«La vita dei membri più anziani&nbsp;



che hanno profondamente interiorizzato&nbsp;



gli insegnamenti del Daishonin&nbsp;



è come un faro che proietta una nuova filosofia&nbsp;



in grado di illuminare l’umanità»&nbsp;



[  dall'inedito di DAISAKU IKEDA  ]

Il privilegio di invecchiare

«Una società che invecchia dovrà rivedere i propri valori privilegiando la cooperazione rispetto alla competizione, la qualità rispetto all’efficienza, la ricchezza spirituale rispetto a quella materiale» (Daisaku Ikeda) 



Secondo le definizioni ufficiali è considerato anziano chi ha compiuto il 65o anno di età, anche se da diversi anni comincia a farsi strada la proposta di portare questa soglia a 75 anni, quanto meno nel nostro paese. L’Italia, con il 24,7% della popolazione di over 65, è infatti la seconda nazione più anziana del mondo, preceduta solo dal Giappone (se si considerano anche i micro-Stati il primato spetta al Principato di Monaco). A livello europeo questo dato non si discosta molto, con il 21,6% di over 65, mentre se consideriamo l’intero pianeta la percentuale è molto più bassa (10,3%). È chiaro da questi dati come il tema dell’invecchiamento della popolazione coinvolga soprattutto le società con un maggiore sviluppo economico e sociale, in virtù dell’aumento del tenore e dell’aspettativa di vita. Invecchiare è quindi un privilegio, ma come tutte le fasi della vita porta con sé anche numerose sfide e difficoltà. Il sempre più rapido invecchiamento della nostra società richiede di affrontare con urgenza interrogativi cruciali, questioni che ci coinvolgono in una riflessione collettiva: “Come sostenere al meglio questa fascia di popolazione che richiede cura e assistenza?”, “Come riuscire a destinare le giuste risorse a questo scopo, senza penalizzare le nuove generazioni che pure necessitano di sostegno e strutture sociali adeguate?”. Ci sono poi domande che rimandano a una riflessione personale: “Come vivere l’ultimo capitolo della propria esistenza in modo attivo e ricco di significato?”, oppure: “Come riuscire a prendersi veramente cura delle persone anziane, specialmente se affette da una malattia?”. Il Buddismo considera l'invecchiamento come una delle quattro sofferenze della vita, insieme alla nascita, alla malattia e alla morte. Daisaku Ikeda scrive, a tale proposito: «Nel discutere i problemi della società attuale che invecchia sempre più rapidamente, le persone spesso indicano come cause principali i costanti cambiamenti sociali e il sostegno inadeguato da parte delle istituzioni. Questi fattori sono senza dubbio importanti, ma credo che dobbiamo concentrarci sulla questione più essenziale. […] Rifiutando il cambiamento, limitiamo noi stessi a ciò che siamo ora. Finché si continua a distogliere lo sguardo dalle realtà dell’invecchiamento, della malattia e della morte, si nega il proprio stesso futuro» (La saggezza per creare la pace e la felicità, vol. 1, Esperia, p. 230). In definitiva, tutto dipende da quali visioni abbiamo della vita e della morte: «C’è un detto che afferma: “Lo stupido crede che la vecchiaia sia come l’inverno; il saggio la considera un’epoca d’oro”. Tutto dipende dal nostro atteggiamento, da come consideriamo la vita. Guardiamo alla vecchiaia come un periodo di declino che finisce con la morte o come una fase nella quale abbiamo l’opportunità di raggiungere i nostri obiettivi e portare a compimento un’esistenza piena di risultati e soddisfazioni?» (Ibidem, p. 214).



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Nelle pagine che seguono: • esperienze e riflessioni di uomini e donne della Soka Gakkai dai 30 ai 90 anni e oltre • un'intervista a una giovane geriatra impegnata sul campo • una lunga lezione inedita di Daisaku Ikeda dedicata al Gruppo Molti Tesori, i pionieri e le pioniere del nostro movimento
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Introduzione

