Torniamo a parlare di ordigni nucleari. Di questi oggetti di distruzione disumana e totale. E dell'urgenza per tutti noi di fare il possibile per eliminarli definitivamente dalla faccia della terra.
Un obiettivo immenso che sembra fuori dalla nostra portata, ma che incontra il desiderio profondo di tutte le persone del pianeta. Caro al cuore di Josei Toda e da più di cinquant'anni al centro dell'impegno del suo discepolo Daisaku Ikeda, il nostro maestro.
«Chiedo a coloro che si considerano miei discepoli di ereditare lo spirito della dichiarazione che ho pronunciato oggi, e di far conoscere il suo contenuto in tutto il mondo». Queste le parole di Toda a conclusione del suo appello per l'abolizione delle armi nucleari pronunciato nel 1957. Da allora, ricorda Ikeda «non ho mai, neanche per un solo giorno, dimenticato il suo energico invito ad agire e ho lavorato incessantemente per creare un movimento di pubblica opinione favorevole all'abolizione delle armi nucleari».
«Le armi nucleari - sottolinea - incarnano gli impulsi negativi più profondi del cuore umano che si siano mai insinuati nella storia della nostra specie. Il compito di eliminarle è carico di grandi difficoltà ed è irrealistico aspettarsi facili e rapidi progressi».
Servono una visione chiara, una determinazione incrollabile e un'azione coraggiosa: il presidente Ikeda invita oggi la popolazione mondiale a manifestare con chiarezza la propria volontà di mettere al bando le armi nucleari e a stabilire, entro il 2015, le basi per una Convenzione sulle armi nucleari.
«Sono certo che la partecipazione a questa impresa senza precedenti sia il dono più prezioso che possiamo offrire al futuro e invito tutte le persone di buona volontà a lavorare insieme per la realizzazione di un mondo finalmente libero dalla minaccia nucleare».

per approfondire

Ramesh Jaura: Leader buddista invita all'approvazione del trattato sull'abolizione delle armi nucleari. Intervista a Daisaku Ikeda (BS, 142, 2)

Daisaku Ikeda: Verso una nuova era di creazione di valore. Proposta di pace 2010 (BS, 140, 5)

Speciale "Un mondo nuovo per il disarmo", con la Proposta di Daisaku Ikeda: Costruire una solidarietà globale per l'abolizione del nucleare (BS, 138, 29)

http://www.senzatomica.it
http://www.peoplesdecade.org

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Utopia da realizzare

SenzAtomica: un'iniziativa per l'abolizione totale delle armi nucleari







SenzAtomica rappresenta il contributo italiano alla campagna mondiale People's Decade for Nuclear Abolition (www.peoplesdecade.org) promossa dalla Soka Gakkai Internazionale per il disarmo nucleare totale. Una vasta opera di coinvolgimento della popolazione attraverso una mostra itinerante e una campagna di sensibilizzazione affinché il più gran numero di persone possibile manifesti con chiarezza la propria volontà per la messa al bando degli arsenali atomici e per l'elaborazione e approvazione, entro l'anno 2015, di una Convenzione sulle armi nucleari. 
 
Perché una campagna, e non solo una mostra? 
È una domanda che richiede una risposta abbastanza approfondita. Spero di riuscire a essere chiaro... Vorrei citare l'intera quarta puntata della serie "I giovani e gli scritti di Nichiren Daishonin" dedicata al concetto di "adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese", pubblicata su Buddismo e società n. 143, ma mi limiterò qui a fare una piccola premessa che riguarda le ragioni per cui, in quanto praticanti del Buddismo di Nichiren Daishonin, ci impegniamo per la pace. Nel Mondo del Gosho Daisaku Ikeda afferma: «La vita del Daishonin si svolse perseguendo l'obiettivo fondamentale di realizzare concretamente il principio di adottare l'insegnamento corretto in grado di assicurare al paese pace e sicurezza. È questa l'essenza del Buddismo. Quando si medita profondamente sulla Legge, si giunge a comprendere che l'idea di "adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese" e la sua concreta realizzazione sono un aspetto essenziale del Buddismo. Non sono peculiari soltanto del pensiero del Daishonin. Penso che questa idea fosse presente anche nel Buddismo di Shakyamuni e potremmo giungere ad affermare che è un ideale cui tutte le religioni dovrebbero tendere. Perciò a chi pratica il Buddismo di Nichiren spetta il compito di seguire un cammino che conduca alla sua definitiva realizzazione» (MDG, 1, 75). 
Impegnarsi nel seguire il sentiero di non dualità di maestro e discepolo potrebbe essere letto anche come impegnarsi con azioni quotidiane per la pace nel paese, seguendo l'impegno e l'esempio del maestro. 
Vorrei azzardare qui un paragone, ma ci tengo a sottolineare che è un punto di vista mio personale. Così come Nichiren Daishonin lasciò lo scritto Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese come testamento spirituale ai posteri, così il presidente Ikeda sta passando a noi discepoli il testimone che il suo maestro, Josei Toda, lasciò ai giovani cinquantatré anni fa con la storica dichiarazione per l'abolizione delle armi nucleari. 
L'8 settembre 2009 Daisaku Ikeda ha formulato una proposta per il disarmo intitolata Costruire una solidarietà globale per l'abolizione del nucleare, pubblicata nel numero 138 di Buddismo e società. In questa propone un piano in cinque punti per gettare, nei prossimi cinque anni, le fondamenta di un mondo libero dalle armi nucleari. Come discepoli ci proponiamo di rispondere al suo invito ad agire per «sollecitare la popolazione mondiale a manifestare con chiarezza la propria volontà per la messa al bando delle armi nucleari e a stabilire entro il 2015 la norma internazionale che costituirà la base per una convenzione sulle armi nucleari» (quinto punto). 
Ci è sembrato che, per raggiungere questo obiettivo, una mostra (per di più destinata per dimensioni e sforzo organizzativo solo alle grandi città) rischiasse di limitare il potenziale infinito presente in ogni singola persona. Da qui l'idea di lanciare una vera e propria campagna, estesa a tutta Italia, di sensibilizzazione per il disarmo nucleare totale: affinché i cittadini prendano consapevolezza della minaccia nucleare, rifiutino il paradosso della sicurezza fondata sulle armi nucleari e insieme ai cittadini di tutti i paesi rivendichino il diritto a un mondo libero da armi atomiche, lavorando per l'elaborazione e l'approvazione, entro l'anno 2015, di una Convenzione sulle armi nucleari.



