Molte persone che si sono avvicinate recentemente al Buddismo di Nichiren Daishonin sono affascinate dalla sua filosofia ma hanno difficoltà a praticarlo concretamente, semplicemente perché non hanno imparato che alla base del proprio essere buddiste c'è un'azione costante e quotidiana. Come leggiamo ogni giorno alla pagina 2 del libretto di Gongyo: «Un Budda... si è esercitato con coraggio e diligenza».

Questo speciale vuole tracciare i punti necessari per avanzare, attimo per attimo, nella nostra pratica buddista.

Un viaggio che dura tutta la vita, dove non si smette mai di cercare per IMPARARE LA FELICITÀ, dove l'unico investimento vincente è LA VOCE CHE RECITA DAIMOKU, dove solo con l'assiduità e la serietà si riesce a PASSARE ATTRAVERSO paura e negligenza, dove il valore della comunità dei COMPAGNI DI FEDE ha un ruolo fondamentale per aiutarci a mantenere la rotta, ricordandoci che il Daimoku di Nichiren che tutti dovremmo abbracciare è PER SÉ E PER GLI ALTRI.

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Con coraggio e diligenza

La rotta... della pratica corretta

Un viaggio che dura tutta la vita

di Manuela Vigorita

C'è qualcosa a cui ognuno di noi aspira. Come una mano tesa verso l'infinito. Una richiesta semplice, pulita: di bene e di gioia, quella che puoi riconoscerla da uno sguardo, da una parola, da un sorriso. Non è roba complicata, piena di pensieri o arzigogoli geniali. È qualcosa che sai, che senti che c'è ma non sai dove. E non riguarda solo te, non ha i confini dell'io, abbraccia chi ami, chi soffre, chi è vittima delle guerre, delle catastrofi, o anche solo della stupidità.
Vorresti, come un bimbo, che tutti fossero felici. Ma come si fa? Come si fa, se la realtà è così piena di brutture, ingiustizie? E se sono malata? Se non ho lavoro o non trovo amore, se non ho forza, se le circostanze mi si oppongono e tutto sembra negarsi? Come si fa a cercare e donare la felicità in un mondo che arde di arroganza, egoismo, dolore?
Ricordo che, le prime volte che partecipai a una riunione buddista, quello che mi stupì maggiormente fu proprio la sfrontatezza con cui le persone usavano la parola felicità. Come se esistesse davvero, come se fosse possibile. E i loro occhi non li scorderò mai, così fiduciosi, colmi di speranza.
Poi scopersi che il Buddismo era nato proprio per questo, per permettere agli esseri umani di essere felici, per dare loro gli strumenti, rispondere a quella richiesta sempre presente. Scopersi che sì, ha un po' a che vedere con il raggiungimento dei propri obiettivi, che se imparo a costruire meglio la mia vita, la gioia un pochino si affaccia. Ma non è quello l'orizzonte, anzi. A volte, pur praticando, quando il raggiungimento dei miei scopi diventa l'unico orizzonte, quella felicità si fa ancora più lontana e rimango inchiodata ai miei attaccamenti, alle illusioni. Rimango chiusa in una gabbia. Perché i tranelli sono tanti ed è facile cadere nell'errore di pensare che la felicità non esiste se non trovo lavoro, se sono malata, se non ho un compagno o dei figli o soldi a sufficienza, se la vecchiaia con tutte le sue rughe non posso fermarla, se non posso fermare la morte.
Per fortuna ci sono tante persone che prima di noi hanno sbagliato, capito, sperimentato davvero la grandezza del Buddismo. Per fortuna abbiamo maestri che hanno dedicato una vita per lasciarci la chiave che serve a non perdere la strada, il senso della nostra ricerca, del nostro desiderio. Leggo per esempio dalla spiegazione di Ikeda del Gosho L'oggetto di culto per l'osservazione della mente: «I motivi che inizialmente ci hanno portato a ricevere il Gohonzon in molti casi sono stati desideri di minore importanza, dettati dalle necessità della vita quotidiana. Sono veramente pochi quelli di noi che hanno preso fede nel Gohonzon perché immaginavano e desideravano la condizione ideale della Buddità. Ma, man mano che acquistiamo fede e approfondiamo lo studio del Buddismo, arriviamo a capire che un Budda è l'entità di una vita umana piena di saggezza, buona fortuna e forza vitale. Inoltre ci rendiamo conto che il Gohonzon non serve semplicemente per soddisfare i nostri trascurabili desideri, ma materializza la vita del Budda. È un inestimabile tesoro che permette alle persone comuni di diventare nobili come il Budda» (La vera entità della vita, Esperia, pp. 190-191).
Forse, quando iniziamo a praticare, davvero non ce ne rendiamo conto, forse, in alcuni momenti, non ce ne rendiamo conto neanche se pratichiamo da tanto tempo. Ma lo scopo degli insegnamenti buddisti è proprio quello di rispondere a quella domanda pura e semplice di felicità che sembra così antica, più antica di me bambina, che mi porto dietro da una vita, forse da due o da cento, magari da sempre. Ed è qualcosa che si impara, che si può imparare ogni giorno, ogni istante. Risponde al nostro desiderio di essere Budda, di sentire la meraviglia della vita sgorgare nella nostra esistenza, di più: nel nostro presente, in questo preciso istante. «Finché il concetto di Buddità - leggo ancora da Ikeda - rimane limitato in uno schema temporale, indica sempre qualcosa che si deve raggiungere, determinando una distinzione fondamentale tra il Budda e la gente comune. [...] Nel Buddismo di Nichiren Daishonin però, kuon - che è spesso usato per indicare l'infinito passato - non indica affatto il passato. Significa eternità, la somma di ogni singolo istante di tempo. Una volta compreso che kuon esiste in ogni momento, non è più corretto dire che una persona diventa un Budda, ma piuttosto che una persona diventa consapevole di essere un Budda» (Ibidem, p. 192).
La meraviglia che Shakyamuni e Nichiren rivelano è che in qualsiasi condizione viviamo, qualunque siano le circostanze, le avversità, qualunque sia il nostro karma, noi possiamo manifestare la nostra più intima e vera natura, possiamo essere Budda e liberare le nostre potenzialità umane, tutte. Non c'è bisogno di essere diversi, di attendere momenti più propizi, di aspettare qualcosa che dovrebbe arrivare chissà da dove. La Buddità ci appartiene, come un dito, un orecchio, come un sentimento. È la nostra stessa umanità che si libera e manifesta potenzialità inaspettate e infinite. Quando recitiamo Daimoku come insegna il Daishonin, con tutto il nostro essere, riusciamo a percepire la nostra natura di Budda, la natura della vita e dei fenomeni, e a pensare, parlare e agire in accordo con essa. Non diventiamo superuomini o superdonne, ma donne e uomini che, sforzandosi nella ricerca della felicità propria e degli altri, manifestano l'infinito potere della vita. I benefici allora sono fiori che sbocciano, sono potenzialità che impariamo a riconoscere e usare, che mostriamo a chi come noi non smette di cercare e si fida, si affida. Ogni giorno cercando la nostra Buddità possiamo sperimentare e mostrare ciò che umanamente è possibile. È possibile essere fortunati. È possibile trovare un lavoro che ci soddisfi, trasformare una relazione che crea sofferenza, incontrare l'amore. È umanamente possibile guarire, non sentirci schiacciati dalla malattia, affrontare persino la morte con gioia. È possibile anche non avere paura e affrontare il dolore con forza, accettare il nostro karma negativo e volergli quasi bene, accoglierlo come occasione per imparare ancora più profondamente l'infinita libertà che deriva dalla fede. È addirittura possibile riuscire a influenzare il nostro ambiente, decidere che il nostro quartiere, il nostro luogo di lavoro, la nostra cittadina, il nostro paese diventino terre felici. Che le brutture o le ingiustizie scompaiano, si trasformino. Come mi raccontava giorni fa una mia cara compagna di fede. Che quando andò ad abitare vicino a Roma iniziò a frequentare un gruppo che si trovava in un luogo tetro, buio, una specie di dormitorio comune e la sera c'era paura a tornare a casa, tra spacciatori, visi poco raccomandabili che quasi la scrutavano, una volta ci fu persino uno sparo.
Mi racconta che pregava per essere protetta e che in quel periodo venne Ikeda in Italia e le arrivarono le sue parole, scritte su un ventaglio: "Gioia per tutte le strade di Roma". E la vera gioia - mi dice - è quella della pratica. Così cominciò a recitare Daimoku col desiderio di far diventare realtà quelle parole di Ikeda, decise che in quelle strade la sera avrebbe incontrato altri praticanti che uscivano dalle riunioni, invece che spacciatori o gente con la pistola. Che quelle strade sarebbero diventate belle. Sono passati tanti anni, mi racconta, e oggi le cose sono cambiate. Ci sono molti gruppi, tanti lampioni che illuminano i marciapiedi, tante facciate di palazzi ripulite, un teatro, una biblioteca, un cinema, e la sera ogni tanto incontra davvero altri buddisti che tornano a casa dalle riunioni.
Non è una magia, anche se a volte un poco lo sembra. È il frutto di una meravigliosa battaglia che iniziamo a intraprendere contro tutto ciò che fa da ostacolo alla felicità nostra e degli altri. Contro quella che il Buddismo chiama oscurità fondamentale. Ogni volta. Ogni volta che ci sentiamo deboli o sopraffatti dalle circostanze. Ogni volta che recitare Daimoku sembra uno sforzo incredibile. Ogni volta che ci sentiamo infelici. Ogni volta che qualcuno soffre.
La felicità a cui da sempre aspiriamo allora prende contorni inaspettati, non si raggiunge chissà dove, chissà quando. È piuttosto un punto da cui ripartire sempre, un continuo imparare, esercitandosi quotidianamente a scoprire e manifestare la propria Buddità. Sì, perché la cosa più bella è che la felicità posso impararla. Recitando Daimoku. Decidendo di essere felice. Sforzandomi di liberare la mente e la vita dalla sfiducia, dalla superficialità, dal male, dalle risposte facili e dalle illusioni. Posso impararla seguendo le orme di chi ci ha preceduto. Con il coraggio di credere alle sue parole, di metterle in pratica. Malgrado i miei difetti, i limiti, gli errori, posso ogni giorno costruirla. Per tutta la vita.
È questo che ho deciso di fare. Quando quel giorno mi trovai tra le mani il Gohonzon che mi era stato affidato e che avrei portato a casa. Decisi di usare tutta la mia vita per continuare a fare quello che Nichiren faceva, per imparare e insegnare agli altri la felicità. E non era un semplice cambiamento di rotta, era come ritrovare me stessa, ritrovare i miei più antichi sogni, il senso della mia esistenza, persino della sofferenza. Questo cerco di continuare a decidere ogni giorno, ogni giorno cercando di riassaporare la gioia.

