Numerose realtà e minacce inedite – epidemia, guerra, carestie – si sono affacciate al nostro vissuto di cittadini occidentali in questi ultimi anni. Non possiamo certo dire che non fossero state annunciate sia da chi sapeva leggere gli insegnamenti del Buddismo, in periodi non sospetti, sia da chi, in tempi recenti, ha studiato e previsto la direzione del cambiamento.
Come comportarci di fronte al disagio interiore che, con intensità variabile, tali eventi provocano in molti e molte di noi? Sia il Buddismo sia la psicologia ci incoraggiano a non demonizzare il nostro sentire ma a leggerlo come uno stimolo per approfondire la conoscenza di sé scoprendo vulnerabilità e punti di forza, a guardarlo senza veli, a valorizzarlo e a farne una leva per vivere in modo più compiuto e consapevole.
In queste pagine, dopo una breve analisi della situazione attuale, oltre a testimonianze dirette di quali rinascite esistenziali possano sorgere dall’incontro con le ferite della mente e dalla loro trasformazione, presentiamo alcuni estratti di dialoghi condotti da Daisaku Ikeda con lo psicologo Martin Seligman e con il filosofo Lou Marinoff, a conferma dell’attenzione che il nostro maestro ha sempre riservato al legame tra il Buddismo e questi saperi.

Disagio interiore

Lo dicono le riviste specializzate, gli istituti di ricerca, gli addetti ai lavori: ansia, depressione, paura del futuro hanno subìto di recente un'impennata soprattutto tra gli adolescenti, che per la prima volta chiedono risposte istituzionali 

Come è noto, l’onda lunga della pandemia sta mettendo a rischio il benessere psicologico e la salute mentale di tante persone. Un’indagine pubblicata sulla rivista Nature, che ha monitorato 8 milioni di chiamate alle linee di assistenza psicologica di 19 paesi, rivela che durante l’emergenza Covid le richieste di aiuto sono salite del 35%. E in base a una ricerca condotta dall’Istituto superiore di sanità e dall’Università di Padova, l’88,6% delle persone sopra i 16 anni ha sofferto di stress psicologico, quasi il 50% di depressione.
Una situazione allarmante, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità: a livello globale, i casi di ansia e depressione nel primo anno di pandemia sono aumentati del 25%. C’è una fragilità psicologica diffusa, spiega l’Oms, causata dall'insieme deflagrante di solitudine e isolamento forzato, di paura e depressione, di sofferenza e timori per sé e per i propri cari.
Sono stati soprattutto i giovani e i giovanissimi a sopportare il peso del lockdown e dell’isolamento forzato della didattica a distanza. Lo confermano i dati dei pediatri: aumentano i sintomi clinici della depressione e i disturbi d’ansia, i tentativi di suicidio e i comportamenti autolesivi, nonché una rabbia spesso manifestata con il ritiro dalla società, come nel fenomeno degli hikikomori. Dall'inchiesta "Chiedimi come sto", promossa dalle organizzazioni studentesche e dal sindacato dei pensionati (Spi-Cgil), che ha coinvolto 30.000 ragazzi e ragazze, emerge che 9 su 10 vivono ansia, stress, paura del futuro, e che sono in aumento noia, demotivazione, solitudine, disturbi del sonno, mentre diminuiscono gli incontri con gli amici e la cura del proprio aspetto fisico. Per la prima volta nella storia è accaduto che gli adolescenti abbiano esplicitato la loro richiesta di supporto psicologico scendendo in piazza per chiedere risposte istituzionali.
Secondo l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) dell’Unione europea, la pandemia ha impattato in maniera più aggressiva sulla salute mentale delle donne le quali, maggiormente colpite dalla crisi occupazionale, sottoposte a ulteriori carichi di lavoro e cure familiari, hanno sofferto di depressione, sindrome bipolare, ansia, disturbi alimentari più che in passato.
A testimonianza della criticità della situazione Sarantis Thanopulos, presidente della Società psicoanalitica italiana, insieme a un gruppo di psicoanalisti, psichiatri, farmacologi e psicologi ha promosso un Manifesto per la salute mentale (www.spiweb.it). Il documento – presentato il 10 giugno scorso al Ministero della Salute – denuncia la crisi dei servizi pubblici per la salute mentale sul territorio proponendo un approccio fondato sul dialogo tra saperi per superare il modello biomedico dominante. «L'approccio puramente quantitativo alla terapia del dolore psichico, la sua sedazione che mira soprattutto a renderla invisibile, ha portato allo sviluppo di un dolore sordo che svuota il senso dell'esistenza». [...] La prassi della cura psichica prende forma nell'ambito di relazioni personali, non anonime, come sapere che riconosce in ogni storia di sofferenza la sua particolarità, in ogni esistenza sofferente la sua trama originale». (a cura di Silvia Sperandio)