Ogni attimo è prezioso e contiene infinite possibilità 



Quando il mio primogenito ha lasciato questa Terra aveva ventisei anni ed era nel pieno di una vita felice e ricca di soddisfazioni. A distanza di anni da quella perdita incolmabile, ed essendo entrata nella cosiddetta terza età, ora capisco il senso di quanto diceva Menandro quando affermava che le persone più amate dagli dèi muoiono prematuramente.  L’invecchiamento è stato in ogni epoca generalmente inteso come sinonimo di decadimento fisico e mentale, un’anticamera della morte insomma. Terenzio Afro, con la famosa frase “Senectute ipsa morbus est” [La vecchiaia è di per sé una malattia], sottolineava le limitazioni e i malanni fisici connessi con l’invecchiamento, e anche Seneca si soffermò sul tema con il suo scritto De brevitate vitae, ma più saggiamente si concentrò sull’importanza di vivere al meglio il tempo a nostra disposizione, focalizzando l’attenzione sulla qualità degli anni trascorsi su questa Terra. Affermava in sostanza che, se ci si dimentica del passato, si trascura il momento presente e si teme ciò che ci riserverà il futuro, si vive senza gioia, insomma si esiste senza vivere pienamente. Il pensiero buddista è perfettamente in linea con questo, si deve vivere il qui ed ora perché ogni attimo è prezioso e contiene infinite possibilità. Come esseri umani sappiamo che non è per niente facile accettare con serenità l’impermanenza della materia e quindi anche del nostro corpo. Oscar Wilde ha ben rappresentato ne Il ritratto di Dorian Gray l’ossessione della società vittoriana per la bellezza e la ricerca del piacere e in particolare il dramma dell’uomo che, per paura dell’invecchiamento e della morte, giunge a sacrificare la sua anima per restare eternamente giovane. Si può affermare che la ricerca dell’eterna giovinezza sia un leitmotiv universale e sempre attuale, soprattutto nelle società più consumistiche, dove la cura della bellezza e il desiderio di apparire sempre giovani e attraenti sono una priorità. In alcuni casi il corpo rischia di diventare un oggetto di culto al quale si cerca di garantire ossessivamente l’immortalità nascondendo i segni del tempo.  Afferma Daisaku Ikeda, nel libro Il bene più prezioso, che chi ha incentrato la vita sul lavoro quando va in pensione perde il suo ruolo sociale e il senso stesso del vivere. Per rimanere vitali ed energici è necessario quindi mettersi nuovi scopi: «La vecchiaia è il tempo, più di ogni altro della nostra vita, in cui dobbiamo chiederci qual è il nostro valore di esseri umani. Nutriamo ancora qualcosa di valido nei nostri cuori, oltre al prestigio e alla posizione sociale? […] Gustiamo la gioia e l’allegria della vita. I nostri cuori, le nostre menti e i nostri corpi non hanno il tempo di arrugginirsi se alla base di tutto c’è il Daimoku, non c’è medicina più efficace per rigenerare la nostra vita e le attività per kosen-rufu sicuramente costituiscono il regime migliore per un’ottima salute» (pp. 255-256). Da quando sono andata in pensione non ho affatto perso la mia identità, anzi ho addirittura l’impressione che il tempo non mi basti mai per fare le cose che mi piace fare. Insegno l’italiano a mamme straniere di bimbi ospedalizzati, ho imparato a giocare a golf, mi sono dedicata maggiormente alla scrittura e alla lettura, nonché alle parole crociate che tengono allenati i miei neuroni. E poi c’è una nipotina, e un’altra in dirittura di arrivo, che mi aprono al sorriso, alla tenerezza e al gioco. Una grande ricompensa dopo la dura lezione che la vita mi ha costretta a imparare.  La salute è un bene prezioso da salvaguardare con saggezza, raccomanda il nostro maestro, ma la finalità non è quella di raggiungere un’estrema longevità fine a se stessa, quanto di avere il maggior tempo possibile per portare a compimento sì una lunga vita, ma anche un buon livello di benessere fisico e mentale. Questo è il mantra che ripeto alle mie cellule da quando, guardando le mie rughe allo specchio, mi sono resa conto che gli anni che ho alle spalle sono molti di più di quelli che mi restano. Scrive ancora Ikeda che «è importante riposarsi a sufficienza e non sforzarsi fino all’esaurimento, ma non dobbiamo mai permettere che il nostro fuoco interiore si spenga» (Ibidem).  Devo dire che grazie alla fede il mio fuoco interiore è sempre acceso e il mio spirito è forse più giovane ora di quando avevo trent'anni perché è supportato dall’esperienza e dalla saggezza che ho conquistato.  Sensei, che usa sempre il termine “palcoscenico della vita”, mi ha fatto capire che siamo noi a scegliere il ruolo da interpretare vita dopo vita per trasformare il nostro karma e diventare attori ancora più performanti nelle prossime esistenze. In particolare, mi ha sempre confortato il concetto della trasformazione del karma in missione. Cosa posso fare della sensazione di perdita, del dolore assordante che ancora mi attanaglia, se non trasformarlo in valore? Ogni giorno davanti al Gohonzon prometto a me stessa di cercare di condurre sempre, anche quando sono stanca e non ne ho proprio voglia, una vita contributiva. Accumulare i tesori del cuore, come raccomanda Nichiren, per me vuol dire vivere al massimo la mia esistenza per la felicità e il benessere della mia famiglia e di chi la vita metterà sul mio cammino, ma soprattutto usare la mia esperienza per testimoniare la grandezza della Legge. Infine Ikeda formula questo auspicio: «Il Buddismo insegna che ringiovaniremo e accumuleremo buona fortuna. […] Vivendo ogni giorno fino in fondo possano le nostre vite arrivare ad una magnifica conclusione come i raggi del sole al tramonto, che illuminano il cielo in tutte le direzioni» (Ibidem, 257).  (Federica Tagliani)

