Perché vent'anni?
Perché Buddismo e società compie vent'anni.
Ma non solo. Vent'anni sono uno snodo, un punto di passaggio.
«Perciò desidero che miriate prima di tutto a raggiungere la pietra miliare dei vent'anni di pratica mantenendo una fede costante», diceva Daisaku Ikeda nel 1981 ai ventenni italiani di allora.

Nei vent'anni c'è il passato, il presente e il futuro. C'è la perseveranza, la lotta, il duro lavoro, la crescita.
Il cammino insieme al Gohonzon, la fede. C'è la speranza, la sfida, il progetto, c'è kosen-rufu.
C'è una nuova perseveranza. Infine, e soprattutto, c'è chi ha vent'anni oggi. Il futuro.

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Vent'anni

La perseveranza

di Manuela Vigorita

Mirare a (altri) vent'anni di pratica con fede costante. Con quella costanza che si costruisce giorno dopo giorno, nelle gioie e nelle durezze quotidiane, con la determinazione che ogni difficoltà, malattia, ingiustizia può essere trasformata attraverso la fede e la preghiera. Nichiren ce lo ha insegnato con la sua stessa vita: a non lamentarci, a non seguire la paura. A non cedere di fronte alle avversità ma ad affrontarle come se volessimo accendere il fuoco con la legna bagnata. Continuando a praticare così, senza scoraggiarci, arriveremo a liberarci dalla paura, dalla sfiducia, dalle illusioni. E a scoprire la forza che deriva dall'imparare a vincere, con la fede, un giorno dopo l'altro.

La fede è una strada costellata di vittorie. E il Buddismo che Nichiren ha insegnato è una religione che permette di cambiare l'esistenza, che spinge a sperimentare quanta forza e quante potenzialità ogni uomo e ogni donna possiedono. Non c'è idealismo, non è magia, non c'è neppure nulla di sovrannaturale. Il potere della fede è a portata delle nostre mani in ogni momento. Come un bicchiere d'acqua, una carezza, un melograno. Così la nostra Buddità. Ce la portiamo a spasso quasi senza saperlo, tesoro tra i tesori più nascosti: saggezza, coraggio, vitalità. Ogni giorno possiamo lasciarla emergere e guidare pensieri, parole, passi. Non fra un anno, due, o cento, non in chissà quali condizioni favorevoli, ma ora, in questo tempo triste, in mezzo a tante guerre assurde, alle ingiustizie. Ora, nei buchi neri di incertezze, nelle situazioni più faticose e pesanti, in mezzo alle difficoltà che bussano alla porta. Non c'è da avere paura, ma non c'è neanche da creare dentro di noi l'illusione che, siccome preghiamo, siccome siamo buddisti, non avremo da affrontare dolori, malattie, la morte di persone care, la nostra vecchiaia. Non c'è da avere paura. Perché il fiore di loto della Buddità vive proprio in mezzo alla melma, agli stagni fangosi, alla vita e alla morte. È da lì che nasce il miracolo della sua purezza, del suo biancore. Così è per la parte di noi più pura e infinita e libera, che anche nelle avversità, nelle durezze quotidiane, legge le pause di un ritmo meravigliosamente più grande, di cui facciamo parte. Ecco. Le vittorie che la fede ci permette di realizzare hanno a che fare con questa purezza, con questa libertà, col coraggio di stare dove stiamo e usare tutto, bello e brutto, giusto e ingiusto, per tirare fuori un briciolo di fede in più, pensieri inaspettati, la forza di attraversare anche il dolore con gratitudine, lucidità, amore.
La Buddità non preserva dal dolore, dagli ostacoli, dagli effetti del karma ma, come Nichiren ci ha mostrato con la sua stessa vita, permette di affrontare ogni evento con il coraggio necessario, con animo aperto. Con la determinazione di chi sa che la vita è eterna e mutevole e che ogni male, ogni ingiustizia, ogni malattia può essere trasformata, attraverso la fede e la preghiera, in qualcosa di prezioso: in felicità.
Proviamo a chiederci se essere felici significa non avere problemi. Forse, a essere sinceri, in fondo a tanti dubbi, a tanti pensieri confusi, a volte vive proprio l'idea fasulla che la felicità sia assenza di problemi, di ostacoli, di dolore. E che il Buddismo possa garantirci di rimanere lontani mille miglia dalla sfortuna, dalla solitudine, dalla povertà o dalla malattia. Ma non è così, nel senso che non è così matematico, così certo. L'unica cosa certa in realtà è che recitando Nam-myoho-renge-kyo il dolore, la sfortuna, la malattia o la povertà possono trasformarsi in qualcosa che non ci aspettavamo. Un cambiamento di strada, una crescita, un amore più profondo verso noi stessi e gli altri. Anzi, a volte, quando si riesce davvero a vincere grazie alla fede, sono proprio quel dolore, quegli ostacoli, quelle disgrazie a farci ricchi. A farci pieni di domande. A spingerci nel cercare di più, più attivamente dentro di noi, davanti al Gohonzon, nella nostra vita il senso di quello che stiamo vivendo, la gioia e il potere della nostra Buddità.

Nichiren non ha fatto altro per tutta la sua vita che spingere anche gli altri in questa ricerca. Ed era un essere umano come noi. Non bello, non ricco, non potente. Fu calunniato, perseguitato, condannato a morte, esiliato. Conobbe la fame, il freddo, la solitudine forzata. Morì dopo lunghi periodi di dissenteria. Alcuni suoi discepoli furono uccisi, torturati, ad altri furono confiscate le terre. Per quanto fosse un Budda, la sua fu una vita durissima, molto più difficile di quella di tanti di noi. Eppure non si lamentò mai. Eppure, da tante sofferenze, prove, persecuzioni, quello che rimane oggi a noi è il suo spirito indomito, la sua fede salda e incrollabile nelle parole del Sutra del Loto, la sua gioia nell'affrontare passo passo il proprio karma e offrire la propria vita per kosen-rufu. Ma come faceva? Come diavolo faceva non solo a resistere, ma a tirare fuori la forza e la voglia di sostenere gli altri, il coraggio di non arrendersi? Come faceva a essere felice?

Nichiren lottava. E lottava con ogni parte del suo corpo, della sua mente. Lottava con la voce, con le parole ferme, con le preghiere. Mentre era in luoghi come Sado, da dove scrive: «Quando vivevo a Kamakura, nella provincia di Sagami, credevo che il succedersi delle stagioni fosse lo stesso in tutte le province, ma da quando sono arrivato in questa provincia nordica di Sado, venti gelidi soffiano senza pausa e, seppure vi sono momenti in cui cessa di cadere la neve ghiacciata, non si vede mai la luce del sole. Sento gli otto inferni gelidi in questo mio corpo» (SND, 7, 141). E ancora: «Mi sentivo come se, da vivo, fossi passato attraverso il regno degli spiriti affamati e fossi caduto in uno degli inferni freddi» (SND, 9, 76).
Nichiren lottava. «Sto pregando intensamente, come se dovessi accendere il fuoco con legna bagnata, o estrarre acqua dal deserto» (SND, 7, 172). Lottava per rimanere vivo, per continuare a far conoscere Nam-myoho-renge-kyo a una persona, un'altra, un'altra ancora. Lottava per proteggere i suoi discepoli, per affrontare il proprio karma e le persecuzioni che ne derivavano a viso aperto. Lottava per poter continuare a guidare e incoraggiare gli altri, per scrivere lettere e lasciare la propria vita come testimonianza della Buddità. Lottava perché rimanesse aperta per gli esseri umani la strada verso la Buddità.
La sua vittoria non furono ricchezze, fama, fortuna, assenza di difficoltà. La sua vittoria siamo noi. Sono i centonovanta paesi in cui le sue parole arrivano oggi grazie alla Soka Gakkai, sono le nostre vite che mutano. La sua vittoria è la possibilità che ognuno ha oggi di recitare e imparare dalle sue lettere, dalle sue parole, come affrontare la vita, il proprio karma, con lo stesso spirito, lo stesso coraggio.
È la sua stessa storia, la sua esperienza che può insegnarci a vincere. A non lamentarci, non seguire la paura. Non cedere di fronte alle avversità. Ci insegna a non perdere tempo facendo crescere dubbi o illusioni come funghi o come tumori, a non cedere alla rassegnazione. A non attaccarci troppo ai risultati facili o immediati, ma a sollevare lo sguardo, allargarlo un po' e sbirciare oltre il muro della propria rabbia, della propria ottusità. Oltre quella vocina stupida che dice «è difficile, troppo difficile, non ce la faccio». Sollevare lo sguardo e andare avanti, andare oltre, con fede, con speranze che siano dure più delle certezze, con la fiducia che si può, che ognuno di noi può. Imparare dalle sue parole, dal Gohonzon che ci ha donato, ad accendere fuochi con legna bagnata, a tirare fuori gocce di gioia preziose dal deserto anche del dolore.