Alcuni dati

Disagio psicologico, ansia, panico, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze, depressione e solitudine sono tutti fenomeni che assieme a disturbi più invalidanti, come quelli dell’area delle psicosi, negli ultimi 5-10 anni stanno emergendo sempre più. I motivi possono essere una maggiore cultura del benessere psicologico, che porta alla luce un sommerso di disagio che prima veniva celato per vergogna e stigma, ma soprattutto la vita strutturata in modi sempre più complessi e complicati, decisamente poco sintonici con i tempi del fisiologico funzionamento umano.
In quasi tutto il mondo l’esistenza umana si è sbilanciata sempre più verso i valori dell’avere e performare a discapito dell’essere e dell’esplorare: la velocità è divenuta un valore oggettivo, con tutti i danni che ciò comporta nelle relazioni umane, nell’elaborazione dei cambiamenti e delle difficoltà.
Questo panorama globale ha portato a una notevole crescita del disagio psicologico nelle sue diverse forme e a un aumento della richiesta di “cura”, con l'aspetto positivo di uno sguardo sociale meno severo e giudicante verso chi decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico e di una maggiore attenzione alla professionalità di chi esercita.
Con l’avvento della pandemia, il distanziamento sociale, la solitudine, situazioni di precarietà lavorativa e di salute, la continua allerta rispetto a un possibile contagio o a una irregolarità di comportamento dettata dalle sempre mutevoli “regole pandemiche”, e ancora la guerra in Europa e la crisi che ne deriva, le prospettive di un futuro incerto anche climaticamente, hanno aggravato e aumentato in modo importante ed evidente il malessere e i disturbi, talvolta preesistenti, che in qualche modo venivano compensati o tollerati.
Chi ne ha risentito maggiormente, come  è stato già detto, sono le persone in fase di sviluppo (bambini e adolescenti) e quelle più fragili in salute o in risorse relazionali; ma anche chi non ha avuto in apparenza grossi cambiamenti è probabile che manifesti esplosioni di rabbia, vissuti depressivi, ansia continuativa, difficoltà a uscire di casa o a frequentare nuovamente persone. Possiamo considerare questi sintomi come buoni segnali di un disagio che va riconosciuto e che certe volte aiuta sapere non sia così raro.
Questo periodo di crisi ha comportato sì il pericolo di smarrire i nostri “parametri” esistenziali, ma anche l’opportunità di rimetterli in gioco per trovare una dimensione più autentica e vicina a un benessere esistenziale capace di includere anche gli inciampi, le lentezze, i fallimenti, i dolori, le rinunce, e godere della capacità di cambiamento che da alcuni studiosi è considerata la fonte della salute, sia mentale che fisica. Se la salute è la capacità di accedere alle risorse, siano esse relazioni, conoscenze, cose, idee, luoghi, quella che chiamiamo "guarigione" può essere considerata una sua conseguenza.
Talvolta è necessario essere obbligati da un sintomo a guardarsi dentro e cambiare, e possiamo considerare una fortuna che ci siano loro a “informarci” che qualcosa non sta funzionando per il meglio, altrimenti rischieremmo, alla stregua di qualsiasi malattia organica, di trovarci con un quadro più compromesso.
(Vanessa Donaggio, psicoterapeuta)