Puoi farci una descrizione della mostra e della campagna? 
La mostra è stata creata dalla SGI nel 2007 - con il titolo Da una cultura di violenza a una cultura di pace: trasformare lo spirito umano - per commemorare il cinquantesimo anniversario della dichiarazione di Josei Toda. Quando ci siamo ritrovati per la prima volta con il comitato per la realizzazione della mostra in Italia ci siamo chiesti come potevamo renderla ancora più coinvolgente e "al passo con i tempi". Ci siamo quindi posti la sfida di "multimedializzarla" e di progettare delle esperienze sensoriali che coinvolgessero i visitatori a un livello ancora più profondo da un punto di vista cognitivo ed emozionale. La mostra comunica la riflessione sulla connessione tra armi nucleari e sicurezza umana stimolando l'emergere di una forte, udibile e visibile corrente di opinione pubblica per l'abolizione delle armi nucleari. Fino a che punto l'esistenza delle armi nucleari destabilizza il mondo e minaccia l'umanità? Le armi nucleari sono davvero necessarie? Perché dobbiamo mantenerle? L'umanità non ha davvero altra scelta che vivere sotto la minaccia delle armi nucleari? 
Abbandoniamo l'abitudine di ignorare volontariamente la minaccia posta alla terra dalle armi nucleari e dimostriamo invece - con chiarezza e attraverso il potere della gente - che nella nostra esistenza si può davvero realizzare un mondo senza armi nucleari. La partecipazione a questa impresa è il dono più prezioso che possiamo offrire al futuro, e in questa impresa nessuno ha un ruolo più essenziale dei giovani. Per questo motivo, grazie al gruppo degli educatori della Soka Gakkai italiana, è stato possibile realizzare una sezione espressamente progettata per i giovani studenti dagli otto agli undici anni. È di primaria importanza che tutte le persone siano informate e comprendano che è un loro diritto e dovere esprimere la propria opinione, affinché possano far risuonare la loro voce su un tema che le riguarda così da vicino. Ora è il momento di liberare il coraggio e stimolare l'azione delle persone comuni per creare un'indomabile forza di pace. Il desiderio di vivere in pace unisce tutti gli esseri umani. In questo senso la campagna SenzAtomica offre alle persone, a livello individuale e collettivo, l'opportunità di esprimere il proprio desiderio di bandire queste armi inumane che minacciano il nostro diritto fondamentale di esistere. 
Nella Proposta di pace del 2010 il presidente Ikeda afferma che per lasciarci alle spalle l'era del terrore nucleare occorre combattere contro il vero "nemico": non le armi nucleari in quanto tali, né gli stati che le possiedono o le costruiscono, bensì il modo di pensare che giustifica le armi nucleari e l'opzione "annientamento totale" degli altri. È essenziale lavorare con un grande numero di persone e organizzazioni allo scopo di promuovere una solidarietà popolare globale volta non solo all'eliminazione completa e definitiva delle armi nucleari ma anche alla trasformazione delle relazioni tra stati, attraverso un dialogo sincero: per quanto lento possa apparire questo processo, esso è senza dubbio il sentiero più sicuro verso la pace mondiale. 
Per questo una campagna: è giunto il momento di far sgorgare l'infinito potenziale che esiste nel profondo del cuore di ogni persona e liberare il coraggio e l'azione delle persone comuni per creare un'indomabile forza di pace.&nbsp;È necessario che le persone si "attivino" e stimolino altre persone ad "attivarsi" allo stesso modo, innescando così una reazione a catena virtuosa, che generi una pacifica esplosione di energia. Ciascuno di noi, nel proprio ambiente di vita e di lavoro, ha la possibilità di essere un soggetto attivo e promotore di questa campagna di sensibilizzazione: come nella fissione nucleare è necessaria una massa critica di uranio arricchito e una carica che inneschi la reazione a catena, allo stesso modo ogni persona che esprimerà la determinazione di essere massa critica e "innesco" di questa pacifica esplosione di energia contribuirà al successo della campagna. 
Il nostro grande desiderio è che grazie all'iniziativa di ogni singola persona si generi una travolgente onda di pace in tutta Italia: piccoli e grandi eventi - conferenze, pubblicazioni e video (da distribuire anche via web), incontri con i sopravvissuti dell'olocausto nucleare (hibakusha), congressi e seminari nelle università con e per gli studenti, presentazione di libri, rassegne cinematografiche, attività di educazione al disarmo nucleare nelle scuole, concerti a sostegno della campagna, sondaggi tra i cittadini, forum di discussione, ecc. - che a loro volta genereranno altri eventi. Eventi nei quali le persone si sentano motivate e ispirate a creare eventi a loro volta, in una prospettiva di empowerment delle persone comuni e di sinergia con le altre organizzazioni e associazioni che vorranno unirsi alla campagna SenzAtomica.



A chi è rivolta la campagna? 
A tutti, in particolare ai giovani.



Quali sono le difficoltà maggiori che vi trovate di fronte? 
La difficoltà maggiore sta probabilmente nel trasferire questo entusiasmo e competenza sul tema, che abbiamo accumulato in più di un anno, a tutti i nostri compagni di fede per innescare un'energia che dall'interno dell'Istituto si possa espandere a tutta la società.



Ci sono stati imprevisti anche in positivo? 
Sì. Durante le riunioni di comitato il desiderio di ognuno era quello di vedere il proprio contributo realizzato all'interno della mostra. Ma le idee di ciascuno venivano costantemente messe in una sorta di frullatore che ha prodotto risultati che nessuno di noi si sarebbe aspettato, a volte molto distanti dai rispettivi punti di partenza. Non è stato facile arrivare a comprendere che il risultato finale sarebbe stato tanto migliore quanto meno fosse stato possibile distinguere il contributo individuale. In altre parole, la lotta tra il piccolo io e il grande io che si è creata, grazie all'attività per la realizzazione della campagna, all'interno del cuore di ciascuno, ci ha dato la possibilità di rompere il guscio del piccolo io e di ampliare i nostri orizzonti. 
Abbiamo creato e consolidato dei legami umani molto profondi: questa continua a essere una sorgente di gioia incredibile nella mia vita. Proprio oggi ho ricevuto una mail in cui una delle partecipanti scrive: «Grazie a questa attività mi sento cento volte più forte e sono molto più dinamica e felice». 
Questo risultato è stato possibile solo grazie al fatto che in ogni occasione abbiamo ricominciato da una preghiera basata sulla relazione di non dualità col maestro.



Come è stata accolta la campagna dentro e fuori della Soka Gakkai? 
Credo sia ancora presto per dirlo, siamo proprio all'inizio... ma i partner e le istituzioni con cui abbiamo iniziato a stabilire i contatti hanno finora reagito con stupore ed entusiasmo.