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Imparare la felicità

L'unico investimento vincente

di Maria Lucia De Luca

Parto da un assunto: conseguire l'Illuminazione nella forma presente vuol dire vivere con la piena consapevolezza della propria dignità di Budda, e per risvegliarsi profondamente a tale dignità bisogna lottare contro la natura oscurata intrinseca alla vita, che la nasconde e la opprime.
Ciò significa che questa dignità non emerge da sola ma va chiamata con forza, e a questo serve recitare Nam-myoho-renge-kyo davanti al Gohonzon. «La nostra voce che recita il Daimoku - scrive Daisaku Ikeda - è la voce della fede incrollabile e dello spirito di ricerca, che demolisce l'oscurità interiore e attiva la condizione vitale della Buddità» (BS, 119, 29). Qui per spirito di ricerca non si intende un'indagine mentale o intellettuale, bensì un'azione concreta per cercare un'altra condizione vitale, un'altra saggezza.
Sta in ciò la vera grandezza della recitazione di Nam-myoho-renge-kyo: permettere a ogni persona - veramente a ogni persona, senza prerequisiti - di manifestare la stessa condizione vitale del Budda. Non bisogna avere particolari qualità o consapevolezze, ma semplicemente mettere in pratica la fede recitando Daimoku. C'è un'equivalenza sostanziale tra fede e recitazione del Daimoku, perché la nostra è una fede concreta, non mentale o teorica. L'azione fisica di recitare Daimoku concretizza la fede, anche se con la mente non ci crediamo. Come il cibo naturalmente alimenta il nostro corpo, così il Daimoku nutre la nostra Buddità.
La preghiera al Gohonzon è l'azione con la quale affermiamo di essere intrinsecamente entità di Myoho-renge-kyo. «In questo senso la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo è anche la "voce della Buddità". Per questa ragione dovremmo sempre cercare di recitare un Daimoku risonante, con un ritmo vibrante e vigoroso come quello di un cavallo al galoppo» (Ibidem).
Spesso si tende a distinguere tra l'essere fortemente determinati e "affidarsi al Gohonzon". Si pensa che la determinazione sia un atteggiamento mentale, mentre la recitazione del Daimoku una sorta di atto meccanico che non implica scelte o decisioni. In realtà invece la vera determinazione, o decisione, è quella di "investire" sul Daimoku - ciò significa "affidarsi" - costruendo e mantenendo la convinzione che è la preghiera che apre la strada per ogni vittoria.
«Dovreste comprendere - scrive Nichikan Shonin, ventiseiesimo patriarca della Nichiren Shoshu - che "esercitarsi con coraggio e diligenza" (yumyo shojin) si riferisce alla fede e alla recitazione del Daimoku. Significa quindi recitare il Daimoku dell'insegnamento originale. "Con coraggio e diligenza" è riferito alla fede. Perciò un commentario afferma: "Yu (con coraggio) significa agire con coraggio; myo (con diligenza) significa utilizzare tutta la propria saggezza. Quindi "con coraggio e diligenza" significa far emergere coraggiosamente e a pieno il potere della fede. Shojin (esercitarsi) significa recitare Daimoku» (BS, 119, 45).

Il Daimoku "apre" la saggezza del Budda
Esiste nel Buddismo un principio meraviglioso di cui forse non si parla mai abbastanza: la fusione di realtà e saggezza (kyochi myogo). Così lo enuncia il Daishonin: «Realtà è la vera natura di tutti i fenomeni e saggezza significa illuminare e manifestare questa vera natura. [...] Quando realtà e saggezza si fondono, si ottiene la Buddità nella propria forma presente» (Gli elementi essenziali per conseguire la Buddità, RSND, 1, 662).
Per spiegare a livello generale questo principio il presidente Toda diceva: «Se fare il droghiere è la tua realtà, lavorare duramente per far prosperare i tuoi affari equivale a manifestare la fusione di realtà e saggezza» (citato in La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, p. 110). Per noi che vogliamo far emergere la realtà della nostra vita, "lavorare duramente" significa praticare con coraggio e spirito di ricerca.
La nostra Buddità inizia a risplendere quando abbiamo la saggezza di comprendere che è quella la realtà della nostra vita. È il Daimoku che fa sgorgare da dentro di noi la nostra saggezza del Budda, che scorre poi nella nostra vita e ne illumina (nel senso che irradia di luce) la sua realtà oggettiva, cioè la Buddità. Se una luce è interna, nascosta, pur se presente non può illuminare, solo se fuoriesce può farlo.
Realtà oggettiva e saggezza soggettiva sembrano due cose separate, ma tra di loro c'è una sostanziale unità. Consideriamo ad esempio un terreno che abbonda di sorgenti d'acqua sotterranee. Il terreno di per sé è ricco di acqua (è questa la sua realtà oggettiva), ma solo quando le sorgenti vengono individuate e fatte zampillare esso viene irrigato. La nostra vita è la Buddità, ma solo attraverso la recitazione del Daimoku, la preghiera al Gohonzon, possiamo farla emergere e utilizzarla in forma di saggezza.
Come fa una persona a diventare Budda? Trasformando la propria mente - il proprio cuore - da illusa a illuminata. Ciò che rende possibile questa trasformazione è il Daimoku. Una mente illusa, dice il Daishonin, è come uno specchio appannato, che mostra una realtà offuscata, mentre uno specchio pulito la riflette perfettamente.
L'atto di lucidare è indispensabile per ripristinare la proprietà riflettente dello specchio, e inoltre non è sufficiente pulirlo una volta soltanto, ma dobbiamo continuare a lucidarlo.
Recitare Daimoku è l'azione che pulisce lo specchio appannato della nostra vita.

Quando la vita si appanna
Ci sono dei periodi di "bonaccia" in cui la vita appare ferma, e sembra di dover fare degli sforzi immani per spingerla un pochettino avanti. Si cerca dentro di sé la forza, la saggezza, si cercano idee, entusiasmo, ma... non succede niente. Quei momenti in cui si smarrisce la motivazione, si perde il "voto", si cerca di riparare ma... rimane tutto un po' mentale.
«Tuttavia - scrive il Daishonin - io feci il voto di risvegliare in me il potente cuore dell'Illuminazione e di non retrocedere mai» (L'apertura degli occhi, RSND, 1, 212).
Come si fa a rinnovare il voto? E a farlo con sincerità?
Sento che devo fare un salto, ma quale? Cosa devo migliorare, cambiare? Cuore e testa non rispondono, calma piatta. Tocca scavare a fondo, e con questa intenzione vado davanti al Gohonzon. Da questo deserto deve nascere del nuovo, anche se ancora non so cosa sia, anzi proprio perché non lo so sarà meraviglioso e mi stupirà. Rinnovo il mio centro, il Buddismo: «Il Buddismo è come il corpo e la società come l'ombra», dice il Gosho (Confronto tra il Sutra del Loto e gli altri sutra, RSND, 1, 923). Mi sforzo di andare avanti, "con coraggio e diligenza".
E mentre prego mi torna alla mente il mio grande dolore e il grande beneficio della pratica buddista, aver affrancato la mia vita da quel dolore. Provo un'immensa gratitudine per chi mi ha fatto shakubuku. E decido, a mia volta, di fare shakubuku per far sì che altri non abbiano a soffrire di quel mio stesso dolore.
Tutto si alleggerisce, in un attimo. Ho rinnovato il mio voto.

