BS 196 / SETTEMBRE OTTOBRE 2019

Due

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Due. Dedicato a uomini e donne

«Parità di genere significa assicurare a uomini e donne, bambini e bambine eguali diritti, responsabilità e opportunità, senza discriminazioni». Lo scrive Daisaku Ikeda a proposito dell'Obiettivo 5 dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, a cui è dedicato questo speciale. Perché lavorare in questa direzione – spiega – serve a far sì che ogni persona possa far risplendere la luce della sua dignità e umanità intrinseca in modo aderente al suo proprio e unico sé.

Raggiungere la parità di genere e l'empowerment di tutte le donne e le ragazze

5.1 - Terminare tutte le forme di discriminazione nei confronti di tutte le donne e le ragazze in tutto il mondo.
5.2 - Eliminare tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze nelle sfere pubbliche e private, incluso il traffico sessuale e altri tipi di sfruttamento.
5.3 - Eliminare tutte le pratiche dannose, come il matrimonio precoce e forzato e le mutilazioni genitali femminili.
5.4 - Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito attraverso la fornitura di servizi pubblici, le politiche infrastrutturali e di protezione sociale e la promozione della responsabilità condivisa all'interno della famiglia e a livello nazionale.
5.5 - Garantire al genere femminile piena ed effettiva partecipazione e pari opportunità per la leadership a tutti i livelli del processo decisionale nella vita politica, economica e pubblica.
5.6 - Garantire l'accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti riproduttivi, come concordato in base al programma d'azione della Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo, alla Piattaforma d'azione di Pechino e ai documenti finali delle conferenze di revisione.
5.a - Intraprendere riforme per dare alle donne pari diritti alle risorse economiche, così come l'accesso alla proprietà e al controllo del territorio e ad altre forme di proprietà, ai servizi finanziari, all'eredità e alle risorse naturali, in accordo con le leggi nazionali.
5.b - Migliorare l'uso della tecnologia, in particolare la tecnologia dell'informazione e della comunicazione, per promuovere l'empowerment delle donne.
5.c - Adottare e rafforzare le politiche e la normativa applicabile per la promozione della parità di genere e l'empowerment di tutte le donne e le ragazze a tutti i livelli.

Partiamo da qui

Qualsiasi sviluppo potrà definirsi veramente sostenibile solo quando assicurerà gli stessi benefici agli uomini e alle donne. Per questo l’obiettivo 5 dell’Agenda 2030, trasversale e interconnesso a tutti gli altri, è come se fosse il primo, il più urgente, quello da cui partire. Come dice Daisaku Ikeda «è la chiave per accelerare il processo di realizzazione di tutti i diciassette obiettivi».

Abbiamo dedicato questo speciale a donne e uomini perché la questione femminile non è solo femminile, è planetaria, riguarda l’equilibrio globale delle complesse relazioni umane. Gli uomini non dovrebbero dunque essere spettatori o semplici sostenitori di questo processo, perché ne sono parte essenziale. Parte attiva e responsabile quanto le donne.

Ma la strada è lunga, perché il primo ostacolo da superare è proprio la percezione del problema. Non si tratta solo di eliminare le discriminazioni, i milioni di ingiustizie non viste e le violenze estreme, che già sono sotto i riflettori dell’opinione pubblica. C’è soprattutto da trasformare un modo di pensare che non riconosce a uomini e donne la stessa dignità di “soggetti”.
Ecco la questione. Donne e uomini siamo “due” e invece trionfa l’uno, apparentemente neutro e universale, e in realtà maschile.
Ci vuole “Un altro sguardo sul mondo”, come racconta Linda Laura Sabbadini, pioniera delle statistiche sociali e di genere. Lei che, per prima, ha fatto emergere i numeri sconvolgenti della violenza maschile sulle donne. Lei che, per prima, ha guardato dove altri non guardavano. «Mi hanno criticato: qualcuno diceva che misuravo "cavolate” come il tempo libero o la qualità della vita. Io mi sono battuta perché su tutti gli aspetti della vita fosse considerata, oltre il dato oggettivo, anche la percezione soggettiva».
Guardare dove altri non guardano è la ricchezza della differenza.
Introduce al senso de “L’incredibile valore dell’in/adeguatezza femminile”, di cui parla Giovanna Galletti, economista, co-fondatrice di Labodif. Parla di "indomità" femminile, quella specificità che viene spesso percepita dalle donne stesse come senso di inadeguatezza e in quanto tale rischia di essere pensata come un difetto da eliminare. E che invece va coltivata e trasformata in una visione propositiva della realtà. «È un sentimento positivo perché misura la distanza tra i nostri desideri e il modo in cui è organizzata la realtà. Ha un valore profondo e va tradotta in pensieri, parole e gesti capaci di cambiare il mondo».
E il ruolo maschile, come dicevamo, è essenziale per questa trasformazione.
“Riconoscermi parziale mi apre alla vita” dice Alessio Miceli, presidente dell’Associazione Maschile Plurale. «Per esempio nel vostro caso, la Soka Gakkai è un luogo di pace, di costruzione di pace, è nelle sue fondamenta. Bene, allora se un uomo dei vostri si sente dire che la pace riguarda anche il conflitto originario tra uomini e donne, e se è davvero interessato alla pace, ecco che gli si presenta una nuova declinazione della pace di cui fare esperienza».
Questa è “Una diversità essenziale di cui il mondo ha bisogno”. Ne hanno parlato al nostro Centro culturale di Roma giovani donne, buddiste e non, in una tavola rotonda coordinata da Francesca Diodati. Che ha osservato come «ognuna lotta contro piccole o grandi discriminazioni anche se ancora esiste a livello inconscio una sorta di pudore, un’insicurezza che nasce prima di tutto nel dubbio del giudizio di ciò che si è vissuto».
È un’epoca di consapevolezze nuove, di rilanci e determinazioni, in cui si avverte la voglia crescente di riconoscersi differenti. Lucrezia, per esempio, studia in una facoltà a forte presenza maschile. «In passato sono stata vittima di discriminazioni che mi hanno resa insicura. Oggi mi dicono che sono una donna forte, paragonandomi a un uomo. Perché per essere considerata forte devo essere paragonata a un uomo?» Questo fenomeno di assimilazione al maschile trova nella lingua uno specchio rivelatore. “Le parole fanno i fatti” scrive Giulietta Stirati, sottolineando come la nostra lingua sia piena di espressioni discriminatorie e quanto questo ci condizioni a livello profondo. Perché quel che non si nomina non esiste. Non è una questione di grammatica, ma di identità.
Il nostro maestro, il presidente Ikeda, non si stanca mai di ribadire il valore della differenza e l’incredibile forza delle donne. Sono moltissimi i suoi testi scritti con figure femminili importanti. In questo caso abbiamo scelto due dialoghi inediti con due "signore della pace": Elise Boulding e Betty Williams.
“Immaginiamoci il mondo che vogliamo” scrive Elise Boulding, con la quale Ikeda affronta il tema dell’ascolto. Ascolto attivo, capace di accogliere anche quello che non si comprende. La famiglia, primo nucleo di costruzione di pace, come la società intera deve nutrirsi di questa capacità femminile di saper ascoltare.
Basta cominciare, perché “Il coraggio è contagioso”. Betty Williams ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1976 dopo aver fondato un movimento di donne cattoliche e protestanti che volevano arrestare la spirale di morte fra i due schieramenti. Ikeda loda la sua determinazione e poi le chiede quale fu il contributo degli uomini. «Molti sarebbero stati uccisi se avessero partecipato ai nostri raduni, però erano abbastanza disposti a sostenerci dietro le quinte e a lavorare insieme a noi. Erano uomini coraggiosi e si erano resi conto che la forza del nostro movimento risiedeva nel fatto che eravamo donne, madri. Perciò era così potente».
“Siamo uguali? No. Abbiamo diritto agli stessi diritti? Sì.” «Gli stereotipi di una società patriarcale sono molteplici sia per gli uomini che per le donne e sono legati tra loro, da quelli più evidenti e ormai profondamente anacronistici a quelli più sottili e nascosti». Lo scrive Rossella Maci mentre riflette sulla condizione delle persone giovani, spesso ingabbiate in stereotipi angusti.
Lo speciale si chiude con un articolo sull’attività delle donne Soka, “Esperte di dialogo” come dice Giovanna Gobattoni. Attività instancabile fatta anche di «piccoli incontri, a volte capillari, che irrorano il tessuto dell’organizzazione».
La linfa, la vita.
La pace è un esercizio che non si interrompe mai, un equilibrio in movimento, un equilibrio sempre nuovo.
La pace ora passa anche da qua. Da uno sguardo nuovo tra uomini e donne. A partire dall’obiettivo 5.
Quest’anno insomma ricordiamoci di mettere in agenda il cambiamento del mondo.