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Una travolgente onda di pace

Cosa pensano i giovani del disarmo nucleare

Intervista a Takahisa Miyao e Kenji Shiratsuchi

Giusta ma impossibile. Questa l'opinione più diffusa riguardo all'abolizione delle armi nucleari emersa da un sondaggio che gli studenti della Soka Gakkai Internazionale hanno condotto in sei nazioni (Giappone, Corea del Sud, Filippine, Nuova Zelanda, Usa, Regno Unito), intervistando 4362 giovani tra gennaio e marzo 2010.
Riportiamo una breve intervista ai promotori del sondaggio.

Cosa pensi dei risultati di questo sondaggio?
MIYAO: Credo che questo sondaggio ci abbia mostrato quanto i giovani considerino le armi nucleari una delle più grandi minacce all'umanità. I risultati rivelano che esiste una tendenza costante, da parte dei giovani, a pensare che l'abolizione delle armi nucleari sia un'impresa molto difficile, sebbene la maggioranza di loro in quasi tutti i paesi abbia un forte sentimento negativo nei confronti di tali ordigni. Circa il settanta per cento degli intervistati ha dichiarato che l'uso di armi nucleari è inaccettabile in qualsiasi circostanza. Questo incoraggia i nostri sforzi nel promuovere l'adozione di una Convenzione sulle armi nucleari che metta al bando in tutto il mondo questi strumenti di distruzione di massa. Costruire un ampio rifiuto delle armi nucleari da parte della gioventù è un elemento chiave negli sforzi verso l'abolizione di tali ordigni.
Si è visto inoltre con chiarezza che quanto più le persone hanno una precisa e dettagliata consapevolezza della minaccia rappresentata dalle armi nucleari, tanto più fortemente le rifiutano. Ciò dimostra quanto sia importante informare la gente della natura di tali armi, e che proprio l'informazione sia un punto chiave nel rafforzare nell'opinione pubblica la richiesta della loro abolizione. I risultati del sondaggio hanno aumentato la nostra fiducia nel fatto che, lavorando per far crescere tra i membri della nostra generazione la consapevolezza degli orrori conseguenti all'uso delle armi nucleari, possiamo costruire un solido sostegno alla loro abolizione da parte dell'opinione pubblica.
Con il passare del tempo la memoria collettiva di ciò che è successo a Hiroshima e Nagasaki ha cominciato ad affievolirsi. Come contromisura, abbiamo realizzato un DVD in cinque lingue che riporta testimonianze degli hibakusha, i sopravvissuti alla bomba, e i giovani della Soka Gakkai in Giappone stanno anche creando occasioni per far sì che la gente ascolti i loro racconti.

State pensando di estendere il vostro sondaggio ai giovani di tutti i centonovantadue paesi membri dell'ONU, per avere un campione a livello mondiale?
SHIRATSUCHI: Riteniamo che questo sondaggio abbia già fornito una fotografia di ciò che pensano i giovani a livello globale. A questo punto il nostro scopo prioritario è quello di rendere le persone più consapevoli di ciò che abbiamo riscontrato. Per esempio, mentre la maggioranza dei giovani vuole l'abolizione delle armi nucleari, più della metà di loro pensa che ciò sia impossibile. Noi vogliamo trovare il modo di colmare questo "deficit di speranza", la distanza tra ciò che i giovani pensano che dovrebbe accadere e ciò che essi credono sia possibile. Sul lungo periodo, vogliamo continuare a costruire una solidarietà globale tra i giovani a favore della pace e dell'abolizione delle armi nucleari in forme creative e con la collaborazione di vari partner nella società civile.
(da SGI Quarterly, ottobre 2010)

RISULTATI DEL SONDAGGIO

Sei a conoscenza del fatto che durante la seconda guerra mondiale sono state usate bombe atomiche?
87% sì, 13% no.

Pensi che l'uso di armi nucleari possa essere accettabile in ogni circostanza?
18%: accetto l'uso di armi nucleari come ultima risorsa per autodifesa se è minacciata la sopravvivenza della nazione.
67%: non accetto il loro uso in alcuna circostanza.

Pensi che sia possibile l'abolizione delle armi nucleari?
37%: sì.
40%: l'abolizione è impossibile, mentre è possibile una riduzione delle armi nucleari.

Se le armi nucleari non esistessero più nel mondo, ti sentiresti più o meno sicuro?
59%: mi sentirei più sicuro.
10%: mi sentirei meno sicuro.

E i giovani della Soka Gakkai in Italia?
A livello regionale qualcosa sta nascendo, si sta muovendo. Ecco alcuni esempi.
In Emilia Romagna, con l'occasione del corso giovani al Centro europeo di Trets, i responsabili di territorio e delle divisioni Leonardo e Studenti hanno deciso di dedicare la riunione del secondo giovedì di ogni mese all'approfondimento di questo tema e della Proposta del presidente Ikeda (BS, 138), per poi vedere a che tipo di iniziative porterà questa decisione. In Piemonte, partendo dall'invito di Ikeda a sensibilizzarsi per sensibilizzare gli altri, creando una coscienza sociale sulla necessità del disarmo per realizzare l'unico sogno del maestro Toda che il nostro maestro non ha ancora realizzato, si stanno impegnando per approfondire quest'argomento. Stanno progettando delle conferenze per il 2011 in alcuni comuni, per esempio quello di Alessandria, che ha espressamente richiesto ai membri della Soka Gakkai di portare questo tipo di contributo. Rappresentanti della divisione giovani e della divisione studenti parteciperanno come relatori.
I giovani toscani ogni martedì si riuniscono nei centri culturali per recitare Daimoku e approfondire la Proposta sul disarmo, e una volta al ogni mese si incontrano con gli esperti del comitato scientifico della mostra SenzAtomica.
E io? Leggo da sempre l'impegno del mio maestro per un mondo libero dalla minaccia nucleare, dalla minaccia del più forte sul più debole. Leggo dell'impegno concreto dei giovani della SGI per sostenere il suo desiderio. E leggo parole come disarmo nucleare, petizione, dichiarazione, terrorismo nucleare, proliferazione. E mi viene come un prurito. Perché il disarmo nucleare è il primo obiettivo del mio maestro. Ma non è il mio. Sì, ci penso magari, mi informo, ma non è sullo stesso piano dei miei obiettivi personali, non è forte come la realizzazione nel lavoro, in famiglia, nella mia zona di attività. E allora penso che Ikeda non ha esitato un secondo, ha fatto suo il desiderio del suo maestro e così ho deciso di fare anche io. Davanti al Gohonzon e nella vita di tutti i giorni.
(Lucia Gerunda)

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Per colmare un "deficit di speranza"

Gli effetti di un'esplosione nucleare sulla salute e sull'ambiente

di Tilman Ruff, infettivologo, presidente dell'ICAN, Australia

Cosa succede alle persone, agli altri esseri viventi e alla terra, all'acqua e all'aria quando esplode una bomba atomica? Le armi nucleari scatenano esattamente la stessa potenza che sostiene le stelle all'interno del nostro fragile universo interdipendente. È una potenza che non ha uguali per entità, persistenza e natura del danno inflitto. A parte la collisione con un grande corpo celeste, le armi nucleari sono l'unica cosa che può mettere fine alla vita e alla civiltà umana sulla terra in qualunque momento e nell'arco di poche ore.