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La voce che recita Daimoku

Per sconfiggere paura e negligenza

di Gianna Mazzini

Cosa serve per essere buddista?
Fare Daimoku e Gongyo mattina e sera.
Senza paura. Senza disattenzione e negligenza.
"Senza" vuol dire: passare attraverso. Non "evitare", o "fare malgrado", ma passare attraverso.
Io le conosco entrambe: paura e negligenza. Sono parenti strette, nella mia esperienza.
Quella che conosco meglio è la negligenza. Vale a dire non avere una cura continua della vita, sbrindellare i giorni, non avere attenzione alle cose e alle persone, trascurare i gesti di cura, il tempo si inceppa e non fluisce più limpidamente. Pozzanghera.
Da quando pratico la mia cura è non trascurare mai Daimoku e Gongyo.
Perché una cosa ho imparato subito: che puoi sapere tutto della dottrina buddista, condividere tutto l'impianto teorico, la legge di causa ed effetto, il karma, i dieci mondi, le teorie più fascinose e sorprendenti, ichinen sanzen e tutta la meraviglia della dottrina; puoi saperne parlare con dovizia e passione, ma se alla base della giornata non ci sono Daimoku e Gongyo il resto è accessorio. Come l'aria condizionata per una macchina che non s'accende.
La preghiera è il cuore e il senso della giornata.
È il ritmo, la protezione, la musica.
Tutta la mia vita dovrebbe essere lì in quel momento, nella posizione che assumo, nella cura per le offerte al Gohonzon, acqua e frutta, nella direzione della mia mente e del mio cuore mentre suono la campana. Nella voce che va insieme alla mia schiena dritta e al pensiero. Tutto insieme e io compatta e unita.
Ecco, la negligenza è la mancanza di questa compattezza. È la sciatteria e l'indolenza.
È quando prende il sopravvento altro, in genere le urgenze, le preoccupazioni o i pensieri, e allora sono quelli a dettare il ritmo della giornata, diventano loro la musica.
Negligenza è quando dico: «Devo fare Gongyo». E in quel momento un possibile, autentico, dialogo con l'universo si riduce al secco adempimento di un compito.
Succede una cosa strana in questo modo: che un diritto diventa un dovere, che una gioia diventa un'abitudine. Si avvia un processo di impoverimento sottile che, quasi senza accorgersene, può svuotare di senso anche i gesti più importanti.
È un vizio molto presente nella nostra cultura: separare la forma dalla sostanza. Vederle quasi opposte. E se proprio si tratta di scegliere, prevale la forma.
Sparisce il "desidero" e resta il "devo". Resta la regola sparisce il senso.
Il Buddismo non separa mai forma e sostanza. L'atteggiamento fisico, la postura non sono fattori estranei all'atteggiamento interiore, anzi lo rappresentano. Pregare o no, nel Buddismo, è una questione di sostanza strettamente legata alla forma. Non basta che io preghi. Corpo, mente e cuore devono essere tutti lì, insieme. Compatti. La mia attenzione e lo sguardo, il tono della voce. Ma anche l'attenzione a non disturbare la preghiera degli altri. È un momento solenne. Anche quando sono sola.
Il modo in cui tratto il luogo della preghiera, l'ordine e la pulizia, così come la disposizione del butsudan rappresentano anche la posizione che do alla fede nella mia vita.
La pratica è un esercizio continuo di attenzione, chiede di essere presenti, attenti alla realtà più profonda che è la continua trasformazione di ogni aspetto e fenomeno.
Ho imparato nel tempo a riconoscere la negligenza come una forma di ottusità, di mancanza di rispetto per me e per gli altri, l'ho spogliata di ogni forma di illusoria libertà. Se trascuro qualcosa che ho scelto non sono libera.
La negligenza è perdere di vista la sostanza, perdere tempo, non affrontare. Esserci ma non davvero, non del tutto.
La negligenza assomiglia alla paura, anzi nasce dalla paura.
E l'unico modo per sconfiggerla è passarci attraverso, attraversarla.
Passare attraverso è il segreto, ed è una cosa che si impara: significa avere la forza di non cercare scorciatoie, non avere strategie nella mente, non distrarre e non distrarsi, stare lì, nel momento, anche quando fa male, anzi, soprattutto quando fa male.
Questo navigare è il coraggio, coincide con il coraggio.
La visione consueta del tempo, quella mondana, quella lineare - cioè il passato zeppo di esperienze che pesa immobile come un macigno o qualcosa a cui tornare con rimpianto, e il futuro ancora inesistente che si proietta davanti a noi come una righina esile e dritta - non basta, non serve.
Dice il presidente Ikeda nella Proposta di pace del 2010: «"Ora" è il punto di partenza di tutto. Il qui e ora è il fondamento e il cardine, l'alfa e l'omega di tutti gli aspetti dell'attività umana».
Solo qui e ora io posso cambiare. Il resto, passato e futuro, non sono un fattore decisivo. Solo qui e ora io posso rompere l'inerzia e l'illusione, attraversare negligenza e paura e trasformare la mia vita.
Se c'è qualcosa che mi angustia e che voglio trasformare da tanto, se c'è qualcosa che non ho ancora superato e continua a ripresentarsi vuol dire che non l'ho ancora affrontato veramente. C'è sempre una ragione, ognuno ha la propria, personalissima, ragione, ma nel profondo l'origine è per tutte e tutti sempre la stessa: la paura.
Paura che prende la forma della negligenza: allora trascuro, diluisco, non affronto. Il coraggio, invece, è insistere, è assiduità.
"Assiduità", "continuare", sono parole un po' squalificate nel gergo della cultura corrente, parole diventate fuori moda come onestà, serietà e diligenza.
Vorrei tanto ridare onore alle parole fuori moda che descrivono un atteggiamento corretto.
L'onestà, nel Buddismo, non è l'ingenuità del ligio, è il frutto della consapevolezza della Legge di causa ed effetto. Esprime un comportamento, un'intenzione, una direzione.
È parola nobilissima "onestà".
La serietà parla dell'importanza della scelta nel mondo della fede. Scegliere una strada spirituale è una cosa seria, seria nel senso di profonda, importante, da onorare.
E poi c'è "diligenza": la parola dalla quale sono partita quando ho pensato a questo articolo. Parola antica, che sembra più adatta a un film western che al mondo della fede. Eppure l'assalto alla diligenza per derubare la carovana lungo la traversata è una metafora che si adatta comunque: solo che, come sempre nel Buddismo, predatori e predati sono molto legati, quasi coincidono. Perché solo io posso attentare a me stessa, derubarmi della possibilità di diventare felice. Solo io posso impedirmi il privilegio di vivere con coraggio e diligenza. Stop. Desidero trasformare ciò che mi manca in ciò che serve.
Diligente, come quando desideravo imparare a leggere e a scrivere perché intuivo quanta ricchezza mi avrebbe consentito. Diligente, mentre prego, nell'imparare l'istante, unico stralcio di tempo che esiste davvero e per sempre.

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Passare attraverso

Nobili Budda che ci sostengono

di Alessandra Fornasiero

L'esistenza del sangha, la comunità dei credenti, è un aspetto fondamentale e imprescindibile per portare avanti la nostra pratica buddista. Avere dei buoni amici che ci sostengono è essenziale per mantenere il corretto atteggiamento nella fede fino alla fine, e poter vincere nella nostra vita.
Nichiren Daishonin scrive: «Vi siete intrattenuto con un amico nella stanza delle orchidee e vi siete raddrizzato come l'artemisia che cresce fra la canapa» (Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1, 24).
I nostri compagni di fede sono "amici nella stanza delle orchidee", preziosi tesori che influenzano positivamente la nostra vita.
Scrive il presidente Ikeda: «Perché pratichiamo il Buddismo del Daishonin? Per costruire un io incrollabile come una montagna, per poter superare senza paura qualunque lotta e difficoltà. Questo è ciò che significa conseguire la Buddità in questa esistenza. Tuttavia nell'Ultimo giorno della Legge, colmo di influenze negative, è praticamente impossibile portare avanti la nostra pratica buddista con successo da soli. Il Daishonin afferma: "Un albero che è stato trapiantato non crollerà, anche in presenza di forti venti, se vi è un solido palo che lo sostiene. [...] Anche una persona debole non cadrà se coloro che la sostengono sono forti, ma una persona di notevole forza, se si trova sola, potrebbe cadere lungo un sentiero accidentato" (I tre maestri del Tripitaka pregano per la pioggia, RSND, 1, 531)» (BS,146, 66).
Quante volte mi sono rialzata grazie all'incoraggiamento di una compagna, di un compagno di fede?
Quante volte, nei momenti di stanca o svogliatezza, sono riuscita anche semplicemente a recitare più Daimoku, perché insieme a me c'era qualcun altro a recitare? Quanta verità e ispirazione in ogni esperienza di fede che ho sentito raccontare! Così da ogni vita che fiorisce rinasce nuova vita...
La mia rivoluzione umana è fatta di tutte le persone che in questi anni sono cresciute insieme a me. Mai come nel momento della difficoltà estrema, quando si è trattato di lottare per vivere o morire, ho sentito i compagni di fede radunarsi intorno a me, come Bodhisattva della Terra che spuntavano ovunque, come una rete che è sempre stata lì, invisibile agli occhi, che si manifesta in tutta la sua forza nel momento del bisogno, emergendo imperiosa, all'improvviso, come un'onda potente che ti solleva dalle profondità dell'oceano della vita.
In quei giorni ho toccato con mano che i compagni di fede sono davvero nobili Budda che ci sostengono. È proprio vero che le nostre esistenze sono tutte collegate al livello più profondo, che i discepoli di Nichiren dimorano tutti insieme con i loro maestri nell'immenso stato vitale della Buddità, dal tempo senza inizio...
Se così non fosse, non ti raggiunge un sms nel cuore della notte da qualcuno che chiede notizie, mentre lottando con il sonno, ancora all'alba, continua a recitare. Non ti arriva il messaggio capace di riaccendere la speranza, da una compagna di fede che neppure incontri mai: «Chissà che tesoro prezioso ti aspetta dietro tutto questo»... Messaggi che non dimenticherò mai, scoccati nella prima notte, come dal cuore della vita.
Intanto Leo era in coma e dialogava con il suo maestro. Lo so perché dopo, svegliandosi, è la prima cosa che mi ha detto. Ma io ero lì e ho visto tutto. Ho visto i membri arrivare da ogni parte di Roma e ho sentito il Daimoku di tutti sollevare la sua vita insieme con la mia. Ho capito che quest'onda di Daimoku aveva la forza necessaria per strapparlo alla morte, per ributtarlo dentro la sua missione di bodhisattva, e così è stato. Non ne ho più dubitato.
Questo è il cuore della Soka Gakkai, questo è il cuore dei membri, e il beneficio più grande per me è aver avuto modo di percepirne la pulsazione, vasta quanto l'universo, anche solo una volta nella vita. Non lo dimenticherò mai.
La Soka Gakkai è davvero il regno dei buoni amici descritto dal Daishonin. È l'organizzazione meravigliosa in accordo con l'intento e il mandato del Budda. Provo una gratitudine immensa per tutta questa ricchezza, questo dono meraviglioso che ho ricevuto senza neppure doverlo cercare.
Nichiren Daishonin scrive: «Quando il pino fiorisce, il cipresso ne è lieto; quando l'erba avvizzisce, le orchidee piangono. Persino gli alberi e le piante insenzienti condividono le gioie e i dolori degli amici» (WND, 2, 964).
Il nostro sangha è il tesoro più prezioso. È un castello di persone che lottano insieme per diventare felici. Nella nostra unità di discepoli che lottano per realizzare kosen-rufu scorre la linfa vitale della fede, la sorgente di tutte le vittorie.
Sempre più spesso Sensei ci dice che ora sta lasciando tutto a noi... Penso all'immagine di maestro e discepolo come l'ago e il filo: quando l'ago si sarà sfilato, ci sarà il filo a tener salda la trama. Non è questo il modo migliore per ripagare il nostro debito di gratitudine nei confronti del maestro? Avere a cuore questa meravigliosa organizzazione, curarne l'armonia, costruire e preservare ogni giorno una salda unità, forte e profonda, tra compagni di fede...
Non è questo il vero scopo della propagazione di Nichiren? Allora, senza alcun dubbio, «anche il grande desiderio di kosen-rufu potrà realizzarsi» (Diversi corpi, stessa mente, RSND, 1, 550).