Ogni persona che inizia e continua a praticare intraprende una lotta ardua, difficile e faticosa, ma meravigliosamente sorprendente. Non si lotta contro gli altri, contro la società, contro se stessi o contro il proprio karma. La vittoria e la sconfitta sono dentro di noi, sono karma che andiamo costruendo come una casa. Siamo noi il campo di battaglia tra l'oscurità che non ci fa percepire quanto sia preziosa la vita nostra e degli altri e l'Illuminazione, la gioia che deriva dalla Legge mistica, dalla fede, dalla preghiera.
«Non è eccessivo - spiega ancora Ikeda - affermare che il Buddismo fu esposto per consentire a ogni persona di trionfare nella battaglia fondamentale che avviene nella vita, quella tra il Budda e le funzioni demoniache. [...] Ma cosa esattamente ci permette di vincere? È il nostro cuore, la nostra mente. [...] Quando il Daishonin afferma che il Buddismo riguarda la vittoria e la sconfitta sta riferendosi a questa lotta che avviene nel profondo del nostro cuore. [...] "Un codardo non potrà mai ottenere risposta a nessuna delle sue preghiere" (SND, 4, 195). Sembra che il Daishonin ci stia incoraggiando con tutto il cuore: "Discepoli miei, non fatevi sconfiggere dalle furiose onde del mondo"» (MDG, 2, 284-288).
Per questo ci vuole coraggio. Per questo ogni persona che pratica il Buddismo di Nichiren è degna di lode. Perché ogni giorno offre la propria vita, ciò che di bello o di brutto le accade, per far sì che si illumini un pezzetto di realtà. Perché la Buddità possa emergere dal suo corpo, dai suoi occhi, e contagiare di gioia e di pace tutto quello che tocca, quello che incontra e incontrerà.
È una lotta incessante, faticosa a volte, che però ci può liberare un po' di più dall'egoismo, dall'arroganza, dalla sfiducia, dalle illusioni. Liberi di provare amore per se stessi e per gli altri. Liberi di guardare ai propri limiti, alle difficoltà, al karma che abbiamo accumulato come opportunità preziose per imparare a vincere, a sperimentare il potere che deriva dalla fede, dalla ricerca della Buddità. Liberi dalla paura. Non è forse questa la felicità? Non è forse questo vincere davvero?

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Il lungo cammino della fede

Intervista a Tamotsu Nakajima

Intervista a Tamotsu Nakajima

Spesso, quando ci si avvicina a un percorso religioso, può sembrare riduttivo pensare che lo sviluppo della propria dimensione spirituale possa mirare a trasformare aspetti concreti dell'esistenza. Eppure, come spiega Tamotsu Nakajima in queste pagine, la vita di ciascuno di noi si svolge attraverso un'infinita serie di arrivi e ripartenze. Porsi degli obiettivi e lottare per realizzarli è il modo di progettare concretamente il presente e il futuro, passando da un vivere "teorico" a un'esistenza reale. È il modo per sperimentare nei fatti il potere della fede e far emergere dalla nostra vita doti e capacità che mai avremmo pensato di avere. 

Che importanza hanno gli scopi nella nostra pratica buddista?
Gli scopi fanno parte della vita. Se ad esempio uno studente vuole finire l'università entro quattro anni dovrà fare uno sforzo, studiare bene, fare il possibile per riuscirci. Perché uno scopo ci fa fare uno sforzo costante in quella direzione.
Tutti abbiamo paura dell'ignoto, abbiamo paura di sbagliare. Uno pensa che se sta fermo non sbaglia. Ma invece bisogna muoversi, perché la vita è tempo, se ne va. Gli scopi servono per fare un passo avanti. Molte persone non vogliono mettere scopi nella loro pratica perché non hanno le idee chiare o hanno paura di non realizzarli, quindi sono sconfitte già in partenza.
Il Buddismo ci insegna che tutto dipende da quanto sappiamo usare bene ogni momento e ogni situazione. È difficile però spostarsi dalla propria visione e adottare quella buddista. Ad esempio noi vediamo questa vita presente, ma il Buddismo dice che la vita è eterna: sono due punti di vista diversi. Noi usiamo il Buddismo per soddisfare i nostri desideri, se ci mancano i soldi il problema sono i soldi, mentre per il Buddismo il problema è la vita.

Cioè il Buddismo dice che possiamo essere felici anche se mancano i soldi?
Dice bonno soku bodai, cioè che per ottenere l'Illuminazione (bodai) sono necessarie le sofferenze (bonno). Senza bonno come si fa a ottenere bodai? Invece noi odiamo i bonno, cioè odiamo la nostra vita, che è la causa dell'Illuminazione. Ah, se avessi un'altra vita... Bisogna imparare il Buddismo dal Buddismo, invece noi lo stiamo imparando attraverso le nostre capacità, attraverso il nostro karma.

Spesso si dice che senza scopi il Daimoku non funziona. 
Il Daimoku funziona sempre. Anche senza scopi. Soltanto che il Daimoku, Nam-myoho-renge-kyo, è una parola. Come se tu ripetessi: la vita è bella, la vita è bella, la vita è bella, ma la vita non diventa bella solo perché lo dici. Quello che fa cambiare le cose è l'azione che segue. Stai veramente cercando di rendere bella la vita? Allora ci riuscirai sicuramente. La vita è fatta di fatti. Se non agisci la vita fallisce.
Io penso che la vita sia un continuo miglioramento, attimo dopo attimo.

Ci sono dei periodi in cui non si ha una direzione, in cui si pratica per mantenere. E invece quando ci si mette di nuovo uno scopo tutto cambia. Diventa molto più leggero anche quello che si deve mantenere.
Mantenere non è attivo, è passivo. Ti sembra tutto pesante. Invece se ti muovi non senti più il peso. Il Buddismo non ammette di fermarsi. Appena ti fermi torni indietro, perché le altre cose della vita vanno avanti.

Spesso si sente dire che Nichiren nel Gosho non parla di scopi. 
Non credo. Noi abbiamo letto solo pochi Gosho. Senz'altro non ci sono scopi come guadagnare 5000 euro al mese. Ma ad esempio ottenere l'Illuminazione non è uno scopo ben preciso? Comprende tutto in un'unica voce. Perciò io penso che chi dice così non legge bene il Gosho.

Tanti dicono: io non ho scopi, pratico per essere felice, per stare bene.
Non è vero che non hanno scopi, la vita ha sempre uno scopo.
Tante persone dicono di non avere scopi perché hanno paura di non realizzarli.
Invece più chiari sono gli scopi più è facile agire. Gli scopi devono essere incoraggianti, non al di fuori della nostra portata... Lo scopo si stabilisce conoscendo la situazione e andando un po' oltre il limite. Se uno scopo è entro il limite, è già potenzialmente realizzato. Anche se, quando ti rilassi troppo, non realizzi neanche quello che sta entro il limite. Quest'anno lo scopo di shakubuku è uguale a quello dell'anno scorso, ma siamo addirittura più indietro. Questo è un indice di rilassatezza.
Sforzarsi di superare il limite permette di aumentare le proprie capacità. Il Buddismo insegna a non rilassarsi mai. Quando vinci affronta una nuova sfida con un'altra decisione.

Fare la propria rivoluzione umana è uno scopo per sé o per gli altri?
Lo scopo è personale. Poi, se cambiamo noi, la nostra trasformazione influenzerà anche gli altri. Io penso che ogni miglioramento faccia parte della rivoluzione umana. Ad esempio se si ha una certa idea ma si cerca di cambiarla, di accettare altre idee, questo è un modo di migliorarsi, di non fermarsi al proprio punto di vista.