Le armi nucleari e la salute
L'Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che nessun sistema sanitario al mondo potrebbe essere in grado di occuparsi delle persone ferite dallo scoppio, dalle ustioni e dalle radiazioni di una singola esplosione atomica su una città. Ciascuna delle principali armi nucleari attualmente schierate contiene un potenziale esplosivo pari a quello di tutte le bombe usate nella seconda guerra mondiale messe insieme. Sono state costruite e sottoposte a test armi nucleari che avevano un potenziale esplosivo molte volte superiore alla somma di tutte le armi utilizzate in tutte le guerre mai combattute nella storia dell'umanità.
La particolarità delle tecnologie nucleari - comprese le armi - sono le radiazioni ionizzanti, un veleno invisibile prodotto da numerosi isotopi differenti. Alcuni di questi isotopi resistono solo per poche ore, giorni o settimane, ma altri persistono per decenni o secoli e altri ancora addirittura per miliardi di anni: un arco di tempo che rende insignificante qualunque ordinamento umano esistente. Alcuni isotopi si concentrano nelle piante e negli animali, mimando componenti normali in varie parti dell'organismo, per esempio nei tessuti fetali. I bambini piccoli e le donne sono particolarmente vulnerabili ai danni da radiazione. La caratteristica più nociva delle radiazioni è l'impacchettamento dell'energia in una forma particolarmente dannosa per il nostro codice genetico, il DNA. Noi siamo costruiti, nel vero senso della parola, a partire da queste lunghe catene molecolari, che sono la nostra eredità più preziosa e il nostro lascito per la generazione successiva. Una dose fortemente letale di radiazione contiene una quantità di energia non superiore al calore sprigionato da una tazzina di caffè, ma il danno a carico del nostro codice genetico può compromettere e uccidere le cellule, essere trasmesso alla generazione successiva o provocare il cancro, anche a distanza di decine di anni.
Emergono costantemente nuovi dati che dimostrano quanto poco si sappia ancora dei danni che le radiazioni provocano alla salute e quanto tali effetti siano stati costantemente sottovalutati. L'incidenza dei tumori fra i sopravvissuti ai bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki è ancora in crescita. Secondo un recente studio condotto sui veterani neozelandesi cinquant'anni dopo la loro partecipazione ai test nucleari britannici effettuati negli anni '50 nel Pacifico, il loro tasso di riorganizzazione cromosomica anomala è quasi triplo rispetto a quello del personale che non aveva partecipato ai test. Una ricerca sui veterani dei test nucleari britannici in Australia ha mostrato un'incidenza di tumori molto più alta rispetto a quella che ci si aspettava in base alla dose stimata di radiazioni ricevute. Un importante studio sui tumori nei bambini, condotto in Germania tra il 1980 e il 2003, ha inoltre dimostrato in modo inequivocabile un tasso di leucemia più che raddoppiato fra i bambini residenti in un raggio di cinque chilometri da un reattore nucleare, e un aumento del rischio di leucemia fino a un raggio di oltre cinquanta chilometri, valori molto più alti di quelli previsti in base alle conoscenze riguardo al grado di esposizione in questione.
Negli anni '80, gruppi internazionali di scienziati scoprirono che sarebbero bastate anche solo cento delle settantamila armi nucleari allora esistenti, lanciate contro città e siti industriali, per innescare vasti incendi con la produzione di enormi quantità di fumo nero e fuligginoso. Questo fumo, avvolgendo l'intero pianeta, avrebbe dato origine a un "inverno nucleare", assorbendo una quota talmente consistente dell'energia solare da rendere in breve tempo la superficie terrestre buia, fredda e arida. Studi recenti di alcuni degli scienziati atmosferici più famosi del mondo hanno confermato non solo che tali effetti sarebbero peggiori e molto più duraturi di quanto si pensava in passato, ma anche che basterebbe una guerra nucleare regionale con l'esplosione di cento bombe come quella di Hiroshima a provocare un repentino raffreddamento globale senza precedenti nella storia umana. I milioni di tonnellate di fumo di una guerra del genere avvolgerebbero l'intero pianeta nel giro di poche settimane e, riscaldate e portate in alto dal sole, rimarrebbero nell'alta atmosfera fuori dalla portata delle piogge e dei fenomeni meteorologici, bloccando la luce del sole per almeno dieci anni.
Riduzione della luce solare; raffreddamento, con stagioni di crescita più brevi, ondate di freddo e gelate in estate; precipitazioni ridotte anche del quaranta per cento nelle regioni monsoniche asiatiche; aumento delle radiazioni ultraviolette dovuto all'impoverimento dello strato di ozono protettivo nell'alta atmosfera; interruzione delle forniture di carburante, fertilizzanti e sementi. La combinazione di tutti questi fattori ridurrebbe o annienterebbe la produzione agricola nel mondo per molti anni. Le scorte mondiali di frumento basterebbero a nutrire la popolazione mondiale per appena due mesi e il commercio alimentare cesserebbe. In tali condizioni ci si può ragionevolmente aspettare che l'attuale miliardo e più di persone cronicamente malnutrite e le diverse centinaia di milioni maggiormente dipendenti dalle importazioni di frumento non sopravviverebbero a lungo.
Anche le sole testate presenti su un sottomarino a equipaggiamento nucleare sarebbero in grado di provocare, oltre a decine di milioni di vittime immediate, un disastro ambientale globale.
Questi dati hanno evidenti implicazioni politiche. La vulnerabilità alla catastrofe nucleare ci unisce tutti, ovunque siamo. Qualunque utilizzo delle armi nucleari comporta un rischio di escalation in modi imprevedibili e incontrollabili, e sarebbe non solo un crimine senza scrupoli ma anche un suicidio. L'abolizione delle armi nucleari è l'unica soluzione pratica e sostenibile. Presto, prima che vengano usate ancora.

