Inchinarsi

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Ero giovane e parecchio dolorante quando incontrai il Buddismo. La parola “felicità” mi sconquassò come un boato. Non esiste pensai. Ma la Buddità sì. Quell’idea che ogni essere umano possedesse una forza, un’energia che è la stessa che muove le maree, fa il sole caldo e la luna luminosa, per cui le foglie nascono a ogni primavera e si sgretolano in autunno, questo aveva senso. Che ogni singola vita, compresa la mia, fosse sacra. Degna di rispetto, da amare, ringraziare. Fu questo che mi spinse a studiare tutto quello che trovavo sul Buddismo, a provare davvero. Praticando sono diventata forte, ho imparato che la felicità posso crearla. E che la vita funziona un po’ così: più dai, più ricevi, più mi inchino verso gli altri, più l’universo si inchina verso di me.
Eppure, a volte, anche recitando Daimoku, sembra che la forza, le capacità, i bei pensieri non bastino. Soprattutto con le persone più vicine, relazioni coinvolgenti fino alle viscere che sprigionano emozioni capaci di inchiodare. Di solito inizia così: comincio a guardare tutte le cose che non fai, che non hai fatto, che dici o non dici. E i tuoi limiti, la tua caparbietà a percorrere una strada che fa male. Quasi vedo il futuro delle azioni sbagliate che tenti. Te lo dico, ci riprovo, mi ostino a mostrarti soluzioni. Per amore, credo, perché ti voglio bene. Ma non trovo ascolto.
Mi sentivo così quando mio figlio, 17 anni, che studiava danza e andava al liceo, mi disse che non voleva più andare a scuola. Non ci potevo credere. Proprio mio figlio, di me che dello studio mi cibo, e so quanto fa bene, salva, allarga spazi di vita. Dove avevo sbagliato? E perché?
A volte i figli riescono a pizzicarti sui tuoi punti più deboli. Avrei saputo cosa fare se fosse stato un figlio ribelle, uno scansafatiche, un contestatore, persino se avesse avuto nel profondo qualche moto verso la violenza o l’autodistruzione. Tutte quelle parti le riconosco in me, ci faccio i conti da sempre. Ma questa cosa no. Questa cosa di guardarlo e chiedergli: «Ma insomma mi dici cosa vuoi fare? Che desiderio hai?». Per sentirmi candidamente rispondere: «Non lo so, non ho nessun desiderio, mamma». Ecco questa cosa mi mandava ai matti. Come si fa a vivere senza desideri? A essere gentili, belli, amorevoli, capaci di grandi sforzi e fatiche, come era lui, ma senza un desiderio? Senza un progetto. Senza futuro.
Ho provato di tutto. Discorsi seri e grandi, comprensione, tanto Daimoku, sorrisi, ricatti sottili e molto meno sottili. Un giorno, stressata dalle sue “non reazioni”, gli ho persino mollato uno schiaffo. Era il primo della mia vita di madre. Recitavo Daimoku perché cambiasse, perché fosse protetto, perché rinsavisse. Ma il risultato era pessimo e quel pensiero di lui intanto rovinava le mie giornate, il rapporto con il padre e con la sorella, il mio rapporto con il mondo.
Ho pianto pregando davanti al Gohonzon. Quando ho smesso di guardare lui e ho visto me. La mia paura che la sua vita fosse insignificante, che la mancanza di cultura potesse portarlo per strade sbagliate. Quando ho visto quanto giocava in me l’idea di aver fallito con la persona a cui forse tenevo di più. Era mio il problema. Mia la sofferenza che gli scaricavo addosso. Avevo smesso di guardarlo come il Buddismo mi insegna a guardare gli esseri umani. Non vedevo più la sua bellezza, il suo potenziale umano, la sua Buddità. E lo pensavo povero, perdente, cieco.
È stato un attimo. Basta un attimo per cambiare. Per ritrovare la meravigliosità della persona che ho davanti, al di là del giudizio, delle ragioni, della mia arroganza. Avevo scordato di guardarlo come un Budda, un meraviglioso ragazzo, perfettamente dotato, capace di costruire il suo futuro, che per di più aveva avuto la fortuna di ascoltare Daimoku da quando era nella mia pancia, e a volte lo aveva recitato. Avevo scordato la parabola del Bodhisattva Mai Sprezzante, che si inchinava davanti a ogni persona e diceva: «Nutro per voi un profondo rispetto; non oserei mai trattarvi con disprezzo o arroganza. Perché? Perché voi tutti praticherete la via del bodhisattva e sarete allora in grado di conseguire la Buddità» (SDLPE, 365). «L’insegnamento del Sutra del Loto – spiega il presidente Ikeda – è riassunto in questi ventiquattro ideogrammi. Anche se il Sutra del Loto non lo dice esplicitamente, le persone comuni possiedono la natura di Budda. E il Bodhisattva Mai Sprezzante si inchinava a questa Buddità latente che riusciva a percepire» (SSDL, 3, 73).
Ho iniziato a inchinarmi. Non per finta ma per davvero. Senza dirgli più una parola sulle scelte che stava compiendo, sui miei dubbi, perché erano spariti. Ho scelto di avere fiducia nelle sue possibilità. E tutto si è sciolto.
Non ha ricominciato a studiare. Ha deciso di lavorare per un anno, mettere da parte i soldi e andare in America, dove ha studiato danza e lavorato come ballerino per dieci anni. Poi è tornato in Italia e ha intrapreso un altro percorso, completamente diverso. Ma questa è la sua storia…
La mia è quella di aver imparato, non senza fatica, ad avere fiducia nel potenziale di ogni persona che incontro, che amo o non amo, simpatica o antipatica, senza giudizio, senza paura, senza arroganza. Inchinandomi alla sua Buddità. E tutte le volte che lo faccio la felicità prende forma. (Manuela Vigorita)

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