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Compagni di fede

Con il voto di realizzare kosen rufu

di Lodovico Prola

Essere buddisti sembrerebbe piuttosto semplice. Tutto ruota attorno a un'unica regola, se di regola si può parlare, tutto si riduce a un solo "comandamento": fare Daimoku.
Mi piacerebbe analizzare il significato più ampio che si cela dietro questa espressione alla luce del Gosho e dei recenti scritti del presidente Ikeda.
Come molti sanno, la nostra pratica innanzitutto consiste nel fare Daimoku, recitare Nam-myoho-renge-kyo, e leggere il sutra mattina e sera.
Ma Nichiren Daishonin afferma inoltre: «Oggi, nell'Ultimo giorno della Legge, il Daimoku che recita Nichiren è diverso da quello delle epoche precedenti. È Nam-myoho-renge-kyo che include la pratica per sé e la pratica per gli altri» (Le tre grandi Leggi segrete, WND, 2, 986). Praticare il Buddismo correttamente significa impegnarsi nello shakubuku, insegnando quotidianamente agli altri «come meglio puoi anche una sola frase o un solo verso» (Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 342). Basta averlo fatto una sola volta per capire che la pratica con questo semplice ingrediente è decisamente diversa dalla sola "pratica per sé". Quando pratichiamo il Buddismo con lo stesso spirito e le stesse azioni del maestro manifestiamo immediatamente la vita dei bodhisattva e l'esistenza scorre allo stesso tempo con intensità e leggerezza, la vita va veloce, si riempie di valore e si muove con decisione verso la realizzazione dei nostri scopi.
Scrive a tal proposito Daisaku Ikeda in La nuova rivoluzione umana: «La peculiarità dei bodhisattva si trova nel "voto" che consiste nella "propagazione del Sutra del Loto". Perciò è importante recitare Daimoku con il "voto" di realizzare kosen-rufu, cioè desiderando con tutto il cuore di rendere felici tutte le persone accanto a noi. Per essere più precisi, una recitazione priva del "voto" non è quella dei bodhisattva emersi dalla terra. [...] Shin'ichi desiderava che tutti i compagni di fede godessero di enormi benefici e diventassero felici superando ogni sofferenza a cominciare dalla malattia e dai problemi economici. E il punto fondamentale per realizzare tutto ciò era la preghiera con il "voto" di realizzare kosen-rufu. Ognuno di noi è afflitto da problemi di vario tipo, ma per superarli diventa assai importante decidere profondamente che "è per kosen-rufu". Per esempio, se uno soffre di una malattia, un grande potere in grado di superarla è il voto che afferma: "Io dimostrerò a tutti i costi la correttezza del Buddismo superando questa malattia. Voglio sviluppare una grande forza vitale che mi permetta di agire per kosen-rufu senza impedimenti". Se una persona recita Daimoku vedrà certamente dei benefici. Tuttavia, nel momento in cui la preghiera di voler guarire combacia con un profondo senso di missione, mette in moto un potente impulso verso la riforma radicale della propria vita, verso la rivoluzione della propria forza vitale e la trasformazione del proprio destino. Quando uno si impegna nella recitazione formulando il "voto" di kosen-rufu, nel suo cuore sgorga la grande condizione vitale del Bodhisattva della Terra e nel suo corpo pulsa la vita di Nichiren Daishonin spalancando il mondo di Buddità nella propria esistenza. In questa dinamica c'è la rivoluzione della condizione vitale che rende possibile un'avvincente trasformazione del proprio destino. [...] È per questa ragione che attraverso questa azione si può superare e risolvere ogni sorta di sofferenza individuale. Quando sorge il poderoso sole della vita del Bodhisattva della Terra, il buio delle sofferenze scompare, permettendo a ognuno di percorrere coraggiosamente e fino in fondo la via maestra verso la felicità» (traduzione provvisoria, di prossima pubblicazione su Il nuovo rinascimento).
Credo addirittura che chi ha "la stessa mente di Nichiren", e quindi il suo medesimo desiderio, reciti Daimoku con lo scopo di riuscire a parlare con sincerità e convinzione della pratica buddista ad amici e conoscenti, recitando Nam-myoho-renge-kyo per toccare il loro cuore. Credo sia da questa prospettiva che il Daishonin affermi «se hai la stessa mente di Nichiren devi essere un Bodhisattva della Terra» (Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 341).
Il testamento del Budda è la realizzazione della pace nel mondo attraverso la diffusione del Buddismo (kosen-rufu). Se ci dimenticassimo di questo compito e praticassimo solo per il nostro tornaconto, il Buddismo di Nichiren ne uscirebbe svilito, direi addirittura privo del suo senso originale. Scrive infatti il Daishonin: «Coloro che diventano discepoli di Nichiren e credenti laici devono rendersi conto della profonda relazione karmica che condividono con lui e propagare il Sutra del Loto con il suo stesso atteggiamento» (Lettera a Jakunichi-bo, RSND, 1, 883).

Un'ultima considerazione per rispondere a coloro che vedono nello shakubuku una forma di proselitismo. Ebbene, il pacifismo praticato dai buddisti non è teorico o contemplativo. Il discepolo di Nichiren Daishonin è una persona impegnata concretamente nella società, è un pacifista attivo. Desideriamo un mondo migliore dove sia rispettata la sacralità della vita e tutti i diritti che ne sono il corollario. Desideriamo la felicità di chi ci circonda e offriamo loro un mezzo per realizzare tutto questo. Si tratta, come ha confermato l'Osservatorio delle Nazioni Unite, del più grande movimento pacifista che abbia mai conosciuto la storia dell'umanità. Non proselitismo quindi ma pacifismo attivo, non proselitismo quindi ma rivoluzione. Una rivoluzione differente.

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Per sé e per gli altri

in prima persona

Recitai i miei primi tre Daimoku il 31 dicembre 1998 e mi risvegliai.
Prima di allora la mia vita assomigliava molto alla non-esistenza. Per trentadue anni mi sono sentita inadeguata a vivere. Come una cieca che brancola nel buio, che urta tutti e che tutti urtano e fanno cadere senza nemmeno voltarsi a vedere cosa sia successo. E così, impaurita, ho cercato di diventare invisibile, e di non dare fastidio a nessuno. Fino a quel sansho.
Da allora, tra dubbi, belle esperienze, pause e riprese, ho praticato per dieci anni finché un evento cruciale mi ha consentito di cambiare rotta definitivamente e felicemente. Ora capisco che il Daimoku fa emergere il tuo cuore anche se, lì per lì, non te ne accorgi.
A lungo ho praticato facendo tanti sforzi e piccoli passi, non riuscendo a superare le mie ferree resistenze. Finché, nel gennaio 2009, si è riaffacciata la depressione. Questo mi ha profondamente abbattuta perché non mi capitava più da anni e l'ho interpretata come la sconfitta definitiva. Proprio allora ho ricevuto un consiglio di fede da una responsabile che aveva capito che la pratica era per me, ormai, solo un rifugio. Ancora una volta cercavo l'invisibilità. Mi disse: «Studia! Non vedi che non sai interpretare la realtà, non riconosci i demoni, non sai usare gli ostacoli». Mi consigliò di partecipare alla preparazione degli incontri di studio con gli altri e di pormi un obiettivo. Sentendomi morire per via della depressione e pur terrorizzata dal parlare in pubblico non potei che bere l'amara medicina. «Il mio obiettivo - scrissi sul mio quaderno - è capire come funziona la vita, non averne più paura e agire efficacemente». Ci ho messo dodici anni, ma grazie allo studio è come se avessi preso un ascensore diretto verso il centro della vita. La mia vita.
Fede-pratica-studio è una terzina in cui ogni elemento ha lo stesso peso degli altri due. Certo che avevo i libri e l'abbonamento alle riviste, certo che leggevo, sottolineavo anche, ma poi non mi restava nulla. In questi ultimi due anni, invece, ho imparato a cercare minuziosamente nei Gosho le risposte alle mie domande, e grazie a un intenso Daimoku ho potuto filtrare ogni frase attraverso la mia vita. Dopo un po' ho iniziato a vedere le cose in profondità e questo corpo a corpo mi ha messo di fronte a situazioni intense che sto affrontando con un nuovo coraggio dato dall'entusiasmo di aver acquisito la saggezza trasmessa dai miei maestri di cui ho conosciuto l'infinita umanità e di aver creato un profondo legame con gli amici con cui pratico e studio.
Così ho approfondito la fede e reso costante la pratica, e quando ho desiderato di vedere la mia Buddità è accaduto, ma ho capito che esiste la Buddità, non "la mia Buddità". E sempre sfidandomi in una cosa che mi fa paura, guidare Daimoku davanti a molte persone, ho sperimentato che un proprio momento di oscurità si può dissolvere cercando di sentire la Buddità negli altri, come nella rete di Indra.
Ho sperimentato la mente che osserva se stessa e sono vigile. Riconosco gli ostacoli interiori appena si presentano, a volte riesco persino a prevedere quelli esterni, e so che con una profonda decisione e tre Daimoku capovolgo la situazione istantaneamente, perché i demoni sono spaventosi ma molto fragili. Ho sperimentato che soprattutto i pensieri, oltre alle parole e alle azioni, possono concretamente incidere e trasformare l'ambiente e i risultati che otteniamo.
Da questa base di consapevolezze interiori sono scaturite le azioni adatte che mi hanno consentito di fare il balzo del leone. Ho sanato una serie di relazioni-dipendenze in cui ero imprigionata: familiari e di coppia. Grazie a una malattia sto vincendo la paura dell'acqua, il mio desiderio impossibile di sempre. E dopo tante delusioni lavorative che mi avevano portato a chiudermi in casa impaurita, ho anche ritrovato un lavoro. Avevo appena capito di essere pronta a farlo che la telefonata di un'amica me lo ha offerto. E, infine, ho finalmente accettato la responsabilità di un gruppo: non so bene in cosa consista la sfida ma certo sarà una bella avventura. Così è rinata la mia vita.
Come dice Nichiren in La scelta del tempo: «Come semi bruciati che inaspettatamente germogliano e producono fiori e frutti» (RSND, 1, 480). (S. T.)

