di fronte. Il punto fondamentale è che in un contesto democratico non si può insegnare per asservire, la nostra Costituzione assegna alla scuola un compito piuttosto orientato da questo punto di vista.

Giada: Aldo Visalberghi, che è stato ordinario di pedagogia all’Università di Roma e tra i principali diffusori in Italia del pensiero di John Dewey, in un articolo su Buddismo e società n. 91 (del 2002) metteva in evidenza le affinità tra il pensiero di Tsunesaburo Makiguchi, pedagogista e primo presidente della Soka Gakkai, e quello di Dewey, il padre dell'attivismo pedagogico. Uno dei punti di incontro è l'idea che il massimo valore della formazione di un essere umano consista nel raggiungimento della felicità, che definisce «la gratificazione presente per l'impegno attivo in atto», poiché noi viviamo nel presente ed è qui che troviamo i nostri motivi di formazione di vita. ll passato non esiste più, il futuro non esiste ancora, quindi il presente è l'unico momento in cui possiamo agire e trasformare la realtà. Quanto questo si avvicina al concetto di valutazione educativa?
Nel suo libro Il mio credo pedagogico, Dewey afferma che l'educazione non è una preparazione alla vita, ma un processo vitale. Non esiste un apprendimento che non abbia avuto uno sforzo alla base. Uno sforzo non è necessariamente sgradevole se si percepisce il suo valore in relazione al raggiungimento dei propri obiettivi. Per Dewey non c’è una scuola dalla gratificazione immediata: l’apprendimento è legato al fatto che chi apprende ha una difficoltà di fronte a sé e nello stesso tempo un impulso da trasformare in desiderio. Dato che non è possibile soddisfare immediatamente questo impulso, chi apprende inizia a ragionare e ad agire: in questo modo costruisce dei valori e così l’impulso diventa un valore che realizzerà nel futuro, ma non separatamente dall'esperienza attuale perché quei valori stanno orientando la sua attività presente, rendendola più ricca e significativa.
Che ruolo può giocare la valutazione in tutto questo? La valutazione agisce nel momento in cui noi, trovandoci davanti a una difficoltà, cerchiamo di capire quali sono le attività che ci consentiranno di arginarla, le cose che funzionano e quelle che non funzionano.
Dopodiché emettiamo un giudizio di valore che ci dice cosa dovremmo fare per raggiungere un certo risultato e come farlo. Se la valutazione non ha a che fare con le nostre esperienze presenti significa che stiamo ponendo il valore fuori di noi, e prepariamo chi apprende a un futuro in cui le azioni che svolgerà non dovranno passare attraverso la sua mente e le sue emozioni, ma in cui dovrà semplicemente obbedire. Per Dewey la scuola prepara anche per la vita, ma lo fa attraverso una vita che è pienamente partecipata. Non è un caso che Visalberghi avesse scritto su Buddismo e società, perché una parte rilevante del pensiero buddista probabilmente può essere collegata a questa visione di Dewey. 

Alessia: Il senso comune considera l'intelligenza come uno dei fattori alla base del successo scolastico. Qual è il suo parere?
L'intelligenza è qualcosa che facciamo fatica a definire, così come il concetto di merito. Cos'è l'intelligenza? È la capacità di adattamento e di trasformazione, ma è più adattamento o più trasformazione? E come la definiamo, come la capacità logico-matematica, deduttiva, induttiva, creativa? Ci sono molti aspetti da considerare. Lo stesso discorso vale per il merito: quando diciamo che uno studente è meritevole, generalmente intendiamo che ha raggiunto determinati livelli negli apprendimenti. Ma cosa intendiamo per apprendimento? Come lo rileviamo? Inoltre, dovremmo domandarci cosa rende una persona “meritevole”: partiva da una condizione particolarmente svantaggiosa? Si è impegnata più degli altri? Quando definiamo un concetto molto complesso dobbiamo semplificare, è inevitabile, ma non troppo. Nel momento in cui diciamo che l'intelligenza e il merito coincidono con gli apprendimenti, stiamo riproducendo delle ingiustizie e nello stesso tempo stiamo trasformando quelle ingiustizie e quel privilegio in diritto.
Un certo modo d’intendere la valutazione e l'insegnamento scarica sugli individui disuguaglianze e ingiustizie che operano a livello di sistema e, nel fare questo, rende il sistema inattaccabile, perché se gli apprendimenti che una persona ha sviluppato dipendono esclusivamente dal merito, si sta riversando tutta la responsabilità sul singolo individuo. Se il sistema è perfetto, vuol dire che le persone sono imperfette, non è mai il sistema a essere messo in discussione. Io escluderei l'esistenza di un sistema perfetto e credo che tutti abbiano, nel diritto alla felicità, il diritto all'imperfezione, e che i singoli non debbano porsi il problema della perfezione. L'insegnamento dovrebbe farsi carico anche di questo.
L'insegnante ha delle responsabilità ma non è onnipotente. Pur applicando la valutazione educativa non è detto che riuscirà necessariamente a cambiare la vita dei suoi studenti. Caricare tutto il peso dell'innovazione pedagogica sulle spalle del singolo docente è una scelta meritocratica che genera il conflitto tra pedagogia e insegnamento. Tuttavia i docenti non sono neanche impotenti, sono nel mezzo. Non accettare il fatto che non siamo né impotenti né onnipotenti e posizionarsi su questi estremi fa sì che l'insegnamento sia il regno della routine irriflessa, in cui si fanno sempre le stesse cose, tanto non cambia niente. E non si valuta mai l'efficacia della propria attività. 