Non temere il tempo che passa

Non è affatto vero che la vita di un giovane vale più di quella di un vecchio 



Mia mamma era già piuttosto anziana quando ebbe un incidente in automobile e si ruppe un braccio. Ricordo nitidamente la rabbia che provai in quella circostanza: al momento di ottenere il risarcimento, il medico legale mi disse che, in virtù della sua età, poteva ottenere un indennizzo quasi irrisorio rispetto a un giovane. Esisteva addirittura una tabella che definiva il valore dell'esistenza di una persona in base all'età: come se la vita di un giovane valesse tanto e quella di un anziano valesse poco e niente. Quando penso a questo episodio mi viene sempre in mente una parabola buddista, quella del falco e della colomba (cfr. BS, 92, 26-27), che ho sempre amato per la sua crudezza e profondità. Re Sibi, un sovrano noto per la sua grande compassione, stava ricevendo i suoi sudditi quando una colomba si rifugiò sotto il suo trono inseguita da un falco pronto a ghermirla. Il re fermò il rapace che aveva già la preda stretta nei suoi artigli e gli disse: ti darò io la stessa quantità di carne della colomba, ma tu promettimi di lasciarla libera. Il falco accettò, quindi il sovrano mise la colomba su un piatto della bilancia e cominciò a tagliarsi la carne per metterla nell'altro piatto, ma ogni volta la colomba pesava di più. Il santo continuava a togliersi la carne sempre più profondamente finché rimase praticamente soltanto lo scheletro. Eppure la colomba pesava sempre di più. Arrivato allo stremo, finalmente, re Sibi capì che la vita non aveva prezzo: si poteva mettere sul piatto della bilancia qualsiasi cosa, qualsiasi pietra preziosa, oro, argento, gemme e diamanti, ma la colomba sarebbe stata sempre più pesante. Allora decise di mettersi lui stesso sull'altro piatto e finalmente la bilancia andò in pareggio. Dal punto di vista buddista non c'è assolutamente nulla di più prezioso della vita. Non è affatto vero che la vita di un giovane vale più di quella di un vecchio: un singolo giorno di vita è più prezioso di tutti i tesori dell'universo, giovane o vecchio che sia. E c’è dell’altro: dal punto di vista della vita vissuta, dal punto di vista della pratica quotidiana, le differenze tra giovani e vecchi hanno poco senso. «Sviluppa sempre più la tua fede fino all’ultimo momento della tua vita», scrive Nichiren. Occorre dedicarsi con impegno e diligenza fino all'ultimo giorno, al massimo delle proprie capacità. È chiaro che il 100% dell'impegno di un giovane sarà molto diverso da quello di un ottantenne, ma sempre 100% deve essere.  Accanto alle capacità che con il passare degli anni vengono meno, come la forza fisica, l’elasticità dei muscoli o la rapidità dei riflessi, molte altre, altrettanto preziose, diventano più evidenti. E sono queste, io credo, i “molti tesori” dell’età adulta. Vorrei ricordarne una, per me davvero importante: la libertà. Un altro nome per la “terza età” è "età libera". Credo si chiami così anche perché, per esempio, con l’età della pensione gli impegni lavorativi vengono meno, i figli diventano autonomi e diminuiscono le responsabilità. Anche se credo che la libertà di cui parla il Buddismo non dipenda tanto da simili circostanze. Scrive Daisaku Ikeda: «Libertà non significa assenza di limitazioni. Possedere un’irremovibile convinzione di fronte a qualsiasi ostacolo: questa è la vera libertà» (Giorno per giorno, Esperia, 7 settembre). A una riunione di discussione un ospite chiese ad Amalia Miglionico (la prima praticante italiana) quale fosse il beneficio più importante che avesse ottenuto dopo tanti anni di pratica. Lei rispose semplicemente, con quel sorriso sereno che la contraddistingueva: «Io non ho più paura di niente!».  Pratico il Buddismo da diversi anni ma solo ultimamente, da due o tre anni, a causa, o meglio grazie a una serie di problemi personali ho “dovuto” prendere l’abitudine di recitare un paio di ore di Daimoku al giorno. Al di là delle circostanze, il beneficio più grande che ho ottenuto è un profondo senso di libertà che accompagna le mie giornate. All’apparenza sono sempre le stesse, con gioie e dolori, problemi e ostacoli. Ma c’è qualcosa di profondo che mi fa godere della vita, con tutte le difficoltà e i problemi di sempre. Forse questo è dovuto semplicemente al fatto che sono entrato “nell’età libera”. Ma a me piace pensare che questa mia condizione è dovuta al fatto che ho cominciato a interiorizzare, a percepire inconsciamente l’eternità della vita. Che continuerò a rinascere vita dopo vita utilizzando i miei problemi per realizzare kosen-rufu. «Per noi che dall’infinito passato abbiamo fatto una promessa, le mareggiate di questa esistenza sono benefici» (D. Ikeda, NR, 380, 1 settembre 2007). (Lodovico Prola)