Per fortuna ci sono i sintomi

Abbiamo bisogno di una comprensione più profonda delle nostre potenzialità e vulnerabilità, e di saper sviluppare i nostri punti di forza attraverso il supporto reciproco

da Japan Times, 6 novembre 2006

Viviamo in una società ad alta pressione. […] Lo psicologo statunitense Martin Seligman, famoso per le sue ricerche sulla psicologia della speranza, esprime preoccupazione per ciò che chiama "il grande io e il piccolo noi": un egocentrismo dilatato e un senso di connessione con gli altri sempre più attenuato. Sembra chiaro che questa tendenza deve essere affrontata se vogliamo evitare che le nostre vite diventino ancora più stressanti.
In passato la società umana forniva alle persone varie opportunità di sostenersi a vicenda, specialmente in situazioni altamente stressanti. Purtroppo, molte delle reti che ci hanno sostenuto sono state indebolite o minate. Di fronte allo stress, troppe persone sentono di non avere strutture a cui rivolgersi, di non avere accesso al tipo di amicizie o comunità in cui possono condividere facilmente e apertamente i loro problemi e preoccupazioni.
Il termine "stress" è originario della fisica e indica la deformazione di un corpo che è stato sottoposto a forze esterne. In seguito è stato usato in riferimento all'effetto di varie pressioni sul benessere mentale e fisico delle persone. Inutile dire che, proprio come materiali diversi resistono in modo diverso alla tensione della pressione fisica, la nostra capacità di affrontare situazioni stressanti varia ampiamente da persona a persona.
Una situazione lavorativa o interpersonale che un individuo trova intollerabilmente stressante potrebbe, per qualcun altro, non essere nemmeno registrata come stress. Inoltre lo stress influenzerà la stessa persona in modo molto diverso in differenti occasioni. Anche eventi apparentemente felici come il matrimonio o una promozione nel lavoro possono essere percepiti come stressanti.
Per questo motivo, dire a qualcuno che il suo non è un grosso problema, anche con l'intenzione di incoraggiarlo, potrebbe effettivamente approfondire e intensificare la sua esperienza di tensione e angoscia. Le reazioni del cuore umano non sono meccaniche e prevedibili, ma infinitamente sottili e delicate.
In una certa misura, le principali fonti di stress possono essere ricondotte alle nostre attuali idee sulla natura del sé. Da un lato ci si aspetta che ognuno e ognuna di noi, in quanto "individui liberi", sia in grado di affrontare qualsiasi situazione senza alcun aiuto. Allo stesso tempo, le imponenti strutture burocratiche della società trattano le persone come parti e ingranaggi, inculcando la sensazione che non siamo in grado di plasmare il nostro destino, tanto meno di indirizzare la società umana verso una nuova e migliore direzione. Divise tra aspettative eccessive e sentimenti di assoluta impotenza, le persone diventano sempre più suscettibili all'impatto dello stress.
Affrontare con successo lo stress richiede di vedere noi stessi sotto una luce diversa. Abbiamo bisogno di una comprensione più profonda delle nostre potenzialità davvero illimitate e delle nostre vulnerabilità, e di come sviluppare i nostri punti di forza attraverso il supporto reciproco.
Hans Selye, pioniere nelle ricerche su questi temi, ha offerto i seguenti consigli basati sulla propria esperienza nella lotta contro il cancro: in primo luogo, stabilire e mantenere i propri obiettivi nella vita. Secondo, vivere in modo da essere necessari agli altri: un tale stile di vita è in definitiva benefico per se stessi. È naturale per noi esseri umani guardare avanti, i nostri occhi guardano naturalmente avanti. In questo senso, siamo fatti per andare verso un obiettivo. Allo stesso tempo, stare vicino a chi soffre rafforza la nostra capacità di affrontare i problemi e le sfide personali con coraggio.
[…] Proprio come l'allenamento fisico può far emergere capacità invisibili del corpo e l'allenamento intellettuale sviluppa la mente, il cuore può essere allenato e rafforzato. Attraverso il processo di superamento del dolore, per esempio, diventa possibile guardare oltre le nostre sofferenze e preoccupazioni per sviluppare un senso di sé più ampio e robusto. Questa esperienza può ispirare atti compassionevoli verso altri che hanno conosciuto lo stesso dolore. Lavorando con e per il bene degli altri, è possibile rendere anche le situazioni stressanti un'opportunità per imparare a vivere con maggiore energia e concentrazione.
Sembra improbabile che le fonti di stress che affrontiamo diminuiscano; anzi, è altamente probabile che aumenteranno. Ora più che mai dobbiamo sviluppare forza, saggezza e speranza mentre costruiamo reti di sostegno reciproco. In definitiva, la chiave per vivere in una società piena di stress sta nel sentire la sofferenza degli altri come nostra, nel liberare la capacità umana universale dell’empatia. Non dobbiamo portare da soli il peso di un cuore pesante.

