Osservando il cambiamento di un'amica

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Nel 1989 sentii per la prima volta il suono del Daimoku e lo recitai una sera che uscii con Paola, un’amica, ma mi sembrava solo una frase strana. Lei mi parlava dell’effetto benefico sul suo malessere dovuto a situazioni familiari complicate e dolorose, e mi raccontò di benefici visibili che venivano dalla recitazione di Nam-myoho-renge-kyo.
Ricordo bene, durante quel periodo in cui frequentavo le lezioni all’università ed ero ospite a casa sua, la gioia e la luce che le si accendeva negli occhi quando arrivava il giorno delle riunioni.
Io ero presa dai miei studi e dalle mie sofferenze: avevo chiuso da poco una relazione sentimentale in malo modo, i miei genitori, anziani, si erano trasferiti al loro paese di origine e non avevo un lavoro. Ero chiusa e rassegnata nella mia condizione e non mi accorgevo quasi del resto, come chi sta «a lungo nelle latrine» dice il Daishonin, e si dimentica «di quanto siano maleodoranti» (Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1, 17).
Il giovedì, prima e dopo la riunione, vedevo Paola sempre molto lucente, tornava con una carica e un’energia diverse che le permettevano di districarsi e vincere sulle evidenti difficoltà che affollavano quotidianamente casa sua.
Il suo cambiamento non fu immediato, c’erano giorni di ansia, di dolore, ma via via divenivano meno forti e meno invasivi. Le “abitudini sofferenti”, quelle che col tempo lasciano un solco, era come se piano piano scivolassero via. I suoi punti fermi erano il Gohonzon, il Daimoku, la Soka Gakkai con i compagni di fede, il maestro e i Gosho. Era come se vedessi in diretta cambiare il suo sentire, era la sua rivoluzione umana.
Quello che avevo visto mi permise di pensare che forse poteva esistere una realtà diversa dalle mie “latrine”, quell’aria maleodorante poteva trasformarsi in speranza, forza e resilienza. E invece di restare ancorata a preoccupazioni, ansia e sofferenze continue pensai: perché non provare?
Cominciai a recitare Nam-myoho-renge-kyo e a partecipare con Paola a qualche incontro, andavamo a praticare a casa di persone che stavano affrontando sofferenze. Alle riunioni mi capitava di percepire energia e positività sebbene si raccontasse di sfide, di difficoltà. Tutti erano in cambiamento, in rivoluzione.
Io però non riuscivo a percepire quei cambiamenti che stavo aspettando. Ma grazie a tutte le rivoluzioni a cui avevo assistito ebbi il coraggio di affidarmi al Gohonzon: nel momento in cui vinsi la mia passività e mi attivai, definendo i contorni reali dei miei obiettivi, i risultati si manifestarono subito. Il Daimoku mi dava il coraggio di superare limiti e paure. Decisi così che i miei punti fermi erano il Gohonzon e il mio maestro Daisaku Ikeda.
Nel tempo mi sono accorta che la rivoluzione che facciamo, quando mettiamo al centro della nostra vita il Gohonzon, le persone intorno a noi la notano. Come, ad esempio, quella mia collega di una passata esperienza lavorativa che mi chiese più volte come mai fossi una persona così autentica e perché non fossi preda anch’io dei venti che spiravano forti in quel posto: sfrenata competitività per i pressanti obiettivi economici, collera, invidia. Piano piano durante le pause caffè le parlai della pratica buddista e del pilastro che mi sorreggeva: il Gohonzon. Le consigliai di praticare e sperimentare anche lei il potere del Daimoku, di sentire dentro di sé l’inizio della rivoluzione. La portai a una riunione e da allora anche lei ha reso il Gohonzon il punto fermo della sua vita.
Così, come in una reazione a catena o in un continuo passaggio del testimone, noi possiamo sperimentare ogni giorno che «la rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità» (RU, 1, Prefazione).
(Letizia Vitagliani)

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