L'età libera

Per portare a compimento il progetto che ci siamo affidati prima di nascere 



“Giovani dentro” è un’espressione triste. Richiama immediatamente “vecchi fuori” e sembra implicare che, nonostante purtroppo si sia vecchi fuori, almeno si è giovani dentro. Anche “meno giovani”, “diversamente giovani” e simili eufemismi fanno tristezza per la visione della vita che presuppongono. Cioè che l’ultima parte dell’esistenza sia peggio delle altre, sia un male da mascherare facendolo apparire un “meno bene”.  La sera è peggio della mattina? Il pomeriggio è meglio della notte? La maggior parte di noi risponderà di no. E allora perché l’ultima parte della vita è peggio delle precedenti?  L’idea che l’anzianità sia una fase di gran lunga peggiore delle altre deriva essenzialmente dalla concezione della morte che prevale nell’Occidente globalizzato e nella modernità: la vecchiaia è la squallida anticamera dell’insensata e terrificante fine.  Praticando il Buddismo di Nichiren entriamo sempre più, in modo spontaneo, nella consapevolezza – non è solo una credenza intellettuale – della continuità della vita attraverso le due fasi di vita manifesta e vita latente (morte). Solo questa consapevolezza, alimentata dalla preghiera di ogni giorno, è in grado di estirpare alla radice l’idea che la vecchiaia sia un male. Nemmeno la concezione, coltivata da altre religioni, che a questa vita segua un’eternità disincarnata è sufficiente a risolvere il problema: essa implica infatti che l’esistenza fenomenica sia nel suo complesso un male se paragonata alla paradisiaca liberazione dalla gravità che ci attende. E se questa vita, a causa dei suoi disagi legati alla fisicità, è complessivamente un male, figuriamoci se non lo diventa l’età in cui quei disagi aumentano a dismisura! Si è più vicini alla liberazione, in quell’ottica: ma pensare questo implica sfuggire al presente rifugiandosi nel futuro ultraterreno. E sfuggire al presente è infelicità, è offesa alla vita.   Proviamo a domandarcelo ancora: perché la vecchiaia è peggio delle altre fasi, anche mettendo tra parentesi la questione-morte? Perché ci si ammala, si dirà. Ma ci si ammala anche prima, e da bambini spessissimo. Perché si diventa dipendenti dagli altri? Non sempre e/o non del tutto, e comunque non è detto che sia un male. Il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre parla delle “virtù della dipendenza riconosciuta”, che rappresentano “la necessaria controparte delle virtù di indipendenza” e autonomia, giustamente poste in grande risalto dalla modernità.<a id="41a41155-9dcc-4f74-9be5-ffb16ed8eff8-link" href="#41a41155-9dcc-4f74-9be5-ffb16ed8eff8">1</a> Ad esempio, una virtù della dipendenza riconosciuta è quella di essere capaci di ricevere aiuto senza sentirsi per questo sminuiti e senza far scivolare la gratitudine in un nascosto risentimento. Mi viene in mente la canzone Sometimes You Can’t Make It On Your Own degli U2, in cui la difficile accettazione della parziale dipendenza dagli altri (anche, ma non solo, da parte di un anziano) diventa l’occasione unica per disfarsi di un ego ipertrofico. E le virtù di cui parla MacIntyre non hanno solo una portata personale o famigliare: dovremmo realizzare una forma di società nella quale regni la consapevolezza che «l’invalidità e la dipendenza dagli altri sono qualcosa che tutti noi sperimentiamo in certi periodi della nostra vita […] e che di conseguenza il nostro interesse per il modo in cui i bisogni dei disabili sono adeguatamente considerati […] non è un interesse speciale»: è l’interesse dell’intera società, inseparabile dalla concezione del bene comune.<a id="00496010-7d3d-45d9-b276-a504802b94c6-link" href="#00496010-7d3d-45d9-b276-a504802b94c6">2</a> Ma questo lo si può fare nella misura in cui non si rimuove la vecchiaia, ciò che a sua volta – ribadiamolo – implica una nuova concezione della morte e della nascita. Ma i “tesori” della vecchiaia in fin dei conti quali sarebbero? Mi limito a citarne uno, forse il più grande: l’originalità. Negli ultimi anni dobbiamo portare a compimento il progetto che ci siamo affidati prima di entrare nell’utero di nostra madre, un progetto che coincide con lo squadernamento della nostra unicità a beneficio di tutti. Ciò implica scioltezza nell’interpretare i propri ruoli, come attori e attrici che hanno appreso tutte le tecniche esercitandosi a lungo in vista dell’eccellenza, e ora possono improvvisare e innovare. È quindi chiaro che non basta affatto far passare gli anni per diventare originali, per essere liberamente e per intero se stessi/e: le basi imprescindibili per gli ultimi preziosissimi gesti dell’arte di vivere vanno costruite con gli sforzi strenui e quotidiani della gioventù e della maturità. (Donato Ferdori)

Quali tesori?

A 35 anni percepisco dentro di me uno spirito molto più giovane di quando ero ventenne 



Tempo fa ho visto un documentario su Miles Davis, musicista geniale e personalità fuori dalla norma, che mi ha colpito molto. A un certo punto un fan gli si avvicina gridando: «Sei un mito, Miles! Una leggenda!».  Miles Davis lo guarda e con calma gli risponde: «I'm not a legend. I'm still doing it» [Io non sono una leggenda. Continuo a esserci]. Questa frase mi è rimasta molto impressa. Miles Davis voleva dire che, nonostante l'età avanzata, era ancora pienamente immerso nella sua attività artistica. In quel momento non si sentiva una leggenda perché non apparteneva al passato. Era qui. Nel presente. Nel suo flow creativo. Ho pensato che anch'io vorrei mantenere accesa la fiamma a prescindere dall'età.  Come faceva Miles Davis e come faceva con altrettanta naturalezza Daisaku Ikeda, che si svegliava ogni mattina e continuava a portare avanti i suoi progetti: condurre dialoghi con le più varie personalità del mondo della cultura, della scienza e dell'educazione. Scrivere ai membri Soka e comunicare con le persone di tutte le nazioni. Creare una rete di pace. Ricordo che quando avevo vent'anni ero ossessionato da dubbi di ogni tipo e avevo paura che sarei morto senza lasciare alcuna traccia del mio passaggio su questo pianeta.  Non capivo quale fosse il mio posto nel mondo e non riuscivo a relazionarmi con nessuno. Era come se la vita mi sfuggisse dalle mani istante dopo istante. Qualche giorno fa mi sono preso la febbre. Stavo leggendo un fumetto Marvel dove Hulk lottava con un supercattivo. A un certo punto il supercattivo sradicava un albero e glielo spaccava addosso tipo mazza da baseball. Subito dopo lo guardava basito e gli chiedeva: «Com'è possibile che non ti sei fatto nulla?». E Hulk rispondeva: «Più combatto, più divento forte». Ho pensato subito che fosse una metafora perfetta della pratica buddista. Ora ho trentacinque anni e pratico da dodici. Percepisco dentro di me di avere uno spirito molto più giovane rispetto ai vent'anni. Sento di aver aperto una strada e di stringere in pugno una scintilla che mi indica il cammino giorno dopo giorno. Come cantava Antonello Venditti: «Con l'anima aperta e sincera, io vivrò per sempre giovane». (Lorenzo Di Nardi)

