DIAMO ALL'ONU IL POTERE NECESSARIO PER ADEMPIERE LA SUA MISSIONE E SODDISFARE LE ASPETTATIVE DEL MONDO
Daisaku Ikeda, 30 agosto 2006
«La struttura della pace mondiale non può dipendere dall’opera di un solo uomo, di un solo partito o di una sola nazione. […] Deve basarsi sullo sforzo cooperativo del mondo intero»Franklin Roosevelt, “Address to Congress on the Yalta Conference”, 1945, https://www.presidency.ucsb.
edu/documents/address-congress-the-yalta-conference (ultimo accesso 17 ottobre 2023)..
Con queste parole il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt – uno dei padri fondatori delle Nazioni Unite e di fatto l’uomo che ne coniò il nome – si rivolse al Congresso degli Stati Uniti nel marzo del 1945.
Roosevelt non visse abbastanza da vedere la nascita dell’organizzazione internazionale dedicata alla pace mondiale che aveva sognato. Morì nell’aprile del 1945, solo un mese dopo aver pronunciato questo discorso e poche settimane prima che la Conferenza delle Nazioni Unite per l’Organizzazione Internazionale [Uncio, una conferenza di delegati provenienti da 50 nazioni che ebbe luogo dal 25 aprile al 26 giugno 1945 a San Francisco,
n.d.r.)] si riunisse per stilare la Carta, o Statuto, delle Nazione Unite.
Alla Conferenza di San Francisco, a cui parteciparono i rappresentanti di cinquanta nazioni, si percepiva un crescente senso di gioia e speranza al pensiero che la nascita di questa organizzazione internazionale avrebbe aiutato l’umanità a spezzare il circolo vizioso delle guerre e delle tragedie, e a dirigere verso la pace e la sicurezza. La conferenza fu definita una “pietra miliare”, una «tappa fondamentale nella lunga marcia dell’umanità verso un futuro migliore»
1, a indicare le grandi speranze e aspettative del mondo per la nascita delle Nazioni Unite.
Lo Statuto dell’Onu, adottato dopo tre mesi di intesi dibattiti e discussioni, fu la massima espressione del voto di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso della nostra vita ha portato indicibili afflizioni all’umanità […]»
2.
Tali parole, contenute nel Preambolo dello Statuto, non rappresentavano una mera riflessione sugli errori del passato, ma erano animate da un senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future.
Un forum universale
Tredici anni fa [rispetto al 2006, anno di pubblicazione di questa proposta,
n.d.r.] ebbi l’opportunità di visitare l’Opera di San Francisco, dove fu adottata la Carta dell’Onu. Mentre riflettevo su quel drammatico periodo della storia mondiale in cui le Nazioni Unite videro la luce come parlamento dell’umanità, non potei reprimere la sensazione di quanto fosse immenso il mandato affidato a tale organizzazione, quello di impedire che il mondo subisse il flagello di un’altra guerra mondiale.
Un compito che in seguito è stato costantemente messo alla prova, e di fronte al quale a volte è parso che l’organizzazione fosse totalmente inadeguata. Di certo fu così durante la guerra fredda, quando il mondo era spaccato in due blocchi contrapposti.
Oggi il mondo continua a essere afflitto da innumerevoli conflitti e tensioni, e all’inizio del ventunesimo secolo la situazione si è ulteriormente aggravata con la minaccia emergente del terrorismo internazionale. Inoltre, i grandi problemi globali come la povertà, la fame, il degrado ambientale e la crisi dei rifugiati continuano a minare alle radici la dignità umana.
Le difficili realtà che l’Onu deve affrontare a sessant’anni dalla sua nascita [questa proposta è stata scritta in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione dell’Onu,
n.d.r.] vennero espresse in maniera piuttosto esplicita dal Segretario generale Kofi Annan nel discorso che tenne al Summit mondiale 2005: «Le profonde divisioni fra gli Stati membri e lo scarso funzionamento delle nostre istituzioni collettive ci stanno impendendo di unirci per far fronte alle minacce e cogliere le opportunità che abbiamo davanti»
3.
Poiché l’Onu è una organizzazione intergovernativa, i cui membri costituenti sono Stati sovrani, è inevitabile che le idee e le riforme innovative incontrino ostacoli dovuti a interessi nazionali contrastanti. Per molti anni l’Onu ha dovuto affrontare questo depotenziamento della sua funzione, e la crescente delusione delle persone ha suscitato sempre più critiche riguardo alla sua inefficacia.
