Parlare di genitori e figli è sempre delicato, profondo, difficile. Non lo si può fare con superficialità o senza pensare alla propria storia personale. Io sono figlia, non sono ancora madre e non so se lo diventerò, ma sono sempre stata più figlia che mai. La più piccola di tre fratelli, in una famiglia di educatori e professori. Decisamente figlia, decisamente quella da educare. So molto bene cosa vuol dire e ho fatto esperienza del momento in cui la linea di confine si assottiglia e ti ritrovi, a dispetto della biologia, a valicare quella soglia invisibile che ti ha sempre fatta sentire la parte bisognosa.
Nel mondo animale il rapporto genitoriale, perlopiù della madre col cucciolo, ha profondamente a che fare con il bisogno e l’impossibilità del figlio a provvedere a se stesso, come se fosse una creatura incompleta. Noi esseri umani abbiamo prolungato, dilatato, approfondito questo concetto e l’abbiamo fatto diventare un mondo complesso, fatto di rapporti di cui spesso ti ritrovi a parlare in terapia, a volte fatti di gerarchie, asimmetrie, dipendenze. Io sospetto che essere genitori abbia solo in parte a che fare con la biologia e molto con la responsabilità personale di accogliere e sostenere qualcun altro, di farlo entrare nella tua vita e di scegliere di dissolvere, di annacquare il tuo ego a favore di un noi, di una famiglia, di una comunità, in cui tutte le persone sono colonne portanti.
In Sul modo adeguato di praticare la dottrina il Daishonin scrive: «Il Budda Shakyamuni è il nostro genitore, e tutti i sacri insegnamenti della sua vita sono nei testi dei sutra che egli, il padre, ha affidato ai suoi figli allo scopo di istruirli» (RSND, 2, 315). Quindi Nichiren stesso sovverte il concetto di genitorialità come legato esclusivamente alla biologia: nessuno di noi è davvero biologicamente figlio di Shakyamuni! Ma tutti e tutte, o quantomeno una buona parte delle persone che stanno leggendo questa rivista, in qualche modo gli devono molto. Qualcuno, probabilmente, gli deve tutto, perché grazie ai suoi insegnamenti è sopravvissuto a mille montagne russe, perché grazie ai suoi insegnamenti è tornato alla vita.
Che diventare genitori non abbia, quindi, a che fare con un processo infinito di Illuminazione generosa? Con quel cammino che ti porta a sentire talmente forte la potenza e la profondità della tua vita che non puoi fare a meno di diventare sostegno per qualcun altro, fino a creare un legame così stretto, che può salvare una vita, e nel salvarla, salvi anche la tua. Sì, perché il rapporto genitore-figlio, qualsiasi cosa significhi per chiunque di noi, è tutt’altro che verticale o gerarchico: una persona delle due, in un dato momento, si assume la responsabilità dell’altra, ma quell’assunzione di responsabilità è, in sé, salvezza e rigenerazione per la persona stessa che la attua. Insomma, ho la sensazione che anche i figli salvino i genitori!
E quanto, alla luce di tutto ciò, sembra riduttivo pensare che la sola possibilità di essere madri o padri sia quella fisiologica, e che, all’interno dell’ambito della genitorialità, il ruolo della donna sia quello che deve necessariamente provvedere in parte maggiore alla cura dei figli, o ancora, che se una donna non è, o non desidera diventare, biologicamente madre, questo sia la violazione di una specie di ordine fisso e immutabile, o passibile di giudizio. Aprire lo sguardo è allargare il cuore, diventare genitore è diventare adulto, prendere coscienza della propria forza, sostenere la vita altrui, accogliere e rispettare profondamente il figlio che abbiamo davanti, sapendo che, probabilmente, impareremo molto più di quello che insegneremo.
Forse… del resto che ne so, io sono solo una figlia!
(Gabriella Olivieri)