Un altro sguardo sul mondo

Appassionata da sempre ai numeri e alla giustizia, Linda Laura Sabbadini è stata la pioniera in Italia delle statistiche sociali e di genere, da sempre subordinate alle statistiche economiche.
Alla guida fino al 2016 del più grande osservatorio sulla situazione sociale del paese, il Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat, con le sue ricerche ha dato visibilità a chi era invisibile evidenziandone discriminazioni e bisogni. Ha diretto il processo di misurazione di fenomeni molto complessi quali la violenza maschile contro le donne, le discriminazioni per orientamento sessuale, la povertà assoluta, i percorsi di caduta in povertà estrema, il bullismo, il mobbing, la corruzione. Per questo nel 2006 è stata insignita di un'importante onorificenza dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
In un torrido pomeriggio d’estate ci accoglie con grande cordialità e ci racconta della sua vita intrecciata a un pezzo di storia italiana, del connubio tra l'amore per la matematica e l'impegno sociale, della forte determinazione che l’ha portata a sviluppare quasi da zero un ramo della statistica che ha generato forti cambiamenti sia nell’analisi della società sia in campo politico e legislativo.

Come sono nati il tuo interesse per la statistica e il tuo impegno nel sociale?
Fin da piccola amavo i numeri, tutto parte da lì. E il vero colpo di fulmine ci fu quando incontrai Emma Castelnuovo (vedi p.10), la mia insegnante di matematica delle scuole medie. Lei ci educava a vivere questa materia come logica, intuizione, creatività. Ci diceva che la matematica non si impara a memoria, che non è sufficiente fare i conti, bisogna ragionare, creare, viaggiare con la fantasia. Noi eravamo diventati i suoi alfieri, ci faceva allestire mostre in cui presentavamo il suo metodo, che poi difendevamo egregiamente davanti alle domande trabocchetto di professori dell’insegnamento tradizionale che volevano metterci in difficoltà. Grazie a lei i numeri sono diventati per me una cosa davvero speciale.

«Grazie a lei i numeri sono diventati per me una cosa davvero speciale»

Emma Castelnuovo, nata a Roma nel 1913 e morta nel 2014, aveva la matematica nel sangue. Figlia di Guido Castelnuovo. a cui è intitolato l'Istituto di Matematica della Sapienza, dopo la laurea vinse il concorso per l’insegnamento nelle scuole medie ma fu costretta a rinunciare a causa delle leggi razziali. Rientrata in servizio al termine della guerra presso la scuola media Torquato Tasso di Roma, vi ha insegnato fino al 1979. La grande novità della sua didattica consisteva nel ribaltare il percorso, partendo non più dall’astratto per arrivare al concreto ma mettendo al centro l’osservazione della realtà unita alla costruzione manuale di semplici materiali. Così, abbandonando l’approccio teorico-razionale e procedendo in senso empirico, sviluppava curiosità, interesse, senso critico e intuizione nei suoi alunni e nelle sue alunne. Nel 2014 l’International Commission on Mathematical Instruction ha istituito in suo onore la medaglia "Emma Castelnuovo" per eccezionali traguardi raggiunti nella didattica della matematica

Nello stesso tempo, anche per educazione, ero molto attenta a tutti gli aspetti della giustizia sociale. Provengo da una famiglia ebraica, mio nonno aveva fatto parte del partito d’azione, mi raccontava di quanto avevano sofferto come ebrei e come antifascisti. Poi ci sono stati gli anni '70, il femminismo, la partecipazione ai movimenti: il senso di giustizia sociale si respirava ovunque, si viveva. Per me la statistica è diventata il modo per unire la passione per la matematica con la passione per il sociale, perché la statistica permette di misurare i fenomeni, e io volevo avere gli strumenti per capire più profondamente la realtà sociale.
All’epoca c’era poca applicazione della statistica in campo sociale. E questo era evidentissimo all’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, completamente sbilanciato sulla misurazione dei fenomeni economici.
Io all’inizio non mi volevo laureare… facevo parte di quella generazione che diceva che l’importante è la cultura, non la laurea. Poi sono stata assunta all’Istat, con un concorso che richiedeva la licenza media inferiore, ma ho capito che in quella posizione la mia voce contava ben poco: dovevo laurearmi e provare a mettermi in gioco. Con l’obiettivo chiaro di far fare un salto di qualità alle statistiche sociali e di genere. E anche a quelle ambientali.

Quando sei entrata all’Istat?
Nel 1983. Nei tre anni successivi mi sono laureata in Statistica, a 31 anni. Nel 1987 sono diventata ricercatrice, nel 1997 dirigente di ricerca, nel 2000 direttora centrale e nel 2011 direttora di dipartimento..
Ho fatto carriera in fretta anche perché nel frattempo l’Istat, nel 1986, era diventato un ente di ricerca e non più ministero dei numeri, e cominciava ad aver bisogno di persone più aggiornate dal punto di vista scientifico. Io ho fatto parte di questa nuova generazione.

Quali sono stati i primi ambiti di cui ti sei occupata?
Ho cercato di sviluppare il più possibile le statistiche di genere e le statistiche di tutti gli invisibili, dai poveri agli homeless, agli anziani, ai bambini, fino alle indagini sulla violenza maschile contro le donne. Abbiamo scandagliato a tappeto uno per uno tutti i soggetti sociali e su ognuno l’Istat ha cominciato a produrre conoscenza. Non se ne sapeva niente. Non ero solo io, eravamo una bella squadra motivata e competente.

Per fenomeni sommersi come la violenza maschile contro le donne quale metodo d’indagine avete utilizzato?
Il metodo non esisteva nelle raccomandazioni internazionali, lo abbiamo costruito noi confrontandoci con gli statistici canadesi che avevano già iniziato questo tipo di ricerche. E abbiamo dovuto lottare anche contro forti resistenze interne. La commissione scientifica insediata presso l'Istat aveva perplessità che le donne avrebbero risposto su temi così intimi.
Inizialmente abbiamo inserito alcune domande sulla violenza di genere all’interno di un’indagine sul sommerso della criminalità che era già in corso. La commissione scientifica diceva che avremmo fallito, io invece dissi: «Proviamoci. Facciamo un’indagine pilota, se vediamo che le donne non ci rispondono ci arrendiamo. Ma se ci rispondono andiamo avanti». E ci hanno risposto. La sperimentazione è fondamentale. È emersa tanta violenza sommersa, da parte di persone conosciute (amici, vicini, parenti…) ma non ancora da parte del partner.

E allora cosa avete fatto?
Abbiamo capito che dovevamo fare un’indagine dedicata solo alla violenza di genere. Ci sono voluti 5 anni per arrivare a costruire il metodo. Abbiamo scoperto per esempio che non potevamo usare il termine "violenza" perché tante donne, se viene dal partner, non la considerano tale. Quindi abbiamo usato una descrizione oggettiva: «È capitato che qualcuno la minacciasse, la picchiasse, la prendesse a calci…?». E non parlavamo esplicitamente di “stupro”, ma lo descrivevamo: «Ha mai avuto un rapporto sessuale in cui lei non era consenziente, ma è stata costretta?». Già con questa formulazione è emerso molto di più, ma continuava a non evidenziarsi la violenza del partner.
Alla fine abbiamo deciso di chiederlo esplicitamente, ponendo la questione così: «Ad alcune donne è capitato di subire dal proprio compagno minacce, schiaffi, calci, coltellate… A lei è mai successo?». Si è aperto un mondo, è stato pazzesco. Le donne avevano bisogno di essere legittimate in qualche modo del fatto di aver subito violenza dal partner per esplicitarlo.
Ne ho progettate tante di indagini ma nessuna mi ha così emozionata. Eravamo un gruppo di donne molto motivate, ci abbiamo messo anima e testa.