Per certi aspetti l’organizzazione non è riuscita a stare al passo con i cambiamenti della realtà del nostro tempo, e di certo ci sono ancora molti ostacoli e criticità da superare.
Tuttavia, finché al mondo ci saranno persone che soffrono e vivono minacciate da gravi crisi, non possiamo assolutamente permetterci di sminuire il grande valore e la missione delle Nazioni Unite.
Con i suoi 192 stati membri, l’Onu è il più grande forum universale che abbiamo a disposizione, l’unico in grado di promuovere la cooperazione internazionale e di legittimare iniziative in questo senso. Perciò credo che l’unica soluzione realistica sia fornirle un sostegno efficace e lavorare per il suo rilancio, partendo dal riconoscimento che per sessant’anni l’Onu ha prestato assistenza umanitaria nelle aree bisognose ed è stata una palestra di confronto globale dove si è potuto raggiungere un consenso internazionale su questioni importanti.
Nei miei dialoghi con vari esponenti mondiali della politica e della cultura ho avuto spesso occasione di scambiare riflessioni sul futuro dell’Onu e, se dovessi riassumerle, direi che per la maggior parte i miei interlocutori, pur ammettendo che l’organizzazione ha molti problemi da risolvere, sottoscrivono l’idea che occorre darle maggiore supporto e potere.
Molti hanno fatto notare che, anche quando iniziative coordinate dall’Onu vengono concordate e sono pronte a essere attuate, ci sono sempre dei capi di Stato che per proteggere gli interessi nazionali prendono le distanze dall’impegno per un’azione specifica. I vari Segretari generali con cui ho dialogato, fra cui Javier Perez de Cuellar e Boutros Boutros-Ghali, hanno sempre sottolineato quanto sia paradossale che il mondo riponga le sue massime aspettative nelle Nazioni Unite e poi finisca col darle solo un supporto minimo.
Come risolvere questa situazione? Prima di tutto dobbiamo ricordare sempre che uno degli scopi fondamentali dell’Onu è di essere il parlamento dell’umanità, un luogo in cui tutte le voci possano essere ascoltare e tutti i punti di vista rappresentati. Anche di fronte a seri scontri fra interessi nazionali e all’aggravarsi di crisi internazionali credo che la risposta consista nell’impegnarsi in un processo di dialogo incessante per creare stabilmente le basi su cui costruire iniziative comuni per risolvere le sfide che abbiamo di fronte.
Senza il dialogo il mondo continuerà a impantanarsi nel caos dell’oscurità e delle divisioni. Proprio come nel mito greco il filo di Arianna rese possibile un’uscita sicura dal labirinto del Minotauro, allo stesso modo il dialogo può aiutarci a trovare la strada per uscire dal dedalo sconcertante di crisi che ci circonda.
Solo portando avanti senza sosta il dialogo si alimenta l’etica di coesistenza e tolleranza di cui il nostro tempo ha bisogno. È mia ferma convinzione che ciò farà nascere “una cultura di pace”, il cui avvento rappresenterà una transizione cruciale nella storia dell’umanità.
Oggi il mondo sta affrontando crisi sempre più gravi, fra cui quella apparentemente senza via d’uscita in Iraq e in tutto il Medio Oriente, il possibile sviluppo di armi nucleari da parte della Corea del Nord e dell’Iran, le condizioni sempre peggiori in Afghanistan, i conflitti regionali in Africa e in altre parti del mondo. Ma proprio per la complessità di questi difficili problemi è essenziale persistere con pazienza nella ricerca strade per risolverli usando al massimo i canali del dialogo globale, che sono il vero punto di forza dell’Onu e la vera sorgente del “potere morbido”.
La crescita della globalizzazione a livello mondiale è stata accompagnata da divisioni e conflitti sempre più profondi fra le varie società e all’interno di esse. Attorno a noi sta diffondendosi una “cultura di guerra” che giustifica l’uso del conflitto e della violenza per raggiungere gli obiettivi desiderati.
È assolutamente vitale smantellare questa cultura di guerra. Dobbiamo usare il dialogo per progredire con decisione verso la creazione di una società globale veramente pacifica nella quale ci sia un autentico rispetto delle differenze di posizione e di visione, e nella quale si riverisca la dignità umana di ogni persona.