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E poi ho aperto gli occhi...

in prima persona

«Fragranza interna vuol dire che il profumo della natura di Budda si espande nella nostra vita, come l'incenso che brucia». Questa frase, detta da Katsuji Saito l'estate scorsa a una lezione di studio alla quale partecipai, mi rimase impressa nella testa... Bisogna perseverare nella nostra preghiera fino a quando i tesori del cuore non diventano visibili agli altri.
C'era qualcosa che non tornava, ma non nelle parole ascoltate, dentro di me.
Ho fatto per tre mesi tre ore di Daimoku al giorno, e quel profumo di Buddità non lo sentivo per niente e probabilmente non lo annusava neanche chi mi stava intorno.
Più facevo Daimoku e mi dedicavo alla cura degli altri più ero infelice. Non c'era niente che mi facesse provare gioia.
Superficialmente ero contenta se qualcuno vicino a me godeva dei benefici della vita, ma poi il mio pensiero era: «E io? Perché non a me? Io mi sforzo, io sono una "brava"...» eppure qualsiasi cosa ottenessi la perdevo, in un secondo.
Quella vasta condizione vitale di Buddità, quella sensazione di libertà che si prova recitando Daimoku, io non la sentivo. E più il mio pensiero era rivolto al passato, a quello che avevo perso e a tutti gli errori che avevo commesso, più soffrivo.
Era come se tra me e il Gohonzon ci fosse un muro, uno strato che io non riuscivo ad abbattere. Non riuscivo a "entrare" nel Gohonzon, a sentirmi funzione di Myoho-renge-kyo.
Ero convinta che per tutta la vita avrei dovuto fare quella quantità di Daimoku al giorno. Altrimenti sarebbe stato impossibile anche alzarsi dal letto.
A un certo punto, quest'estate, ho capito. Ho individuato il mio punto, quello che dovevo bandire dalla mia vita.
Ci sono arrivata ascoltando un buon consiglio, di quelli che irritano l'orecchio e che probabilmente sono stata disposta ad ascoltare proprio perché tutto quel Daimoku mi stava sostenendo.
Quella separazione che c'era tra me e il Gohonzon era il giudizio, nei confronti miei e degli altri. Quando mi sedevo per recitare portavo con me tutti quei «lui non cambierà mai, io ho fallito, quella situazione non si sbloccherà mai».
Era un dubbio, grande, che schiacciava tutto. Un dubbio di fede. Tutto mi è diventato chiaro. Per me il potere del Daimoku e della Legge mistica era limitato, coincideva con la mia piccola visione delle cose. Davo pochissima fiducia alla possibilità del cambiamento mio e di chi mi stava vicino. «Quello è collerico, quello è stupido, io sono un'inconcludente». Punto. Non era prevista nessuna possibilità di cambiamento e miglioramento. Nessuna speranza.
Questo tipo di atteggiamento mi aveva portato anche ad allontanarmi da tante persone, a creare dissapori, rimasti irrisolti.
In quel preciso momento, nell'individuare quel mio grande male, ho sentito di aver vinto. Quando la forza della Legge mistica inizia ad agire nella vita di ognuno di noi si prova la gioia dei Budda e dei bodhisattva. Proprio quella gioia che non si può provare se si viaggia nei tre cattivi sentieri.
Esattamente quel tipo di felicità ho provato io. E quel senso pesante e assoluto di fallimento che ha sempre abitato la mia vita è andato via, indipendentemente dall'ottenimento dei benefici materiali.
La ricchezza interiore, che all'inizio è invisibile, continuando a sforzarci diventa visibile agli altri. E quel profumo di cui parlavo all'inizio si è diffuso nella mia vita, ed è arrivato a farsi sentire a due care amiche. Mi hanno chiesto di praticare perché vedevano in me una grande forza vitale, nonostante stessi attraversando tante difficoltà. Hanno iniziato a praticare costantemente, a partecipare alle riunioni e a gennaio hanno ricevuto il Gohonzon. Erano sei anni che non facevo shakubuku.
Il beneficio della recitazione del Daimoku è richiamare la natura illuminata nostra e di tutto ciò che è intorno a noi. Avviene uno scambio tra vita e vita. (L. G.)

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Un muro mi separava dal Gohonzon

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«L'uovo di un uccello all'inizio contiene solo acqua, ma da questa acqua, senza l'intervento di nessuno, si sviluppano un becco, due occhi e tutto il resto e infine un uccello che vola nel cielo» (RSND, 1, 914). Così descrive il miracolo della vita Nichiren Daishonin in Lettera a Niiike. Ma per fare il miracolo per intero serve che quella perfezione ellittica e quasi astratta e teorica dell'uovo non rimanga tale: perfetta e finita, conclusa in una forma senza movimento, azione.
«Anche noi, benché abbiamo un corpo vile - continua il Gosho - chiuso nel guscio dell'ignoranza, covati dalla recitazione di Nam-myoho-renge-kyo sviluppiamo il becco delle trentadue caratteristiche maggiori del Budda e le piume degli altri ottanta segni minori e possiamo volare nel cielo del vero aspetto di tutti i fenomeni e della realtà di tutte le cose».
Il mezzo miracolo che manca spesso alla soluzione di una sofferenza è il volo. Il miracolo è nella rottura del guscio. Il miracolo è che la covata della preghiera, quel caldo benefico e vivificante, costruisca e rinforzi la punta acuminata di un'azione che rompa la membrana apparentemente coriacea del guscio. Per farci abbandonare la confortevole liquidità del limbo senza errori che è la vita che non agisce. Spesso, davanti ai desideri verso i quali vogliamo incamminarci, ai problemi che dobbiamo affrontare, rischiamo di essere questo: una forma perfetta, una potenzialità infinita ma inespressa. Per fare di noi la completezza serve il Daimoku che ci faccia sviluppare il nostro potere ma poi bisogna metterci il becco, quello dell'azione.
"Le istruzioni per una pratica corretta" (la quantità di tempo decisa per la recitazione, lo studio necessario a guidare la nostra saggezza) sono una ricetta perfetta che ancora non ha conosciuto il tocco d'autore dell'ingrediente personale, la magia che renderà unica la nostra arte dei fornelli. L'ingrediente che manca è quello che solo noi per noi (e per quella sofferenza o desiderio) possiamo aggiungere. Dire di non attenersi alle regole è fare un pessimo servizio a chi si appresta con tutta l'improntitudine del neofita a una gara di cucina. Serve ribadire le regole base sì - per scegliere gli ingredienti giusti, per non bruciare il preparato prima che conosca la tavola, per non presentare un piatto scotto, un sapore sciapo, un intingolo scondito - serve confermare i punti di partenza. La recitazione incessante e ferma, che non retrocede dinanzi all'ostacolo che si presenta a contrastare la nostra decisione di raggiungimento della felicità. Si inizia da qui, è vero. Ma non dire che serve aggiungere l'ingrediente dell'azione adatta (ed è corretto non dire qual è proprio perché la ricerca di chi ne è il protagonista è personale) è nascondere La Regola del Gioco. Pregare è un atto di trasformazione non un'azione bellica, né un'ostinazione, né un irrobustimento delle proprie convinzioni. Bisogna pregare per cambiare se stessi, la parte di noi che soffre, non le cose a cui riconosciamo il potere (questa è la prima illusione da far crollare) di farci soffrire. Solo per questa strada le cose cambiano, si trovano le soluzioni.
Tempo fa in ragione di una grande sofferenza legata al lavoro ho iniziato a recitare molto Daimoku. Per molto e con molto impegno. Eppure, nonostante questa preghiera inflessibile e, pensavo, corretta, la mia condizione vitale non cambiava. Continuavo a recitare Nam-myoho-renge-kyo in un fuoco di rabbia e rancori. Nonostante buoni consigli che avevo ricevuto per la mia fede non ero nient'altro che la versione kamikaze di un dolore che mi lasciava insoddisfatto anche se corroborato da una specie di forza titanica. Poi, è successa una cosa, una cosa piccola, un piccolo ingrediente che ho aggiunto a questa padella che cuoceva in continuazione le dosi giuste. È stata come una piccola verità arrivata da dietro - ora penso a una donna incontrata per caso in treno che mi ha raccontato una storia del suo lavoro e ad altre piccole scintille arrivate in modo imprevisto. La verità era: sto soffrendo (e già questo mi dovrebbe bastare) per una eccessiva attenzione a me. Non è tutto me che soffre ma quella parte di me che convenzionalmente chiamiamo Ego. E anche la mia preghiera è indirizzata a rafforzare questa piccola parte di me che definisco Ego e il Buddismo chiama Piccolo Io. È come se la mia preghiera, potente e risonante, avvenisse nel guscio e in questo rimanesse imprigionata. Chi ne beneficia è solo questa piccola parte di me. È allora che il becco ha picchiato quello che sembrava un muro ed era invece un debole guscio. Ed è solo allora che le ali, a lungo covate e divenute ingombranti nello stretto perfetto dell'uovo, si sono aperte. Ed è lì che è iniziato il volo. Così è arrivata una felicità slegata da quel dolore di prima. Una leggerezza che mi ha permesso di notare gli sforzi degli altri, di lodare il loro impegno, di volteggiare sulle difficoltà che prima mi apparivano una prigione. Avvicinandomi senza paura, allontanandomi senza fuggire, per ridiscendere di nuovo con "felicità" e "agio". Saper "lasciare che sia" e sapermene occupare. Quello che è avvenuto dopo, mesi dopo ma senza l'ansia dell'attesa, è stata una felicità derivante anche dalla soluzione della sofferenza da cui ero partito con risvolti pratici ben maggiori degli attesi. E, come sappiamo, la felicità di cui parlo è stata solo una felicità seconda che confermava la prima e più importante. Quella del volo. Che è la felicità della libertà assoluta. L'unica promessa del Sutra del Loto a cui dovremmo credere, ciecamente. (R. C.)