(da SGI Quarterly, ottobre 2010,
traduzione di Monica Gambelli)

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L'inverno nucleare

Chi ha interesse ad acquisire e possedere armi atomiche

di Ray Acheson, direttrice di Reaching Critical Will

Perché in un mondo moderno, saturo di informazioni e teoricamente indipendente, esistono le armi nucleari? Qual è il loro scopo? Per cosa vengono usate? E quale rapporto hanno con la sicurezza?
Tutte queste domande possono trovare risposta se le riformuliamo così: a chi servono le armi nucleari? Chi le usa e per quali scopi? Chi ne trae maggiore sicurezza?
Le armi nucleari hanno fondamenti e conseguenze di ordine materiale, istituzionale, culturale e psicologico. L'interesse di uno stato nell'acquisire e possedere armi nucleari è il prodotto degli interessi di molteplici istituzioni e gruppi disseminati all'interno delle sfere di potere a livello governativo, aziendale, accademico e politico. Gli stati militarmente nucleari fanno leva su tali armi spinti dai vantaggi che specifici gruppi di elettori traggono dagli investimenti nella produzione e nel mantenimento degli armamenti. Un'analisi più approfondita dell'espressione "complesso militare-industriale" rivela che si tratta in realtà di una ristretta élite di elettori che sostengono e traggono vantaggio dallo sfrenato militarismo del XXI secolo, di cui le armi nucleari sono l'emblema. Di questa élite fanno parte anche il mondo accademico, il mondo politico e quello dello spettacolo.

Il complesso militare-industriale
Non fa differenza che si parli di "complesso militare-industriale" statunitense o indiano: le economie politiche degli stati militarmente nucleari sono sempre fondate sullo sviluppo e sul mantenimento di programmi e infrastrutture di armamento nucleare. Il "complesso" trae vantaggi economici dalla ricerca, dalla produzione e dallo stoccaggio di armamenti nucleari, e a sua volta sostiene economicamente e politicamente una struttura statale che alimenta il contesto nazionale e internazionale idoneo a mantenere in vita gli affari del "complesso". Come ha sottolineato in un discorso del 6 agosto 2009 Andrew Lichterman, avvocato e analista politico della ONG californiana Western States Legal Foundation, «il sistema delle armi nucleari è un temibile insieme di istituzioni che fanno parte di una costellazione molto più vasta di potenti strutture e organizzazioni se non proprio al potere mai troppo lontane da esso, che vedono i propri interessi ben serviti da una modalità di dominazione militare costituita, in ultima analisi, dalle armi nucleari».
Le armi nucleari sono uno strumento molto potente nelle mani dei governi che le possiedono e, anche se non vengono lanciate o fatte esplodere, servono come mezzo di coercizione o come deterrente nei confronti degli altri. In realtà le armi nucleari non servono per la sicurezza nazionale o mondiale, ma sono anzi antitetiche alla sicurezza e inadatte a rispondere alle minacce che il mondo contemporaneo percepisce come incombenti, per esempio il terrorismo, i cambiamenti climatici, l'emergenza alimentare e idrica, la carenza di risorse energetiche e la crescente disparità economica globale. Le armi nucleari esasperano tutte queste crisi perché lo sviluppo, il dispiegamento e la proliferazione degli armamenti aumentano le tensioni, le disuguaglianze, le contrapposizioni e il degrado ambientale a livello mondiale e determinano uno spreco di risorse economiche, politiche e umane che potrebbero essere impiegate diversamente per affrontare e risolvere le crisi stesse. Invece di allontanare le minacce, le armi nucleari in realtà allontanano il disarmo, la pace, l'equità, la giustizia e la sicurezza.
Eppure l'argomentazione ricorrente a favore delle armi nucleari (per bocca delle élite politiche degli stati militarmente nucleari e ripetuta in buona parte dai loro alleati geostrategici ed economici e perfino da alcune delle loro organizzazioni non governative) ribadisce l'importanza di mantenere un "efficace deterrente nucleare" finché non sarà raggiunto l'adeguato "clima di sicurezza internazionale" che consentirà l'eliminazione delle armi nucleari. Contemporaneamente però le stesse potenze nucleari che affermano ciò sono impegnate in attività che procrastinano a tempo indeterminato l'auspicato clima di sicurezza internazionale, continuando a realizzare forti investimenti bellici e militari a favore dei complessi militari-industriali-accademici, che a loro volta aiutano i governi che li alimentano a rimanere al potere, dando origine a un circolo vizioso di armi, guerre, insicurezza e disuguaglianze globali.
Per spezzare questo circolo vizioso è necessaria una nuova concezione del rapporto che lega le armi nucleari alle strutture elitarie e all'economia politica. I legami economici fra le armi nucleari e il resto del mondo diventano più chiari se capiamo per chi è la sicurezza di cui si parla. Se i fondi che le potenze nucleari spendono ogni anno per gli armamenti nucleari fossero destinati a programmi sociali, infrastrutture, istruzione, sanità o progetti per fonti di energia rinnovabili, le economie locali e nazionali potrebbero essere rimodellate per creare condizioni di vita eque e sostenibili per la maggior parte della popolazione mondiale.
Le persone interessate a promuovere una sicurezza umana autentica e sostenibile dovrebbero chiedersi: vogliamo davvero promuovere la sicurezza collettiva, l'eguaglianza e lo stato di diritto o vogliamo continuare a percorrere la strada iper-militarizzata della disuguaglianza e dell'insicurezza? Vogliamo davvero creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari? Allora dobbiamo dare vita a un dibattito nuovo sull'inutilità delle armi nucleari come strumento di prevenzione o deterrenza delle crisi del mondo attuale, sottolineando che tali ordigni non fanno altro che perpetuare lo status quo di disuguaglianza e insicurezza. E questo dibattito deve collegarsi al lavoro di tutti quelli che lottano per un sistema mondiale più giusto e sicuro, basato sulla dignità di tutti gli esseri umani, in modo che gli sforzi per ridurre il militarismo ispirino una concezione più ampia della sicurezza umana e diano vita a un ordine mondiale più equo e collaborativo.
Per cominciare, è necessaria un'azione concertata a livello internazionale, nazionale e locale per fermare la continua produzione, modernizzazione e proliferazione delle armi nucleari e per stigmatizzarne il possesso e lo sviluppo. È necessario che tutti nel mondo rinuncino alle armi nucleari come strumento legittimo di sicurezza nazionale o internazionale e dichiarino inaccettabile non solo il loro impiego, ma anche il loro possesso. I paesi non militarmente nucleari e che non sono sotto la protezione di potenze nucleari hanno un ruolo fondamentale nel creare isolamento e pressione nei loro confronti. Essi potrebbero negoziare una convenzione sulle armi nucleari che ne dichiari illegale lo sviluppo e il possesso. Questi paesi e le ONG possono avvalersi del diritto umanitario internazionale per sostenere l'illegalità dell'uso, e quindi anche del possesso, delle armi nucleari. Possono anche condurre inchieste sui programmi di modernizzazione nucleare per verificare che siano compatibili con la loro "visione" di un mondo senza armi nucleari.
Ci sono moltissimi modi in cui cittadini attivi e impegnati in ogni paese possono contribuire a cambiare le regole del gioco. Il punto di partenza di ogni strategia è capire la correlazione fra questo tipo di armi e le strutture di potere che le mantengono, e riconoscere l'incompatibilità fra armi nucleari e un'autentica sicurezza umana.