Esorto nuovamente a far sì che l’Onu svolga un ruolo centrale nel grandioso progetto di costruire una civiltà pervasa dallo spirito del dialogo.
Dag Hammarskjöld e il dialogo
Mentre cerchiamo di prefigurare quale direzione dovrebbe prendere l’Onu nel ventunesimo secolo, credo che ci sia molto da imparare dall’esempio di Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale delle Nazioni Unite. I suoi successi brillano nella storia dell’organizzazione e la sua forza morale e integrità di “coscienza delle Nazioni Unite” suscitano un immenso rispetto anche oggi.
Dag Hammarskjöld, statista ed economista, nacque in Svezia poco più di un secolo fa. Durante le crescenti tensioni della guerra fredda fu tra i primi a voler estendere le responsabilità delle Nazioni Unite da un ruolo passivo di semplice risposta alle crisi, a un ruolo più attivo di promozione della pace nel mondo.
Le sue capacità emersero in particolare nei tentativi di risolvere la Crisi di Suez, nei conflitti in Libano, in Laos e altrove. Perseguendo attivamente una “diplomazia silenziosa” condusse personalmente missioni in varie regioni come mediatore di conflitti, lasciandoci un’eredità imperitura.
Ci furono voci critiche riguardo all’esercizio di questo genere di diplomazia attiva da parte dell’Onu e del suo Segretario generale: le iniziative di Hammarskjöld furono condannate dal premier sovietico Nikita Krusciov che ne chiese le dimissioni, ma egli si rifiutò di sottostare a tali pressioni e continuò a promuovere la leadership delle Nazioni Unite per la risoluzione delle crisi internazionali.
Hammarskjöld espresse la sua incrollabile determinazione nel libro
Markings pubblicato dopo la sua morte: «Il blocco grezzo In inglese
the uncarved block, traduzione del termine cinese pu che letteralmente significa “pezzo di legno grezzo”: nella letteratura taoista si riferisce allo stato naturale e spontaneo dell’essere umano con le sue possibilità e potenzialità,
n.d.t.– rimani al centro, il tuo e quello di tutta l’umanità. Per gli scopi che questo dà alla tua vita, fai il massimo che ti è possibile in ogni momento. Agisci senza pensare alle conseguenze e senza ricercare niente per te stesso»Dag Hammarskjöld,
Markings, trad. a c. di Leif Sjoberg e W. H. Auden, 1964. .
Spinto da un senso di missione morale quasi religioso continuò a impegnarsi fino all’ultimo istante per assicurare all’Onu il potere di rispondere alle aspettative del mondo. Morì nel settembre 1961, a soli 56 anni, in un disastro aereo nella Rhodesia settentrionale (attuale Zambia), mentre si recava a un incontro con il presidente del Katanga Moise Tshombe nel tentativo di risolvere la crisi nel Congo. Per le sue notevoli realizzazioni fu insignito postumo del premio Nobel per la pace nel 1961.
Al momento della morte Hammarskjöld non era concentrato solo nel cercare di risolvere il conflitto in Congo, ma era impegnato anche in un altro compito importante. Lo statista nutriva un profondo rispetto per Martin Buber (1878-1965), il “filosofo del dialogo”, e stava progettando di tradurre in svedese il suo testo fondamentale
Io e tu.
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L’amicizia tra i due era nata nel 1952, un anno prima che Hammarskjöld diventasse Segretario generale. Man mano che i loro scambi si approfondivano e cresceva il rispetto reciproco, in Hammarskjöld emerse il forte desiderio di tradurre le opere di Buber e quando manifestò tale intenzione il filosofo gli suggerì di tradurre
Io e tu. Questo confronto di idee ebbe luogo solo poche settimane prima della missione fatale in Congo.
Hammarskjöld contattò immediatamente un editore in Svezia e scrisse a Buber comunicandogli che era stato raggiunto un accordo. Mentre lasciava New York diretto in Congo aveva con sé l’edizione tedesca del libro che gli era stata regalata personalmente dall’autore. Nonostante la fitta agenda di impegni, sia in volo sia durante il suo breve soggiorno a Leopoldville (ora Kinshaha) trovò il tempo di lavorare alla traduzione del testo di Buber. In seguito, dopo il disastro aereo, fra i suoi effetti personali furono ritrovate le prime dodici pagine della sua traduzione manoscritta.