Più combatto più divento forte

Conversazione con Alessandro Saroli



Io come professione faccio il sarto. Avevo una mia attività ai Parioli, a Roma, un negozio e una sartoria per uomo e per donna. Le mie clienti erano personalità e attrici come Giulietta Masina e Caterina Boratto, frequentavo Fellini, insomma una bella attività. Poi, quando mia moglie ha incominciato a stare male, ho chiuso per starle dietro. Ma grazie al Buddismo ho ricominciato.



 Hai 89 anni e hai iniziato a praticare a 75. Cosa diresti a chi pensa che sia troppo tardi intraprendere una nuova strada a questa età? Direi che deve assolutamente cominciare. Il mio rammarico è di non aver incontrato prima questa pratica, perché io ci ho trovato un aiuto sostanziale, mi ha risollevato lo spirito, mi ha fatto vedere le cose da un punto di vista diverso. Ero un tipo un po’ litigioso, scontento, e se mi accorgevo che avevo torto facevo di peggio. La pratica mi ha abituato a ragionare.



Nonostante tu abbia incontrato il Buddismo dopo i settant’anni. Pensa che ho chiuso la mia attività di sarto proprio a settant'anni, convinto di morire a breve, perché varie persone della mia famiglia non avevano superato quell'età.  A 75 anni mi sentivo vecchio, poi invece, grazie alla pratica, mi sono ritrovato con uno spirito diverso, ho ricominciato a lottare. Prima non avrei mai accettato di iniziare un altro lavoro e, dopo aver creato una professione tutta mia, di andare a lavorare “sotto” uno più giovane. Come poi ho fatto, l'orgoglio se ne era andato. Affrontavo tutto con spirito diverso e gli altri mi cercavano proprio perché mi vedevano così. Evidentemente esprimevo ancora una certa non dico gioventù ma energia, voglia di mettermi in gioco. 



Racconta come è andata. Stavo aiutando la famiglia di un collega morto da poco a chiudere l'attività e chiamavo dei sarti per vedere se c'era qualcosa di loro interesse da acquistare. Uno di questi non ha comprato niente ma mi ha proposto di dirigere il suo laboratorio: «Ti piacerebbe venire a vedere?». Perché no? Così è iniziato. Era una grande sartoria in via Pinciana, tra le più importanti nel mondo. Quando poi, qualche anno dopo, ho cominciato ad accusare un po’ di fatica per il ritmo lavorativo, lui mi ha proposto di lavorare in laboratorio solo mezza giornata e il pomeriggio andare a insegnare alla scuola dell'Accademia Nazionale dei Sartori, di cui era il presidente. Gli alunni erano una ventina, suddivisi in tre sezioni. Io avevo la parte finale del mestiere, quindi arrivavano da me che erano già maturati, all'ultimo anno. Mi è piaciuto molto essere a contatto con i giovani, insegnare a persone che scelgono questa professione e vogliono apprendere tutto il possibile. Mi chiamavano “maestro”, con grande rispetto. Alcuni mi accompagnavano a casa solo per avere l'occasione di parlare con me, di farmi domande fino all'ultimo gradino sotto il portone. Mi telefonano ancora dal Brasile e dalla Corea. Dalla scorsa estate è cambiato il presidente e io ho deciso di lasciare l'Accademia. L’esperienza dell'insegnamento si è conclusa, cosa verrà ora non lo so. Io sono sempre io, e il mio obiettivo adesso è arrivare a novant'anni.



Cosa hai provato quando hai iniziato a praticare il Buddismo? Era morta da poco mia moglie e un’amica di mia figlia insisteva per invitarmi a una riunione. Pensavo: “Vabbè ma io che devo fare poi co’ ‘sto Buddismo…?”, però alla fine per non essere scortese sono andato a vedere.  È stata una mano santa. Già dopo le prime riunioni ho sentito di avere un aiuto, come se nella mia vita fosse arrivata una persona interna che mi sollevava, e lo continuo a sentire.  Mi sono capitate tante cose, non dico miracoli, ma sono riuscito ad acquisire un tipo di spirito, di energia, che riesce ad aprire la porta a nuove possibilità. Ho capito che il mio atteggiamento era negativo, anche se non me ne rendevo conto perché sono sempre stato molto energico nella mia attività. Però evidentemente c'era qualcosa in me che non piaceva alle persone, e ogni tanto avevo dei contrasti. Forse la cosa più importante è stata capire che quello che ti succede dipende da te stesso, voglio dire, che tutto dipende da come ti proponi. C’è una grande differenza se sei gentile o se sei nervoso e aggressivo. Con la pratica sono cambiato io ed è cambiato tutto. 