(da SGI Quarterly, ottobre 2010,
traduzione di Monica Gambelli)

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Disarmo nucleare e sicurezza umana

In Giappone il Summit dei Nobel per la pace

di Silvia Manco, responsabile delle relazioni internazionali del Segretariato dei premi Nobel per la pace

14 novembre 2010. «Noi sottoscritti premi Nobel per la pace e rappresentanti di organizzazioni Nobel per la pace, riuniti a Hiroshima, dopo avere ascoltato le testimonianze degli hibakusha non abbiamo dubbi nell'affermare che l'uso delle armi nucleari contro chiunque deve essere considerato un crimine contro l'umanità e deve d'ora in avanti essere proibito».
Inizia così la dichiarazione finale sottoscritta dai premi Nobel per la pace e dalle organizzazioni Nobel per la pace riunitisi a Hiroshima dal 12 al 14 novembre 2010 e letta di fronte al Cenotafio nel Peace Memorial Park.
Lo straziante Genbaku Dome (la cupola della bomba atomica), alle spalle del palco, si erge solitario, monito per le future generazioni.
Alle 8.15 del 6 agosto del 1945 la prima bomba nucleare veniva fatta esplodere su Hiroshima. Settantamila persone morirono all'istante e almeno altre settantamila morirono successivamente per le ferite causate dalle radiazioni.
I sopravvissuti, chiamati appunto hibakusha, sono stati invitati a partecipare a questo summit per portare la loro esperienza.
È il 12 novembre, prima giornata del summit. Dopo il coro dei bambini delle scuole elementari e i doni che hanno portato ai premi Nobel è la volta della prima testimonianza di un hibakusha.
Aveva dieci anni quando è esplosa la bomba. Stava andando a scuola. Piange ricordando l'orrore dei corpi straziati, delle persone ustionate che camminano come zombie, la pelle a brandelli cercando il fiume per tentare di lenire il dolore delle bruciature, i vestiti tutt'uno con la pelle.
Piange quest'uomo di settantacinque anni, mostrando la divisa di scuola del suo migliore amico spazzato via dall'esplosione.
Dignitosamente piange di un pianto silenzioso e si asciuga le lacrime.
Piange l'interprete in cabina, i suoi singhiozzi ci arrivano nelle orecchie attraverso le cuffiette per la traduzione.
Piange tutta la platea con lui per questo orrore dell'essere umano sull'essere umano.
E nonostante il mondo sia consapevole di tale orrore, l'abolizione totale delle armi nucleari sembra un miraggio.
Diceva Patch Adams, meraviglioso medico ideatore della clown terapia, durante la sua spedizione con altri ventuno medici italiani negli ospedali di Kabul: «Questi signori della guerra non hanno mai tenuto un bambino morente in braccio perché, se avessero tenuto un bambino che muore tra le loro braccia, non farebbero la guerra».
Deve essere questo fatto a impedire a Cina, Stati Uniti, Egitto, Iran, Israele e Indonesia a ratificare il Trattato per la messa al bando dei test nucleari (CTBT), a consentire agli Stati Uniti di fare un test nucleare proprio quest'anno, a impedire a India, Pakistan e Corea del Nord non solo di ratificare ma anche di firmare tale trattato.
Deve essere questa capacità di vedere come esterno il dolore di un altro e dunque l'incapacità di vedere come in realtà tutti siamo così legati gli uni agli altri a impedire a questi stati di fare azioni più concrete verso il disarmo totale.
Hiroshima, città della pace, ha saputo utilizzare il suo dolore per mostrare al mondo cosa accade quando l'egoismo e la sete di potere prendono il sopravvento.
Attraverso il Museo, il Cenotafio e il Dome, con più di un milione di visitatori l'anno, Hiroshima mostra pazientemente le sue ferite e spiega, anche nei dettagli, cosa accadde e cosa potrebbe ancora accadere se non agiamo per il disarmo nucleare.
Nel museo c'è una parte di una gradinata di marmo con una sagoma più scura sulle scale, come l'ombra di una persona seduta. Ma io non vedo nessuno.
C'era una persona lì seduta, mi spiegano.
È rimasta l'ombra.
La gente di Hiroshima non ha né rancore né odio, si potrebbe dire che ha trasformato il suo karma in missione.
La missione di fare in modo che questo messaggio di pace arrivi forte e chiaro ovunque, in ogni angolo dell'universo.
E che nessuno dimentichi mai.
Gli hibakusha, in particolare, da anni portano le loro esperienze per trasmettere le sofferenze subite e contribuire al disarmo nucleare.
I Nobel per la pace quest'anno hanno assegnato loro un riconoscimento per tutti gli sforzi profusi. Nella cerimonia di conferimento un energico signore di ottantun anni, Sunao Tsuboi, capo della Confederazione giapponese delle vittime della bomba, racconta di avere avuto due tumori e diverse malattie come conseguenza delle radiazioni ma dice: «Sono vivo, e finché vivo continuerò a lottare contro le armi nucleari con tutto me stesso, non smetterò mai, saigomade - fino alla fine».
La Croce Rossa, insignita tre volte del premio Nobel per la pace, afferma che «le armi nucleari sono uniche per il loro potere distruttivo, per le inenarrabili sofferenze umane che causano, per l'impossibilità di controllo dei loro effetti nello spazio e nel tempo, nell'aumento dei rischi che creano e la minaccia che rappresentano per l'ambiente, le generazioni future e in effetti per la sopravvivenza dell'umanità stessa».
È così. Tutti lo sanno. Nonostante ciò, dal 1945 in avanti c'è stata una vera e propria corsa agli armamenti nucleari.
A partire dal 1982 Ronald Reagan cominciò a dichiarare pubblicamente «che una guerra nucleare non può essere vinta e perciò non dovrà essere mai combattuta».
Ma la questione non riguarda solo la minaccia di una guerra nucleare. Per poter investire migliaia di miliardi in armamenti restano non affrontati tanti altri mali del nostro tempo. Nel mondo si spendono più di 1164 miliardi di dollari (dato 2008) in armi nucleari, contemporaneamente muoiono di fame ogni giorno ventiquattromila persone (nel 1990 secondo la FAO la povertà assoluta riguardava il 46% della popolazione mondiale) e dal 1981 a oggi sono morte venti milioni di persone di AIDS.
Domanda provocatoriamente e in maniera accorata Thomas Stelzer, assistente al Segretario generale ONU: «Cosa dobbiamo rispondere a tutti questi bambini che muoiono di fame? Ai poveri? Non possiamo permetterci di farvi vivere perché i nostri soldi sono tutti spesi in armi nucleari?».
Sebbene dalla famosa dichiarazione di Reagan siano stati compiuti notevoli passi avanti verso il disarmo, c'è ancora un numero tale di armi nucleari in grado di distruggere più volte e totalmente il nostro pianeta.
«Le armi nucleari devono essere considerate fuori legge allo stesso modo delle armi chimiche, biologiche, delle mine antipersona e delle munizioni a grappolo». Così ribadiscono i premi Nobel nella loro dichiarazione finale.
Considerando che dopo la seconda guerra mondiale sono morte ottantasei milioni di persone a causa di guerre, l'abolizione delle armi e in particolare di quelle nucleari è quanto mai necessaria.
Dice il Dalai Lama: «Dobbiamo costruire questo concetto di big me, grande me. Dovremmo tutti pensare che sette miliardi di esseri umani sono tutti parte di me. In tal modo l'intero concetto di nemico viene eliminato».
La premio Nobel Jody Williams parla del potere della gente comune, in grado di influenzare le decisioni dei governi. «Uniamoci - dice - lavoriamo insieme per gli stessi obiettivi. Noi abbiamo bisogno di voi. È la gente comune che decide, non i governi. La gente deve comprendere che ha questo potere».
È vero, la gente ha questo potere e spesso non lo sa o fa finta di niente, come diceva Martin Luther King: «Le nostre vite cominciano a esaurirsi il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano».
Ognuno di noi ha il potere di costruire un cuore nonviolento in ogni circostanza, in ogni aspetto. Il potere di iniziare il "disarmo" dal proprio cuore, dal proprio microcosmo e trasmettere questo messaggio agli altri. Il potere infinito dell'azione e della lotta contro le ingiustizie basate su un cuore nonviolento e benevolente per la nostra e l'altrui felicità.
Così come afferma Nichiren Daishonin nel Rissho ankoku ron: «Se vi preoccupate anche solo un po' della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l'ordine e la tranquillità di tutti e quattro i quadranti del paese» (Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1, 25).