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[box] UNA MALATTIA CHIAMATA PESSIMISMO

 Seligman: Vorrei dire ai giovani: «Superate quella malattia dello spirito che si chiama pessimismo». Gli esseri umani non cambiano necessariamente solo perché cambia il sistema o la politica. Il cambiamento parte da un individuo e si trasmette a un altro individuo: per questo è importante studiare prima la psicologia umana. La vera psicologia consiste nell'effettuare una rivoluzione della propria coscienza per la felicità degli esseri umani. Su questo punto penso che gli psicologi abbiano lo stesso obiettivo del Buddismo.

Ikeda: […] Mi sembra che stia dilagando un’epidemia: la mancanza di speranza. Bisogna cercare di conoscere e analizzare la causa di questa "epidemia".

Seligman: Ritengo che una delle cause sia la mancanza di filosofia. Quando non esistono né filosofia, né pensiero, in questo spazio vuoto si insinua il “demone” che conduce verso il male, penetra negli esseri umani e li porta su una cattiva strada. In questo modo tutto diviene fonte di problemi, come in una macchina alla quale mancano dei pezzi. […] Penso che una delle cause della malattia chiamata pessimismo sia legata allo squilibrio tra il sé e gli altri. Quando si desidera solo il proprio successo, il sé acquista sempre più importanza e, di conseguenza, le persone si ritrovano sempre più isolate nella famiglia, nella società, ecc. Vedo che questo ostacolo mentale sta dilagando ovunque e che i contemporanei non riescono a trasformarlo.

Ikeda: Anche noi stiamo combattendo per rompere questo muro. L'altruismo e l'azione del bodhisattva possono riuscire ad abbatterlo. [...] In questo senso le riunioni di discussione della Soka Gakkai sono il luogo del dialogo e della spiritualità, dove gli abitanti di un determinato quartiere possono incontrarsi e trovare conforto per il loro cuore. È del tutto naturale che la gente crei dei luoghi simili.

Da un dialogo tra Daisaku Ikeda e Martin Seligman, presidente dell'Accademia di Psicologia degli Stati Uniti. Tokyo, Seikyo Shimbun, 20 settembre 1997 (pubblicato su DuemilaUno n. 70, settembre/ottobre 1998).[/box]

Di fronte allo stress occorre guardarsi in una luce diversa

Dialogo, connessione e fiducia sono elementi evidenziati dal nostro maestro per sostenere e incoraggiare chi sta attraversando un disagio interiore: un cuore capace di ascoltare può aprire le menti, dissipare l’ansia e guarire le ferite mentali

