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Roma, 13 novembre 2000. Teatro Argentina, ore 16. Una serata speciale. Ospite d’onore il presidente Michail Gorbaciov. L’occasione è la presentazione in Italia del libro di dialoghi scritto con Daisaku Ikeda Le nostre vie si incontrano all’orizzonte: la conferma vivente che due strade apparentemente divergenti come quella del comunismo reale e della religione buddista si riescono invece a incontrare, possono dialogare e far nascere idee feconde. La platea è gremita, i palchi tutti pieni. Sul palcoscenico, insieme al presidente Gorbaciov, il sociologo Franco Ferrarotti, il giornalista Enrico Mentana, l’attrice Sabina Guzzanti, che ha presentato e condotto la serata.

«Ho conosciuto Daisaku Ikeda molti anni fa. Abbiamo subito stabilito un rapporto amichevole: sono anni che lavoriamo insieme e che siamo amici». Con queste parole Gorbaciov ha introdotto il dibattito.
Nel corso dell’incontro, organizzato dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, sono stati toccati temi grandi e profondi: il rapporto tra religione e politica, tra ideologia, utopia e pratica, la necessità di trovare nuovi modelli culturali per la società del terzo millennio. Riportiamo alcuni dei punti salienti della discussione.

Michail Gorbaciov: Daisaku Ikeda è una persona di grande talento. Un talento ricco di colori: è un filosofo, un religioso – è il rappresentante di una importante scuola buddista – un umanista, un personaggio che svolge anche un grande lavoro politico. È veramente innamorato della vita, della natura, dei popoli, della gente.
L’ammirazione per la natura è un tratto caratteristico di un giapponese. Sono stati pubblicati moltissimi album con le foto di paesaggi scattate dal presidente Ikeda in tutti i paesi del mondo. A casa ho diversi volumi che lui stesso mi ha regalato. Le sue sono foto artistiche: nel mio ufficio ne ho una del monte Fuji che sembra piuttosto un quadro a olio.
Quando cominciammo a ragionare sulla possibilità di scrivere insieme questo libro di dialoghi il professor Ikeda aveva già pubblicato diversi altri libri con studiosi di altissimo livello. Dunque mi sono detto: perché non avviare un dialogo tra il segretario generale del partito comunista e uno dei più famosi rappresentanti del Buddismo? In quel momento mi sono venute in mente le parole del nostro grande scrittore Leone Tolstoj: «Non riconosco alcun progresso che non tenga conto dell’Oriente». Tolstoj pensava infatti che il progresso di stampo occidentale – un progresso dinamico, aggressivo – aveva il torto di non prendere in considerazione la saggezza di miliardi e miliardi di persone che vivevano in Asia. Allo stesso modo, io credo che non sia possibile costruire un mondo nuovo senza prendere in considerazione la vita, la saggezza, la cultura dei popoli orientali. Così – stimolato dal pensiero di Tolstoj – ho deciso di portare avanti il dialogo con Daisaku Ikeda.
Abbiamo lavorato per tre anni: ho imparato molto sul Buddismo grazie al mio interlocutore, ma ho anche letto dei libri di Buddismo. Del resto, come si capisce chiaramente leggendo il libro, io resto sempre e comunque un politico.
Nella prima parte del lavoro affrontiamo concetti quali il ruolo dell’individuo e il senso dei processi storici. Da parte mia sono convinto che la storia non sia fatalistica: ci sono i processi storici, c’è un flusso, uno sviluppo. A questo proposito credo che si riesca a portare un contributo decisivo solo quando si comprende l’imperativo del proprio tempo e si prende un certo tipo di decisione: nella storia ci sono sempre delle alternative. Nella seconda parte del libro abbiamo preso in esame il ruolo delle nazioni, abbiamo parlato di cose astratte e di cose reali, del comunismo e delle religioni.
Preparando questo libro ho capito perché il grande Tolstoj è entrato in conflitto con le nostre istanze religiose. Egli era credente, ma riteneva che ogni persona dovesse fare la propria scelta in campo religioso e che tra l’essere umano e Dio non ci potessero essere intermediari. Per quanto mi riguarda, la formulazione religiosa di Tolstoj è accettabile. Ma guardando alla maggior parte delle religioni vediamo che ognuna ha le proprie istituzioni, le proprie cattedrali, le proprie strutture…
Credo che nel terzo millennio – se vogliamo tener presenti le lezioni morali del XX secolo – dovrà aumentare la responsabilità morale delle religioni. Io sono assolutamente contrario alla loro politicizzazione perché esse devono svolgere un ruolo determinante come fattori di unificazione. Apprezzo l’operato di Giovanni Paolo II, che ha preso delle decisioni da rispettare profondamente: ha difeso i poveri, si è pronunciato per il dialogo, per la tolleranza, per l’apertura. Poi coraggiosamente ha condannato tutto ciò che è legato alle guerre di religione.