Buber ricevette l’ultima lettera di Hammarskjöld solo un’ora dopo aver appreso la notizia dell’incidente aereo alla radio e pianse amaramente la morte di quell’uomo pieno di passione e di nobili intenti che aveva dato tutto, anche la vita, per la sua missione.
C’era un’idea che Hammarskjöld condivideva profondamente con Buber e che desiderava trasmettere traducendo la sua opera: la ferma convinzione che, per quanto difficile e conflittuale possa essere una situazione, gli esseri umani devono impegnarsi in un dialogo sincero con gli altri; e che attraverso un dialogo autentico è sempre possibile colmare i divari di sfiducia che dividono il mondo.
Un episodio famoso mostra come mettesse in pratica tale convinzione. Nel 1955, nel tentativo di ottenere il rilascio dei prigionieri americani catturati durante la Guerra di Corea, Hammarskjöld si recò in Cina, che allora non faceva parte dell’Onu, e cercò di incontrare il premier Zhou Enlai, benché le persone intorno a lui glielo sconsigliassero vivamente. In un incontro privato, senza delegazione ufficiale e interprete personale, disse al premier cinese: «[Ciò] non significa che io mi stia appellando a lei o che le stia chiedendo il loro rilascio. Significa che – mosso anche dalla mia fede nella sua saggezza e nel suo desiderio di promuovere la pace – ho considerato doveroso insistere il più possibile e, con profonda convinzione, attirare l’attenzione sull’importanza vitale del loro destino rispetto alla causa della pace. […] Il loro destino potrebbe decidere la direzione in cui ci muoveremo tutti nel prossimo futuro: verso la pace o lontano dalla pace. […] A dispetto di ogni previsione, [questa circostanza] mi ha fatto attraversare il mondo allo scopo di portare alla sua attenzione – con grande franchezza e con la fiducia nel fatto che entrambi concordiamo sul disperato bisogno di evitare ulteriori cause di attrito a quelle già esistenti – la mia profonda preoccupazione sia come Segretario generale che come uomo»
6.
Ricordo un mio incontro con il premier Zhou Enlai nel dicembre 1974, un anno prima della sua morte. Molto tempo prima, nel settembre 1968, in un periodo in cui non sussistevano relazioni diplomatiche ufficiali fra Cina e Giappone poiché non stata conclusa una pace formale tra i due paesi, io feci un appello per la normalizzazione di tali relazioni e affinché la Cina fosse rappresentata all’Onu. Zhou Enlai sapeva di questi miei sforzi e nonostante fosse malato insistette per incontrarmi all’ospedale di Pechino. Con grande passione mi comunicò i suoi pensieri: «In questo periodo critico della storia del mondo tutte le nazioni devono essere uguali e aiutarsi a vicenda». Ed espresse il forte desiderio che si creasse una amicizia duratura fra Cina e Giappone.
In base a questa esperienza personale posso facilmente immaginare il sincero scambio cuore a cuore che si svolse tra Zhou e Hammarskjöld, l’intensità del loro dialogo. Quell’incontro creò un legame di fiducia fra i due uomini che alla fine portò alla liberazione degli undici aviatori americani.
Che si tratti di relazioni intergovernative o fra l’Onu e gli Stati membri, l’elemento essenziale è sempre l’incontro, il dialogo fra singoli esseri umani.
Per quanto una situazione sembri impossibile da risolvere c’è sempre una via di uscita se ci si incontra faccia a faccia confrontandosi in un dialogo autentico: credo che questa fosse la convinzione che motivava Hammarskjöld quando incontrava le parti in conflitto per mediare tra loro, nel corso dei suoi lunghi viaggi come Segretario generale.
I suoi sforzi appassionati e incessanti per far progredire il processo di pace nel mondo incarnano i princìpi che dovrebbero guidare l’Onu nell’adempimento della sua missione di costruire una nuova civiltà umana pervasa dallo spirito del dialogo. La sua eredità deve essere trasmessa alle genti del XXI secolo.
Costruire il sostegno della società civile
Se guardiamo al mondo attuale, il Medio Oriente è solo una delle tante regioni dove la tensione rimane alta e c’è un forte bisogno che le parti coinvolte comunichino e dialoghino attraverso le Nazioni Unite. Questo è fondamentale per trovare una via d’uscita ai conflitti persistenti e portare stabilità in quella parte del mondo.