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Prove (riuscite) di volo

in prima persona

L'illusione, a volte, è quella di essere arrivati a qualche destinazione e di poter posare valigia e cappello.
Di sedersi e aspettarsi una specie di ricompensa. Di specchiarsi nel mondo intorno e trovarsi improvvisamente diversi.
È vero, attraverso il Daimoku la trasformazione, coraggiosamente voluta e diligentemente accompagnata, inizia nello stesso momento in cui la si desidera con tutto il cuore e l'energia necessari. Ma è un movimento virtuoso che non conosce soste, e che segue il flusso della nostra vita come la sua anima cinetica. Un'anima che cammina, balla, si arrampica, corre, passeggia, tentenna ma non si ferma mai.
Ci sono punti intorno ai quali questo movimento si concentra, che lo attirano come magneti quando si perde per altre vie. Quelli che chiamiamo nodi, quelle che chiamiamo tendenze. È come se fosse il groviglio di scambi dei treni in prossimità di una grossa stazione e lì si decidessero le destinazioni.
È così che ogni tanto, quando uno di quei nodi sembrava sciolto, ci ritroviamo daccapo a fare i conti con le stesse cose: stesse situazioni e persone, stessi errori, stesse cadute. E la cosa sorprendente è che, lo sappiamo bene, abbiamo fatto molto meno di quel che avremmo fatto in passato per meritare quel capitombolo: il nostro errore questa ultima volta è stato piccolo piccolo, la debolezza s'è lasciata andare solo per un momento, ma la risposta, fuori, è stata feroce e senza appello.
Tutto questo non accadrebbe se non praticassimo, con coraggio e diligenza.
È facile distogliere lo sguardo, imbastire ragionevoli inganni quando non ci si siede tutti i giorni davanti al Gohonzon. La nostra condanna e insieme la nostra inestimabile fortuna è la necessità di affrontare tutto fino in fondo, come ci ricorda il Tamotsu Nakajima in queste stesse pagine.
Ma cosa significa "fino in fondo"? Fare più Daimoku, certo. Approfondire la fede, studiare, fare shakubuku. Tutte queste cose fondamentali, ovviamente. Che però, tutte insieme, ci portano avanti, ci portano oltre, nel luogo dove si gioca tutto. Un posto più a fondo di prima, che ci vuole più luce per rischiarare, più coraggio per guardare e più diligenza per cambiare.
Il segreto mi è parso, l'ultima volta che ci sono stata, essere nel raggio d'azione che imprimiamo al cambiamento, che può partire da questo punto profondo e allargarsi ad abbracciare tutto, non solo la zona della nostra vita più interessata o colpita da quella tendenza, più frenata da quel nodo. Non recito, non studio, non faccio attività, non cerco di migliorare solo per raddrizzare una cosa andata storta o inclinare verso la luce un pezzetto del mio destino, ma per mutare profondamente la qualità della mia presenza, ovunque.
Credo che per aprire davvero la vita, usando la pratica completamente, occorra pensare ampiamente, allargare lo sguardo e la preghiera, e dentro questo cerchio accogliere tutto. Abbiamo continuamente possibilità senza pari, occasioni via via più preziose, nuove partenze: la trasformazione, come il movimento, non finisce mai. E nel frattempo diventiamo sempre più forti, sempre più veloci. Fermarsi sarebbe davvero uno spreco. (S. C.)

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Senza fermarsi mai

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Ero nell'inferno totale, sbattuta fuori dopo oltre vent'anni di lavoro come giornalista dal principale polo editoriale italiano. Mio marito aveva già perso il posto da dirigente in una grande multinazionale e, non bastasse, dovuto affrontare tre operazioni chirurgiche e scoperto di avere il morbo di Parkinson. Un tunnel oscuro di depressione, costretti a vendere quanto avevamo di più caro per sopravvivere immersi nei debiti. Un giorno, la vita mi ha dato un segnale nel ricordo delle parole di una cara amica buddista: Nam-myoho-renge-kyo. In un istante ho capito, cercato un gruppo, cominciato a praticare e mio marito ha scelto di seguirmi in questo percorso. Dopo pochi mesi abbiamo chiesto di poter ricevere il Gohonzon.
Ma ero ossessionata dalla certezza di avere diritto a riavere la mia vita di prima. Praticavo, partecipavo a riunioni di vari gruppi, sostenuta, incoraggiata, aiutata. Tuttavia niente cambiava, tutto era fermo, cioè così credevo.
Poi, il segnale. Praticavo attaccata al passato, sempre per la stessa cosa, senza permettere all'universo che era in me di liberarsi e interagire con l'esterno. Mi era rimasta una casa tutta mia che amavo tanto ma che dovevo vendere per ricominciare a vivere e, seppure in mano alle agenzie da tempo, con la mia mente bloccavo quella soluzione. Allora ho detto: basta! Mi sono affidata al Gohonzon chiedendo con il cuore puro di riuscire a risolvere la mia vita. Ho cominciato a fare Daimoku pregando per gli altri e ringraziando come se avessi già vinto.
È stato un attimo e l'universo ha cominciato a manifestarsi in mille modi entusiasmanti. Ho venduto la casa senza soffrire e in cambio ho ricevuto tanto! Ci siamo rialzati, forti di una fede inarrestabile. Pagati i debiti più importanti, il lavoro che non eravamo riusciti a trovare in alcun modo me lo sono inventato. Per caso, parlando con un'amica della mia passione per lo sport e del mio vecchio sogno di aprire un piccolo studio sportivo con sole tre discipline mirate al benessere fisico e mentale delle persone, mi sono sentita dire: «Il locale c'è, è in affitto a pochi passi da casa tua: ti porto a vederlo». Era quello che cercavo e ora avevo il denaro per affittarlo. Mesi per la ristrutturazione, l'organizzazione, la pubblicità, la ricerca di istruttori qualificati e professionali. Tanti segnali mi hanno fatto capire che ero sulla strada giusta e sono andata avanti come una leonessa grazie alla pratica e alla forza che mi dava. Ho trovato le persone giuste, la condivisione della filosofia che mira a fare, con la nostra, la felicità di chi voglia fare sport con noi, tanto sostegno anche da chi neppure mi conosce.
Molti mi chiedono come faccia ad avere tanta energia, a trasmettere ondate di positività. Il Budda che è in me sorride e rispondo: «La mia forza è il Buddismo del Daishonin». Sto regalando il libro Felicità in questo mondo a tanti, e ricevo ringraziamenti e risposte esaltanti. Il mio studio sportivo, prima ancora dell'inaugurazione, mi ha dato la possibilità di sperimentare in piccolo kosen-rufu. Ostacoli e oscurità sono sempre in agguato, ma ora so come vincerli. Io ringrazio, ringrazio sempre per tutto e per tutti.
Quante prove concrete, quanti segnali, quanti benefici!
Il marchio dello studio sportivo è un grande sole su sfondo azzurro, la nostra società si chiama Nuovo loto. Scelte nate dal cuore. E studiando, scopro che il nome Nichiren significa sole-loto! Ci siamo commossi.
Ikeda ha scritto nella Nuova rivoluzione umana: «C'è, in questa lunga lotta, un momento fondamentale: è l'attimo in cui il potere del Gohonzon si sostituisce al potere della mente, il potere del Daimoku al potere delle proprie capacità intellettuali. Da quel giorno si comincia a vincere». 
A me è successo, mi sono sfidata con coraggio e senza dubbi. È la rivoluzione umana. Nessuna domanda resterà senza risposta, basta non chiedersi dove, come e quando. Basta avere fede. (P. Z.)

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Praticavo attaccata al passato

in prima persona

Pronuncio Nam-myoho-renge-kyo ma sto davvero praticando questo Buddismo? Quando sento gioia, realizzo obiettivi, mi sembra di sì. Le altre volte ho qualche dubbio, prezioso per rimettermi in discussione.
Rileggo parole di Ikeda, di Nichiren, ma riesco a viverle? Riesco ad avere piena fiducia che seguirle senza dubbi significhi riscoprire la mia Buddità? «Sto pregando con tanta convinzione come se dovessi accendere il fuoco con legna bagnata o estrarre l'acqua dal terreno riarso» (Rimproverare l'offesa alla Legge e cancellare le colpe, RSND, 1, 395): Nichiren ci incoraggia raccontando il suo stesso modo di praticare, la sua assoluta certezza nel potere del Daimoku che sfida l'impossibile. Tutto si può, riecheggiano le parole di Ikeda, purché tu sia disposta a credere fermamente, al cento per cento, ad avere fede, fiducia. È questo il movimento all'unisono del cuore e della mente. Guardo dentro. Leggo incongruenze nella mia vita, in quella degli abitanti di questa terra che sembrano disamorati della vita stessa, e anche in quella di compagni di fede in cui sembra sempre facile leggere da una parte il dire e dall'altra l'agire.
Interpretazioni della mente, ma cosa mi direbbe il mio maestro? Davanti al Gohonzon percepisco che spesso non credo veramente di poter superare un problema, di poter affrontare, risolvere quella piccola o grande sofferenza che mi riguarda. Non credo che proprio io posso trasformare. Mi sa che è il contrario di avere fiducia. E così grazie all'attività me ne accorgo ancor meglio. Cerco sempre di sfidarmi a sostenere e stare accanto a ognuna delle persone che il Gohonzon mi ha fatto conoscere. Una immensa gioia che non sempre si è tramutata in armonia. Ci incoraggiamo a percepire il Budda, in noi e negli altri, indichiamo il bodhisattva Mai Sprezzante come esempio, ma poi? Poi urla, scorrettezze, delusioni. Solo parole. Ma non sono mai gli altri il problema. Tutti si sbaglia ma ciò che conta è cosa abbiamo nel nostro cuore.
Un cuore incupito non è un cuore di Budda, è un cuore di un essere umano che sguazza nei tre cattivi sentieri. A ragione o torto, non si parla male dei compagni di fede, dice Nichiren. Non è vero che chi ho di fronte non può cambiare, inscatolato in un «è fatto così». Offendo la sua Buddità e la preziosa funzione che proprio così com'è può avere nella mia vita. Così si allontana quella felicità di cui ci parla il Buddismo. A volte mi arrabbio, magari senza dirlo, a volte sto zitta per non subire reazioni, ma dietro tutto questo atteggiamento leggo la mia sfiducia. La sfiducia in me, nelle mie potenzialità, nella mia capacità di accettarmi e farmi accettare così come sono. Di essere compresa Budda tra i Budda, di qualunque cosa si discuta. Allora posso far finta di niente, o decidere di fare un passo dentro.
Ci vuole coraggio. Ma io voglio praticare veramente il Buddismo. Spezzo un muro. Decido lo sforzo di accantonare rancori o finte certezze e non prestare il fianco al demone che costantemente separa, si ferma alle valutazioni "oggettive" e mi sussurra: «Qui, adesso, con queste persone, in questa situazione non ce la puoi fare». Ridecido. Apro il mio butsudan piena di gratitudine e con una nuova decisione di fiducia nel Gohonzon, nel Daimoku, nel mio maestro, nelle persone. Cresce la certezza che tutte le questioni che nascono sono una prova per ribadire la forza della nostra fede, la fiducia che nella Soka Gakkai abbiamo tutti lo stesso maestro e soprattutto che dietro la colorata scorza della diversità siamo tutti lo stesso Nam-myoho-renge-kyo capace di trasformare qualunque veleno in medicina. (I. B. V.)