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L'eredità di Hiroshima

di Roberto Carvelli a Annarita Curcio



Lei ha unito studi e pratiche del visivo - arte e cinema - alla meditazione sui significati delle rappresentazioni fotografiche della guerra. Ci può parlare del suo lavoro? Attraverso quali passaggi è arrivata al concetto di icona nella foto di guerra? 
La prima premessa, affinché una qualsivoglia fotografia assurga al rango di icona, è che deve essere percepita dal senso comune come una prova certa, ovvero quello che rappresenta deve essere realmente accaduto; insomma la verità del suo contenuto non deve venire minimamente messa in discussione. Potremmo dire che l'icona è un'immagine fotogiornalistica che indica o meglio rappresenta in maniera paradigmatica il climax di un evento, sia esso una guerra o un fatto di cronaca; perciò quell'immagine diventerà un emblema, un simbolo capace di fornire, istantaneamente, informazioni e dettagli su di un particolare evento della storia. Si pensi, giusto per fare qualche esempio, all'icona della guerra civile spagnola, Il momento della morte di Robert Capa, alle foto simbolo della liberazione dei campi di concentramento. Fatte salve le ovvie differenze, le icone, per così dire, condividono un eguale destino: nel momento in cui entrano nell'arena pubblica vanno soggette a un processo di massiccia e ubiqua riproduzione. Esse diventano una presenza immediatamente familiare, vengono fagocitate dall'immaginario collettivo, anzi ne diventano parte integrante. E perché parliamo di icona? Perché come le icone sacre esse incutono timore reverenziale, o diventano oggetto di culto, di adorazione. Si pensi, ad esempio, all'immagine forse più riprodotta e celebrata della seconda guerra mondiale, The raising flag of Iwo Jima, del fotografo Joe Rosenthal. Le fotografie-icona giocano un ruolo chiave nella formazione dell'identità pubblica e della memoria collettiva.



Veniamo all'icona del fungo atomico; nel suo lavoro lei mette in risalto come una specie di selezione delle immagini abbia portato alla creazione della foto-icona del fungo di Hiroshima, una sorta di logo freddo e quasi naturale di una tragedia che ha fatto vittime reali. 
"La verità è la prima vittima della guerra", questo celebre adagio, la cui paternità è ascrivibile al senatore americano Hiram W. Johnson, allude senza mezzi termini allo zelo con cui la censura militare esercita il proprio potere di veto su immagini e testi prodotti dal fronte. Sarebbe forse meglio dire che la prima vittima della guerra è proprio l'immagine. La parola può avere mille significati, mille interpretazioni, l'immagine no; soprattutto quando mostra dei corpi di cadaveri o di feriti: è un'immagine di sofferenza che immediatamente solleva questioni morali e un giudizio di accusa nei confronti dei responsabili. All'indomani dello scoppio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e 9 agosto 1945, fotografi e cineoperatori raggiunsero le due città per testimoniare e documentare gli effetti disastrosi delle deflagrazioni atomiche. Ciononostante, tutto questo materiale non fu fatto vedere fino alla fine degli anni '60. Metri e metri di pellicole furono immediatamente spediti a Washington ed etichettati come "segreto militare". Contestualmente furono rese pubbliche solo le immagini del fungo atomico e delle vedute aeree delle due città distrutte. L'immagine del fungo, che tutti conosciamo, mostra una nube di fumo alta diciassette chilometri che si leva sulla città colpita. 
Ma la vera, immensa tragedia è sotto quel fungo che ha fatto sparire, polverizzandole, decine di migliaia di persone riducendole a ombre, a brandelli. Le vedute aeree mostrano, invece, le due città incenerite, rase al suolo; non c'è presenza umana; niente e nessuno sembra aver mai abitato quei luoghi. L'icona della bomba divenne allora, per la sua capacità di "coprire" più che di mostrare, non già il simbolo di un crimine operato da esseri umani su altri esseri umani, bensì l'emblema della democrazia vittoriosa contro i fascismi, il vessillo di un'egemonia tecnologica e militare. La natura astratta, incorporea di queste immagini anestetizzò il pubblico occidentale, gli impedì qualsiasi forma di coscienza sull'accaduto, precluse una reale conoscenza degli eventi di Hiroshima e Nagasaki. Esse furono gli strumenti visivi di una campagna mediatica volta evidentemente a far dimenticare il prima possibile le vittime e i sopravvissuti dell'atomica. 
Non andò meglio in Giappone. Gli hibakusha, ovvero i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, vennero isolati, ostracizzati perché testimoni di una ferita che invece doveva esser dimenticata al più presto. La foto che venne diffusa fu quella del Genbaku Dome (letteralmente "cupola della bomba atomica"), un'immagine che mostra l'unico edificio miracolosamente sopravvissuto allo scoppio di Hiroshima. Anche in questa foto prevale un registro astratto; non vediamo uomini, donne, bambini, non vediamo feriti, cadaveri. Insomma, sono foto che non urlano e che non feriscono. Semmai incoraggiano all'indifferenza, al distacco, alla dimenticanza. 
Perché? Per non suscitare riprovazione, dissenso, per garantirsi obbedienza e consenso. Insomma, queste icone ci raccontano la storia di un uso propagandistico e repressivo dell'immagine fotografica.