Dopo i violenti scontri militari durati un mese, finalmente in Libano si è raggiunto il cessate il fuoco in seguito a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiedeva la fine immediata delle ostilità; ma l’instabilità di fondo permane e così la possibilità che lo scontro armato possa riesplodere in ogni momento. Occorrono urgentemente iniziative per ricostruire un ordine stabile e pacifico nella regione e spero sinceramente che tutte le parti si adoperino attraverso l’Onu per sviluppare nuovi canali di dialogo che favoriscano tale processo.
Quando penso alla missione profonda dell’Onu mi sovvengono le parole che il Segretario generale Kofi Annan pronunciò il 14 settembre 2005, alla presenza dei rappresentanti di 170 Stati, nel corso del Summit mondiale di quell’anno: «Dobbiamo trovare ciò che il presidente Franklin Roosevelt definì “il coraggio di adempiere alle nostre responsabilità in un mondo dichiaratamente imperfetto”»
7.
La ragion d’essere dell’Onu, ancora del tutto valida dopo sessant’anni, è racchiusa in questo senso di responsabilità e in questo coraggio.
Il mio maestro Josei Toda (1900-1958), secondo presidente della Soka Gakkai, coltivò per tutta la vita il desiderio di costruire un sodalizio globale di cittadini comuni impegnati a sostenere l’Onu.
Insieme al fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), Toda fu imprigionato per quasi due anni durante la seconda guerra mondiale perché le sue irremovibili convinzioni, radicate nella sua fede religiosa, lo condussero a uno scontro diretto con le autorità militari fasciste. Fu scarcerato poco prima della fine della guerra, il 3 luglio 1945, solo pochi giorni dopo l’adozione della Carta dell’Onu da parte della Conferenza di San Francisco.
La filosofia di pace di Toda si espresse nel suo appello per l’abolizione delle armi nucleari e nel suo ideale di “nazionalismo globale”, che in termini odierni si potrebbe definire una cittadinanza mondiale che trascende ogni distinzione di nazionalità, etnia o ideologia.
Toda credeva che l’Onu rappresentasse il distillato della saggezza dell’umanità del XX secolo ed era convinto della necessità di proteggere e sviluppare questa incarnazione delle speranze del mondo nel secolo a venire. Il suo desiderio più profondo era eliminare dalla faccia della Terra le sofferenze inutili, espandendo sempre più a livello globale la solidarietà fra persone risvegliate e consapevoli del proprio potere.
Nella mia famiglia quattro dei miei fratelli andarono in guerra e il maggiore morì in battaglia. Il dolore che provarono i miei anziani genitori fu indescrivibile.
Niente è più crudele della guerra, niente è più orribile. Questa fu la realtà che si impresse nella mia coscienza fin da ragazzo.
Poco dopo la guerra incontrai Toda e decisi che sarebbe stato il mio maestro nella lotta di tutta una vita per spezzare l’interminabile ciclo di guerra e di violenza e contribuire alla realizzazione di un mondo pacifico.
Subito dopo la mia nomina a terzo presidente della Soka Gakkai, come erede delle volontà del mio maestro compii il primo passo in questa impresa recandomi negli Stati Uniti. Feci tale scelta anche motivato dal fatto che lì si trovava la sede centrale dell’Onu, il punto focale degli sforzi per la pace mondiale.
Ricordo ancora con chiarezza la mia prima visita a quella sede in New York nell’ottobre 1960. Il Segretario generale era Dag Hammarskjöld e si stava svolgendo la quindicesima Assemblea generale, alla quale partecipavano molti leader mondiali fra cui il presidente americano Dwight D. Eisenhower e il premier sovietico Nikita Krusciov.
Fui profondamente colpito dalla forza e dalla vivacità con le quali i rappresentanti degli Stati africani, che avevano da poco acquisito l’indipendenza, partecipavano ai dibattiti. In quell’Assemblea generale furono accolti come nuovi membri dell’Onu diciassette Stati, fra cui il Camerun, il Togo e il Madagascar. Tutte queste nazioni, ad eccezione di Cipro, appartenevano al continente africano.