Enrico Mentana
: In questo libro c’è un confronto tra due talenti, tra due straordinari uomini che parlano di due fiori, il Buddismo e il Comunismo, il primo dei quali è vivo mentre l’altro è appassito. Ma, a mio parere, Gorbaciov si fa carico solo fino a un certo punto della morte del fiore-comunismo. Vorrei sapere qualcosa di più a questo proposito: presidente Gorbaciov, riuscirebbe a dire una parola definitiva a questo riguardo, sulla “parabola” di un uomo che da solo arriva alla guida del partito comunista e da solo porta alle estreme conseguenze la crisi dell’Unione Sovietica?

Michail Gorbaciov: Prima di tutto dobbiamo dire che il comunismo non è nato nel deserto, non è un’invenzione astratta, perché la volontà della gente è indirizzata verso la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà. In qualsiasi libro, in qualsiasi documento storico, possiamo vedere che questi sentimenti sono sempre stati presenti, non si possono sradicare.
Nel pensiero di Tommaso Campanella – per esempio – e di altri filosofi c’è il tentativo di trasformare le idee di felicità e di libertà in un progetto reale. Così sono nate la “città del sole” e le città del futuro. Ma queste sono utopie. Ovviamente nel passato le ricerche utopistiche venivano concepite in modo diverso da quello attuale perché si trattava di sviluppare idee per un futuro migliore. Oggi invece la parola utopia suona quasi negativamente. L’utopia è una cosa seria se intendiamo parlare teoricamente, quando invece c’è il tentativo concreto di trasformare le idee utopistiche in un progetto politico, allora cominciano i problemi.
I bolscevichi hanno, appunto, effettuato questo grande esperimento cercando di trasformare questo sogno in prassi. Come è andata a finire? Quattro anni dopo la rivoluzione Lenin si accorse di aver sbagliato strada e che si doveva cambiare velocemente posizione riguardo al socialismo. Stalin invece rinunciò alla nuova politica di Lenin e impose al paese la politica del comunismo militare. Tutto questo comportò un numero enorme di vittime. La gente si fidava di Stalin credendo che il sacrificio della propria generazione sarebbe servito ad assicurare un futuro migliore alla prossima. Ma ciò, in realtà, era una trappola e il modello staliniano non poteva alla fine che essere sconfitto. Però non sono stati sconfitti i sogni della gente che vuole più felicità, più solidarietà, più giustizia, più valori umani e, soprattutto, il riconoscimento dell’essere umano come valore supremo. Per seppellire l’idea socialista bisognerebbe seppellire noi tutti. Ma il XXI secolo non deve essere, e non sarà, un secolo di dicotomie, di scelte drastiche tra capitalismo e socialismo, tra una teoria e un’altra. Dovrà essere il secolo dei processi di integrazione tra tutte le idee, tra tutte le esperienze che l’umanità ha accumulato nel corso della propria storia.
La mia previsione è che la società futura sarà una società integrata: ciò significa qualcosa di ancor più complicato di una semplice convergenza.
Abbiamo bisogno dei valori liberali perché soltanto una persona libera che vive in condizione di libertà può essere intraprendente e avere iniziativa. Ma nello stesso tempo abbiamo bisogno dei valori socialisti di giustizia, solidarietà, umanità, compassione e tolleranza. Anzi credo che in futuro i principi socialisti saranno rivalorizzati non soltanto nel quadro nazionale ma a livello internazionale.
Ma voglio aggiungere che nel futuro avremo bisogno anche dei valori democratici, cristiani, buddisti… perché il futuro deve essere quello dei popoli che capiscono, ammirano e proteggono la natura, cosa che ancora non si è ben compresa. Perché la natura è la nostra casa e noi non possiamo distruggerla.