A proposito di sostenere parenti o amici che stanno vivendo un dolore interiore, Lou Marinoff, nel dialogo con Daisaku Ikeda dal titolo Qualunque fiore tu sia, sboccerai (Piemme, 2014), afferma che «dovremmo relazionarci agli altri come esseri umani alla pari. Dovremmo coinvolgerli nel dialogo come indagatori, cercando di scoprire in cosa consiste il loro mal-essere, desiderando di comprenderli, senza mai giudicarli, infondendo in loro la fiducia per trovare un rimedio, senza mai farsi del male, valorizzando ed evidenziando le loro qualità interiori più salutari. Qualsiasi dialogo, condotto su questa base, sarà quasi certamente d’aiuto e non dannoso per tutti coloro che ne sono coinvolti. In un simile dialogo, dovremmo rifuggire la natura gerarchica delle relazioni che si basano su posizioni sociali o professionali».
Al riguardo Daisaku Ikeda, nel trovarsi d’accordo con queste affermazioni e nell’indicare come linea guida lo spirito del Bodhisattva Mai Sprezzante, afferma che «nella nostra società moderna, frenetica e disconnessa, sono poche le opportunità di un dialogo profondo con gli altri. Invece di godere di una comunicazione genuina, molti soffrono nel proprio isolamento. Ecco perché è così importante accantonare le nostre differenze e ascoltare veramente gli altri, condividendone i dolori e le sofferenze come esseri umani alla pari. Il cuore altruista, capace di ascoltare in questo modo, ha il potere di aprire le menti delle persone, di dissipare l’ansia e di guarire le ferite mentali. Ci vuole un cuore umano per toccare il cuore umano. “Quando tu soffri, soffro anch’io”. Intrattenendo un dialogo in questo spirito di empatia, quello che nel Buddismo è chiamata “sofferenza condivisa”, ambedue gli interlocutori vengono rafforzati ed elevati» (pp. 117-118).
«Il modo migliore per sostenere una persona che affronta una malattia psichica – si sottolinea rispondendo a una domanda su questo argomento durante un corso di studio (BS, 156, 14) – è trasmetterle che noi per primi non ci arrendiamo di fronte alla sua malattia e che la sosterremo fino in fondo.
Chi è afflitto da questo tipo di disturbo affronta interiormente una grande sofferenza, ma se è circondato da amici e parenti con una condizione vitale elevata che trasmettono lo spirito di non rassegnarsi, potrà trasformare la sua situazione. Per riuscire a fargli sentire il suo valore, dobbiamo noi per primi essere in sintonia con la Legge mistica.
Nelle società dove prevale un forte individualismo è difficile affrontare questo tipo di malattie. Perciò è importante non solo aiutare le persone che ne soffrono a sentire il valore della propria vita, ma anche e allo stesso tempo trasformare le condizioni della società».
(a cura di Pasquale Dioguardi)

Senza mai giudicare

In un'intervista a Buddismo e società (BS, 193), il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti sottolineava l’importanza di accettare e integrare nella personalità la propria Ombra, quegli aspetti di noi che tendiamo a seppellire nella psiche perché considerati negativi o malvagi dal nostro Super-Io e dai contesti socioculturali in cui viviamo. Lo studioso ammetteva però che c’è un’età – quella giovanile – in cui ha invece senso puntare alla realizzazione di ideali etici per costruire l’Io, ciò che implica il tentativo di trascendere proprio quelle parti oscure che poi, in fase adulta, dovremo recuperare.
Se il primo movimento – quello dell’integrazione delle pulsioni, dell’accettazione completa di sé, del rendere conscio l’inconscio – è proprio della psicologia del profondo, il secondo è tipico dell’etica, che implica modelli di comportamento, lotta costante contro il male interno ed esterno, ideali ai quali mirare.
In genere le religioni privilegiano la dimensione etica, presentando leggi morali e maestri di vita da seguire, a prescindere dall’età del credente. Non so se Galimberti – dando per scontato il nesso tra etica e religione – intendesse richiamarci all’importanza di sdoganare il rimosso nella vita adulta; a ogni modo il Buddismo di Nichiren e la sua traduzione contemporanea a opera della Soka Gakkai sono così profondi da includere entrambi i movimenti. Abbiamo dei maestri che ci spronano a diventare migliori, ma al tempo stesso ci invitano a essere radicalmente noi stessi. Invece di escludersi a vicenda, questi due aspetti possono integrarsi ed essere considerati due volti dello stesso percorso di crescita umana.
Posso affermarlo per esperienza personale. Quando al Buddismo ho chiesto etica, sforzi incessanti di miglioramento del carattere, ideali di giustizia, ne ho trovati finché ne ho voluti: e mi hanno permesso di controllare la mia mente caotica, integrarmi nella società da cui mi sentivo alienato, costruire sforzo dopo sforzo il lavoro che ora mi nutre in molti sensi. Quando poi è venuto il momento di chiedere al Buddismo psicologia, ho trovato anche quella e tante cose sono cambiate nel mio modo di praticare, nella maniera d’intendere il senso stesso del mio percorso di fede. Ho anche incontrato un terapeuta che praticava come me: l’ho scelto in base al tipo di terapia, poi ho scoperto che apparteniamo alla stessa comunità.
Il passaggio da una prospettiva all’altra non è stato semplice né indolore: a tratti mi è sembrato che seguire la via della psicologia implicasse rinunciare al percorso religioso. Ma sono stati momenti, dettati da una visione parziale e riduttiva del Buddismo. La cosa più bella è stata invece scoprire come la recitazione del Daimoku mi consentisse di assimilare intimamente gli insight emersi durante la terapia. Aprendomi a una prospettiva sulla vita che il Sutra del Loto mi insegnava da sempre, ma che non ero stato in grado di vedere appieno a causa della ferita psichica che non avevo ancora imparato a curare.
Ora che la terapia è conclusa posso dire che – mantenendo il Gohonzon al centro della mia vita – sono riuscito a far collaborare le due prospettive al di là di ogni steccato mentale e culturale, generando in me qualcosa di nuovo e senza tempo: un io ben radicato e libero, per la cui crescita infinita etica e psicologia non sono che espedienti e configurazioni diverse di una stessa energia vitale.
(Donato Ferdori)