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Fiducia

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È molto difficile percepire la propria natura di Budda, è un percorso, è ichinen, è non perdere la rotta quando una nuvola diventa tempesta. è un voto, una missione, una stradina di campagna o un'autostrada paralizzata durante l'esodo estivo.
Eppure noi siamo simultaneità di causa ed effetto, siamo un fior di loto, siamo il fiore e il frutto contemporaneamente. A volte io sento fortemente di essere un Budda vivente, accade in una frazione di secondo o dura più a lungo. Ha un sapore dolce, i colori di mille petali di mahamandara che dondolano scendendo lentamente dal cielo.
Ci sentiamo Budda solo quando parliamo di questa gioia agli altri.
Ma dobbiamo incontrare la vita di una persona per volta, le nostre parole incontrano due occhi, un ascolto, il cuore di un essere umano, poi di un altro e un altro ancora.
Ci illuminiamo se abbiamo fatto un voto e non potremmo esprimere quel voto se non fossimo già Budda. Nam indica quel voto e simultaneamente la fusione di vita e Legge. Apro la mia vita alla Legge mistica e immediatamente la vita è permeata dalla Legge.
«Se la nostra mente è la stessa di quella del Budda e noi desideriamo dedicarci sinceramente alla causa di kosen-rufu, spinti da un amore sincero per gli esseri umani, dobbiamo necessariamente sviluppare l'azione di shakubuku, la via migliore per realizzare la felicità individuale e contemporaneamente dare un contributo alla prosperità della nazione. Ritengo che lo shakubuku sia la più nobile forma di pratica corretta» (Josei Toda in MDG, 1, 34).
Alessia l'ho conosciuta all'università, a un serissimo corso di storia della scrittura antica. Avrà pensato che ero un perfetto deficiente perché passavo buona parte del tempo a sghignazzare con Stefano, il mio amico di sempre. Per un po' abbiamo continuato a frequentarci in biblioteca, poi ci siamo persi di vista. Diversi anni dopo ci siamo incontrati casualmente all'Auditorium a una giornata di musica per i bambini, lei con le figlie e io con mio figlio Niccolò, dilaniato nella mia nuova vita di padre separato. Due settimane fa la rivedo che esce dal mio ufficio: «Che ci fai qui?» «Ho appena ritirato copia del contratto di locazione, abbiamo affittato l'appartamento di mia madre». «Ma io lavoro qui!». «Sul serio?! Io sto pensando di vendere la mia casa in questo quartiere, sai mi sono separata da poco, vorrei cercare qualcosa di diverso, una casa più luminosa, per cambiare, per le mie figlie...». Aveva gli occhi tristi ma limpidi. Ci siamo dati appuntamento a casa sua per una valutazione dell'appartamento e abbiamo parlato a lungo. Sono tornato da lei dopo aver misurato la piantina catastale con in mano una copia di Felicità in questo mondo e una dedica.
Risentendola giorni dopo mi disse che Nam-myoho-renge-kyo aveva un suono affascinante e antico ma che il libretto l'aveva appena cominciato. Ci siamo rivisti a pranzo da lei per riparlare dell'appartamento, è stato piacevole. Al momento di andare via le ho proposto di prendere due sedie e recitare quella frase antica. Abbiamo recitato cinque minuti e in quel momento la sua voce era limpida come i suoi occhi. Dopo averle mandato un sms in cui le dicevo quanto fossi stato felice di quell'incontro, ho ricevuto questa risposta: «Grazie a te. Anche per me è stato emozionante. Mi ha fatto stare bene. A presto. Alessia». (J. M. P.)

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La pratica più nobile

di Wilma Massucco



«Se vi preoccupate anche solo un po' della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l'ordine 
e la tranquillità in tutti e quattro i quadranti del paese» 
(Nichiren Daishonin, Adottare l'insegnamento corretto 
per la pace nel paese, RSND, 1, 25)



La Sierra Leone è un piccolo paese sulla costa dell'Africa occidentale, protagonista di una guerra civile durata oltre dieci anni, il cui impatto sulle condizioni di vita della popolazione è risultato devastante. La guerra è iniziata nel 1991 - quando il conflitto armato in corso in Liberia sconfinò nel paese innescando tensioni interne latenti dovute agli interessi economici legati alle compagnie di diamanti - e si è protratta fino al 2002. 
La Sierra Leone dispone di enormi risorse naturali: oltre ai diamanti c'è oro, bauxite e rutilio, ha un territorio che permetterebbe colture diversificate e un mare molto pescoso, oltre ai vantaggi di un porto naturale a Freetown. Eppure la maggior parte della popolazione è estremamente povera. 
Ancora oggi, la guerra in Sierra Leone rimane impressa nell'immaginario collettivo per le gravissime atrocità commesse contro i civili, le vere vittime del conflitto. Donne e bambini sono stati oggetto di orribili violenze e abusi, migliaia di giovanissimi sono stati arruolati come bambini-soldato (nel 2000 il 30 per cento dei combattenti aveva meno di quindici anni), marchiati a fuoco con le sigle dei gruppi ribelli, drogati e costretti a uccidere, mutilare e commettere abusi sessuali. Il 90 per cento delle bambine rapite dai ribelli sono state violentate, molte di esse sono poi state uccise o ridotte in schiavitù. 
Oggi, nonostante i progressi in termini di stabilità politica interna e di assistenza umanitaria alla popolazione, le condizioni di vita restano molto gravi e la popolazione della Sierra Leone non ha accesso ai servizi di base. I tassi di mortalità sono tra i più alti al mondo.



1 dicembre 2010. Scesa dall'aereo, salgo in taxi per dirigermi nell'interno di Freetown, la capitale della Sierra Leone. Oggi è tutto un cantiere, con strade in costruzione e ruspe e caterpillar in ogni dove. Resto un po' imbambolata a guardarmi intorno finché, nel mezzo di quel trambusto generale, ho una sorta di "visione". Al lato della strada, in grossa evidenza, intravedo un cartello che riporta, a caratteri ben stagliati, la scritta "Buddismo di Nichiren Daishonin. Soka Gakkai International" con tanto di freccia, indirizzo, numero di telefono. È un'immagine che intravedo per un attimo, mentre il taxi prosegue la sua corsa, quanto basta per farmi pensare: «C'è dunque la Soka Gakkai in Sierra Leone?! Il cartello che ho visto è buon segno. Sento che in questo viaggio il Buddismo sarà con me». Quello che succede a seguire lo sintetizzo in poche righe: trentatré giorni di esperienze bellissime, anche molto forti e sicuramente importanti, a livello professionale e umano. Ho partecipato alla produzione di documentari sugli otto Obiettivi del millennio, al fianco di giornalisti di rilievo internazionale. Ho preso il sole su spiagge incontaminate, sabbia bianchissima e neppure un turista, e ho fatto il bagno nell'acqua caldissima dell'oceano. Ho vissuto tredici giorni a Kissy, al centro di una baraccopoli insieme agli ex bambini soldato di Padre Giuseppe Berton, un missionario saveriano che vive in Sierra Leone da oltre quarant'anni. 
Gran parte della mia attività di reportage è stata incentrata essenzialmente su un'unica domanda: si può superare il senso di separazione? Quello tra noi e gli altri; tra gli occidentali ricchi e avanzati e gli africani poveri e bisognosi; tra chi cerca l'ultima versione del telefonino, quello munito di social network-mail-videocamera-fotocamera, e chi cerca nei rifiuti di una discarica a cielo aperto; tra chi si sente solo perché vittima di una guerra devastante, combattuta a colpi di machete, che lo ha privato di genitori-fratelli-figli, e chi si sente solo perché non riesce a comunicare con i propri genitori-fratelli-figli; tra chi si veste di colori e di segni che parlano di vita e chi si veste firmato. Mi sono posta questa domanda e ho posto la stessa domanda a molte persone che ho incontrato. Qualcuno rispondeva che questa separazione non è superabile. Qualcun altro affermava di aver superato questa separazione grazie al fatto di aver vissuto diverso tempo in terra d'Africa, senza rendersi neanche conto del fatto che - continuando comunque a percepire se stesso come "quello ricco" e l'africano come "quello povero" - quel muro che aveva posto tra sé e gli altri non si era in realtà minimamente scalfito. 
Il 31 dicembre, a un paio di giorni dal mio rientro in Italia, ripercorrendo in taxi le strade di Freetown rivedo a un certo punto il cartello della Soka Gakkai. Questa volta chiedo subito al taxista di fermarsi, scendo e cerco il kaikan, come indicato dalla freccia. Già, ma dov'è? Chiedo in giro e i passanti, vedendomi in difficoltà, mi accompagnano per mano all'interno di quello che era un centro di formazione all'utilizzo del computer. Ai ragazzi seduti al PC chiedo se conoscono qualche buddista. Con un lampo negli occhi rispondono: «Siamo noi!!». Io, di rimando, estraggo l'omamori Gohonzon che avevo al collo, e lo mostro loro, senza parlare. Dopo un attimo di esitazione «Gohonzon mobile!» è la loro esclamazione. Quindi mi portano sul retro e mi mostrano il butsudan. Emozione fortissima. A quel punto chiamano al telefono Mohamed Pabai, uno dei responsabili della Soka Gakkai in Sierra Leone, che dopo poco ci raggiunge. Estraggo la videocamera e inizio l'intervista, del cui contenuto lascio a voi la lettura, nelle pagine successive. 
Quello che ho sperimentato in quel momento, durante la conversazione con Mohamed, è stata la consapevolezza che tra me e lui non c'era nessuna separazione. Ebbene sì, a quella domanda che avevo posto a tanti durante il viaggio, davo io finalmente una risposta. Sebbene Mohamed e io avessimo avuto esperienze di vita ben lontane, sentivo che eravamo perfettamente all'unisono, in un incalzare di domande e risposte che mi ha fatto toccare con mano quello che credo sia il senso più profondo dell'itai doshin (diversi corpi, stessa mente). Dunque è vero, si può! Diversi, eppure indissolubilmente uniti "nella stessa mente". 
È il 31 dicembre 2010. Io e Mohamed ci dichiariamo anche i nostri reciproci obiettivi per il 2011. L'anello si chiude. In questo viaggio il Buddismo è stato davvero con me.