Questo si intende per migliorarsi sempre? Uno potrebbe pensare di migliorare le sue finanze, il suo aspetto?
Senz'altro ognuno ha un'idea diversa del migliorarsi. E ognuno si sta sforzando di farlo, di certo non cerca di peggiorare.
La direzione in cui stai migliorando dipende da quello in cui credi. Paperon de Paperoni cerca di migliorare la sua capacità di accumulare soldi, e la sua avidità aumenta sempre. Per un ladro il miglioramento consiste nel rubare di più. Ma non credo che sia giusto.
Il problema è sempre l'egocentrismo. Un povero è molto ricco di cuore, e il cuore lo divide con gli altri. Ma appena ha qualche cosa in più non vuole più dividere quello che ha. Questo si chiama attaccamento.
Quello che intendo io è migliorarsi dal punto di vista della vita, per riuscire a utilizzare la propria esistenza per gli altri. In quale direzione va la rivoluzione umana? Verso la Buddità, verso la massima compassione.

Anche se continui a soffrire? 
Sì, ma metti davanti a tutto le sofferenze degli altri. Stai cambiando la tua situazione. C'è un'enorme differenza. La sofferenza è sempre sofferenza, ma la stai usando per gli altri.

Ci sono delle persone che arrivano a non avere scopi perché è come se non fossero "attaccate" alla vita. Come si fa a incoraggiarle?
Se ci basiamo sulle nostre capacità siamo limitati. Bisogna recitare Daimoku. Quando le persone decidono, sono loro che risolvono. Noi facciamo semplicemente da stimolo, ed è più facile essere incoraggianti se si recita Daimoku.
Bisogna avere pazienza. Il tuo incoraggiamento dipende da quanto riesci a sentire la difficoltà di quella persona, da quanto riesci a sentire la sua sofferenza.
Vai a trovarla a casa, recita Daimoku con lei, chiacchierate insieme. Questa è la nostra vera attività.
Invece ora purtroppo comunichiamo quasi esclusivamente via mail o sms. Stiamo peggiorando la nostra umanità, i nostri rapporti umani, per via di questi mezzi comodi. Spesso non si parla più nemmeno al telefono.

Se una persona continua a recitare Daimoku, riesce a cambiare da sola?
Non basta recitare Daimoku, ci vuole il maestro.
Nella frase "recitare Daimoku" si intende "praticare correttamente come dice il Daishonin". E anche lo studio serve. Più studi, più sai. Perché a volte serve proprio quella frase di Gosho, che ci permette di capire quella situazione. Dietro un inventore, un artista, c'è un enorme studio. Non il nulla. Grazie a tanto studio arriva l'intuizione che ti fa capire quella situazione. Se non c'è niente, non puoi tirar fuori nulla. Lo studio è una cosa importantissima, tutto lo studio giornaliero serve per quell'attimo in cui riesci a capire qualcosa.

Dobbiamo anche studiare meglio, allora?
Penso di sì. Ricordo che quando mia madre ha cominciato a preparare le prime lezioni di Gosho mi chiamava per ascoltarla ripetere ad alta voce quello che aveva studiato. Diceva: spero che ciò che ho detto sia il più vicino possibile a quello che intendeva dire Nichiren. È veramente ammirevole questo spirito di ricerca, per una signora di una certa età. Io ho imparato tante cose così, da mio padre e mia madre che studiavano, ripetevano le lezioni l'uno all'altra, discutevano, chiacchieravano. Li ringrazio veramente tanto.

Nel Gosho c'è scritto: «Nessuna preghiera rimarrà senza risposta». Quindi realizzeremo tutti i nostri scopi?
Nichiren si riferisce a "colui che pratica il Sutra del Loto". Non dice così? Le sue preghiere sicuramente si realizzeranno.

Quindi noi cosa dobbiamo fare?
Sforzarci di essere praticanti del Sutra del Loto. Veri praticanti.

Ci vuole coraggio, a mettere gli scopi?
Sì. Per esempio non dichiarare i propri scopi è un modo di essere codardi. Io ero così, perciò lo so bene. Perché quello che hai detto lo devi realizzare. È pesante ma è così. Gli scopi dichiarati ti costringono a fare delle azioni. Se usi il Daimoku ce la fai, se non usi il Daimoku purtroppo fallisci, e perdi fiducia in te stesso.

E quando gli scopi non si realizzano?
A volte ci sembra di essere sconfitti, di non realizzare i nostri scopi. Apparentemente è così, però... Noi viviamo come vive un ranocchio nel pozzo: lui è nato là, è cresciuto là, il suo mondo è quello, non c'è altro. È convinto che così sia il mondo. Ma il mondo reale è un'altra cosa. Il Buddismo spiega tutta la vita mentre noi ne vediamo una piccolissima parte. Da questo piccolo punto di vista qualcosa ci riesce e qualcosa no.
Ma quando pratichiamo la vita si incanala nella grande visione del Buddismo. Si ottiene un beneficio grandissimo, la comprensione della vita reale, anche se forse non riusciamo a ottenere tutte quelle piccole cose che ci sembrano importantissime in questo momento. Ma se non esci dal pozzo, se continui a girare in tondo, non cambia niente. Mi fa tanto ridere quel ranocchio.

Ma l'esempio di cento dollari che contengono un dollaro? Più grande è il mio obiettivo... più la mia vita concretamente si realizza.
Per noi è abbastanza facile capire il paragone tra uno e cento. Ma tra la nostra vita e l'eternità c'è un'enorme differenza che riusciamo a colmare solo praticando bene. Questo è un grandissimo beneficio. Per questo si dice che un giorno di vita non si cambia con tutti i tesori dell'universo. Noi stiamo cercando di capire questa incommensurabile grandezza.

Quindi il beneficio è quello di non soffrire più?
Non soffri più in relazione a un tuo problema. Non soffri più egoisticamente.

E non si tratta di rassegnazione, ma di una profonda sensazione di soddisfazione e di indipendenza.
Questa è la libertà, la libertà dal karma. Non sei influenzato dal karma. Nella prossima vita decidi tu dove e come vuoi nascere, indipendentemente dal karma... E scegli le difficoltà, perché altrimenti non puoi verificare il funzionamento della Legge mistica.
E per i vent'anni del nostro giornale?
Dico che grazie alla perseveranza, al mantenere, al cercare di fare meglio, sono passati vent'anni. Io credo che lo scopo fondamentale per questa rivista sia quello di migliorare sempre, per essere sempre più utile a kosen-rufu.
Per preparare bene Buddismo e società bisogna aver chiaro quanto e come lo utilizzano i membri. Quindi, per i prossimi vent'anni, portate avanti questo giornale sempre meglio. Per riuscire a offrire la cosa migliore, chi prepara la rivista deve prima di tutto migliorare la sua fede. A volte scrivendo due volte la stessa cosa si ha un risultato diverso perché bisogna che si incontri il cuore di chi scrive con quello di chi legge. Perché le persone cambiano; mi sembra che i giovani, in particolare, oggi siano diversi. Sembra strano, ma i ragazzi e le ragazze che praticano ora è come se volessero tenere fede a una promessa fatta.

Come se sapessero già quello che devono fare?
In un certo senso sì. L'altro giorno si parlava del tempo. Da una parte ci sono le quattro stagioni e gli anni che si susseguono, il cosiddetto tempo cronologico. Dall'altra c'è il tempo che creiamo noi. Ad esempio kosen-rufu quando sarà? Puoi decidere di farlo al più presto. Secondo la tua decisione verranno fuori le tue azioni. E a seconda delle tue azioni ci saranno degli effetti. Quindi dobbiamo creare il tempo, utilizzando ogni singola azione in direzione di kosen-rufu.
I tempi duri non sono eterni, dipende da come li utilizzi. Da come ragioni, decidi, lavori, agisci per creare un altro tempo. Mentre aspettiamo che arrivi la primavera, prepariamola. Quanto meglio la prepariamo, tanto più ne godremo.