L'ombra non è l’oscurità, anzi

TESTIMONIANZA La depressione ti costringe a fare i conti con la tua storia. Per anni ho guardato fuori: la malattia di mia madre, i miei fratelli, il lavoro… Poi mi sono ammalata. Ma io avevo mai guardato dentro la mia vita, cercato nel profondo? È per questo che diventi una persona più forte

Incontriamo Antonella in un caldo pomeriggio di luglio nella sua amata casa di Roma che si affaccia su villa Pamphili. Una conversazione tra amiche, compagne di fede di lunga data. Protagonista lei, testimoni noi, di un percorso lungo e difficile, ma soprattutto fecondo. 

Come hai iniziato a praticare?
Poco più che ventenne mi ero trasferita a Roma per fare l’attrice di teatro ed ero capitata in una compagnia di tutte buddiste. Ero scettica ma ho cominciato subito, e nel 1988 ho ricevuto il Gohonzon.  Ero molto preoccupata per la grave malattia di mia madre, e la persona che mi parlò della pratica mi disse che avrei potuto aiutarla a stare meglio.
La mia famiglia era molto sconclusionata. Mio fratello soffriva di una malattia psichiatrica e l’altro è una persona con un carattere molto iracondo. Oggi mi rendo conto che ero venuta a Roma per allontanarmi da questa situazione pesante e vivere una vita più leggera.
In quel periodo il Buddismo di Nichiren Daishonin mi ha permesso di trovare una sicurezza che non avevo e aiutato ad affrontare eventi molto dolorosi: nel giro di pochi anni sono morti prima mio padre e poi mia madre, e mio fratello si è aggravato sempre di più. Io ho perso il lavoro di attrice e ho cominciato a lavorare in un Mc Donald’s. La pratica era il mio unico sostegno, l’unica sicurezza sulla quale potevo contare, perché la mia famiglia non c’era più.
Poi da Mc Donald’s ho fatto carriera, mi sono sposata, ho avuto una bambina e sono andata avanti praticando costantemente. Anni tranquilli, potrei dire.