Non crede che il pericolo del nucleare sia stato sminuito da questa semplificazione degli effetti? 
Sì e no. Malgrado Truman e il suo staff abbiano fin dalle prime dichiarazioni ufficiali minimizzato le perdite umane, diffuso false notizie e ratificato una precisa strategia volta a mantenere la segretezza per un monopolio tecnologico diffondendo solo immagini anestetizzanti, tutto ciò non valse a impedire la propagazione negli anni '50, in piena guerra fredda, di una vera e propria psicosi. L'incubo dell'attacco atomico perseguitò l'America. E questo non già per il ricordo di Hiroshima, Nagasaki e dei suoi morti, ma per effetto di una prodigiosa corsa agli armamenti atomici e per via di una campagna propagandistica volta a deformare parossisticamente i connotati del nemico sovietico. Quindi direi, piuttosto, che la percezione del pericolo nucleare, e di tutto quello che ne consegue, è venuta scemando in anni più recenti, ma nel periodo della proliferazione atomica gli americani risposero all'eventualità di un attacco con molta partecipazione emotiva.



Più in generale, cosa comporta questa educazione all'eufemismo visivo per un osservatore comune, uno spettatore inconsapevole? 
Quando una nazione è coinvolta in una guerra, può accadere che l'opinione pubblica si veda negato il diritto sacrosanto all'informazione libera e pluralista. Le notizie e le immagini che provengono dal fronte devono sopportare il veto della censura militare, che si concretizza con il divieto di pubblicazione, di accesso al fronte dei reporter o attraverso un controllo degli spostamenti dei corrispondenti e la creazione ad hoc di occasioni allettanti per i giornalisti, note nel gergo militare come photo opportunities o, più semplicemente, photo ops. È vero quando si dice che attraverso la fotografia si apprende e si ricorda, ma quando questa cessa di svolgere il suo ruolo informativo, perché al servizio della politica, allora fa contemporaneamente ignorare e scordare.



Come avviene questo passaggio dalle foto "scelte" alla "scelta delle foto" nella rappresentazione della guerra? Mi riferisco, appunto, al fotogiornalismo embedded che ultimamente ha preso il sopravvento sulle foto dal fronte, la presa diretta, la testimonianza cruda e dolorosa, come se i reporter lavorassero con il fotoritocco in automatico ed ex-ante? O forse dovremmo parlare di una sorta di tabù originale che condiziona i loro scatti? 
Diceva l'urbanista e saggista Paul Virilio, non c'è guerra senza rappresentazione. Una considerazione inopinabile che contiene un implicito interrogativo: che tipo di rappresentazione? 
Una rappresentazione che non disturbi, che ottenga il consenso che è necessario a legittimare programmi e processi decisionali, che aiuti a formare la percezione pubblica della sicurezza nazionale, a rendere la guerra più accettabile, più digeribile in patria. Fin dalla prima guerra mondiale, l'accesso al campo di guerra divenne questione problematica. Da allora le cose non sono cambiate, anzi sono persino peggiorate, dal momento che le nuove tecnologie permettono di diffondere le notizie molto più rapidamente e di eludere con maggiore facilità i divieti della censura. Un'invenzione recente per limitare ulteriormente la libertà degli operatori dell'informazione è una strategia militare nota come embedding, ovvero arruolamento dei media. La pratica dell'embedding è diventato regolamento del Dipartimento della difesa USA a partire dal febbraio 2003, poche settimane prima dell'inizio della seconda guerra in Iraq. I giornalisti embedded (letteralmente "incorporati", cioè parte di una corporazione) vivono in prima linea, accanto ai soldati in azione, senza tuttavia poter scrivere, riprendere o fotografare fino in fondo ciò che vedranno.



Un concetto che sembra improntare tutto il suo lavoro è quello dell'ellissi, dell'omissione. Quali sono le motivazioni più profonde, a suo modo di vedere, di questa cancellazione? Potremmo parlare di una specie di rimozione degli effetti per arrivare a una rimozione delle cause? 
Sì, dice bene lei, rimozione degli effetti per arrivare a una rimozione delle cause. Quello che racconto nel mio saggio rimanda ai chiaroscuri della politica, al fatto che la ragion di stato deve sempre prevalere sulla verità, soprattutto se si tratta di una verità scomoda. Da parte degli Stati Uniti non c'è ancora stato un riconoscimento delle proprie responsabilità, gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki ancora aspettano che un presidente americano faccia visita alle due città. Ha stupito, infatti, la presenza, per la prima volta dopo sessantacinque anni, di un delegato statunitense a Hiroshima in occasione della cerimonia di commemorazione, il 6 agosto 2010. Il Giappone dal canto suo, non ha agito diversamente. Gli hibakusha hanno ricevuto un sussidio di indennità e assistenza sanitaria solo dopo dieci anni. L'onta della sconfitta doveva esser dimenticata a tutti i costi. 
Per dirla in poche parole, i due paesi, per ragioni diverse, hanno incoraggiato la rimozione collettiva della memoria collettiva. Così la questione dell'atomica si è trasformata in una non-issue (tematica di scarsa importanza, n.d.r.). La presa di coscienza che è venuta a mancare in questi anni è il prodotto di questa cancellazione avvenuta, come cerco di dimostrare nel mio studio, attraverso una capillare opera di disinformazione.



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Utopia da realizzare

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