IN PRIMA PERSONA
Paura degli scopi, paura del futuro

Ciao a tutti, mi chiamo Aurora, ho 25 anni e vivo a Torino. Frequento la facoltà di Scienze motorie e sportive e lavoro in un call center d'assistenza.
Ho avuto la fortuna di conoscere la pratica da piccola: quando avevo dieci anni i miei genitori praticavano già. Tuttavia ho iniziato a recitare Daimoku solo a dicassette anni. A quel tempo ero, come tutti gli adolescenti, piena di paure e insicurezze. Mi sentivo inadeguata e sinceramente non capivo proprio che senso potesse avere la mia esistenza. Quando ho iniziato, verso i vent'anni, a fare Gongyo e Daimoku regolarmente anche la mia vita ha iniziato ad avere un ritmo. A poco a poco ho affrontato le mie paure, trasformato l'insicurezza e migliorato i rapporti con genitori e amici. Ho trovato il coraggio di iscrivermi all'università e di lavorare allo stesso tempo. Oltre al Daimoku mi ha aiutata tantissimo la figura del presidente Ikeda. È stato come un secondo padre per me. Le sue guide mi incoraggiavano tantissimo e iniziavo a capire qual era il mio scopo in questa vita: il Buddismo mi ha permesso di rinascere e voglio trasmettere questo incredibile mezzo per raggiungere la felicità al maggior numero di persone.
Lo scorso maggio sono stata in Giappone e in quell'occasione ho potuto determinare nuovamente davanti al mio maestro Ikeda la decisione di proteggere la Soka Gakkai e il Buddismo di Nichiren Daishonin per tutta la vita, senza mai risparmiarmi. In particolare, come responsabile del gruppo Leonardo, mi impegnerò a incoraggiare i giovanissimi che iniziano questo percorso di fede nell'età più delicata e turbolenta! Naturalmente ho tanti obiettivi personali per il futuro tra cui: laurearmi, stabilizzare la mia situazione economica trovando un lavoro che mi soddisfi al cento per cento, incontrare un degno compagno di vita. Un tempo mi avrebbe fatto paura mettermi degli obiettivi, specialmente a lungo termine, perché avevo paura del futuro. Da quando pratico ho riscoperto l'importanza di dare valore al presente e quando penso al futuro lo immagino luminoso e pieno di speranza. Problemi e difficoltà non tarderanno ad arrivare, ma sono pronta ad affrontarli forte dell'incredibile mezzo di cui dispongo - Nam-myoho-renge-kyo - e del sostegno di tantissimi, meravigliosi compagni di fede con cui condivido sempre gioie e dolori.
Vorrei concludere citando un passo tratto dal libro In cammino con i giovani di Ikeda, che ci incoraggia così: «I giovani incontrano difficoltà, proprio come gli adulti. Durante la vita affrontiamo ogni genere di problema. Ma qualunque cosa accada, dobbiamo far emergere coraggio e andare avanti, sempre proiettati verso il futuro».

(Aurora Cappellano)

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La vita in azione

Il progetto

di Marina Marrazzi, Alessandra Fornasiero, Gianna Mazzini

Ci sono persone che non riescono a mettersi scopi precisi. Che non hanno mai avuto fiducia sufficiente nei propri sogni, nella propria forza vitale o nel potere del Daimoku da riuscire a sperare davvero, a crederci e a lottare per avere una risposta. O che non ci riescono più, per la delusione di non aver realizzato quello che desideravano, nonostante gli sforzi, avendo scambiato il proprio scopo personale per il fine della pratica.
I tre articoli che seguono cercano di mettere in evidenza alcuni punti ed esperienze di vita per uscire da questi circoli viziosi.
Ricominciare da ora, riprendendo da questo preciso momento il filo della nostra esistenza per andare alla scoperta del nostro obiettivo. Con fiducia e coraggio, perché determinare è un atto di fede nel potere infinito della nostra vita. Senza dimenticare che gli scopi non sono un fine ma un mezzo: un mezzo per cambiare il nostro modo di guardare.


Reset

E se un obiettivo preciso non ce l'ho?
Se quello che avevo, per il quale ho praticato tanto, sembra diventato uno spettro scheletrito che solo a pensarci mi passa la voglia di recitare Daimoku?
Se da un po' di tempo riesco a praticare solo in generale per la mia "felicità", per quella delle persone a me vicine, e non intravedo nessuno scopo chiaro nella mia vita?
Se mi sento sballottata tra quello che credo sia giusto fare, quello che gli altri si aspettano da me, quello che è ragionevole sperare dalla vita senza esagerare... e le giornate passano in fila una dietro l'altra con me dentro che mi dò da fare per riempire tutte le caselline degli infiniti impegni quotidiani.
Se la gioia di recitare Daimoku è un ricordo lontano, come l'energia di una giovinezza passata, ormai sostituita da una "assennata" e rassegnata maturità?
Allora, è tempo di fare reset. Azzerare tutto e ricominciare da qui.
Devo? Posso.
Avere scelto di abbracciare il Sutra del Loto, seguendo l'insegnamento di Nichiren, significa decidere di credere e voler sperimentare che la Buddità esiste nella mia vita, cioè che non ci sono paradisi esterni a me ma neanche una realtà di necessarie rinunce e accomodamenti. Che il mio destino lo segno io attraverso quello che faccio, o non faccio, ogni momento.
Posso ricominciare a domandarmi: dove la voglio portare questa vita mia? Cosa ne voglio fare, prima che arrivi la mia fine?
Anche se i miei progetti si sono confusi, o non sono mai stati in fondo tanto chiari, e i sogni se ne sono andati sempre più lontano, posso fermarmi e chiedermi cosa voglio fare di me. Non necessariamente idee grandiose, né per forza qualcosa che piaccia a tutti. Provare ad ascoltare - ancora - la mia voce più profonda. Andare a trovare la fontanella fresca che mi sgorga da dentro e mi quieta.
Azzerare tutto e ricominciare da qui.
Recitando sinceramente Daimoku di fronte al Gohonzon.
Sinceramente. Senza pensieri. Sinceramente. Senza giudizi.
Sinceramente. Con la sola speranza che la vita sia forte abbastanza da tirarmi fuori da questo pantano. Con la paura di non farcela. Con il coraggio di non smettere. Con la fiducia e la speranza che anche se non riesco a formulare, fermandomi un attimo, immagini chiare né pensieri né alcuna parola, qualcosa in fondo a me che riguarda proprio me, e il senso di me in questa vita, c'è.
Cosa è che mi piace davvero, anche se non so come dirlo? Dove è che mi trovo bene e sento di starci a mio agio anche se non è niente di speciale? Cosa è che quando lo faccio anche solo per poco e solo per me mi fa sentire capace e in armonia con gli altri? Posso permettermi di sentire così, di andare proprio là dove sta quel minuscolo sogno che non ha nome né apparente dignità di progetto, riconoscerlo come desiderio e farne un mio traguardo?

«La scoperta dei propri obiettivi e sogni inizia nel momento in cui si decide di individuarli» (Daisaku Ikeda, In cammino con i giovani, Esperia, p. 70). Senza giudizi, né censure preventive.
Quello che cerco può venire fuori in un soffio delicato e prorompente, in un'immagine o un nome evocatore che mi convince e mi quieta, dandomi gioia, anche se lì per lì non so cosa farmene. Come una volta è successo a me con la parola "mare", emersa come uno zampillo ristoratore mentre cercavo con il Daimoku di riprendere il filo della mia esistenza in un momento di grande confusione. Che scopo era, che razza di obiettivo poteva essere quell'emozionante benessere del corpo e della mente che il mare mi evocava? So solo che quella volta smisi di recitare con un sorriso, certa di avere trovato un tesoro (e riconoscente fino alle lacrime per il potere del Daimoku e del Gohonzon). Il giorno dopo mi svegliai lucida e serena, e senza sapere come mi trovai al computer a scrivere di getto delle pagine intorno alle quali giravo da anni.
Da lì, poi, comincia un'altra storia, la strada dura e tortuosa per realizzare.
«Porsi degli scopi è il punto di partenza da cui iniziare a costruire la propria vita - scrive ancora il presidente Ikeda. - Sebbene questi possano cambiare mentre procedete, non vuol dire che abbiano meno importanza» (Ibidem, p. 71). «Certo, se non fate alcuno sforzo, i vostri sogni non saranno che semplici fantasie. L'impegno, il duro lavoro, tutto questo è il collegamento tra i vostri sogni e la realtà. [...] Abbracciate i vostri sogni e avanzate fin dove vi conducono» (Ibidem, p. 69).
(Marina Marrazzi)