Ma dove trovi le energie per avere una vita così piena? Non lo so… la mattina mi alzo e mi chiedo: ce la farò? Ma poi reagisco, piano piano, e comincio a ingranare. Barba, doccia, colazione, un po’ di Daimoku, anche se ormai ho difficoltà con la voce. Alle otto sono pronto. Alle otto e mezza esco e vado in sartoria. Sono questi appuntamenti che mi tengono in pista, perché se non lavorassi mi trascinerei per casa fino alle dieci senza voglia di uscire. Mi forzo, eh, potrei mettermi davanti alla televisione e crollare. Il sabato e la domenica mi riposo, trovo che sia naturale dopo una settimana di lavoro. 



Mi ha colpito che a 75 anni ti sentivi vecchio… Ma ero molto più vecchio di oggi! Per come la penso, per come affronto le situazioni, per come sto con la gente. Cominciare a praticare a quell’età? Io lo consiglierei anche a 80 anni, se capita che ti invitano, che ti portano a una riunione, ma perché no! Se avessi incontrato prima il Buddismo sicuramente la mia vita sarebbe stata molto diversa. 



Hai detto: «Nella sartoria e nella scuola ho sempre tentato di creare armonia, perché è un ambiente pieno di nervosismo e molto difficile. Anche nella società oggi stiamo vivendo un momento davvero complicato. Il Buddismo può aiutare molto ad affrontare questa situazione, ma anche la bellezza, l’arte possono dare un grande contributo». Mi pare un punto di vista interessante. Dicono che il vestito non fa il monaco, però essere ben vestiti, sentirsi a proprio agio, tranquilli, aiuta lo spirito e i rapporti, lasciamelo dire. La bellezza indubbiamente aiuta.



E come si coltiva la bellezza? È un fatto culturale, bisogna avvicinarvisi. La bellezza è anche informarsi e andare a vedere quello che gli altri hanno fatto di bello, abituarsi alla bellezza, alle cose piacevoli. Non solo alle opere d’arte. Per esempio, nel mio lavoro cercare la bellezza già è tanto. Io guardo molto le persone che passano per strada, è un atteggiamento professionale, non è curiosità. Guardo e penso: «Se quello facesse così…». Bisogna cercarla la bellezza, in tutte le cose. (Marina Marrazzi)

A 75 anni una nuova impresa

Prendere il coraggio&nbsp;di agire è sempre stato&nbsp;difficile per me.&nbsp;Servivano situazioni&nbsp;estreme o la vicinanza&nbsp;di qualcuno a cui appoggiarmi, delegando.&nbsp;Non ero indipendente,&nbsp;mi hanno cresciuta cosi. Ma sotto la cenere&nbsp;cova la brace.