Quando è uscito il rapporto?
L'indagine era stata finanziata nel 2000 dal Ministero delle Pari Opportunità. Il rapporto, intitolato "La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia", è uscito nel 2006. Quei dati hanno sconvolto tutti. Un rapporto storico, perché di fronte ai numeri dell’Istat non si poteva più minimizzare quello che da anni dicevano i centri antiviolenza. E meno del 10% di queste violenze erano state denunciate alle forze dell'ordine.
È stata una bella sfida, mi ha dato molte soddisfazioni perché ho toccato con mano l’utilità sociale di quello che faccio.
Ed è successo qualcosa a livello politico?
Sì certo. La legge sullo stalking e altre hanno dato più forza a chi voleva tradurre in misure politiche questi numeri. Il rapporto è servito all’associazionismo, alle donne dei centri antiviolenza, a tutte le donne che nei servizi pubblici si impegnavano quotidianamente su questo fronte. È diventato uno strumento di battaglia per i diritti.
I numeri servono a questo. Bisogna analizzarli con serietà, rigore assoluto e neutralità, perché possono essere manipolati, lo sappiamo. In politica i numeri dovrebbero servire per conoscere i fenomeni e poi operare adeguatamente. Non vanno usati strumentalmente da nessuno.

 

 

Il fatto che tu fossi una donna in un’istituzione così connotata al maschile, che cosa ha comportato?
È stato faticoso. L’Istat era l’impero della statistica economica, che è molto maschile, come tutto il settore dell'economia, anche se ormai le donne stanno emergendo fortemente anche qui.
Per promuovere le statistiche sociali e di genere ho incontrato due problemi. Il primo era il reperimento dei fondi. A livello europeo tutte le statistiche economiche sono normate per legge, per cui l’Italia le deve fare a tutti i costi altrimenti va in infrazione e deve pagare una multa. Le statistiche sociali molto meno. Anzi quando ho iniziato non esistevano proprio norme, tranne che sul lavoro.
Quindi se volevo occuparmi di questi temi sapevo che non potevo contare su fondi interni ma dovevo andarmeli a cercare. Mi sono rivolta al Ministero delle Pari Opportunità, del Lavoro, della Salute, della Solidarietà Sociale, ovunque ci potesse essere interesse. In questo modo sono riuscita, nonostante avessi meno risorse di tutti, a portare avanti progetti perché costruivo delle alleanze, facevo rete. Questa è la chiave per riuscire come donna: fare rete, e possibilmente con altre donne che condividono l’obiettivo.
Sapevo che c'erano i fondi europei che potevano essere utilizzati anche per le statistiche. Ad esempio, al Ministero del Lavoro ho proposto un progetto dell’Istat per il miglioramento delle misure della povertà: ora abbiamo gli indicatori più avanzati in questo campo. Facevo rete con persone che capivano quanto fosse importante investire sui dati.
Mi hanno criticato: qualcuno diceva che misuravo “cavolate”, come il tempo libero o la qualità della vita. Io mi sono battuta perché su tutti gli aspetti della vita fosse considerata, oltre il dato oggettivo, anche la percezione soggettiva. Chiedendo per esempio se le persone sono soddisfatte della loro vita, di quella familiare, sociale, del lavoro. In questo modo abbiamo scoperto quante persone anziane soffrono di solitudine, o che i separati quando hanno bisogno d'aiuto si rivolgono più a reti amicali che parentali. Emerge così il cambiamento della nostra società nelle varie sfaccettature.

Puoi parlarci del processo che ha portato a stabilire i parametri per la misurazione del Benessere equo e sostenibile?
È stata un’esperienza bellissima. Abbiamo avviato due processi paralleli. Un comitato, realizzato insieme al Cnel, che dirigevo con Maria Teresa Salvemini, ordinaria di Economia, in rappresentanza della società civile. Al suo interno c’erano le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, le commissioni femminili regionali, i consumatori, le organizzazioni ambientaliste. E poi una commissione scientifica che doveva individuare gli indicatori più importanti per misurare il benessere equo e sostenibile. La dirigevamo io e il presidente dell'Istat Enrico Giovannini.
L’Istat trainava questa impresa, davvero sfidante, e io facevo da tramite tra i due comitati. Raccoglievamo le esigenze che venivano dalla società civile e le riportavamo nella commissione scientifica, dove si lavorava per individuare risposte. Ci siamo trovati all’avanguardia per tutto il lavoro fatto precedentemente sulla qualità della vita. Abbiamo stabilito 12 domini considerati basilari per il Benessere equo e sostenibile (vedi box qui sotto), e definito un insieme di indicatori per ciascun dominio. E questo molto prima del dibattito sull’Agenda 2030.

Il Benessere equo e sostenibile

Il Benessere equo e sostenibile (Bes) è un indice, sviluppato dall’Istat e dal Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro), per valutare il progresso di una società non solo dal punto di vista economico, come per esempio fa il Pil, ma anche sociale e ambientale, e corredato da misure di disuguaglianza e sostenibilità. Viene determinato a partire da 12 domini, misurati grazie a degli indicatori: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi.L'ultimo rapporto di Un Women dichiara che lo sviluppo potrà dirsi sostenibile solo se assicurerà gli stessi benefici agli uomini e alle donne. Com'è la situazione nella società italiana, ancora così patriarcale?

Innanzitutto bisogna sottolineare che l’approccio di genere per lo sviluppo sostenibile non riguarda solo l’Obiettivo 5 ma coinvolge una visione trasversale a tutti gli altri, dalla povertà all’ambiente, alla formazione, al lavoro e così via.
I numeri servono per monitorare, ma poi le politiche devono fare la loro parte.
Ci sono però due livelli. Da un lato bisogna adottare politiche di tipo strutturale contro le discriminazioni e le disuguaglianze rispetto ai diritti. Dall'altro si deve fare una grande battaglia culturale, senza la quale non si va da nessuna parte. L’entrata in scena delle donne sta avvenendo in una società arretrata culturalmente, con una resistenza maschile ancora forte. Stiamo molto indietro strutturalmente anche perché stiamo indietro culturalmente.
Prendiamo il calcio. Le ragazze della nazionale italiana si stanno conquistando sul campo i loro diritti. Lo sapete che c’è una legge secondo la quale nello sport le donne non possono essere professioniste e nel calcio il loro compenso non può superare il tetto di 27mila euro? A fronte dei maschi, professionisti, che non hanno tetti e che invece prendono milioni. Ora, visti i risultati ottenuti, faranno una nuova legge che permetterà anche alle donne di essere professioniste. Del resto lo sport è cambiato. Se negli anni '50 su 1 milione di persone che facevano sport il 90 per cento erano uomini, oggi dei 20 milioni che lo fanno il 40 per cento sono donne. E la ginnastica ha superato il calcio, non più il primo sport nazionale.

Se le donne sono più presenti possono dare indicazioni di un altro modo di guardare al mondo…
Certo. Ogni donna nel suo campo può contribuire a cambiare il modo di guardare le cose. Ma ognuna di noi deve essere cosciente della forza di cambiamento che rappresenta.

Tu che hai avuto una così forte determinazione nel portare avanti le tue idee, se dovessi incoraggiare una giovane donna cosa le diresti?
Le direi quello che dico alle mie figlie. Primo: seguire le proprie passioni; secondo: metterci competenza quindi studiare e non smettere mai, perché per essere innovative si deve studiare, capire quello che cambia e sperimentarlo; terzo: essere determinate e non mollare di fronte alle difficoltà; quarto: essere motivate, metterci l'anima. Per una giovane donna queste sono le quattro parole d’ordine. Mai dire che non si può fare. Si può fare tutto, basta volerlo e crederci fermamente.

Linda Laura Sabbadini è nata a Roma il 5 maggio 1956. All’Istat è stata direttora centrale delle indagini su condizioni e qualità della vita dal 2001 al 2011 e direttora del Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dal 2011 al 2016. Molto importanti i suoi studi sulle trasformazioni sociali, familiari, demografiche, del lavoro e delle disuguaglianze.Ha partecipato alla Commissione nazionale parità in qualità di esperta ed è stata componente della Commissione povertà e di numerosi gruppi di alto livello di Onu, Ocse, Eurostat. Ha diretto il processo di costruzione degli indicatori del benessere equo e sostenibile a livello nazionale. Nel 2006 è stata insignita dell'Onorificenza di Commendatore Ordine al Merito. Nel 2015 è stata dichiarata una delle 100 eccellenze italiane. Dal 2016 è anche editorialista de La Stampa.