Quel ponte tra realtà e immaginazione

Quando ho iniziato a praticare ero incapace di concepire obiettivi. Non sentivo neppure i miei desideri. Figurarsi arrivare a "progettare". Ero totalmente passiva. Come se la mia vita non mi appartenesse. Troppa paura per poter scegliere, troppa insicurezza per determinare. Poiché non mi muovevo non mi conoscevo. Non avevo idea a cosa volessi dedicare la mia vita. E a forza di non agire la mia vita si era completamente bloccata.
La realtà era qualcosa di separato, lontana e impenetrabile come un macigno. Quanto a me, tanto la mia vita scorreva altrove, proiettata sullo schermo della mia immaginazione.
La verità è che soffrivo terribilmente. Di una rabbia feroce contro me stessa, e di impotenza. Mi odiavo per non avere la forza di reagire, di salvarmi, di uscire. Jigoku è il termine giapponese che esprime lo stato vitale di Inferno: una "gabbia". Quando l'ho letto per la prima volta sono rimasta folgorata dall'esattezza della definizione.
Poi, un giorno, ho iniziato a praticare. Fin da subito recitando molto Daimoku. Avidamente. Come una medicina che ho sentito mi avrebbe salvata. Senza disporre di una mappa. Senza una meta precisa. Spinta da un istinto quasi cieco di sopravvivenza. Navigando a vista. Guidata dal filo di quell'unico disperato desiderio di uscire dal buio, di guarire, di smettere semplicemente di soffrire. Pezzi di mondo cominciavano a sgretolarsi, dentro e fuori di me, come un cristallo che si incrina. Il potere di Nam-myoho-renge-kyo esplodeva dentro la mia vita. A volte mi sembrava di impazzire. Eppure continuavo a praticare.
«Vi siete persi nella giungla - scrive il presidente Ikeda - e volete trovare un sentiero per raggiungere l'oceano, ma non sapete quale direzione scegliere. Che fare? La cosa giusta è continuare ad avanzare seguendo il corso del fiume fino a valle. Alla fine si raggiunge il mare» (D. Ikeda I protagonisti del XXI secolo, Esperia, p. 4).
La mia esperienza è stata così. La perseveranza nello sforzo come unica misura del mio avanzare. Fino ad accorgermi un giorno di aver aperto un sentiero nella giungla. Fino a scoprire che anni di perseveranza nel Daimoku e nell'attività - tanta, sempre tanta attività: ciò che chiamiamo "pratica per gli altri", ed è la cura più efficace per la nostra vita - mi avevano condotta fuori. Come quella mosca bianca che monta sulla coda di un cavallo lanciato al galoppo.
Grande, grandissimo è stato il mio sollievo nel verificare che la compassione del Budda era tale da poter abbracciare anche me, così com'ero. Sfocata, ondivaga e indeterminata. Perché la mia natura è anche questo. Impaziente, versatile e indecisa. E ogni volta proprio questa è la mia lotta. La mia sfida.
Ne vale la pena. Perché è vero che determinare è un atto di fede nel potere infinito della nostra vita. Che porsi un obiettivo è un impegno ad agire. Che andare fino in fondo richiede coraggio. Che fino a che non decido tutto sembra inutile. Ma nel momento esatto in cui decido l'universo si spalanca, e ogni cosa diventa possibile.
Nella profondità insondabile del Gohonzon si rimargina la mia antica ferita. I miei desideri non sono più una fuga. Sono la chiave che trasforma il mondo. Costruiscono ponti tra realtà e immaginazione. Ponti per poterci realmente camminare. Bonno soku bodai...
Come nella favola della lepre e della tartaruga. Alcuni sono lepri, altri tartarughe. Ma i veri vincitori sono coloro che avanzano con coerenza per la propria strada finché non arrivano a tagliare la linea del traguardo.
(Alessandra Fornasiero)

Il corrimano nella nebbia

Ricordo con immensa forza un episodio di quando avevo appena cominciato a praticare.
Un amico buddista stava affrontando un cancro.
Al figlio di sei anni, che lo vedeva debole e magro, e che si dispiaceva perché lui non era forte come gli altri papà, aveva spiegato che la cosa importante non era essere più forte degli altri, ma essere più forti di sé.
Mi tornano in mente gli occhi di quel bambino: accesi, sorpresi, felici di questo cambiamento di punto di vista.
Questo offre il Buddismo: un continuo cambiamento del modo di guardare. Che, giorno dopo giorno, si accumula negli anni. Cambia, volta dopo volta, la percezione degli eventi. Conduce a una consapevolezza del vivere che ancora non smette di stupirmi.
Ripenso alla parola "progettare".
Che lavoro fai? Quanto guadagni? Hai figli?
In un mondo tutto proiettato sui risultati, siamo indotti a pensare che la vita sia fatta così, di caselle: amore, lavoro, denaro, salute. E progettare può identificarsi col riempire quelle caselle. Eppure lo sappiamo che la felicità non è affatto automaticamente incorporata nella realizzazione di un amore, nel successo, in un corpo sano. Che anzi, può capitare di incontrarla altrove, improvvisa: stando male, soffrendo per qualcuno o qualcosa che ci si para d'ingombro, come un muro alto davanti.
Progettare non è solo "farò questo, farò quello", non è mettere la testa prima della vita. Il progetto è costruire la speranza, è costruire la fiducia, non farsi mai sconfiggere dalle difficoltà. Perché la vita è stare a cavallo delle cause e non a rimorchio degli effetti.
Gli anni che passano mi hanno allargato o rimpicciolito la vita? Ho ancora più fiducia di quando ho cominciato a praticare o sono stata piegata dagli eventi, delusa? La qualità delle mie relazioni è cambiata? Ho realizzato un po' dei miei sogni? Ne ho ancora? Quanti? Mi spendo per realizzarli? Mi interessa la felicità degli altri? E non solo dei "miei", dico proprio degli "altri"? Tengo d'occhio l'istante, sento la vita che pulsa ora, proprio in questo momento? Voglio usarla per creare valore?
Il Buddismo ci permette di scoprire chi siamo davvero e riconoscere il valore della nostra vita. La strada per arrivare lì passa proprio attraverso i desideri, così come sono, magari piccolini nella testa che, come un corrimano nella nebbia, ci guidano verso la sorpresa della trasformazione. Oltre la paura di non farcela, di farcela. Oltre la paura di cambiare. E lì sta la crescita. Nel percorso. Questo non significa che io non debba consumarmi le mani, gli occhi e i gesti per riuscire a realizzarli. Che non debba metterci tutta me stessa fino all'ultima oncia di energia, fino all'ultima scintilla di vita.
Solo che i desideri sono il mezzo non il fine. Il mezzo per cambiare il mio modo di guardare. Sostituire a una visione della vita che dice che vinciamo se ci pieghiamo alla logica del profitto, una visione più larga, che dice che a ogni causa corrisponde un effetto, che più dò e più ricevo. Fino a fare di questa visione una convinzione profonda, non scalfibile dalle delusioni, dalla fatica, dal tempo.
(Gianna Mazzini)

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La chiave per trasformare il mondo

di Daisaku Ikeda da The Japan Times

di Daisaku Ikeda

Per crescere bene è fondamentale che i ragazzi e le ragazze incontrino persone adulte che credono sinceramente nelle loro qualità. Josei Toda, ricorda Ikeda in questo articolo, credeva molto nei giovani e vedeva in loro possibilità che essi stessi non riuscivano a immaginare: la fiducia, il coraggio e la speranza che trasmetteva operavano in loro un grande cambiamento. Se oggi offriamo ai giovani solo l'esempio di un modo di vivere egoista e brutale cancelliamo dal loro cuore ogni speranza. Come adulti abbiamo la responsabilità di impegnarci ad ascoltare attentamente la loro voce, sforzandoci di essere una costante fonte di calore e di nutrimento spirituale. Solo così potranno emergere persone in grado di sentire la sofferenza degli altri, capaci di sostenere una società veramente sana. 

Questo articolo è stato pubblicato sul maggiore quotidiano di lingua inglese del Giappone, The Japan Times,: l'8 giugno 2006 con il titolo: Planting seeds of hope in Japan's youth (Piantiamo semi di speranza nei giovani giapponesi).

