Il coraggio della nonviolenza

saggio di Daisaku Ikeda

immagine di copertina

In questo saggio, scritto all'indomani dell'attacco alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001, Daisaku Ikeda prende una posizione chiara riguardo all'adozione di un approccio nonviolento in ogni conflitto. Partendo dalla figura di Gandhi, personaggio che lo ha fortemente ispirato, spiega come la violenza nasca da una condizione di rabbia e impotenza, da uno spirito ferito che occorre curare con la nonviolenza, la più alta manifestazione del coraggio

Stavo visitando Raj Ghat, il luogo dove il Mahatma Gandhi, padre dell’indipendenza indiana, venne cremato. Da qualche parte un uccello cantava.
Eravamo nei pressi di una foresta, e gli scoiattoli correvano nella verde boscaglia lussureggiante. Quell’area era un ampio e ben curato santuario della nonviolenza.
Mentre offrivo fiori davanti alla lastra di pietra nera del memoriale di Gandhi, chinai la testa. Riflettevo sul suo spirito brillante. Pensavo alle sue incessanti lotte per spegnere i fuochi dell’odio con l’acqua attinta dalle pure sorgenti dell’amore per l’umanità. E pensavo a quanto fosse stato solo in questa sua ricerca. 

«Da che parte stai?»
«Gandhi ci dice di non vendicarci dei musulmani! Come può prendere le loro parti? È impossibile! Hanno ucciso la mia famiglia, incluso mio figlio di cinque anni!». «Ci sta dicendo semplicemente di resistere agli attacchi degli indù? Ridicolo! Non sa cosa abbiamo passato noi musulmani in tutti questi anni? Dopotutto, anche Gandhi è un indù, non è vero?»
L’anziano saggio andò ovunque, ovunque vi fossero indù e musulmani impantanati in cicli insanguinati di conflitti e rappresaglie. Chiedeva che le uccisioni terminassero ma la gente, resa pazza dall’odio, non lo ascoltava. Gli dissero di andarsene definendo ipocriti, o peggio, i suoi tentativi di riconciliazione. Chiedevano di sapere da che parte stesse.
Ma lui non stava da nessuna parte. E allo stesso tempo era da entrambe le parti. Per lui le persone erano fratelli e sorelle, come poteva restare a guardare, testimone silenzioso del massacro reciproco? Gandhi dichiarò che era disposto a essere tagliato in due, se questo era ciò che la gente voleva, ma non che l’India fosse tagliata in due. Quale bene, chiedeva, potrebbe mai provenire dall’odio? Se all’odio si rispondeva con l’odio questo si sarebbe diffuso e radicato più profondamente.
Supponiamo che qualcuno dia fuoco alla tua casa e tu ti vendichi dando fuoco alla sua: presto tutta la città sarà in fiamme! Bruciare la casa dell’aggressore non ti riporterà indietro la tua. La violenza non risolve nulla. Impegnandoti in rappresaglie, ferisci solo te stesso. Non importa con quale urgenza Gandhi invitasse la gente ad ascoltare la ragione, i fuochi dell’odio infuriavano. C’erano troppe persone che ne alimentavano le fiamme, contro il solo Gandhi. 

Il fuoco non può estinguere il fuoco
Il 20 gennaio 1948, dieci giorni prima che fosse assassinato, fu lanciata contro Gandhi una bomba fatta a mano. Questo atto di terrorismo fu compiuto da un giovane indù. Fortunatamente la bomba mancò il segno e Gandhi sopravvisse. Il giovane venne arrestato. Il giorno dopo diversi seguaci di fede sikh si rivolsero a Gandhi e gli assicurarono che il colpevole non era della loro religione. Gandhi li rimproverò dicendo che non gli importava affatto se l’aggressore fosse un sikh, un indù o un musulmano. Chiunque fosse il colpevole, disse, gli augurava il meglio.
Spiegò loro che al giovane era stato insegnato a pensare a lui come a un nemico della causa indù, che nel suo cuore era stato impiantato l’odio. Il giovane credeva in ciò che gli era stato trasmesso ed era così amareggiato, così privo di ogni speranza, che la violenza gli sembrava l’unica alternativa.
Gandhi provava solo pietà per il giovane. Disse all’indignato capo della polizia di non tormentare il suo aggressore, ma di fare uno sforzo per convertirlo a pensieri e azioni giuste.
Questo è sempre stato il suo approccio. Nessuno detestava la violenza più di Gandhi, e allo stesso tempo nessuno più profondamente di lui sapeva che la violenza può essere contrastata solo dalla nonviolenza.
Proprio come il fuoco viene spento dall’acqua, l’odio può essere sconfitto solo dall’amore e dalla compassione. Alcuni criticarono Gandhi per aver blandito il terrorista. Altri disprezzavano la sua convinzione definendola sentimentale e irrealistica, una visione vuota. Gandhi era da solo.
Molti veneravano il suo nome, ma pochi condividevano le sue idee. Per lui nonviolenza significava amore traboccante per tutta l’umanità, un modo di vivere che emanava dal più profondo del suo essere. Ma per tanti dei suoi seguaci la nonviolenza era semplicemente una strategia politica, una tattica per ottenere l’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna. Gandhi era da solo.
Quanto più seriamente perseguiva le sue credenze religiose, tanto più profondo cresceva il suo amore per l’umanità. Un amore che gli rese del tutto impossibile ignorare le realtà politiche che plasmavano la vita delle persone. Allo stesso tempo, il contatto con queste realtà politiche rafforzava la sua convinzione che non c’è nulla di più fondamentale dell’amore per l’umanità che la fede religiosa può ispirare.
Ciò tuttavia lo mise nella condizione di essere denunciato sia dagli esponenti di entrambe le religioni, che consideravano il suo coinvolgimento nel regno della sordida politica motivato dall’ambizione personale, sia dai leader politici che lo chiamavano ignorante e ingenuo.
Poiché stava percorrendo la via di mezzo, la vera strada dell’umanità che cerca di riconciliare apparenti contraddizioni, le sue convinzioni e le sue azioni apparivano parziali a coloro che stavano su posizioni estreme. 