(Maria Lucia De Luca, Alessandra Fornasiero, Marina Marrazzi)

L'incredibile valore dell'in/adeguatezza femminile

Il “Laboratorio delle differenze” nasce con lo scopo di far emergere il punto di vista delle donne sulle cose per arrivare a costruire un valore e un ordine simbolico femminile. «Quando abbiamo cominciato sembrava un argomento da salotto o da convegni, ma ora il tema della differenza sessuale è divenuto cruciale e sempre più uomini, oltre alle donne, desiderano saperne di più». Una bellissima avventura nella quale il Buddismo ha giocato un ruolo essenziale


 

Che cosa è Labodif?
Immagina un mondo in cui ogni donna, ogni giovane donna e ogni bambina possano trovare radicamento e forza. Immagina di poterti voltare e rintracciare lo sguardo di tua madre che trova forza nello sguardo di sua madre e così via.
Li vedi quei volti forti e autorevoli da cui prende luce anche il tuo sguardo?
No, questo non accade quasi mai. Per questo dico: immagina.
Prova a girarti, a pensare ai libri che hai studiato, alla storia che hai imparato, dove è questa genealogia?
Non c’è, non segna il corso della storia. E sai perché?
Perché il mondo si è radicato sullo sguardo di un solo sesso, quello maschile, che è poi diventato anche lo sguardo delle donne.
Delle fondamenta maschili sappiamo, da quelle abbiamo imparato a stare al mondo.
Come se avessimo imparato una lingua dimenticando, però, la nostra. Non usare la propria lingua in questo caso significa aver perso un proprio sguardo sulla realtà.
Sembra forte come affermazione questa, soprattutto nel nostro mondo occidentale dove una donna sembra possa dire e pensare tutto.
Ma nella realtà quello che una donna pensa, dice e fa è influenzato da un sistema di regole invisibili e non nostre. Accettiamo una realtà già pensata.
E così la differenza non vive.
Perché questo accada occorre essere capaci di pensare e vivere il mondo a “due”, occorre introdurre una capacità di leggere la realtà alla luce della differenza, perché maschi e femmine siamo “due” e non leggiamo la realtà allo stesso modo.
Quello che ancora manca nel mondo è la presenza dello sguardo femminile autorevole.
Non c’è perché non sa da dove attingere forza e alla fine, quando sommessamente emerge, appare sbagliato, fuori dalle regole.
Ecco, Labodif nasce così, dal desiderio di modificare la realtà costruendo uno sguardo femminile autorevole. Labodif, “Laboratorio delle Differenze”, si occupa di ricerca, comunicazione e formazione. Differenza prioritaria al centro della sua attenzione è la differenza sessuale, quella tra maschi e femmine, “prima” fra tutte le altre.

Come è nata l’idea?
Prima di creare Labodif sono stata una giovane donna laureata in Economia alla Bocconi.
Animata da uno spiccato spirito d’indagine e dalla passione per i numeri, che ho sempre sentito essere più che numeri, mi occupavo di ricerche di mercato. Ho cominciato a praticare il Buddismo in quegli anni, era il 1993, e sono arrivata a dirigere un importante istituto di ricerche di Milano.
Molte delle indagini che coordinavo avevano come oggetto lo studio dei comportamenti: uomini e donne sotto la lente del mio sguardo. Eppure, incredibilmente, il più delle volte non trovavo nulla di così sorprendente. In qualche modo conoscevo già le risposte e le potevo prevedere. Qualcosa non tornava.
È stato in quegli anni che ho avuto la fortuna di incontrare un’altra giovane donna, lei regista, Gianna Mazzini, che ha portato la mia attenzione su un punto di vista nuovo: la differenza sessuale, concetto sul quale lei, con altre, già stava sperimentando e ragionando.
Quello che accadde fu l’ingresso debordante di un pensiero così semplice e sotto gli occhi di tutti e tutte: uomini e donne siamo due, diverso modo di pensare, agire e parlare. E come veniva tradotta nel mio mondo di ricerca questa semplice ma potente verità? Con una semplice casellina da barrare (M o F) e poi via, in un flusso neutro di domande uguale per tutti e tutte. Il modello esistente di ricerca era tarato su un soggetto apparentemente neutro e in realtà maschile.
Sono stati anni di studio intenso, “matto e disperatissimo”, e quello che è accaduto è stato il cambiamento del punto di vista.
Occorreva scoprire come far emergere il punto di vista proprio delle femmine sulle cose.
Questo obiettivo è diventato negli anni un desiderio sempre più grande: mettere il nostro sapere e le nostre energie nella direzione di costruzione di valore e simbolico femminile.
Tradotto in concreto: formare le donne a essere soggetto pieno e consapevole del proprio sguardo. E gli uomini a riconoscere la loro parzialità. Oggi Labodif è cresciuta fino a diventare un istituto di ricerca, una scuola, un giornale on-line. A produrre testi. Una bellissima avventura.

Quanto c’entra il Buddismo in questa avventura?
È stato essenziale. Ripensandoci oggi, so che ho scorto questa opportunità perché la pratica aveva già incrinato la mia precedente direzione professionale, esperienza che sentivo al servizio di obiettivi troppo legati al profitto e al mercato e troppo poco nella direzione di quello che il Buddismo mi faceva intravedere. Quante riunioni in cui incontravo clienti che desideravano immettere nel mercato desideri con il solo obiettivo di indurre acquisti. Quante ore passate a renderlo possibile, con fatica sempre crescente. Ma creare valore con le proprie risorse ed energie, fare della vita un’occasione per aprire la propria esistenza in un orizzonte largo sono stati obiettivi che si sono illuminati grazie allo splendido esempio dei tre maestri, Makiguchi, Toda e Ikeda. Il coraggio è venuto dalla loro vita e dalla forza costante del Daimoku. È stato un progetto non facile da seguire, come accade a chi si avventura in terre nuove. Quanti dubbi nel lasciare una posizione salda e riconosciuta per qualcosa di incerto e rischioso. Due esploratrici avventurose, Gianna e io, che non si sono risparmiate. Che splendida occasione. Quando viviamo basandoci sullo stesso grande voto del maestro, nella nostra vita emerge il “cuore del re leone”. Se ci fermiamo al “voto del piccolo io”, non emergerà alcuna forza. E di forza ce n’è voluta tanta.

In che modo Labodif persegue lo scopo dell’empowerment femminile, centrale negli obiettivi dell’Agenda 2030?
Facciamo un esempio, prendiamo l’inadeguatezza femminile: sensazione diffusissima.
Talmente diffusa e trasversale alle carriere, ai caratteri e alle condizioni sociali da costituire un tema cruciale. È diventata una preoccupazione del nostro tempo: non è solo oggetto di una riflessione teorica ma è anche una questione sociale, visti i costi personali e collettivi collegati. Non a caso nelle istituzioni, nelle imprese ci sono sempre più iniziative per indagare i meccanismi che la producono. E una pressione crescente a inventare modi per riconoscere il fenomeno. Il presupposto che accomuna la gran parte di queste riflessioni e iniziative è che l’obiettivo sia diminuire o eliminare il sentimento di inadeguatezza.
Labodif ha uno sguardo critico proprio su questo presupposto. Si tratta di pensare al fenomeno da un angolo nuovo. Cosa si nasconde dietro l’inadeguatezza femminile? È possibile una rilettura che identifichi un elemento positivo nel fenomeno?
Sì, l’inadeguatezza è il primo, fertile, segnale di differenza. Di "indomità" femminile. Non va ridotta né tantomeno eliminata. Va coltivata e trasformata in una visione propositiva della realtà. Che arricchisca il nostro vivere comune.
L’inadeguatezza femminile è un sentimento positivo perché misura la distanza tra i nostri desideri e il modo in cui è organizzata la realtà. E questa distanza ha un valore profondo, va conosciuta e riempita di significati nuovi, e tradotta in pensieri, parole e gesti capaci di cambiare il mondo.
Questo è stato il tema con cui, per esempio, siamo approdate all’Università di Pisa due anni fa per vari cicli di lezioni. Il risultato, in termini di interesse, è stato sbalorditivo. Avevamo impostato lezioni per classi chiuse formate da 30 persone. Dopo meno di un’ora dall’invio delle mail dall’ateneo per comunicare la possibilità di iscriversi, eravamo già sommerse da centinaia di adesioni. È stato un segnale chiaro: il tema della differenza, che quando abbiamo cominciato sembrava un argomento da salotto o da convegni, è diventato un tema cruciale. E un numero sempre crescente di uomini desidera saperne di più e si avvicina alle nostre iniziative. Questo, inutile sottolinearlo, è un bellissimo segno di futuro.