La fresca risata dei bambini è la vera misura della salute della società. Dieci anni fa ero in Costa Rica, a San José, per l'inaugurazione di una mostra sulla presenza e la minaccia degli armamenti nucleari. Mentre gli oratori cantavano solennemente l'inno nazionale, dalle pareti che separavano la mostra dal Museo dei bambini arrivava il suono di voci forti e vibranti, quelle degli allievi elementari che aspettavano l'apertura della loro mostra. Nel corso della cerimonia il vociare dei bambini riusciva quasi a coprire le parole dei relatori.
I partecipanti si scambiavano sorrisi. Sembrava che le voci allegre e vivaci dei bambini fossero il simbolo e la materializzazione della pace, e rendevano concreta persino la speranza di poter eliminare la minaccia delle armi nucleari.
Come adulti abbiamo la responsabilità di assicurare a queste voci pure di risuonare in tutta la società. Purtroppo in Giappone, in questi ultimi anni, quasi non passa giorno senza la notizia di incidenti tragici e allarmanti che coinvolgono bambini. È veramente doloroso venire a sapere di bambini o ragazzi coinvolti o vittime di crimini violenti.
La vita dei bambini è lo specchio della società. Questi incidenti rispecchiano una patologia sommersa in base alla quale si giustifica l'indifferenza verso gli altri e il disprezzo per la loro sofferenza.
Sono profondamente preoccupato del fatto che, offrendo ai giovani solo l'esempio di un modo di vivere egoista e brutale, facciamo sì che dal loro cuore si estingua la luce della speranza.
Quando il cuore di un bambino non trova le risposte che cerca rimane deluso, si sente desolato. Questo lo rende ancora più vulnerabile di fronte a un sistema di valori distorto che - con l'unico e arbitrario metro della ricchezza - separa freddamente nella società i "vincenti" dai "perdenti".
Dovremmo cominciare a ripensare onestamente cosa significhi "vincere" nella vita e cosa dovrebbe offrire una società sinceramente capace di accogliere gli altri.
Anche i membri della mia generazione hanno sperimentato la sofferenza di trovare vuoti e privi di senso i valori che la società offriva.
Quando la seconda guerra mondiale finì io avevo diciassette anni. Tra noi giovani c'era un terribile senso di vuoto spirituale. Non era solo l'ambiente fisico a essere stato ridotto in cenere, ma era stato raso al suolo e rinnegato anche quel grottesco sistema di valori che ci era stato inculcato durante gli anni della guerra.
Naturalmente molti giovani scivolarono in un disperato scetticismo, convinti che non vi fosse niente in cui poter credere. Così come loro, anch'io non riuscivo a dare fiducia a intellettuali e politici che, dopo aver tessuto le lodi della guerra e portato un gran numero di giovani a morire, nel giro di una notte si proclamavano apostoli della pace e della democrazia.
In quel momento particolarmente difficile della mia gioventù ho avuto la grande fortuna di incontrare una persona pronta a mettersi in gioco fino in fondo insieme a me e ad altri giovani. Una persona che poi avrei considerato mio maestro di vita.
La prima volta che ho incontrato Josei Toda a una piccola riunione di membri della Soka Gakkai lui aveva quarantasette anni, quasi trenta più di me. Nonostante la differenza d'età rispondeva alle mie domande in modo semplice, diretto e sincero. Toda si era opposto al regime militarista che aveva spogliato i giapponesi dei loro diritti e della loro libertà fino a scaraventare il paese in una guerra di invasione. Di conseguenza subì molte persecuzioni e due anni di prigione. Le parole di una persona che ha vissuto il carcere a causa delle sue convinzioni hanno un peso speciale; per intuito sentivo che di lui mi potevo fidare.
Toda era un educatore con un profondo amore per i giovani. Tra gli sbuffi di fumo le sue parole attraversavano diversi argomenti, mentre condivideva con noi la sua percezione profonda dei più spinosi problemi della vita.
Organizzava sessioni di studio per i giovani all'aperto, in ambienti naturali bellissimi che ci aiutavano a ritrovare una grande vitalità. Ricordo la volta in cui, intorno a un fuoco da campo vicino al fiume, parlammo con lui fino a tardi di argomenti che ci toccavano da vicino: il rapporto con i nostri genitori, il matrimonio, la nostra vita, il futuro.
Toda credeva molto nei giovani e accordava loro una grande fiducia. Vedeva in loro possibilità che essi stessi non riuscivano neppure a immaginare. La fiducia, il coraggio e la speranza che trasmetteva operavano in loro un grande cambiamento.
Per mia stessa esperienza, sono convinto che poche cose siano più importanti per la crescita sana dei ragazzi che quella d'incontrare qualcuno che crede sinceramente in loro. Alcuni studi suggeriscono che i giovani coinvolti in azioni di violenza soffrono spesso della sensazione che nessuno si interessi di loro o ne abbia cura. Il comportamento problematico dei bambini è il crudele riflesso dell'egoismo e dell'apatia della società adulta.
Nel Sutra del Loto si legge la seguente parabola. C'era una volta un uomo che aveva un amico ricco. Un giorno lo incontrò, si intrattenne con lui e poi, ebbro di vino, si addormentò. L'amico ricco se ne andò per i suoi affari ma prima di partire, come regalo d'addio, cucì nell'orlo dell'abito del dormiente un gioiello di inestimabile valore. L'uomo, che non sapeva niente dell'accaduto, si svegliò e andò a lavorare. I tempi divennero duri ed egli vagò nel mondo in povertà. Anni più tardi si rincontrarono. L'amico ricco, stupito dalle condizioni dell'uomo, gli raccontò del dono che gli aveva fatto e che lui aveva posseduto ignaro per tutto quel tempo.
Ogni giovane possiede un prezioso tesoro interiore di valore infinito. Rimanere senza la consapevolezza di questo tesoro e girare senza meta nella povertà spirituale è un tragico spreco. Al contrario, una persona pienamente risvegliata al gioiello inestimabile che è la dignità della sua vita è perfettamente in grado di rispettare questo tesoro negli altri.
Tutti abbiamo opportunità, in famiglia e nel nostro ambiente, di interagire con i giovani. Spero che gli adulti impieghino tempo e impegno nell'ascoltare attentamente la voce dei giovani. Questi piccoli atti di attenzione possono colmare e ravvivare un giovane cuore. Ciascuno di noi dovrebbe sforzarsi di essere una costante fonte di calore e di nutrimento spirituale.
Anche se possono sembrare laboriosi e impegnativi, sono convinto che da tali sforzi - che fanno sorgere risonanza e fiducia tra una vita e l'altra - possano emergere persone in grado di sentire la sofferenza degli altri, capaci di azioni empatiche verso gli altri. Questo è il primo passo verso la costruzione dei valori capaci di sostenere una società veramente sana. Questi sono i semi della speranza futura che possiamo piantare oggi.

(C) The Japan Times, 8 giugno 2006 


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Coltivare oggi le speranze di domani

Il futuro

Roma, due giugno. Nonostante il giorno di festa e la pioggia torrenziale tre fedelissimi del gruppo Saette, i giovanissimi praticanti dai dodici ai sedici anni, si incontrano per recitare Daimoku insieme e organizzare la festa dei saluti prima delle vacanze. Ognuno porta un suo contributo e alla fine si sceglie il tema dell'amicizia, vista l'estate imminente, la possibilità di nuovi incontri e di fare tanto shakubuku.
L'anno scolastico sta finendo, i ragazzi sono concentratissimi nello studio e determinati a farcela a tutti i costi. Noemi, Luca e Ginevra ci raccontano in breve il loro rapporto con la pratica, la vita, gli obiettivi, il futuro.

I sogni che riemergono dal cuore
Noemi, quindici anni, fin da piccola aveva un grande sogno, diventare un'attrice. «Negli ultimi anni l'avevo un po' soffocato ma recentemente, poco dopo aver iniziato a praticare regolarmente, ho visto un film con una trama molto simile alla mia storia. Da allora questo sogno è riemerso con forza, e ho deciso di trasformarlo in realtà.
Anche se razionalmente so di essere una persona di valore, con il cuore l'ho capito un po' meno, perché mi sono accorta che in certi momenti mi manco di rispetto e non pratico per la mia felicità. Però ho deciso di cambiare atteggiamento, e proprio davanti al Gohonzon ho trasformato un punto di vista: mentre prima mi disperavo solo all'idea di un'eventuale bocciatura, a un certo punto grazie al Daimoku sono riuscita a decidere di stare bene comunque. E ho avuto il coraggio di pensare: "Io ce la voglio fare. Voglio essere promossa e basta!".
Per il resto cerco di impegnarmi per la pace nel mondo, anche se puntualmente mi scontro con le mie compagne di classe. Ogni mattina leggo la guida giornaliera del presidente Ikeda e spesso mi chiedo come è possibile che sia proprio quella che serve a me quel giorno. E subito dopo il mio stato vitale cambia.
Vorrei che con gli amici del gruppo Saette, i miei veri amici, ci ritrovassimo sempre, anche fra vent'anni».