Ho 98 anni e una vita intensa da raccontare: sono stata insegnante, ho avuto tre figli, due mariti, tante terre, dolori, maltrattamenti, traslochi e malattie, perdite! Ma anche amore, viaggi, incontri, vittorie, perché alla fine, sì, io mi sento “mai sconfitta”! Mia figlia mi ha sempre ispirata, spinta, anche con forza... voleva che io fossi felice, a volte troppo. Grazie a lei incontrai il Buddismo di Nichiren nel 1995 a Roma, a Trastevere. Ero vedova del mio primo marito da tre anni e mi sentivo molto sola, i figli sparsi in giro... Poco tempo dopo, tornando verso Pesaro dove vivevo allora, conobbi il mio futuro secondo marito.  Mi sono sempre dedicata all’attività buddista, mettendo a disposizione la mia casa e sostenendo i miei amati giovani che inauguravano la prima edizione della mostra Senzatomica (www.senzatomica.it): ogni giorno preparavo da mangiare per alcuni di loro. Nevicò tanto a Pesaro in quei giorni, ma niente ci fermò e io a più di 80 anni ricevetti il diploma di Staff Protezione. Anni prima avevo partecipato attivamente alla raccolta di firme per la moratoria della pena di morte convincendo un intero convento di suore, 110 firme in una botta sola!  Ma veniamo a oggi.  Alla fine del 2018, quando avevo 91 anni, venne a mancare il mio secondo marito. La nostra famiglia è sempre stata in diaspora e l’armonia è ancora un sogno da realizzare, ma il giorno del funerale, sebbene mi sentissi addolorata, ero felice perché la famiglia si era riunita, come se il tempo non fosse passato. Eravamo noi, tutti insieme. È proprio vero che l’armonia familiare passa spesso attraverso l’affrontare il demone della morte.  Non ho paura della morte. Mi sento protetta, sono incosciente di natura, ma credo che questa sicurezza dipenda dalla fede nel Gohonzon. La solitudine invece mi terrorizza. Rimasta vedova quindi decido, forzata dalle circostanze, di andare a vivere a Favignana, nelle Egadi, dove mia figlia si era trasferita da tempo. Anni fa insieme determinammo di fondare un gruppo, che poi è nato e tutt’ora si chiama Farfalla, come la forma dell’isola.  Sono una pioniera adesso, ed è bellissimo anche se faticoso. Casa nostra è un piccolo kaikan, arrivano buddisti da molti luoghi di Italia, diverse persone hanno iniziato a praticare e alcuni continuano altrove. Abbiamo consegnato diversi Gohonzon, ma sulle isole, come dice il nostro amato Sensei, bisogna essere innovativi, utilizzare “l'illimitato potere della creatività”.  Favignana. Lo scoglio. A volte Caraibi, a volte Sado. Ma basta un fiore, un arcobaleno, la natura d’incanto che ancora qui resiste, e tutto cambia. In questi anni ne sono successe di tutti i colori. Sono finita in ospedale quattro volte, due in urgenza, mi hanno operato tre volte, sono cateterizzata a vita e soffro di una malattia che comporta assenze. Piano piano mi adeguo al tempo tiranno opponendo con sforzo il desiderio di continuare a vivere e non solo per me.  Nel 2021, durante il Covid, ho perso il mio secondo figlio, Emilio, una malattia terribile lo ha rubato alla sua famiglia nel giro di pochi giorni, lasciando macerie di dolore. Mentre aspettavamo impotenti notizie senza speranza, in un’Italia blindata, per combattere il dolore che ci permeava mi buttai ad aiutare mia figlia in un’attività particolare: dovevamo indicizzare per argomento alcuni volumi de La nuova rivoluzione umana. Un lavoro certosino fatto a mano vista la poca dimestichezza con le nuove tecnologie. Abbiamo passato ore a trascrivere frasi di Sensei su fogli di carta attaccati con lo scotch e con il righello. E il demone della morte seduto sul cuore. Leggendo scoprimmo che anche il Gosho venne indicizzato dai giovani pionieri Soka con fogli e righelli, e incontrammo anche le pagine in cui Sensei racconta della perdita di suo figlio. Sembrano coincidenze, ma non lo sono. Fu un’esperienza incredibile.  In silenzio decisi di non mollare. Il vuoto va combattuto. Quindi sfidandomi, a 95 anni ho superato gli esami di secondo livello! Studiavo online con una ragazza di Pantelleria, Marcella, è stato bello! In questi anni, tra un incidente e un dolore, ho avuto la fortuna di conoscere Alfredo, un simpatico giullare bresciano con la sindrome di Peter Pan, un ragazzino di 70 anni. Ci siamo trovati subito bene: con lui poco alla volta siamo cresciuti, affrontando nelle estati isolane molte sofferenze, ma anche ridendo molto. Ci siamo aperti. Praticavamo e studiavamo insieme anche con la mascherina, seduti a distanza. Mia figlia e Barbara, la nuova responsabile, mi hanno spinta a decidere di consegnare almeno un Gohonzon in questa vita. Considerando che non sono autonoma e neanche giovincella mi sono buttata come potevo. Bene, il mio monello Alfredo ha ricevuto il Gohonzon a Palermo quest’anno! Non sono potuta andare alla consegna ma per la prima volta ho srotolato la pergamena!  Io tremavo, tremavo dentro, gli altri piangevano tutti. Avevamo vinto. Ho tanto da fare, non posso mollare ancora. Delle cinque guide eterne, “fede per una famiglia armoniosa” è quella che mi è più cara. Sono certa che diventeremo tutti felici. Il gruppo Farfalla è fatto di persone dal cuore enorme. Con tutti loro, qui insieme sullo scoglio, siamo determinati a contribuire a fare di Favignana e della Sicilia quello che Ikeda dice nella Lectio magistralis descrivendola come il “crogiuolo del Mediterraneo”. E al 2030 ci voglio arrivare, vedendo miriadi di giovani lottare per la pace.  Io sono nata sotto la guerra come Sensei e ne conosco gli orrori: PER FAVORE BASTA!!! (Paola Petitti)

Guardando al 2030

«Ho incontrato persone felici nonostante il dolore fisico, la solitudine e l’impossibilità di svolgere funzioni per noi quotidiane e ho capito che la felicità non ha niente a che vedere con l'età». Francesca Bechini, geriatra del Centro di assistenza domiciliare e del Centro di diagnosi e cura delle demenze presso la ASL di Viterbo, ci racconta il suo impegno quotidiano, come professionista, nel dare valore e prendersi cura di una fase così importante della vita



 Di cosa si occupa nello specifico la geriatria e cosa ti ha spinta a scegliere questa specializzazione? La geriatria come disciplina è un ambito veramente ampio. Se volessimo restringere il campo, la nostra peculiarità come geriatri è quella di occuparci dei problemi cognitivi e delle demenze. Ma al di là delle patologie specifiche, ci prendiamo cura di persone in una fase della vita in cui l'approccio medico non può essere lo stesso che nelle altre fasi, come accade anche per i bambini. Non solo per posologie e indicazioni diverse, ma anche per differenze legate alle prospettive di vita e alla salute vista a 360 gradi. Proprio perché la salute non riguarda solo parametri biochimici e bioclinici, ma anche il benessere fisico, psicologico, relazionale e sociale.  Io mi sono appassionata alla geriatria per caso, mio padre faceva l'informatore scientifico e aveva insistito tanto affinché io andassi a vedere di cosa si trattasse. Così ho conosciuto una specializzanda che era così dedita al suo lavoro che addirittura dopo aver dimesso i pazienti andava a casa loro per visitarli gratuitamente e assicurarsi che stessero bene. È stata lei a trasmettermi quel senso di missione e di cura per una fetta di popolazione che oggi sembra rappresentare quasi solo un problema da gestire, quando invece è importante dare valore a queste preziose esistenze. 