Un’ultima domanda: quanto è importante la questione del linguaggio?
È una questione essenziale perchè ha a che fare con l’identità, non con la grammatica.
Ti racconto un episodio. Eravamo in una scuola elementare. In una quarta. Gianna comincia a parlare: «Buongiorno bambini, buongiorno bambine». Come un movimento impercettibile e potente le bambine della classe alzano la testa. Il discorso prosegue e ogni volta che viene pronunciata la parola “bambine”, quelle bambine si tirano un po’ più su, la posizione si fa più attenta e presente. Quando capiscono che l’avremmo fatto sempre, sono tutte lì dritte e presenti.
Questo fa da contraltare a quest’altro episodio.
Scena da primo giorno di asilo.
La maestra dice a un gruppo di creature piccole che aspettano di entrare: «Bambini entrate». Entrano solo i maschi, le bambine tutte ferme. La maestra allora aggiunge: «Bambine, vale anche per voi». Le bambine entrano. E da quel momento quella cancellazione muta e gentile porterà ciascuna di loro a pensare che quando si dice “bambini” loro saranno incluse. Le porterà ad abituarsi a non sentire alcuna specificità nel loro essere quelle che sono, femmine, cioè. Portatrici di una differenza preziosa e irrinunciabile.
Sì, la lingua ha a che fare con l’identità, non con la grammatica.
(Marina Marrazzi)

Riconoscermi parziale mi apre alla vita

«Quando si parla di genere viene subito da pensare che ci si riferisca a questioni che interessano le donne, e si pensa meno che anche noi uomini siamo "genere", quindi parzialità». Incontriamo Alessio Miceli presso il Centro Ikeda per la pace di Milano dopo aver ascoltato il suo punto di vista in occasione della giornata "Il sole dei diritti umani". Una voce maschile sull'essere uomini e donne nel mondo.

Perché vi chiamate "Maschile Plurale"?
Innanzitutto perché l’elemento della pluralità racchiude l’idea che l’essere maschi o femmine siano questioni che interpellano chiunque. Non si tratta di una corrente filosofica, di una posizione partitica o di una particolare spiritualità, ma è il grado zero dell’essere al mondo. Nasciamo in corpi sessuati, e queste sessualità non sono solo una matrice materiale, ma le costruiamo culturalmente. Chi non è coinvolto dal fatto di nascere in un corpo sessuato, non fosse che per il carico simbolico che c’è su questi corpi diversi?
Poi, perché quando si parla di genere viene subito da pensare che ci riferisca a questioni che interessano le donne, e si pensa meno che anche noi uomini siamo “genere”, quindi parzialità. Il pensiero è stato costruito al maschile, da uomini e per uomini, come dire “noi siamo l’uno, voi siete la derivazione”, la “costola” che si stacca dal corpo del pensiero maschile. Quindi, maschile plurale per dire che noi siamo parzialità e che questo è un pensiero fertile, in base al quale si ripensano tutte le relazioni: intime, di prossimità, sessuali, affettive, familiari, ma anche pubbliche, di ogni genere e grado.

È importante questo riconoscimento della parzialità…
È un concetto legato al non pensarsi genericamente un individuo, una persona. L’idea dell’individualità è importante, ma può essere usata per neutralizzare le nostre specificità. Il venire al mondo e il generare non è uguale, e allora è meglio pensarla questa differenza e farci i conti, sentirla a partire da sé, piuttosto che andare a queste costruzioni neutre che normalmente tendono all’obiettivo della parità, degna nell’idea che dobbiamo avere pari accesso ai diritti, ma fuorviante se non si vede la specificità.
L’orizzonte della parità di accesso ha consentito cose che altrimenti non sarebbero successe, ma la prospettiva non è stare nel mondo degli uomini e dividerlo per due. C’è un’altra, o altre, visioni del mondo. Concepirsi parziali vuol dire valorizzare gli sguardi diversi sulle cose che viviamo e non considerare ciò che vede il punto di vista predominante e dire: una fetta di questo va alle donne.

Pensarsi parziale per un uomo è un tragitto molto diverso che per una donna. Le donne sono abituate a vivere nella parzialità.
È vero. Dalle donne ho appreso che il percorso della soggettività femminile è stato quello di un soggetto imprevisto, e il separatismo è consistito in un trovarsi, riconoscersi, trovare parola e mettersi al mondo, visto che nel mondo le donne non erano volute. Inaugurare il proprio simbolico, la propria soggettività. All’opposto, per il soggetto che, pur non dichiarandolo, si concepisce come unico, fare “autocoscienza” è rendersi conto della propria parzialità, lavorare a “togliere” l’idea dell’universalità, di essere il soggetto che mappa il campo e definisce il mondo.
Sono proprio percorsi antitetici: di una soggettività che deve nascere e di un’altra che si deve riconoscere non uguale al tutto ma una parzialità.
È grezza l’idea che in questo riconoscimento ci sia una perdita. Non si vede quante occasioni ci sono nel relazionarsi. Essere uno di due (o più di due o cinque, quanti alcuni dicono essere i generi) vuol dire che io non sono solo al mondo, perché quella strapotenza porta con sé anche un senso di solitudine estrema.
È un percorso che regala molto. È una moltiplicazione, un’abbondanza. Ti ritrovi una tavola imbandita per tanti anziché tanto cibo per uno.

È un percorso difficile?
Dipende, ci sono sensibilità molto diverse. Per me è un percorso di piacere, di felicità, di libertà. Altri vi percepiscono un senso di “conversione” da un sistema patriarcale, violento anche solo simbolicamente, poiché hanno condiviso come maschi delle “rendite di posizione” e vogliono emendarsi. Questo è un passo fondamentale, lo dico anche per me stesso: se non ci fosse il riconoscimento di questo sbilanciamento di potere di cui godiamo già per il fatto di nascere in corpi maschili, forse questo percorso non sarebbe vero. Ma la sensibilità in cui mi riconosco di più è quella del desiderio. Mettersi in termini di relazione aperta e profonda apre la mia stessa vita.
Il fatto è che nella società maschile non ci siamo mossi granché, casomai stiamo tornando indietro. Gli anni ’70 hanno dato il via, con l’autocoscienza femminista, i movimenti studenteschi e antiautoritari, il movimento Lgbt; ma adesso c'è un avvitamento più che sulla tradizione direi proprio sul dominio, un ritorno a un pensiero di possesso e di dominio maschile. E la sessualità è una frontiera calda, perché se nell’intimità pensi che la ragazza o donna a te più vicina sia oggetto di una tua supremazia, tutto quello che segue è viziato all’origine.

A volte si pensa che la divisione dei ruoli rappresenti il superamento della visione stereotipata maschile/femminile…
Se fosse tutto originato dallo sbilanciamento tra diritti e doveri, una volta risolto quello si sarebbero sanati tutti i problemi. Invece la violenza è un indice, perché ti dimostra come un termometro che le relazioni ancora scottano. Se persistono un tale livore e una tale cattiveria nei reati contro le donne, diventati più estremi, vuol dire che la divisione dei compiti e la parità dei diritti non sono il piano su cui affrontare il problema. La questione è quella della relazione, come l’uno sente se stesso e l’altra nel legame, nella relazione. Se ci sono uomini insospettabili che restano implicati in questioni di violenza vuol dire che c’è un doppio fondo, un livello più interno alla persona e alla relazione a cui, per esempio, una divisione dei compiti solo esterna non arriva.