L'INTERVISTA



Mohamed, come hai incontrato Nam-myoho-renge-kyo? 
Ho incontrato il Buddismo di Nichiren Daishonin nel 1991, quando alcuni rifugiati in fuga dalla Liberia arrivarono in Sierra Leone e mi accompagnarono a un meeting. Il suono di Nam-myoho-renge-kyo e la recitazione di Gongyo erano per me molto ridicoli, ho iniziato a ridere e a disturbare la recitazione, e così mi hanno fatto uscire. Un po' più tardi, quando sono stato invitato a rientrare e a prendere parte alla discussione, mi dissero: «Non ti preoccupare; sappiamo che può sembrare ridicolo». Ho iniziato a fare domande su Dio e su tante altre questioni, e il modo in cui mi risposero - confessai al mio amico - mi aveva colpito molto: nessuno mai aveva risposto alle mie domande in un modo così incisivo. Eppure, per tre anni non sono più tornato a un meeting. Poi, man mano che la guerra si avvicinava a Freetown, diventavo sempre più confuso. 
A un certo punto dissi a me stesso: «Ti ricordi quella persona che aveva risposto a quelle domande? Ora hai bisogno di altre risposte da lui». Così tornai da quella persona, feci altre domande e lui mi rispose. Ma ancora non avevo iniziato a recitare, perché fino ad allora cercavo solo risposte. Ogni volta che mi presentavo per una domanda, il modo in cui mi rispondeva mi soddisfaceva sempre. Andai avanti e indietro, con nuove domande e nuove risposte, per un paio di settimane. Alla fine quella persona mi disse: «Mohamed, lo so che tu vuoi sapere ancora, ma ora l'unico modo per sapere di più è quello di darti tempo: se reciti Daimoku per tre mesi comprenderai meglio». 
Io dissi a me stesso: «Sì, voglio sapere di più» e iniziai a recitare.



In che modo il Buddismo ti ha aiutato ad affrontare la guerra? 
All'inizio i rifugiati dalla Liberia mi hanno aiutato davvero tanto, mi sono stati vicino. Il Buddismo mi ha insegnato ad alzarmi da solo, a fare la mia parte pur restando vicino agli altri. Ero molto interessato, la pratica mi piaceva, è cambiato il mio approccio mentale. Quando mi sono rifugiato in Guinea ho recitato molto. Non facevo niente là, a parte pregare tutto il giorno. Rientrato in Sierra Leone mi sono ritrovato automaticamente a frequentare una scuola di computer. Questo per me è stato un fatto mistico, perché io allora non sapevo niente di computer.



Qual è il tuo lavoro ora? 
Questa che vedi è la mia attività, è un centro di formazione all'utilizzo del computer, faccio esattamente il lavoro per cui ho studiato in quella scuola.



Come vedi il concetto di karma in relazione a una guerra in cui tutto il paese si trova coinvolto? 
Karma significa "azione compiuta": quando hai una certa "ricompensa" quello è l'effetto del tuo karma e delle azioni che hai compiuto. La storia del nostro paese è un buon esempio per spiegare l'effetto del karma. Qui c'era molta corruzione, il governo non agiva nel modo appropriato per affrontarla, e poche persone esercitavano il potere su tutte le altre. Abbiamo accumulato cause negative su cause negative, e a un certo punto l'effetto del karma si è manifestato. A prescindere da quale potesse essere il karma individuale, il karma negativo del paese si è riversato su tutti, e abbiamo vissuto una guerra devastante durata dieci anni. 
La persona che mi ha introdotto alla pratica mi ha spiegato che per cambiare l'effetto negativo di quel karma bisognava mettere cause positive, ma che nel frattempo avremmo dovuto comunque pagarne la retribuzione, tutti noi, me compreso. 
Ora la guerra è finita, speriamo di non commettere altri errori e di muoverci nella direzione giusta per cominciare a costruire un karma positivo. È per questo che noi oggi stiamo praticando, perché questo karma possa cambiare, per ciascuno di noi e per il paese intero.



Quali sono le difficoltà più comuni che le persone qui in Sierra Leone devono affrontare? 
La povertà in questo paese è immensa. È difficile avere cibo ed è difficile avere una casa in cui dormire, perché le case sono molto costose e le persone non trovano lavoro. Questo è il motivo per cui la gente che incontri ti chiede aiuto, ti chiede cosa fare, cosa mangiare.



Partendo dalla tua esperienza, cosa pensi si possa fare per cambiare una condizione di vita così difficile? 
La mia unica speranza è Nam-myoho-renge-kyo. Sto anche lottando duramente. Quello che possiamo fare è credere che il Buddismo possa cambiare l'approccio mentale delle persone. Anche il governo sta sollecitando un "cambiamento di atteggiamento" e questo è proprio ciò su cui si basa il Buddismo, da sempre. 
Noi buddisti possiamo aiutare le persone a cambiare il loro atteggiamento mentale, di modo che - invece di continuare a chiedere aiuto - possano decidere di alzarsi da sole.



Qual è il modo migliore per fare shakubuku? 
La persona che mi ha introdotto al Buddismo mi diceva: «Mohamed, dobbiamo migliorare noi stessi. Se noi miglioriamo, la gente che ci conosce si chiederà cos'è che sta funzionando in noi. E quando si avvicineranno per sapere, risponderemo che è Nam-myoho-renge-kyo, nient'altro». In questo paese c'è molta superstizione, e le persone che si avvicinano a me spesso mi chiedono se ho fatto qualche magia. Io rispondo: «Non c'è niente di magico. La mia magia è il Gohonzon». 
Ho incontrato molte difficoltà ma sono stato capace di affrontarle e di uscirne attraverso la filosofia di Nam-myoho-renge-kyo, e questo è il motivo per cui continuo a recitare Nam-myoho-renge-kyo. Questo è anche il motivo per cui stiamo facendo tanto shakubuku: vogliamo portare le persone a comprendere il potere di questa pratica. A novembre, nella ricorrenza dell'ottantesimo anniversario della Soka Gakkai, c'erano centocinquanta persone nella sala (noi membri attualmente siamo circa cinquanta in tutto il paese). Abbiamo detto loro che dovevano innanzitutto comprendere la filosofia del Buddismo, perché questa li avrebbe aiutati molto. Abbiamo intenzione di fare molto shakubuku anche quest'anno.



In qualità di responsabile della Soka Gakkai del tuo paese, quali sono i tuoi obiettivi per il prossimo futuro? 
Al momento non abbiamo una vera e propria sede nazionale in cui poterci incontrare. Le riunioni generali si tengono qui, all'interno di questo piccolo ufficio. Spostiamo i computer e facciamo spazio al Gohonzon, che posizioniamo al centro della sala. Al termine rimettiamo tutto dov'era, il butsudan sul retro e i computer sui tavoli. Avere un centro ufficiale per le nostre riunioni è per noi un grande obiettivo. Le persone nuove che invitiamo al centro qui, in questo ufficio, restano un po' perplesse, quando si rendono conto che non disponiamo di una sede ufficiale.



Pensano che questa non sia una religione seria? 
Infatti. La gente qui è abituata a vedere grandi chiese, grandi monaci, folle di persone in processione. Si chiedono: che cosa avrà mai da offrirmi questa organizzazione? Non riesce neppure ad avere una sede ufficiale... Così è la mentalità qui.



Che cosa pensi di Daisaku Ikeda? 
È un grande maestro. Quando sono davvero giù per le difficoltà di questa situazione cerco le sue guide. Se vieni a casa mia vedrai due o tre foto di Ikeda nel mio ufficio, e altre sue foto nelle altre stanze.



Anche qui in Sierra Leone avete la possibilità di leggere i suoi libri e i suoi incoraggiamenti? In che modo siete in contatto con Ikeda? 
Durante la guerra eravamo davvero in pochi a praticare, e ci rendevamo conto che il Buddismo non cresceva. Alle riunioni eravamo sempre in tre o quattro persone: io, mia moglie, due nostri amici. Un giorno mi sono detto: smettiamo di parlarne, e recitiamo due ore di Daimoku ogni domenica, quando ci incontriamo. 
Per un anno intero abbiamo fatto così. Recitavamo per attrarre persone che potessero incoraggiarci con esperienze o fornirci dei contatti, persone che sarebbero potute venire in questo paese per aiutarci a propagare il Buddismo. Nel 1997 arrivò in questa zona una donna giapponese che lavorava per l'ONU ed era in contatto con la SGI in Giappone. Grazie a lei siamo riusciti ad avere i consigli giusti, e così Ikeda ci ha aiutato a organizzarci meglio.



Quali sono le difficoltà che incontrate quando volete organizzare un meeting? (Faccio questa domanda perché in questi giorni ho sperimentato le strade di Freetown e dintorni: un caos terribile, molte strade in costruzione e spesso impieghi ore per fare un percorso anche breve). In genere le persone partecipano attivamente? 
Di solito organizziamo le riunioni di domenica e incoraggiamo i responsabili a organizzare incontri locali a piccoli gruppi, in modo che i praticanti non si debbano spostare troppo. I meeting a Freetown sono molto frequentati: partecipano circa quindici membri che vengono regolarmente, prendono parte alle discussioni e vanno anche a trovare altri amici per incoraggiarli.



Quali sono i tuoi obiettivi personali per 2011? 
Vorrei andare a Tokyo per incontrare il presidente Ikeda.



Come pensi di trovare i soldi per pagarti un viaggio così costoso? 
È molto costoso, lo so, ma io sono un uomo d'affari, e se davvero ho accumulato buona fortuna riuscirò a chiudere un contratto - tramite la mia attività - grazie al quale potrò permettermi di pagare il viaggio. Questo è il mio obiettivo, e per questo sto recitando.



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Kosen rufu nell'inferno della guerra

Questo speciale vuole tracciare una sorta di percorso per avanzare, attimo per attimo, nella nostra pratica buddista

Con coraggio e diligenza

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