In volo per la pace
Luca ha quindici anni, frequenta il secondo anno dell'Istituto tecnico aeronautico e pratica regolarmente da un po' di tempo. «Ecco, credo che recitare davanti al Gohonzon faccia veramente la differenza. Mi capita che con solo cinque minuti di Daimoku riesco a vedere cose che prima non vedevo, come una via d'uscita da una situazione difficile. Ho proprio verificato che quando pratichi tanto, convinto di trovare la soluzione giusta, quella arriva senza dubbio». Nel gruppo Saette si trova molto bene e vorrebbe che le riunioni fossero più frequenti: «Forse è perché gli unici amici veri che ho sono i compagni di pratica».
Quest'anno Luca ha fatto una scelta importante. «Chi sceglie una scuola come la mia sa bene che lavorerà in campo militare. Io, che fino a poco tempo fa non mi ponevo neanche il problema, grazie all'incontro con il Buddismo e con le guide del presidente Ikeda ho riflettuto profondamente sul tema della guerra e per la prima volta ho percepito il bisogno di pace che c'è nel mondo. Ho pensato allora di far parte della pattuglia acrobatica e, visto che questo è l'anno dei giovani e dei grandi risultati, ho deciso che diventerò il miglior pilota delle frecce tricolore».

La mia felicità per kosen-rufu
Ginevra, sedici anni: «Quando a Capodanno ho scoperto che questo è il secondo anno che Sensei dedica ai giovani ho capito che se voglio realizzare kosen-rufu, se voglio portare la pratica in giro per il mondo, devo essere felice, altrimenti qualsiasi difficoltà esterna mi abbatte subito. Quindi voglio puntare in alto, per dare delle basi solide alla mia felicità e alla mia fede. I miei scopi a breve termine: a scuola voglio ottenere il massimo dei punti di credito e mi sto ammazzando di studio per riuscirci, poi ho l'esame del sesto anno di pianoforte e ad agosto partirò per l'America, dove starò un anno. Mi sto sforzando al massimo, e quando la fiducia crolla cerco di recitare più Daimoku.
C'è una cosa che sento moltissimo da sempre, e da quando ho cominciato a praticare costantemente mi rendo conto che è proprio vera. Si tratta del fatto che se io cambio anche di poco il mio atteggiamento nei confronti di una persona, o nei confronti del mio ambiente, io cambio proprio tutto. Si verifica una reazione a catena che mi porta ad avere l'ambiente che ho sempre desiderato.
Per esempio io ho avuto tantissimi problemi con un mio compagno di classe. L'anno scorso non ci siamo rivolti la parola per due mesi e quest'anno abbiamo litigato di nuovo: per cinque mesi abbiamo parlato male l'uno dell'altra senza mai guardarci in faccia. All'inizio provavo rabbia, addirittura odio nei suoi confronti, perché si era comportato veramente male. Però piano piano mi sono resa conto che lui soffriva, anche se continuava a dire le peggiori cattiverie su di me. E allora ho recitato tanto Daimoku, per più di due mesi, finché un giorno me lo sono trovato davanti, ho fatto dentro di me il conto alla rovescia e gli ho sparato: "Claudio scusami, io non volevo comportarmi male, mi dispiace veramente tanto". E lui: "Ma perché ti devi dispiacere? Quello che deve chiedere scusa sono io". Da quel momento è cambiato tutto.
Voglio dire un'ultima cosa: a parte Sensei, che ci incoraggia sempre, trovo che nella nostra organizzazione sia gli adulti che i giovani più grandi di noi ci trascurano un po'. Noi siamo il futuro, ce lo dite sempre, però come facciamo a crescere da soli? Quindi aiutateci e partecipate di più alle nostre riunioni».

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Tuoni, fulmini e saette

La nostra storia

Intervista a Roberto Minganti - di Gianna Mazzini e Lodovico Prola

Due circostanze indipendenti che si sono trovate a coincidere: il ventesimo compleanno di questo giornale e il cambiamento della sua direzione.
Intervistare Roberto Minganti proprio adesso che non è più direttore della rivista, e ripercorrere con lui la storia della nostra attività di redazione negli anni, è per noi un modo per esplicitare la nostra stima e gratitudine nei suoi confronti.
Ma non è solo questo. Abbiamo accolto volentieri l'idea di questa intervista anche perché crediamo sia importante far sapere, a chi non ha vissuto direttamente la nostra esperienza, che abbiamo imparato a portare avanti questa attività con successo negli anni tenendo salde alcune caratteristiche, sopra a tutte la convinzione che le relazioni umane all'interno dell'attività hanno molta più importanza delle cose da fare. Questa è l'occasione per riconfermare il valore che tale attitudine preziosa ha per tutti noi.

Allora, vent'anni di Duemilauno - Buddismo e società. Come nasce la rivista? Come inizia l'avventura?
La rivista nasce nel 1986 a Firenze, grazie a un gruppo di lavoro riunito attorno a Marco Magrini. Nel '90 ci fu la decisione di trasferirlo a Roma.
Mi ricordo che i primi anni, quando il giornale era ancora a Firenze e a Roma non c'era ancora il kaikan, noi della redazione romana lavoravamo a casa di un responsabile con un unico computer che era in dotazione non solo alla redazione, ma serviva anche per la segreteria, la contabilità e tutto il resto. Mi ricordo che un giorno per un guasto si allagò la casa e sopra la moquette galleggiavano i nostri sudati articoli.
Poi ci fu il primo kaikan a Roma, in via Pietro Cartoni a Monteverde, ma la situazione rimase più o meno la stessa perché stavamo nel seminterrato con uno stesso computer condiviso da tutti gli staff. All'epoca noi redattori eravamo quattro, poi, mano a mano, si aggiunsero nuove entrate, tra cui una in particolare, che guardacaso oggi mi sta intervistando, a cui proprio non piaceva il giornale. Io le dissi «vieni con noi, cambiamolo insieme». Dico questo per sottolineare che ogni persona che è entrata a fare attività con noi ha portato davvero un cambiamento che si è poi rivelato fondamentale. In quest'esempio specifico, Gianna ci ha insegnato a rispettare un po' di più la differenza di genere, a cominciare dal linguaggio. È chiaro che per ciascuno di noi quel cambiamento è stato anche un cambiamento culturale.
Poi nel '90 la redazione del giornale si è trasferita a Roma. Questo ha comportato per noi un grande cambiamento perché in realtà quel giornale era fatto quasi unicamente da volontari, essendo io l'unico dipendente.

Una bella impresa...
Il ricordo più bello sono le nottate passate insieme, grafici, redattori, fotografi, correttori di bozze... a cercare di chiudere il giornale in tempo, cosa che in realtà ci riusciva piuttosto raramente. La preparazione del giornale, all'epoca, era molto simile a qualsiasi altra attività, e si basava su incontri settimanali, recitazioni di Daimoku e riunioni in cui parlavamo, discutevamo... Quando non si sapeva che cosa fare, cioè cosa scrivere, si recitava Daimoku: il legame con il Gohonzon era molto forte ed esplicito. Quando abbiamo cambiato kaikan e siamo andati in via della Marcigliana, in una zona lontana dal centro della città, le possibilità di incontro sono diminuite ma quel tipo di base è rimasta e ha favorito relazioni umane molto forti, basate sulla fede. Questo è un punto fondamentale. E noto con gioia che queste relazioni hanno resistito nel tempo, anche nei momenti più difficili trascorsi insieme.