Fu veramente stimolante vedere la passione dei rappresentanti africani, traboccanti di energia, determinati a contribuire alla creazione di un mondo migliore attraverso le Nazioni Unite. Ogni volta che penso all’importante missione dell’Onu non posso fare a meno di ricordare quella scena.
Recandomi in varie parti del mondo ho percepito frequentemente quanto forti fossero le speranze e aspettative delle persone nei confronti dell’Onu. I miei sforzi per dialogare con leader politici, intellettuali ed esponenti del mondo della cultura di tutto il mondo originano da questo desiderio di espandere la rete di persone che, al di là delle differenze nazionali, etniche e religiose, sono impegnate a sostenere le Nazioni Unite.
Mentre promuovevo questi dialoghi fra civiltà e fra religioni ho avvertito la necessità di formulare proposte concrete. Per questo motivo ogni anno, dal 1983 ho pubblicato Proposte di pace in cui ho esposto varie idee per rafforzare e rivitalizzare l’Onu, sottolineando l’importanza del sostegno della società civile.
La Soka Gakkai Internazionale (Sgi) ha svolto una vasta gamma di attività a sostegno delle Nazioni Unite. Mentre crescevano le tensioni della guerra fredda, nel 1982 fu realizzata la mostra “Armi nucleari: una minaccia per il nostro mondo” a sostegno della Campagna mondiale dell’Onu per il disarmo. La mostra, inaugurata nella sede centrale delle Nazioni Unite di New York e poi esposta in venticinque città di sedici paesi, fra cui l’Unione Sovietica, la Cina e altri Stati possessori di armi nucleari, fu visitata da un milione e duecentomila visitatori.
Dopo la fine della guerra fredda la Sgi organizzò la mostra “Guerra e pace: da un secolo di guerra a un secolo di speranza” e aggiornò l’esposizione anti-nucleare ribattezzandola “Armi nucleari: una minaccia per l’umanità”, con lo scopo di unire le persone in un comune desiderio di pace e dare impulso alla realizzazione di un mondo senza guerra.
Nel campo dell’educazione ai diritti umani la Sgi ha realizzato la mostra “Verso un secolo di umanità: una panoramica dei diritti umani nel mondo odierno” a sostegno del Decennio Onu per l’educazione ai diritti umani (1995-2004), e in seguito ha collaborato con altre agenzie regionali Onu e Ong per promuovere la creazione di una struttura internazionale in grado di proseguire l’opera del Decennio. Queste iniziative sono culminate nell’adozione ufficiale del Programma mondiale per l’educazione ai diritti umani.
Nell’area dell’integrità ecologica e della sostenibilità la Sgi, insieme ad altre Ong, ha proposto il Decennio Onu per l’educazione allo sviluppo sostenibile, in seguito adottato dall’Assemblea generale e promosso, a partire dal 2005, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco).
La Sgi sostiene da tempo le attività di soccorso ai rifugiati attraverso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Nel 1992 ha organizzato la campagna Voice Aid per rispondere alla richiesta dell’Autorità Transnazionale delle Nazioni Unite (Untac), donando 300.000 radio di seconda mano per contribuire allo svolgimento efficace e senza ostacoli di elezioni libere ed eque in Cambogia.
La filosofia e i valori del Buddismo
La rete Sgi di persone comuni che sostengono l’Onu è attualmente presente in 190 paesi e territori. Le sue attività sono guidate dai valori e dalla filosofia buddista che affermano l’inviolabile dignità della vita. I principi guida dell’Onu sono analoghi a quelli dell’umanesimo buddista: pace, uguaglianza e compassione, perciò è quasi inevitabile che i membri della Sgi si sentano spinti a sostenere l’Onu.
A questo proposito è interessante citare l’esempio di una donna di nome Shrimala, contemporanea di Shakyamuni, che appare nel canone buddista. Si dice che questo fosse il suo voto: «Se vedrò persone sole, persone imprigionate ingiustamente e che hanno perso la libertà, persone che soffrono a causa di malattie disastri e povertà, io non le abbandonerò. Recherò loro conforto materiale e spirituale»cfr.
The Lion’s Roar of Queen Shrimala: A Buddhist Scripture on the Tathagata-garbha Theory, trad. a c. di
Alex Wayman e Hideko Wayman, Columbia University Press, New York, 1974, p. 65..
Shrimala visse fedele al suo voto, dedicando la vita ad aiutare le persone sofferenti.