Ci vuole il passaggio di non sentirsi più universali ma parziali.
Infatti molto spesso, quando si arriva a parlare con gli uomini che agiscono violenza, si vede che non c’è l’erompere di un raptus di follia. Loro portano alla luce un codice di valori che fa capo al fatto di credere che quella donna abbia deviato da un codice morale ed etico normato da millenni, per cui hanno avuto ragione a reagire. È semplicemente un apice che potrebbe riguardare chiunque si trovi in quella mentalità. O salta questa idea di un mondo pensato e poi normato al maschile, o non ne usciamo.

Cosa fate nella vostra associazione?
Facciamo una serie di azioni di natura culturale, formativa, politica, rendendo pubblico e disponibile quello che via via abbiamo acquisito a chiunque lo voglia sapere e a coloro che devono prendere delle decisioni, istituzioni e professionisti.
Il cerchio più interno è quello dei gruppi di condivisione, sia maschili che misti. È un partire da sé per incrociare gli altri, una ricerca comune di cosa sono le nostre relazioni, intime e pubbliche, dei punti comuni che possono riguardare anche altre persone.
Poi è successo che ci chiedessero di partecipare a incontri pubblici (intorno al 25 novembre o all’8 marzo) per sensibilizzare un quartiere o parlare nelle scuole, fare formazione a operatori in ambito socio-sanitario, alle forze dell’ordine, a psicologi, a persone del circuito dell’antiviolenza, infine le istituzioni stesse ci hanno riconosciuto come interlocutore maschile sulle questioni che riguardano queste tematiche e ci interpellano all’occorrenza.
Insomma si va dalla presa di parola su di sé, al discorso pubblico, alla formazione, allo scambio con le nuove generazioni, alla contaminazione con le professioni e al dialogo con le istituzioni per arrivare, da qualche anno a questa parte, anche al rapporto con centri che seguono gli uomini autori di violenza.
Di solito le reazioni sono molto buone. Quando c’è una voce di questo tipo in una stanza, che sia uno studio di professionisti, un’aula magna di una scuola o la piazza di una città, questa voce trova sempre qualcuno che prova interesse.
Ma queste azioni dal basso non hanno ancora inaugurato un vero movimento maschile. C’è un livello di schermatura, di rimozione, di diniego di questi temi, molto forte.
Il punto è arrivarci a tu per tu. Chi ha vissuto questa cosa nella sua vita ne è toccato, ma se passa solo come informazione non procede. La comunicazione ha dunque dei limiti evidenti.
Johan Galtung dice che per ottenere una pace vera occorre rintracciare tutti gli strati della società (associazioni, gruppi, ecc.) che possono essere interessati alla pace.
Per esempio nel vostro caso, la Soka Gakkai nel mondo di oggi è un luogo di pace, di costruzione di pace? Sì. È nelle sue fondamenta. Bene, allora se un uomo dei vostri si sente dire che la pace riguarda anche il conflitto originario tra uomini e donne, e se è davvero interessato alla pace, ecco che gli si presenta una nuova declinazione della pace, e lui può essere costruttore di pace anche su questo aspetto della relazione uomini/donne.
Nella società possiamo identificare dei luoghi e dei contesti di costruzione di pace in grado di moltiplicare un’intenzione umana e politica come questa.

 

L’Associazione Maschile Plurale nasce a Roma nel maggio del 2007 con lo scopo di promuovere una riflessione individuale e collettiva tra uomini di tutte le età e condizioni, a partire dal riconoscimento della propria parzialità e dalla valorizzazione delle differenze. Lavora per facilitare una svolta nei comportamenti concreti all'interno delle relazioni interpersonali in famiglia, nel mondo del lavoro, nelle scuole e nelle università, nelle comunità religiose, nei luoghi della politica e dell’informazione. È impegnata per l’eliminazione di ogni forma di violenza di genere, sia fisica che psicologica, sessuale ed economica


(Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi)

Una diversità essenziale di cui il mondo ha bisogno

Il 29 giugno, presso la sede di Roma dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, si incontrano Cecilia, Michela e Amelia, del Laboratorio Femminista del Centro sociale Auro e Marco del quartiere Spinaceto; Aurora e Gaia, alunne del Liceo Amaldi e Giulietta, la loro insegnante di lettere; Valeria e Lucrezia, giovani donne della Soka Gakkai. L'obiettivo è discutere di cosa significa essere donne oggi, un tempo di sfide in cui sono in discussione alcuni dei diritti più basilari. Ma anche un'epoca di consapevolezze nuove, di rilanci e determinazioni, in cui si avverte la voglia di costruire più di quanto sia mai stato realizzato.


Appena riunite Cecilia, una delle ragazze del Laboratorio, comincia a raccontarci com’è nato il loro progetto: «Abbiamo tutte provenienze diverse, ma quando ci siamo incontrate abbiamo capito di essere unite da un sentimento condiviso: essere donne oggi non è una cosa semplice. Purtroppo le discriminazioni sono tante, spesso invisibili e comuni a tutte. La cosa sconvolgente, inoltre, è stato rendersi conto che, rispetto alle generazioni passate, ci ritroviamo ad affrontare le stesse battaglie. Anzi, se oggi provi a fare qualcosa contro questa situazione, sei anche apostrofata con frasi come: “Ancora state a fare le femministe?”. Come se il femminismo fosse una moda. Eppure, anche se lottare contro questa mentalità è dura, pensiamo che sarebbe ancora più frustrante lasciarsi scoraggiare».
Le ragazze del Laboratorio hanno deciso di agire e per questo hanno incontrato altre realtà per la parità di genere, attive sia a livello locale, come l’associazione “Lo Spazio di Marielle Franco”, sia a livello nazionale, come “Non Una Di meno”.
«Da queste – ci spiega Cecilia – abbiamo preso ispirazione, ma abbiamo deciso di lavorare nel nostro quartiere, partendo proprio dal centro sociale in cui siamo nate». Consapevoli che si possa promuovere un cambiamento solo entrando in contatto con la comunità, con le singole persone. Qui hanno organizzato due progetti. Uno chiamato “Donne in Arte”, sorto dal desiderio di dare voce alle artiste donne, con il fine di superare lo stereotipo per cui le donne nell’arte sono celebrate più come soggetti dell’opera che come artefici. L’altro progetto è ispirato al documentario Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini. Riprendendone il format, hanno deciso di riproporre in giro per Roma alcune delle domande sulle donne e il loro ruolo nella società, creando anche un questionario online. Le ragazze ci trasmettono il loro sgomento di fronte a molte delle risposte ricevute. «L’esperimento è stato scioccante – dicono – perché le persone, protette dall’anonimato della rete, si sono sentite libere di esprimere ogni opinione ed è emersa tutta la connotazione discriminatoria che purtroppo ancora imperversa nel nostro paese».
Giulietta, la prof, interviene con le sue alunne Aurora e Gaia raccontando di come da anni lavora con le classi per sensibilizzare su tematiche inerenti i diritti umani.
«Durante alcuni giorni di didattica alternativa, in un corso che ho chiamato “Biografie di donne indomate”, mi sono concentrata sulla storia del femminismo. Nello specifico, sulla vita di donne pioniere in vari ambiti delle scienze e della società. Questo lavoro è stato uno spunto per una ricerca e un approfondimento che si è concentrato su un argomento in particolare: il sessismo nel linguaggio. La nostra lingua, infatti, è piena di espressioni discriminatorie ed è impressionante come questo ci condizioni a livello profondo. Il problema interessa sia le donne sia gli uomini».
A pensarci bene, spesso neppure chi utilizza un certo linguaggio è consapevole di quanto sia discriminatorio. «Noi ci portiamo dietro secoli di cultura – riflette Amelia del Laboratorio – i ragazzi non si pongono il problema di cosa sia una donna fuori da un certo stereotipo perché sono stati educati così e vivono immersi in questo tipo di mentalità. Quindi non viene loro neppure in mente che possano essere offensivi».
«Un altro grave problema – riprende Cecilia – è che purtroppo le stesse donne hanno un atteggiamento sessista le une verso le altre».
Giulietta ribatte che, proprio per questo, la consapevolezza di genere non è un ambito o un settore, qualcosa di cui parlare. Riguarda tutti e tutte e deve diventare un comportamento attivo.
Bisogna iniziare a fare azioni concrete per far comprendere il valore del femminismo attuale, concorda Michela. Stare insieme trasmette la forza di condividere e parlare, ma ancora prima concede il coraggio di riflettere e mettere in discussione la realtà acquisita, aprirsi a prospettive nuove, a volte scomode e dolorose prima di tutto per noi stesse, ma essenziali se si vuole ottenere un cambiamento. E quando ci si apre si scopre che è importantissimo fare rete, uscire allo scoperto, lavorare insieme.
Lucrezia, giovane donna della Soka Gakkai, racconta la sua esperienza alla facoltà di Scienze Politiche. È un mondo maschile, precisa, che scoraggia molto. E, anche se in ambito universitario ci sono diversi collettivi femministi, lei non si è mai sentita a suo agio in quei contesti per via del fatto che spesso sono piuttosto estremisti. «Perché quando c’è estremismo c’è separazione, e il mondo non ha bisogno di separazioni – afferma decisa. – In passato sono stata anche io vittima di discriminazioni che mi hanno resa insicura. Oggi mi dicono che sono una donna forte, paragonandomi a un uomo. Perché per essere considerata forte devo essere paragonata a un uomo?».
Valeria sottolinea quanto sia importante dialogare con gli uomini, perché altrimenti il discorso sulla parità di genere rimane una cosa da donne e subentra la difficoltà di portarlo fuori da noi e farlo diventare una consapevolezza di tutti e tutte. Perché il punto è far capire che non siamo contro gli uomini, ma a favore di noi stesse e che le due cose non sono connesse. Anzi, l’unico modo per vincere questa battaglia è lottare insieme, uomini e donne, scoprendo un nuovo valore nella diversità. Una diversità essenziale di cui il mondo ha bisogno.
(Francesca Diodati)