Franco Ferrarotti: Vorrei spendere due parole per convincere il pubblico a comprare, a leggere e a meditare su questo libro per una ragione, direi, di metodo. Infatti siamo di fronte a due personaggi che non potrebbero essere più differenti: uno – Daisaku Ikeda – saggista, guida spirituale, buddista, proviene da una scuola importante del Buddismo, la Soka Gakkai, che vuol dire “Associazione per la creazione di valore”, di cui è presidente. L’altro invece è qui: è l’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Cosa significa questo? Significa che oggi si apre una possibilità meravigliosa di costruire delle contraddizioni culturali. Si parla tanto di società multiculturale, c’è qualcuno che le desidera multietniche, multilinguistiche, multireligiose, altri invece che le osteggiano. A questo proposito vorrei solo ricordare che i greci antichi, da cui noi proveniamo, cominciarono a essere consapevoli di essere greci, cioè a costruire la loro identità, solo quando vennero a contatto con i non-greci, chiamati “barbari” da “barbaroi”, “coloro che balbettano” perché non sanno il greco. Quindi identità e alterità sono termini correlativi. Noi possiamo capire chi siamo solo attraverso il rapporto con l’altro. La nostra pupilla vede se stessa solo quando è riflessa nella pupilla dell’altro, dell’amico.
Questo libro del presidente Gorbaciov e del professor Ikeda è un libro straordinario: è un duetto che vale la pena di essere seguito in tutte le sue diramazioni. In primo luogo vorrei fare una riflessione sul rapporto fra ideologia, pratica e utopia. Oggi l’utopia sembra essere un termine in disuso: si è parlato di fine dell’utopia e l’ideologia viene presentata come un’espressione della falsa coscienza. Ma l’utopia invece, intesa come slancio ottimistico verso l’avvenire – anche per quelle società che si presumono tecnicamente fondate e razionali – è più che mai necessaria.
Noi oggi abbiamo il privilegio di essere accanto a un uomo che in qualche modo ha determinato la fine della guerra fredda. Che ha voluto per l’Unione Sovietica e per la Russia post-sovietica le procedure democratiche di libere lezioni e di pluripartitismo. Tutto questo è stato richiesto da Gorbaciov in maniera tanto chiara da farmi pensare che forse il ruolo del singolo individuo nel processo storico non è, come molti pensano, irrilevante. È vero che le circostanze di fatto costituiscono le occasioni, ma è altrettanto vero che è necessario che una persona si faccia avanti e abbia di fronte a sé un ideale al cospetto del quale lei stessa non conta niente: questo è ciò che Gorbaciov ha fatto. Raramente si potrà leggere un testo che proviene da un’autocritica tanto rigorosa e coraggiosa come quella fatta dal presidente Gorbaciov in questo libro.
E cosa ci dice dal punto di vista pratico? Ci dice forse che dal comunismo fallito dobbiamo passare al liberalismo assoluto? Sarebbe abbastanza logico cadere in questa tentazione, ma ciò sarebbe ancora l’espressione di un ragionamento dicotomico.
Ciò che trovo splendido in questa testimonianza di Gorbaciov e in quella di Ikeda, che costantemente lo segue e a volte lo anticipa, è che la rinuncia, anzi la denuncia del comunismo estremistico e violento viene seguita dall’esigenza di costruire un socialismo dal volto umano, un socialismo dei valori. Abbiamo di fronte non una scelta semplicistica ma un compito importante: il progetto per l’essere umano.
Come concludere? Dicendo che bisogna lottare contro i dogmi. Abbiamo bisogno, dice Gorbaciov – in questo caso ancora una volta sostenuto validamente dal professor Ikeda – di una fede senza dogmi che poggi su un’idea di essere umano in cui non vi siano più esclusioni, emarginazioni, povertà. Per cui possiamo finalmente dire che il prossimo secolo non sarà certamente il secolo americano come si è detto spesso. Credo che al professor Ikeda, alla Soka Gakkai, al presidente Gorbaciov e alla sua Fondazione sorrida la possibilità di entrare finalmente in un secolo che non sarà americano, russo, cinese, ma sarà solo un secolo umano.