Gli insegnamenti del riformatore buddista Nichiren (1222-1282), che costituiscono le basi filosofiche delle attività della Sgi, sono pervasi dallo spirito del Buddismo Mahayana. Le nostre azioni a sostegno delle attività dell’Onu per proteggere la dignità umana nel mondo moderno sono la conseguenza naturale del praticare la via del bodhisattva, ben rappresentata dal voto e dalle azioni compassionevoli di Shrimala.
Negli ultimi anni l’Onu si è concentrata sulla promozione dei diritti umani, della sicurezza umana, dello sviluppo umano, della cultura di pace e del dialogo fra le civiltà. Sono tutte iniziative che riecheggiano profondamente la filosofia di pace esposta dal Buddismo.
Le basi filosofiche delle nostre attività e del nostro modo di pensare sono ben chiarite nel trattato
Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese, che Nichiren scrisse nel 1260 mentre assisteva alle sofferenze dei suoi contemporanei afflitti dalle guerre incessanti e dai disastri naturali che devastavano la società giapponese nel tredicesimo secolo.
Nel trattato, invece di usare i caratteri cinesi di solito impiegati per indicare il termine “paese” con al centro elementi che significano “sovrano” o “armi”, Nichiren quasi sempre usa un carattere in cui è centrale l’elemento che indica le “persone comuni”. Secondo la sua visione il cuore di una nazione non sono le autorità o il territorio ma le persone che la abitano. Questo stesso spirito anima l’idea moderna di sicurezza umana, dove lo scopo principale è realizzare la pace e la felicità dei cittadini e cittadine.
In tutto il trattato Nichiren critica le filosofie dominanti ai suoi tempi, ritenendo che l’enfasi che ponevano su un’eccessiva concentrazione verso di sé incoraggiasse un atteggiamento di fuga dalla realtà e rendesse le persone incapaci di impegnarsi attivamente nella società per trasformarla. Quella che egli promuoveva era invece l’idea che ogni individuo possiede intrinsecamente un grande potere e un immenso potenziale e può diventare l’iniziatore e il protagonista di una trasformazione sociale. Questa idea ricorda molto la nozione contemporanea di empowerment, che costituisce il nucleo dello sviluppo umano.
Il trattato di Nichiren contiene il seguente passo: «Se vi preoccupate anche solo un po’ della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l’ordine e la tranquillità in tutti e quattro i quadranti del paese» (RSND, 1, 25). È un potente appello a creare una cultura di pace che non si limiti alla sicurezza individuale ma ricerchi la sicurezza dell’intero genere umano.
Questo desiderio di realizzare la sicurezza di tutta l’umanità è in definitiva ciò che ispira ogni attività della Sgi, sia quelle volte a sensibilizzare le persone con mostre e seminari, sia il suo sostegno alle attività educative dell’Onu nei campi del disarmo, dei diritti umani e dell’ambiente.
Inoltre il trattato è scritto in forma di dialogo fra due persone, un padrone di casa e un ospite, che hanno visioni completamente diverse ma sono entrambi addolorati dalle tragiche realtà che affliggono la loro società. Il padrone di casa dice all’ospite: «Fino a oggi mi sono preoccupato da solo, angustiato nel profondo del cuore, ma ora che voi siete qui possiamo lamentarci insieme e discutere a fondo questi problemi» (RSND, 1, 7); fra loro ha inizio un dialogo sincero in cui si scambiano idee sulle cause della sofferenza delle persone, sui mezzi per alleviarla e su ciò che si poteva fare a tale scopo. Alla fine il padrone di casa e l’ospite formulano il voto di unire le forze e lavorare insieme per un obiettivo comune.
Il dialogo ha il potere di suscitare un cambiamento interiore e di promuovere azioni positive per trasformare la società. Questo è l’approccio che troviamo nella saggezza della tradizione buddista sin dai tempi di Shakyamuni.
Nella Carta della Sgi, adottata nel 1995 [oggi sostituita dalla Carta della Soka Gakkai adottata nel 2021,
n.d.r.], questo spirito si riflette nelle parole: «La Soka Gakkai, in accordo con lo spirito di tolleranza proprio del Buddismo, rispetta le altre religioni e tradizioni filosofiche, dialoga e collabora con esse per la soluzione delle sfide fondamentali che l’umanità deve affrontare»
8. Con tale spirito la Sgi si è impegnata in un dialogo aperto con persone di diverse religioni e culture con la speranza di creare una solidarietà sempre più vasta fra individui risvegliati e dediti a ricercare soluzioni per i problemi del nostro pianeta.