 

 

Siamo uguali? No. Abbiamo diritto agli stessi diritti? Sì

Avere gli stessi diritti non significa essere uguali.
La Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) esordisce così: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Sono diritti da riconoscere, non da creare. Sono scolpiti nella natura umana e gli esseri umani li possiedono fin dalla nascita. E poiché non li ha creati nessun potere, nessun potere può distruggerli ma deve riconoscerli (cfr. Enciclopedia Treccani). Ma i diritti così intesi ci liberano dagli stereotipi? O aveva ragione John Stuart Mill sostenendo che «le consuetudini equivalgono a legge»?
Filosofo del 1800 e definito da molti il precursore delle suffragette, nel suo saggio L’asservimento delle donne Mill paragona la condizione in cui le donne sono da sempre relegate all’unica forma di schiavitù che non è ancora stata abolita. Soprattutto oggi potremmo sostenere che le donne vivono una schiavitù (velata) che non dipende da leggi ma proprio dalla consuetudine; consuetudine fortunatamente sempre più ostacolata grazie agli sforzi di molte, ma che esista ancora una disparità di genere nelle società del mondo è un dato di fatto, non un’opinione.
Dunque quando si è schiavi? Quando non si ha la libertà di potersi sviluppare autonomamente ma si è condizionati dalle consuetudini, dagli stereotipi che lavorano in profondità, che si riescono ad agganciare alla mente più libera e la portano dove vogliono loro.
Gli stereotipi di una società patriarcale sono molteplici sia per gli uomini che per le donne, e sono legati tra loro, da quelli più evidenti e ormai profondamente anacronistici a quelli più sottili e nascosti. Tutti e tutte siamo inseriti, chi più chi meno, in questo modo di vivere e di vedere.
In particolare tra noi giovani e soprattutto tra gli adolescenti si insinuano questi pericolosi modelli imposti. Con i social network e i mass media siamo sempre più travolti da paradigmi incatenanti: donne considerate principalmente per il loro aspetto e giudicate (spesso negativamente) per i loro comportamenti sessuali. Uomini che devono presentarsi “forti” e giudicati (spesso positivamente) per i loro comportamenti sessuali.
Rientrare in modelli che non ci appartengono, bloccare (anche solo in minima parte) la nostra identità, le innumerevoli sfumature che vivono dentro di noi, sia femminili sia maschili, è ciò che fa emergere l’insicurezza, il giudizio, scivolando via fino alla bramosia di potere e troppo spesso alla violenza.
Ma il presidente Ikeda, da uomo, non si stanca mai di sottolineare la forza delle donne e degli uomini, nelle loro peculiarità, perché la direzione del nostro cuore e le nostre azioni sono fondamentali e preziose.
Pari diritti di genere, uguali opportunità ed equilibrio in tutte le sfere della vita umana porteranno benefici e armonia, sì alle donne, ma in egual misura anche agli uomini. Dipende da noi liberarci dalle catene delle consuetudini, non solo nella mente ma anche e soprattutto nei fatti quotidiani e aiutare le altre persone a fare lo stesso. Perché anche in questo caso, come ci dice Daisaku Ikeda, «la rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità. Questo è l’argomento della nostra storia».
(Rossella Maci)

Le parole fanno i fatti

Nichiren Daishonin ce lo dice in ogni sua parola: siamo tutte e tutti persone dotate di infinita grazia, di quella inesauribile sorgente di meraviglia che è la Buddità. Senza discriminazione alcuna, biologica, culturale, sociale. Ma nei nostri comportamenti, quanta coerenza c’è con questo insegnamento?
Il linguaggio traccia i cambiamenti nei comportamenti e ne crea di nuovi.
Riconoscere l’altrui Buddità passa attraverso la liberazione da condizionamenti e pregiudizi insiti anche nei modi di dire; sperimentare questo insegnamento fondamentale significa anche sgomberare il campo da equivoci e false uguaglianze che la nostra lingua veicola.
Dobbiamo e possiamo imparare che dire tutti quando si tratta di tutti e tutte non è la stessa cosa. è necessario riconoscere le prigioni in cui le donne sono state rinchiuse, e le parole che usiamo tutti i giorni per definirci e definire la realtà ne sono parte integrante: siccome sono già pronte per l’uso le accettiamo come normali. Rosa Luxemburg diceva che «il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome». Bene, eccoci. L’apparato discriminatorio – il patriarcato – di cui il sessismo è strumento predominante, è un millenario sistema di poteri rinforzato dal linguaggio. I diritti per cui le donne hanno tanto lottato vanno protetti.
Dal 1986, quando Alma Sabatini pubblicò le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, il linguaggio è una delle vie maestre per consolidare i cambiamenti del comportamento.
Faccio riferimento qui a un testo scritto nel 2014 da Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, a cura dell’associazione di giornaliste Gi.U.Li.A. (giornaliste unite libere e autonome). Esso ha il pregio di proporre cambiamenti concreti, possibili e accessibili a chiunque, e tiene conto della strada fatta.
Si può dire, perché la grammatica lo consente, architetta, avvocata, sindaca: rivendicare il maschile perché più “autorevole” anche se l’omologo femminile esiste, o dire che «è brutto», sono segnali che il linguaggio – e il pensiero – ancora non si adegua alla realtà: ci sono già tante architette, avvocate e sindache, e ce ne sarebbero di più se abbandonassimo la resistenza al cambiamento, perché il nome al femminile illumina un’identità che altrimenti sarebbe cancellata; usarlo è il modo migliore per raggiungere quella parità di fatto che più che mai è necessaria. Se sono familiari nomi come operaia, cuoca, infermiera, maestra, cassiera, cameriera – che indicano tutti professioni non di potere –, perché non farlo anche con ingegnera, chirurga, ministra, e fare sì che la lingua sottolinei l’identità femminile anche in ambiti in cui essa non esisteva?
È soprattutto dal linguaggio dei media che il cambiamento deve prendere le mosse, perché «ciò che non si dice non esiste», sostiene la medesima Robustelli in un’intervista del 2008.
Entrare in una classe elementare salutando con «buongiorno bambine, buongiorno bambini» è affermare il diritto all’esistenza attraverso le parole. Si tratta di identità, non di grammatica, quindi. Il nome non detto equivale a una «cancellazione muta e gentile», come racconta una delle fondatrici di Labodif (a p. 16). Ecco, le parole fanno i fatti; le parole sono le cose.
Non esistono parole neutre, senza conseguenze per gli altri.
(Giulietta Stirati)

Immaginiamoci il mondo che vogliamo

Elise Boulding - sociologa, fondatrice degli Studi per la pace e la trasformazione dei conflitti