Porre fine al terrorismo
Gli attacchi dell’11 settembre [2001] contro gli Stati Uniti sono stati di un’atrocità inaudita. Tra le vittime c’erano anche nostri compagni e amici dell’Sgi. Questi attacchi hanno provocato una repulsione generale e il desiderio sincero che massacri del genere non si ripetano mai più.
Per quale crimine sono state uccise queste persone innocenti? Non c’è ragione, nulla che possa giustificare una tale azione. Anche se, come è stato riferito, gli autori credevano di agire sulla base della propria fede religiosa, il loro atto non merita in alcun modo l’appellativo di martirio. Martirio significa offrire la propria vita, non togliere la vita ad altri. Il sacrificio di sé si compie per salvare gli altri dalla sofferenza, per offrire loro felicità. Qualsiasi atto che comporti l’uccisione di altre persone è riprovevole e semplicemente distruttivo.
È giunto il momento che l’umanità si unisca per porre fine al terrorismo. La domanda è: come si può raggiungere questo risultato? La ritorsione militare raggiungerà tale obiettivo? Non genererà ancora più odio?
Anche se teoricamente il “nemico” immediato fosse sottomesso, si tratterebbe di vera pace? Gli odi a lungo accumulati verrebbero solo spinti più in profondità, rendendo impossibile prevedere dove e quando potrebbero esplodere di nuovo. Il nostro mondo sarebbe tormentato da ansie e paure sempre maggiori.
Mi viene in mente la saggezza popolare della favola di Esopo La tramontana e il sole, in cui i contendenti si sfidano nel costringere un viaggiatore di passaggio a togliersi il mantello. Al soffiare della tramontana il viaggiatore si stringe forte il mantello, ma all'apparire del sole se lo toglie subito, non sopportando il caldo.
La pace che si basa sulla repressione forzata delle voci e delle preoccupazioni della gente è una pace morta, la pace della tomba. Sicuramente non è questa la pace che l’umanità sta cercando. 

Violenza vs nonviolenza: la lotta del XXI secolo
Mi viene anche in mente un evento commovente che Lev Tolstoj raccontò in una lettera scritta due mesi prima di morire. La lettera, datata 7 settembre 1910, era indirizzata al Mahatma Gandhi. L’episodio era più o meno questo: in una certa scuola femminile di Mosca si svolgeva un’interrogazione sulla religione. Un vescovo stava interrogando le ragazze una per una sui dieci comandamenti. Quando giunse al comandamento “Non uccidere” chiese: «Dio ci proibisce di uccidere in tutte le circostanze?». Le ragazze risposero come era stato loro insegnato: «No, non in tutte le circostanze. Si può uccidere in guerra o come punizione legale». «Sì, giusto! Avete risposto correttamente!» disse il vescovo.
Poi una delle ragazze, con il viso arrossato dall’indignazione, esclamò: «Uccidere è sbagliato in ogni circostanza!». Il vescovo era confuso e raccolse tutte le sue abilità oratorie per convincerla che c’erano eccezioni al comandamento contro l’uccisione, ma senza successo. «No – dichiarò la ragazza. – Uccidere è peccato in tutte le circostanze. Lo dice l’Antico Testamento. Inoltre Gesù non solo proibì di uccidere, ma insegnò che non dobbiamo fare del male al prossimo».
Di fronte alla verità di tali asserzioni l’autorità e le capacità verbali del vescovo non furono di alcuna utilità. Alla fine egli non poté che tacere. La giovane, scrive Tolstoj con evidente soddisfazione, si era dimostrata vittoriosa.
Diamo voce alle parole di quella ragazza: «È sbagliato uccidere, anche in guerra!». E trasmettiamole al mondo!
Il ventesimo è stato un secolo di guerra, un secolo in cui centinaia di milioni di persone sono perite di morte violenta. Abbiamo imparato qualcosa da quelle terribili tragedie? Nel nuovo secolo l’umanità deve essere guidata dal principio fondamentale che uccidere non è mai accettabile o giustificato, in nessuna circostanza. Se non ce ne rendiamo conto, se non promuoviamo ampiamente e profondamente l'idea che la violenza non può mai essere usata per sostenere le proprie convinzioni, non avremo imparato nulla dalle amare lezioni del ventesimo secolo.
La vera lotta del ventunesimo secolo non sarà tra civiltà né tra religioni. Sarà tra violenza e nonviolenza. Sarà tra barbarie e civiltà nel vero senso della parola.