Giada: In ogni caso è deresponsabilizzante.
Sì, perché si mette un voto senza considerare il fatto che dentro quel voto c’è anche una parte del proprio insegnamento. Tendiamo a ragionare in termini di colpe – diamo la colpa al ministro, all'Europa, ai genitori, alle famiglie, agli studenti – e invece dovremmo ragionare in termini di responsabilità, a partire dalle nostre. Assumendoci degli impegni concreti nel presente, e questo è faticoso.

Alessia: Un brano caro al Gruppo studenti esprime proprio il concetto di responsabilità: «A cosa serve l'intelligenza se ti rifiuti di lottare contro l'ingiustizia? A cosa serve la conoscenza se non proteggi la gente comune? A cosa serve la gioventù se non la utilizzi per rafforzarti e forgiarti come essere umano?».
Il punto sta esattamente in queste tre declinazioni: intelligenza, gioventù e conoscenza, in cui si prende un concetto apparentemente astratto e lo si lega a un programma d'azione. Noi siamo una specie che fa delle astrazioni perché dal punto di vista evolutivo sono state funzionali, abbiamo coltivato questa potenzialità perché ci è servita per risolvere i problemi che abbiamo concretamente affrontato nel corso della storia.
Le civiltà hanno necessitato di piani di formalizzazione molto sviluppati, il che ha reso indispensabile l'istituzione delle scuole. Il problema è che quando separiamo questi concetti astratti dalle loro ripercussioni sulla nostra vita, in realtà non insegniamo nulla. Ricomporre queste astrazioni con la vita reale, con le pulsioni attive di studentesse e studenti, è un lavoro molto difficile. 

Federica: È possibile generare questo cambiamento nelle scuole e di conseguenza nelle famiglie?
Questo cambiamento è più frequente che nasca nelle scuole e che influenzi le famiglie, perché le scuole hanno la forza dell'eterogeneità, e dove c'è eterogeneità c'è ricchezza. Famiglia e scuola non sono due enti separati e credo fermamente che la scuola rappresenti davvero un'opportunità per il miglioramento delle famiglie. È importante che famiglie e studenti abbiano consapevolezza dei loro diritti, anche quello di una valutazione descrittiva.

Alice: Cosa possiamo suggerire agli studenti per mettere in moto questo cambiamento?
È fondamentale assumersi delle responsabilità. Richiedere una valutazione descrittiva significa assumere la responsabilità di posizionare se stessi rispetto a quella valutazione: la valutazione descrittiva responsabilizza chi apprende, non significa soltanto reclamare un diritto, ma assumerlo come dovere.
Si tende a concepire questo tipo di valutazione come meno rigorosa, ma si richiede una valutazione descrittiva perché si vogliono informazioni sul proprio apprendimento. Insegnante e studente dovrebbero impegnarsi in attività condivise: dove ci sono impegni comuni si lavora insieme, ovviamente con una distinzione di ruoli, ma ognuno si assume la propria responsabilità. Una responsabilità comune davanti a un problema comune.

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[box] Cristiano Corsini è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull’efficacia e l’equità di scuole e sistemi d’istruzione. Laureato in filosofia, si è poi specializzato nelle branche della pedagogia di cui ora è docente. Tra i suoi lavori: La valutazione che educa (FrancoAngeli, 2023), Evaluating educational quality (con C. Tienken e M. Tomarchio, FrancoAngeli, 2021), Differenze di genere nell'editoria scolastica (Nuova Cultura, 2016), Valutare scuole e docenti (Nuova Cultura, 2015), Il valore aggiunto in educazione (Nuova Cultura, 2009).[/box]

Valutazione: arma da guerra o strumento educativo?

Cosa significa essere studenti? Quanto è difficile oggi rispondere a questa domanda, ma il suo senso, il suo valore, sta forse proprio nel continuare a farsela. Quello che sembra si sia totalmente dimenticato è il piacere, l'amore di dedicarsi allo studio; tutto è un obbligo, una premessa, un requisito per raggiungere qualcos'altro. 

Essere studenti

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