E poi cosa è successo?
Dopo qualche tempo ho cominciato a percepire un senso di vuoto. Non ero più felice, sentivo una grande solitudine e amarezza, una profonda depressione che saliva dalla mia vita. Era come se tutto quello che avevo fatto fino ad allora non avesse più valore. Non mi riconoscevo più in niente, non ero più capace di vivere, di mostrare amore a me stessa e agli altri, ero come in un buco nero risucchiata da questa insoddisfazione, da questo senso di impotenza verso la vita e verso me stessa.
Piano piano mi sono ammalata gravemente. Sono stati anni difficili, in cui ho cominciato un percorso di cura molto lungo, che mi ha portato inizialmente a una lunga serie di ricoveri in case di cura psichiatriche, dove mi trattavano con vari farmaci, ai quali però ero resistente.
Poiché le cure non funzionavano, mi hanno proposto di entrare in una comunità terapeutica ai Castelli romani. Ho dovuto prendere una decisione molto forte: è stato difficilissimo andare via da casa mia, perché mi rendevo conto che lasciavo tutto quello che avevo. Ma era la scelta definitiva per curarmi, era come decidere di vivere invece di morire.  

Quanto sei rimasta in comunità?
Ci sono rimasta 3 anni. In tutto questo non ho mai lasciato la pratica, i miei compagni di fede non mi hanno mai abbandonata e sono sempre venuti a sostenermi. Il Gohonzon mi ha sempre protetta.
Appena arrivata in comunità ho detto alla mia psichiatra che ero buddista e le ho chiesto il permesso, quando c’erano le libere uscite, di poter partecipare alle attività della Soka Gakkai della zona. I compagni di fede mi venivano a prendere il giovedì e io andavo allo zadankai nonostante non stessi bene. Mi hanno accolto con un cuore enorme, con il cuore del maestro.
L’esperienza della comunità terapeutica è stata formidabile. Il percorso è stato lungo, 3 anni e 7 mesi, ma io ero contenta perché vedevo i miei progressi, cucinavo, dipingevo, scrivevo, lavoravo la ceramica. Ho avuto anche l’occasione di frequentare un corso di teatro, che era la mia passione e il motivo per il quale mi ero trasferita a Roma.
Sentivo la mia vita rinascere. Sentivo la forza del Daimoku in ogni poro della pelle.

Recitavi Daimoku?
Sì. Quando potevo recitavo Daimoku nella mia stanza. E poi il lunedì venivo a un corso di teatro a Roma e dormivo a casa mia, dove facevo Daimoku davanti al Gohonzon. C’era questo filo, che non ho mai spezzato.
E la buona fortuna non ha tardato a manifestarsi, perché al corso di teatro ho conosciuto un’assistente sociale che mi ha proposto di entrare in una casa famiglia a Roma. Io ho accettato subito, mi sono trasferita con le mie valige e ho iniziato a convivere con due ragazze.

La casa famiglia ha una dimensione di maggiore autonomia?
Sì. Non ci sono infermieri, non ci sono medici, non è una struttura chiusa. Ci sono gli operatori, ma non rimangono a dormire, stanno lì, ti fanno compagnia, ti portano al cinema, ti danno una mano a cucinare. Però fai tutto da sola, è l’ultimo passo della riabilitazione. Ci sono stata altri 3 anni e 3 mesi, ma nel 2013 il programma è finito e sono ritornata a casa mia. In pompa magna. 

Non avevi paura di tornare?
Ero felice di tornare a casa mia, perché per me ha un grandissimo significato. Qui ho aperto la mia vita, qui ho tutti i miei ricordi più cari, sia dolorosi sia felici. Non avevo paura. Anzi la prima notte che ho passato da sola mi sono messa la camicia da notte più bella. Ho fatto Daimoku e Gongyo, ho riaperto il Gohonzon nel butsudan che nel frattempo avevo rimesso a posto. Avevo riorganizzato tutta la casa, pitturato i muri, sistemato i mobili.
Dopo pochi mesi mi hanno offerto la responsabilità di un gruppo. Ovviamente l’ho subito accettata perché non mi sembrava vero di ritornare nell’organizzazione dopo tanti anni. E soprattutto perché volevo condividere la mia esperienza con tante persone, per gratitudine verso i membri, verso il presidente Ikeda, verso me stessa e verso tutti quelli che mi hanno voluto bene, che mi hanno aiutata.
Dal 2013 vivo qui da sola, non ho più avuto nessun disturbo, nessun disagio, nessun ricovero, nessun tipo di problema. Certo è normale che qualche volta ci si senta un po’ più soli, più tristi, o più allegri, ma questo fa parte della vita.
Ecco, la depressione mi sembra che si sia allontanata dalla mia vita, e io oggi mi sento più forte grazie a lei. Mi sento più sicura e soprattutto sento di poter incoraggiare gli altri grazie a quel problema. 