La geriatria, come hai detto, più che osservare e curare le funzionalità di un organo specifico, guarda alla persona nel suo insieme. Immagino che questo rappresenti un accurato e continuo esercizio di cura, aspetto per noi buddisti cruciale. In che modo praticare il Buddismo ti aiuta a dedicarti ai tuoi pazienti? È fondamentale! Se esco di casa con una bassa condizione vitale, vengo subissata da lamentele e depressione ed è un attimo che lo stato vitale dei miei pazienti mi si riversi addosso. Spesso è così. Anche perché adesso faccio la geriatra del territorio, quindi vado quotidianamente a casa di quei pazienti che non si possono più muovere, neanche per fare una visita medica. È chiaro che le loro relazioni sociali sono ridotte quasi a zero, così come la loro autonomia, il loro sentirsi utili. Spesso mi dicono che stanno aspettando solo la morte. Per questo ogni giorno mi stupisco, nonostante nella maggior parte dei casi non esistano risposte concrete ai loro problemi, di quanto basti un sorriso per dare speranza e fare la differenza. Si tratta di valorizzare la parte finale dell'esistenza, che non è soltanto prolungarla a tutti i costi, ma occuparsi della qualità di quella vita, dimostrare ai familiari come un gesto d'affetto in quegli ultimi giorni, minuti di vita, sia preziosissimo. Riuscire, grazie al mio stato vitale, a dare speranza a una persona che di speranza non ne ha, significa mettere in pratica il Buddismo nel mio lavoro tutti i giorni. L’esempio del maestro Ikeda, che fino all'ultimo istante ha vissuto una vita piena di valore e completamente soddisfatta, è per la mia vita e per il mio lavoro un punto di riferimento sempre presente. 



Da donna giovane che vive da vicino l’età avanzata, cosa vorresti dire a chi è spaventato dalla paura di invecchiare?  Vorrei dire che la felicità non ha niente a che vedere con l'età, né con la disabilità. Che ho incontrato persone felici nonostante il dolore fisico, la solitudine e l’impossibilità di svolgere funzioni per noi quotidiane. Invece esistono giovani infelici e anzianissimi. L'altro ieri ho conosciuto una signora di 104 anni con la sua messa in piega, lo smalto sulle unghie, che alla fine mi ha dato addirittura una benedizione portafortuna, insomma è stata lei che ha incoraggiato me! I centenari sono quelle persone che hanno mantenuto uno spirito giovane, sempre aperte e disposte al cambiamento. E soprattutto hanno eliminato la lamentela, che rappresenta una vera a propria ladra di forza vitale, qualunque sia la condizione organica della persona. Dunque vorrei dire ai giovani di non avere paura e di curare il proprio stato vitale sempre, ogni giorno. 



Invece cosa sta più a cuore ai tuoi pazienti? Le relazioni. Non essere da soli, avere qualcuno che si prenda cura di loro e che gli faccia sentire la propria vicinanza. 



Ci racconti l’esperienza di una persona anziana di cui ti sei presa cura che può essere di incoraggiamento per i nostri lettori e lettrici?  Sì. Un giorno, quando lavoravo in una RSA [Residenza sanitaria assistenziale], venne ricoverata una signora direttamente dall'ospedale. La struttura non era delle migliori, una di quelle in cui spesso vengono accolti anziani abbandonati dalla famiglia. Questa donna rappresentava tutto quello che si teme di più della vecchiaia: essere estremamente sola perché la figlia non riusciva a prendersene cura, con dolori fisici e senza autonomia perché era completamente allettata, senza la possibilità di camminare. L’abbiamo presa a cuore – io, così come altri elementi del personale e alcuni pazienti – e quel sostegno è stato per lei la spinta per decidere, da sola, di non mollare, di far fruttare quello che aveva in quella situazione e di aggrapparcisi con tutta se stessa. Facendo fisioterapia, nel giro di pochi mesi ha ricominciato a camminare, a sorridere, ad avere amici, a riallacciare il legame con la figlia, e addirittura ha iniziato anche a dipingere. Ancora oggi espone i suoi quadri all’interno dell’RSA.   Per me lei è un esempio della forza della decisione di dare valore a ogni singolo giorno di vita, qualunque siano le condizioni. Questa è stata la chiave per la sua svolta, sia fisica che di tutto il resto. La vita qualcosa a cui aggrapparti te la dà sempre, sta a te decidere se coglierla.  Credo sia importante, per chi anziano ancora non è, comprendere che questa fase della vita è preziosa e merita di essere valorizzata. Noi adesso possiamo sostenere le persone anziane e in futuro saremo noi gli anziani che faranno tesoro anche di quel sostegno dato. (Mirko Lugli e Rossella Maci)

Senza rinunciare mai alla gioia

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6 buoni motivi per essere felici di invecchiare

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