Boulding: Se la costruzione della pace non inizia dalla famiglia e dalle comunità in cui vivono le persone, nemmeno organizzazioni come l'Onu possono riuscirci. Perciò cerco sempre di incontrare i miei vicini. Dobbiamo conoscerci e aiutarci a vicenda. La pace non riguarda solo le azioni che compiamo nel momento del pericolo, ma anche l’assistenza che ci prestiamo nella vita quotidiana.
Ikeda: La ricerca che lei ha svolto è unica in quanto considera la pace dalla prospettiva di una madre, sottolineando l’importanza del nucleo familiare e la missione delle donne per lo sviluppo di una cultura di pace.
Boulding: Sì, ma anche gli uomini hanno la loro missione come costruttori di pace. In famiglia, che è il punto di partenza per realizzare la pace, il padre è altrettanto importante della madre. E i padri, nel nostro mondo, devono imparare ad ascoltare. Tradizionalmente – anche se meno di quanto accadeva in passato – le donne trascorrono più tempo a casa ad ascoltare i figli e le figlie. E ciò le rende migliori ascoltatrici degli uomini. Un buon modo per costruire una cultura di pace più forte è che gli uomini trascorrano più tempo con i figli e imparino ad ascoltare, come fanno le donne.
Ikeda: Quale consiglio può dare alle persone giovani per iniziare il viaggio verso il futuro?
Boulding: Anzitutto devono riuscire a concepire un mondo senza armi. Sebbene molte persone la ritengano un’idea impensabile, dobbiamo prima di tutto crearci l’immagine mentale di un mondo completamente diverso, che funzioni senza apparati militari e nel quale i conflitti vengano gestiti in maniera creativa.
Ikeda: Uno splendido messaggio! Le persone tendono illusoriamente a pensare che il presente sia immutabile e che il futuro sia già scritto. Ma pur mantenendo uno sguardo sulla realtà presente, dobbiamo immaginare un futuro pacifico.
Boulding: Nel 1960, in una riunione di economisti che discutevano degli aspetti economici del disarmo, chiesi come avrebbe funzionato un mondo in cui ci fosse stato il disarmo totale. La risposta fu sconcertante: non ne avevano idea. Sono giunta a pensare che molte persone impegnate nel movimento per la pace non abbiano un’idea chiara di come potrebbe essere una società pacifica. Come possono dedicarsi con passione a un movimento del quale non riescono a immaginare il risultato finale?
Ikeda: Per quanto possiamo ardentemente ricercare la pace, se non abbiamo un’idea chiara di dove stiamo andando è impossibile radunare le forze necessarie a spezzare le crude realtà che abbiamo davanti.
Boulding: Per cultura di pace personalmente intendo una cultura che promuova una diversità pacifica e che affronti in maniera creativa i conflitti e le differenze che si manifestano in ogni società, perché non esistono due esseri umani uguali. Riguarda stili di vita, insiemi di credenze, valori e comportamenti. E anche le necessarie disposizioni a livello istituzionale per promuovere l’assistenza reciproca, il benessere e un'equa suddivisione delle risorse del pianeta tra i suoi abitanti e tra tutti gli esseri viventi. È questo ciò che vogliamo realizzare per il mondo in cui viviamo.

Elise Boulding (1920-2010) è stata una delle figure più influenti del movimento per la pace del XX secolo. Studiosa, attivista ed esperta di studi per la pace, ha insegnato Sociologia presso l’Università del Colorado e al Darmouth College. Nel 1962, all’apice della guerra fredda, incontrò insieme ad altre 11 rappresentanti della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà un gruppo di donne russe. Fu tra le promotrici dello “Sciopero delle donne per la pace”, una delle prime proteste contro la guerra in Vietnam. Autrice di numerose opere, tra cui The Underside of History: A View of Women through Time (1976), Building a Global Civic Culture: Education for an Interdependent World (1988), e Cultures of Peace: The Hidden Side of History (2000), ha scritto con Daisaku Ikeda il dialogo Into Full Flower: Making Peace Cultures Happen, non tradotto in italiano, dal quale è stato tratto questo brano.

Il coraggio è contagioso

Betty Williams, premio Nobel per la pace

Ikeda: Trent’anni fa, in mezzo ai violenti conflitti che devastavano l’Irlanda del Nord, lei decise con coraggio di protestare pubblicamente. La sua determinazione sfociò infine in una marcia per la pace di 35.000 donne che attrasse l’attenzione di tutto il mondo e spinse l’opinione pubblica in direzione della pace. Donne cattoliche e protestanti risposero al suo appello e unirono le loro forze. Quale fu invece la reazione degli uomini?
Williams: Non molto buona, direi. Ma devo spiegarmi meglio. Molti uomini sarebbero stati uccisi se avessero partecipato ai nostri raduni, però erano abbastanza disposti a sostenerci dietro le quinte e a lavorare insieme a noi. Erano uomini coraggiosi e si erano anche resi conto che la forza del nostro movimento risiedeva nel fatto che eravamo donne, madri. Perciò era così potente.
Ikeda: Cosa le ha permesso di continuare senza sosta le sue attività per la pace?
Williams: In questa impresa, così come in quella che lei sta portando avanti, bisogna avere il coraggio delle proprie idee. Bisogna semplicemente perseverare senza mai darsi per vinti.
Ikeda: Lei è riuscita a trasformare la sua legittima collera contro la violenza in una motivazione a lavorare per la pace. Il Buddismo insegna che la collera può avere risvolti sia positivi sia negativi: la collera verso un grande male è un grande bene. Anche il nostro movimento affonda le radici in una legittima collera e in un invincibile coraggio.
Williams: La paura è contagiosa, ma anche il coraggio lo è, si trasmette da persona a persona e lungo la strada diventa sempre più forte.
Ikeda: Cosa vorrebbe dire ai leader politici maschi?
Williams: È abbastanza ovvio. Temo che alla fin fine tutto si riduca a una cosa molto semplice: «Basta con gli spargimenti di sangue!». Come donne è nostra responsabilità assicurarci che i leader che ricorrono alla forza bruta e all’oppressione non vengano eletti. E questo può succedere solo grazie all’educazione.
Ikeda: Come pensa che si possa realizzare e mantenere la pace?
Williams: La pace, come lei ben sa, non è qualcosa di statico. L’unico modo di raggiungerla è attraverso qualcuno che dia l’esempio. I leader devono prima di tutto dare l’esempio e poi andare nelle retrovie e spingere avanti tutte le altre persone. Le mie colleghe e io diciamo spesso che il nostro lavoro è simile a spingere un enorme peso su per una collina con le scarpe con i tacchi alti e camminando all’indietro! Questo rende l’idea di quanto sia difficile.
Ikeda: Lei ha detto che la situazione dell’Irlanda del Nord è un esempio di come il ciclo della violenza non faccia che esacerbarsi con il passare delle generazioni. Quale pensa che sia la chiave per spezzare questo circolo vizioso?
Williams: Per me – e questo è l’unico modo in cui so lavorare – è rimanere fedeli alle proprie convinzioni e conquistare gli avversari con l’amore.
Non è affatto una cosa facile. Ricordo una volta in cui fui attaccata verbalmente da un uomo. Era piuttosto aggressivo a dire il vero, e mi stava così vicino che pensavo mi desse una testata o mi mordesse il naso, ma io mi limitai a rimanere immobile, senza dire una parola. Alla fine la sua bocca deve essersi stancata, perché ha iniziato a parlare sempre più lentamente e alla fine ha indietreggiato. Io l’ho guardato e gli ho detto: «Ti voglio bene». Circa due mesi dopo quell’uomo è diventato un operatore di pace.

Nel 1976 Betty Williams, di fronte alla morte di tanti bambini nei combattimenti tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, avviò una campagna di petizioni e marce per la pace per arrestare la violenza. Il movimento si diffuse a macchia d’olio fra le donne di entrambi gli schieramenti e crebbe fino a diventare una notevole forza di pace. Grazie a questo impegno ricevette il premio Nobel per la pace insieme a Mairead Corrigan Maguire. Da allora ha continuato a portare avanti iniziative mirate al benessere delle donne e dei bambini in tutto il mondo. Nel 1997 ha fondato i World Centers of Compassion for Children International (Wccci). Il presidente Ikeda e sua moglie Kaneko la incontrarono a Tokyo il 6 novembre 2006.

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