Spegniamo le fiamme dell’odio con un “diluvio di dialogo”
Più di mezzo secolo fa Gandhi cercò di spezzare una lunga serie di violenze e rappresaglie. Ciò che ci distingue dalle bestie brute, disse, è il nostro continuo sforzo per il miglioramento morale. L’umanità è a un bivio e deve scegliere la violenza (la legge della giungla) o la nonviolenza (la legge dell’umanità).
Il mondo di oggi ha un’opportunità straordinaria e senza precedenti. Abbiamo la possibilità di aprire una nuova pagina nella storia umana. Ora è il momento di fare la seguente dichiarazione: noi consideriamo gli attacchi terroristici una sfida alla legge dell’umanità, e di conseguenza ci rifiutiamo di seguire la legge della giungla su cui essi sono basati. Dichiariamo la nostra determinazione a trovare una soluzione non con mezzi militari ma attraverso un esteso dialogo. Invece di alimentare le fiamme dell’odio scegliamo di sommergerle con un “diluvio di dialogo” che arricchirà tutta l’umanità e le porterà beneficio. Questo è il modo migliore, l’unico, per far sì che tali orrori non si ripetano più e, crediamo, il modo più appropriato per onorare la memoria di coloro che hanno perso la vita in quegli attacchi.
Se un proposito del genere venisse messo in atto incontrerebbe sicuramente l’approvazione incondizionata degli storici futuri.
Un grande male è sempre seguito da un grande bene. Ma il grande bene non viene da sé. Occorre coraggio per realizzarlo. Per noi questo è il momento di dimostrare il coraggio della nonviolenza, il coraggio di impegnarci nel dialogo, il coraggio di ascoltare ciò che non vogliamo sentire, il coraggio di tenere sotto controllo il nostro desiderio di vendetta e seguire invece la ragione.

La pace nasce dalla volontà di ascoltare
Nelle conversazioni con Veena Sikri, direttrice generale del Consiglio indiano per le relazioni culturali (Iccr), abbiamo parlato di filosofia indiana e tradizione della nonviolenza, e io ho espresso il desiderio di portare la luce dell’India, con la sua immensa eredità spirituale, al popolo del Giappone. Il mio desiderio si è alla fine realizzato sotto forma di una mostra intitolata “Re Ashoka, Mahatma Gandhi e Nehru. Un tocco curativo” esposta in Giappone nel 1994.
Re Ashoka era un monarca saggio e virtuoso dell’antica India (intorno al III secolo a.C.). Dopo aver sperimentato in prima persona le crudeli realtà della guerra, si convertì al Buddismo decidendo che avrebbe basato il suo governo non sulla forza militare ma sul Dharma, i princìpi del Buddismo. Quando a Gandhi fu chiesto se fosse possibile costruire uno Stato nonviolento, lui rispose di sì e indicò come esempio il regno di Ashoka, affermando che doveva essere possibile riprodurre le realizzazioni dell’antico re.
Jawaharlal Nehru, il primo capo di governo dell’India indipendente, era un discepolo diretto di Gandhi. Quando visitò il Giappone nel 1957 espresse la sua profonda preoccupazione per l’escalation della violenza nel mondo. In uno dei suoi discorsi affermò che l’unica risposta veramente efficace alla bomba all’idrogeno non era una bomba di capacità distruttiva ancora più grande, ma una “bomba” spirituale di compassione. Ciò avvenne solo un mese dopo la dichiarazione di Josei Toda che chiedeva l’abolizione delle armi nucleari.
Quando fu realizzata la mostra “Re Ashoka, Mahatma Gandhi e Nehru”, alcuni dei giapponesi coinvolti ebbero inizialmente difficoltà ad apprezzare il tema del “tocco curativo” proposto dai nostri partner indiani. Ciò potrebbe dipendere in parte dal fatto che il termine “guarigione” in senso lato allora non era così familiare in Giappone come poi è diventato. Eppure nessun tema più di questo penetra al cuore della nonviolenza. Perché la violenza nasce da uno spirito ferito: uno spirito bruciato e piagato dal fuoco dell’arroganza; uno spirito spezzato e logorato dalla frustrazione dell’impotenza; uno spirito inaridito da una sete inestinguibile di significato della vita; uno spirito avvizzito e reso piccolo dal senso di inferiorità.
La rabbia che deriva dal rispetto di sé ferito, dall’umiliazione, erompe sotto forma di violenza. E, spesso amplificata dai mass-media, si diffonde nella società una cultura della violenza che prova piacere nello schiacciare e sottomettere gli altri con la forza.
Il leader americano per i diritti civili Martin Luther King Jr., studioso della filosofia di Gandhi, disse che una persona il cui spirito è in tumulto non può praticare la nonviolenza. La mia speranza è che la luce dell’India – un paese conosciuto in Oriente fin dai tempi antichi come “la terra della luna” – contribuisca a diffondere lo spirito della pace così come i raggi freddi della luna portano sollievo dal caldo esasperante del giorno. Da un cuore guarito e pacifico nasce l’umiltà; dall’umiltà nasce la volontà di ascoltare gli altri; dalla volontà di ascoltare gli altri nasce la comprensione reciproca e dalla comprensione reciproca nasce una società pacifica.
La nonviolenza è la più alta forma di umiltà, la più alta manifestazione di coraggio. Il primo ministro Nehru ha affermato che l’essenza dell’insegnamento di Gandhi è il coraggio. Il Mahatma ha insegnato che i forti non sono mai vendicativi e che coloro che si impegnano a dialogare sono persone coraggiose. 