Enrico Mentana
: All’inizio del libro è scritto: «È il tempo, non il frettoloso giudizio dei contemporanei, a decidere i meriti storici di un individuo. Spesso, infatti, tra le gesta dei personaggi importanti e il loro riconoscimento corre un profondo abisso». Quanto dovrà aspettare ancora, presidente Gorbaciov, per essere profeta in patria?

Michail Gorbaciov: A questa domanda di solito rispondo così: molti anni fa una delegazione francese arrivò a Pechino e fu ricevuta da Zhou Enlai. I membri della delegazione gli chiesero quale fosse stata l’influenza della Rivoluzione francese su quella cinese e sul mondo. Zhou Enlai ha pensato lungamente e poi ha detto: «È un po’ prematuro esprimere dei giudizi».
Parecchi anni fa, soprattutto in Russia, molti volevano portare in trionfo Gorbaciov e fino all’autunno del 1990, a giudicare dai sondaggi di opinione, nessuno era in grado di fargli concorrenza. Poi invece la situazione sociale, ma soprattutto politica, si è aggravata: i comunisti, anzi direi la nomenklatura comunista ha perso le prime lezioni libere nell’Unione Sovietica. Avendo perso, la nomenklatura ha deciso di fare fuori Gorbaciov. Si sono fatti vivi i critici di Gorbaciov, la popolarità ha cominciato a calare e così via. Però – come succede spesso nella storia, e voi lo sapete meglio di me – quando fu ucciso Giulio Cesare con ventitré coltellate tutti quelli che avevano partecipato a quella aggressione furono uccisi durante la guerra civile.
Da noi è successo lo stesso, ovviamente in un altro contesto storico… Noi abbiamo perso il paese che si poteva e si doveva salvare. In seguito la scelta di politica economica è stata quella di una terapia shock, anzi di uno shock senza terapia. Certe forze hanno imposto al paese un nuovo fondamentalismo: il fondamentalismo sovietico è stato sostituito dal fondamentalismo liberale. Ma, come sempre, la cosa più importante è quello che succede nelle teste, nei cervelli delle persone.
Cinque anni fa, quando la nostra fondazione effettuò un sondaggio di opinione, abbiamo registrato delle risposte sconvolgenti alla domanda: «Si doveva o no cominciare la perestroika?». Il 45% ha detto no, il 42% sì. Un pareggio.
Quando poi abbiamo posto domande più dettagliate, più del 60% ha risposto di essere favorevole alla libertà di parola, alla libertà religiosa, alla libertà di stampa, ai processi democratici. Quindi più del 60% era favorevole alla perestroika. Questo vuol dire che è stata soprattutto la situazione sociale ad avere influenza sulla gente. Perché le persone non hanno detto “no” alla democrazia e alla libertà. Adesso, passati cinque anni, la situazione è cambiata di nuovo. Nessuno vuole ritornare al regime comunista e il partito comunista sta calando. Gli elettori, più o meno diciotto mesi fa, hanno chiesto le dimissioni di Boris Eltsin. Di nuovo la gente ha cominciato a parlare della perestroika come di un tempo felice. Io ho cominciato a costruire il partito socialdemocratico russo e adesso ne sono presidente.
Dunque niente è stabile, tutto è in movimento. Io non ho mai avuto l’ambizione di diventare profeta nella mia patria, e non vorrei che fosse eretto un monumento a me come profeta della patria, anche perché troppa folla gira attorno ai monumenti e può buttarli giù. Voglio piuttosto concludere con un argomento importante. Vogliamo forse imporre al mondo un modello unico? È già successo. Non è accettabile né il fondamentalismo comunista né quello liberista. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di un nuovo modello che possa integrare tutta l’esperienza che l’umanità ha accumulato e che ha a disposizione.