Come è cambiato il giornale in questi vent'anni?
Il giornale si è "professionalizzato", ci sono più persone che lavorano a tempo pieno, come del resto era inevitabile che accadesse. Anche se ciò avrebbe potuto creare contrasti tra dipendenti e volontari, tutto si è risolto facilmente grazie al fatto che al centro di questa attività c'è sempre stato l'atteggiamento nella fede.
Da un altro punto di vista, il giornale nel corso del tempo ha cambiato direzione. È partito come strumento di approfondimento di studio del Buddismo, come suggeriva il messaggio del presidente Ikeda apparso sul primo numero. Poi, piano piano il giornale si è aperto alla società: in occasione di un numero che conteneva uno speciale sull'universo, venne intervistato Paolo Maffei, famoso astrofisico di Perugia. Per la prima volta la voce di un non praticante entrava nel nostro giornale. Fu una grande innovazione. A quella seguì l'intervista a Eugenio Garin, in occasione della pubblicazione del poema del presidente Ikeda sul Rinascimento.
Da allora questa apertura verso la società crebbe progressivamente.
Diventò tradizione che ogni speciale contenesse un dialogo con un esperto, un protagonista nel campo che andavamo approfondendo, qualcuno che noi ritenevamo utile e autorevole per aiutare la comprensione.
Ricordo che la sociologa Immacolata Macioti, analizzando questo aspetto, aveva notato e apprezzato il fatto che il nostro giornale aveva anche un intento educativo, quello di trasmettere opinioni di esperti della nostra cultura.
Da allora abbiamo iniziato ad inviare puntualmente la rivista agli intervistati, poi la lista si è allargata includendo università, biblioteche, ecc. Ricordo che in occasione della pubblicazione di uno speciale su Makiguchi ricevemmo i complimenti del presidente Ikeda.
In quel periodo Duemilauno era diventato un punto di riferimento anche all'estero. Di questo noi in realtà non eravamo proprio consapevoli, cercavamo semplicemente di fare la cosa migliore, di volta in volta.
Poi la qualità crebbe anche in relazione al fatto che iniziarono a collaborare tante redazioni da tutta Italia: Firenze, Torino, Milano, Bologna, Trieste, Napoli, Bari, la Sicilia, la Sardegna. Eravamo una trentina di persone. Ci riunivamo a Roma ogni due mesi e iniziavamo delle discussioni complesse sui numeri da fare. Quella capacità di dialogare ci ha permesso di sviluppare una grande pazienza e attenzione verso l'opinione di ognuno. Quello è stato un periodo molto bello perché c'era una grande unità italiana. Spero che nel futuro si torni a queste forme di collaborazione così vivaci.
Ricordo in particolare uno speciale sulle spiegazioni del Gosho La vera entità della vita redatte dal presidente Ikeda, costruito recitando Daimoku anche per cercare di capire quali disegni o quali box mettere a fianco del testo. Magari il risultato non è stato così straordinario, ma abbiamo cercato di trasmettere fedelmente quel prezioso materiale. Quello è uno dei numeri a cui sono più affezionato, perché mi ricordo il drammatico lavoro fatto per mettere insieme il giornale.

Al centro non c'era tanto l'efficienza o la qualità delle pubblicazioni quanto piuttosto la qualità delle relazioni...
Sì. Questo è un punto fondamentale nel Buddismo: la qualità delle relazioni umane. Fare itai doshin significa avere la stessa mente del Budda. Le nostre relazioni devono basarsi sulla fede. È un punto importante perché chi scrive, chi ha questa ampia visibilità sui giornali, può manifestare orgoglio o arroganza. Cadere in questa trappola fa perdere di vista lo scopo comune, che è realizzare kosen-rufu. Diventiamo singoli e non persone in relazione. Si rompe quest'armonia di itai doshin. Credo che ogni singolo redattore o redattrice potrà dire quanto ha dovuto combattere il suo orgoglio. Per questo si lavorava prima sulla fede poi sulla scrittura.
È ovvio che anche sulla scrittura si lavorava. Non ho mai avuto problemi a farmi correggere da qualcun altro né tantomeno tra noi c'è mai stata questa difficoltà. Ma per realizzare veramente itai doshin, oltre a curare la fede di ognuno di noi occorreva anche che ciascuno mantenesse la sua identità, il suo modo di scrivere, che comunicasse le cose così come le sentiva. E questo è un percorso a ostacoli.
Il presidente Ikeda nel romanzo La rivoluzione umana incoraggiava i giornalisti a trasmettere l'insegnamento del maestro per far star bene le persone e fare in modo che si sentissero incoraggiate a praticare. Il giornale ha sempre quello scopo: che poi è lo stesso che spinge a nominare i responsabili di gruppo, di settore, di capitolo. Spesso i professionisti, giornalisti o scrittori, hanno fallito da questo punto di vista.

A proposito dell'importanza della discussione generale, ricordo che qualsiasi cosa venisse scritta era il frutto di conversazioni, riflessioni, discussioni: a prescindere da chi scrivesse quel determinato pezzo, l'articolo era il frutto di un lavoro di squadra. 
È vero. Spesso consideravo l'articolo come il frutto di una "scrittura collettiva", pur mantenendo le caratteristiche individuali di chi scriveva. Tanti grandi talenti di scrittura hanno avuto l'umiltà di mettersi al servizio del dialogo, senza arroccarsi o isolarsi. È stato uno dei punti forti, che nasceva dal Daimoku. Dobbiamo ringraziare il signor Kaneda che in quel periodo ci ha lasciato una grande libertà e quindi la possibilità di sbagliare e crescere.
Oggi il giornale ha nuovamente definito una sua rotta. Cosa sta cambiando?
Alla luce di tutta l'esperienza maturata e anche di quello che ci sta trasmettendo il signor Nakajima, ripartiamo con una linea del giornale rinnovata: oggi vogliamo offrire uno strumento per conoscere e studiare ancora più profondamente l'insegnamento buddista. Il presidente Ikeda ci sta lasciando una gran mole di scritti, di trattati, di dialoghi: tutta la sua eredità spirituale. Lì c'è tutto il cuore del Buddismo e anche il modo di metterlo in pratica, di applicarlo nella nostra vita. A questo vogliamo dare grande risalto, pur lasciando uno spazio aperto verso la società.

Ogni gruppo nasce con grande ingenuità e spirito di partecipazione e libertà, poi organizzandosi e strutturandosi si irrigidisce. È possibile mantenere grande attenzione alle relazioni, nel giornale come nella nostra comunità, anche di fronte all'aumento dei partecipanti e della struttura organizzativa?
Se guardo al presidente Ikeda rispondo immediatamente di sì. Perché lui ha questa capacità di trasmettere contemporaneamente quali sono i valori della Soka Gakkai e il rispetto per ogni singola persona. Se guardo me stesso allo specchio le considerazioni cambiano, perché è difficile mantenere sempre una grande pazienza, la capacità di riportare tutti al dialogo mettendo al centro il rispetto per ogni persona quotidianamente.
Realizzare un giornale fatto da persone che veramente si stimano, si apprezzano, si rispettano, e continuino ad avere la pazienza di dialogare, trasformare e valorizzare le differenze è un grande sogno, un grande sforzo. Nella società non lo vedo molto realizzabile, dentro la Soka Gakkai secondo me ci si può riuscire. Il problema è che fare itai doshin non vuol dire avere tutti la stessa idea, ma avere la mente del Budda, cioè del Daishonin. Se uno si sforza in quella direzione sicuramente ci riesce, altrimenti l'obiettivo è irrealizzabile.

Come sogni Buddismo e società?
Io cambio spesso idea, perché cambiano le fasi della nostra attività per kosen-rufu, ma attualmente mi piace molto vedere che c'è una redazione fatta prevalentemente di donne. Non so che significato abbia per il futuro ma ci sento una grande assonanza con quanto sta dicendo il presidente Ikeda sulle donne, sulle giovani donne. Credo che questo fatto porterà dei cambiamenti importanti che non oso neanche pensare.
Sogno che tutti i membri siano abbonati, perché secondo me è necessario fare lo sforzo di sostenere il giornale all'interno della Soka Gakkai. Io farei addirittura come fanno i soci ACI che quando si iscrivono si vedono recapitare il bollettino perché la quota associativa include l'abbonamento. Lo vedrei come uno strumento necessario perché il solo fatto di avere il giornale dentro casa, anche se non oggi, ti consentirà domani di andare a leggere e ritrovare e approfondire un argomento sul quale qualcuno ha già pazientemente ragionato, ricercando e studiando tutto quello che in proposito ha scritto il presidente Ikeda, che è scritto sul Gosho, nella Rivoluzione umana, ecc. Un tesoro di sforzi di altre persone che sarebbe un peccato non avere a portata di mano.

Hai mai fatto il calcolo delle persone che in un modo o nell'altro hanno contribuito al giornale?
Secondo me sono centinaia: calcolando tutte le persone che hanno fatto attività nelle redazioni esterne, la redazione di Firenze in cui il giornale è nato, grafici, fotografi, traduttori, lo staff della segreteria, i correttori di bozze... A cui aggiungerei anche tutti quelli che ci hanno scritto per incoraggiarci e per indicarci cosa non andava bene.

Senza contare che da una prospettiva più ampia anche chi legge contribuisce al giornale...
Certamente. Il Buddismo insegna che siamo tutti interdipendenti, è un dato di fatto. Ancora di più questa osmosi si avverte tra chi scrive e chi legge. Dovremmo semplicemente diventare sempre più consapevoli di questa meravigliosa realtà.

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Vent'anni

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