(testo originale: The Courage of Nonviolence, www.daisakuikeda.org)

 

Per approfondire Buddismo e società ha trattato molte volte il tema della noviolenza. Qui di seguito un elenco (molto parziale) degli articoli e degli speciali più significativi. BS 84, gennaio-febbraio 2001, La terapia della nonviolenza, di Nanni Salio, attivista per la pace e fondatore del Centro Domenico Sereno Regis https://buddismoesocieta.org/a/la-terapia-della-nonviolenza/ altri articoli di Nanni Salio su BS 85 e BS 86 BS 88, settembre-ottobre 2001, Terrorismo e nonviolenza, di Arun Gandhi https://buddismoesocieta.org/a/terrorismo-e-nonviolenza/ BS 96, gennaio-febbraio 2003, Un corridoio umanitario, intervista a Betty Williams, Premio Nobel per la pace 1976 https://buddismoesocieta.org/a/un-corridoio-umanitario/ BS 97, marzo-aprile 2003, La pace (speciale) con un'intervista a Giorgio Gallo, direttore del corso di laurea in Scienze per la pace https://buddismoesocieta.org/a/la-pace/ e articoli successivi BS 102, gennaio-febbraio 2004: Il pensiero della nonviolenza (speciale) https://buddismoesocieta.org/a/il-pensiero-della-nonviolenza/ e articoli successivi BS 127, marzo-aprile 2008: Mi sento una donna giovane, intervista a Johan Galtung, fondatore del Peace Research Institute di Oslo https://buddismoesocieta.org/a/mi-sento-una-donna-giovane/ BS 140, maggio-giugno 2010, C’è bisogno di pazienza, di tempo, di passione, intervista a Mairead Corrigan Maguire premio Nobel per la pace 1976 https://buddismoesocieta.org/a/ce-bisogno-di-pazienza-di-tempo-di-passione/ BS 175, marzo-aprile 2016, Pianeta Terra. Nessun essere umano è illegale, intervista a Martina Pignatti Morano, Un Ponte per https://buddismoesocieta.org/a/pianeta-terra-nessun-essere-umano-e-illegale/ BS 215, dicembre 2021, Ultima fermata: la dignità, intervista a Donna Hicks, psicologa esperta di risoluzione dei conflitti https://buddismoesocieta.org/a/ultima-fermata-la-dignita/ BS 216, gennaio 2022, Scegliere il dialogo (speciale), con un'intervista a Daniele Novara, pedagogista https://buddismoesocieta.org/a/scegliere-il-dialogo/ e articoli successivi BS 220, maggio 2022, La forza e la bellezza di preparare la pace, intervista a Enza Pellecchia, giurista e cultrice di studi per la pace, https://buddismoesocieta.org/a/la-forza-e-la-bellezza-di-preparare-la-pace/ BS 229, febbraio 2023, Creare spazi di pace in luoghi e tempi di guerra, intervista a Kai Frithjof Brand-Jacobsen https://buddismoesocieta.org/a/creare-spazi-di-pace-in-luoghi-e-tempi-di-guerra/

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