Che significato ha avuto per te la depressione?
Io ora penso che una malattia come la mia sia dovuta a come una persona sta dentro la propria storia. Perché la depressione ti costringe a farci i conti. Per anni ho guardato fuori: la malattia di mia madre, i miei fratelli, il lavoro… tutti questi fatti erano fuori di me.
Poi mi sono ammalata. Ma io avevo mai guardato dentro la mia vita, cercato nel profondo? È per questo che diventi una persona più forte. Perché quando conosci quello che hai dentro di te, ti conosci meglio.
E sono convinta che se non avessi avuto l’occasione di praticare non so se sarei riuscita a sconfiggere la depressione in questo modo, non credo.

Alla luce della grande distanza dal mondo che si crea con la depressione, come sei riuscita a riavvicinarti agli altri fino a diventare anche responsabile di gruppo, un ruolo estremamente attivo, di grande generosità e responsabilità?
Un po’ mi hanno sicuramente aiutato le esperienze riabilitative che ho fatto, che sono legate alle relazioni. Sia in comunità sia in casa famiglia ho trovato delle persone eccezionali, di cui mi sono fidata: la fiducia è estremamente importante per guarire o migliorare dalla depressione.
E poi il Buddismo: leggendo tanti incoraggiamenti del presidente Ikeda e mettendoli in pratica puoi riuscire ad avvicinarti agli altri. Lui dice sempre: cercate di stare vicino alla gente, è il cuore che è importante. Questo fatto del cuore… io lo sento molto, perché sono stata tanto sola.
In comunità ero sola perché le altre persone erano veramente molto gravi. In quegli anni ho sofferto tanto, l’unico momento di gioia era quando andavo agli zadankai. E anche quando sono stata ricoverata ho sofferto tanto.
Quando sono stata nominata responsabile di gruppo ho ripensato a tutte queste esperienze. E mi sono detta: devi dare fiducia alle persone, prima di ogni altra cosa. Perché tu hai avuto paura tante volte, quando ti sei ammalata hai avuto paura di essere giudicata: il pregiudizio verso la malattia mentale è enorme. Hai avuto paura di essere abbandonata, paura di rimanere sola, di restare in comunità o in casa famiglia per tanti anni, di finire così la tua vita.
E invece poi, seguendo quello che dice Sensei, mi dicevo che non poteva finire così per me. Mi dicevo: tu pratichi, non deve essere così per te.

E hai vinto.
Sì, ho vinto. Mi sento bene, sono felice.

Ora sono quasi 10 anni che sei tornata a casa. Nella tua quotidianità che fai?
Adesso frequento un centro diurno, dove faccio attività molto creative, che mi hanno sempre interessato e che non ho potuto mai fare prima. Un laboratorio di fotografia, di audiovisivi e reportage, e un laboratorio di scrittura: amo molto scrivere... poesie, piccoli racconti. Poi mi occupo della mia famiglia, di mia figlia, che ora fa l’università. Curo me stessa, vado in giro, faccio shopping, vado al mare. Ascolto la musica e mi dedico alla lettura. E poi faccio attività, una cosa che mi dà tanta soddisfazione.
(Maria Lucia De Luca, Giulia Garroni Parisi)

La mia vita  si è arricchita di senso

Come comportarci di fronte al disagio interiore che numerose realtà inedite stanno provocando in molti e molte di noi? Il Buddismo e la psicologia ci incoraggiano a leggere il nostro sentire come uno stimolo per approfondire la conoscenza di sé e farne una leva per vivere in modo più compiuto e consapevole. 

Disagio interiore

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