Il “potere morbido” come missione delle Nazioni Unite
Come ho affermato all’inizio sono convinto che la missione dell’Onu nel ventunesimo secolo sia disinnescare le tensioni e promuovere la convivenza pacifica attraverso il potere del dialogo. Puntando su una prassi di dialogo globale l’Onu potrà adempiere al meglio la sua funzione di organo di discussione e azione. In questo modo getterà le basi di iniziative concertate in aree critiche come i diritti umani, la sicurezza e la sviluppo umano, che sono i prerequisiti assoluti per la pace e la felicità della popolazione mondiale.
Per lavorare a questi obiettivi è essenziale ricordare che la forza principale dell’Onu risiede nel “potere morbido”, cioè il potere del dialogo e della cooperazione internazionale. Ciò vale anche nel campo della pace e della sicurezza. Anche se lo Statuto dell’Onu riconosce espressamente la possibilità di esercitare il “potere duro”, compresa l’azione militare, il capitolo VI sulla composizione pacifica delle dispute elenca dettagliatamente le misure da applicare prima di ricorrere a quelle costrittive, esposte nel capitolo VII. Quindi la precedenza va al capitolo VI e l’uso del “potere duro” è considerato l’ultima risorsa nelle situazioni di grave crisi.
Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955) definì la civiltà come «il tentativo di ridurre la forza a
ultima ratio [ultima risorsa]»
9. Se pensiamo a come si costituì l’Onu, una risposta alle amare lezioni di due guerre mondiali, è chiaro che questo principio deve essere osservato in modo rigoroso. Desidero sottolineare ancora una volta che l’Onu deve continuare a sviluppare, e aumentare, il suo “potere morbido” puntando alla costruzione di fiducia e di misure preventive, senza farsi trascinare in atteggiamenti reattivi che mirino a risolvere i problemi con la forza militare o altre forme di “potere duro”.
Nella tradizione orientale il sessantesimo anno segna la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. In tal senso credo che il sessantesimo anniversario dell’Onu, celebrato l’anno scorso, rappresenti per l’organizzazione un’opportunità di rinnovare il suo impegno in vista della nobile missione che gli è stata affidata e compiere una nuova partenza verso il suo adempimento.
Uno dei temi-fulcro intorno ai quali l’Onu potrebbe svilupparsi è quello della “competizione umanitaria”. Questo concetto fu avanzato dal fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi nella sua opera del 1930
La geografia della vita umana. Makiguchi, che scriveva in un’epoca in cui l’imperialismo e il colonialismo dominavano il mondo, criticava uno stato di cose in cui la questione cruciale della felicità umana individuale veniva di fatto offuscata da una intensa competizione in campo militare, politico ed economico. Ripercorrendo l’evoluzione della competizione nelle sue modalità militari, politiche ed economiche egli auspicava una transizione da tali forme predatorie a una che egli definiva “competizione umanitaria” in cui, sulla base di un’etica di coesistenza, ci si sforzasse di realizzare al meglio la propria e l’altrui felicità.
Makiguchi descriveva così gli elementi essenziali di questa trasformazione: «Tradizionalmente il potere politico o militare è stato impiegato per l’espansione territoriale e per controllare sempre più persone. Il potere economico, che può assumere forme differenti, è stato impiegato per gli stessi scopi. La competizione umanitaria consiste nell’usare il potere invisibile della persuasione morale per influenzare le persone. Invece di sottomettere attraverso l’esercizio dell’autorità si cerca di ottenere un sincero rispetto [e cooperazione] da parte degli altri»
10.
Il processo di sostituire l’esercizio dell’autorità con l’ottenimento di un rispetto sincero si potrebbe esprimere in termini contemporanei come la transizione da una competizione basata sul “potere duro”, in cui le società cercano di dominarsi a vicenda attraverso la forza politica e militare o una schiacciante supremazia economica, verso rapporti guidati dal “potere morbido” dove i paesi fanno a gara per acquisire fiducia e amicizia, mostrando forza diplomatica e culturale e contribuendo nella cooperazione internazionale con l’intera gamma delle proprie risorse: umane, tecnologiche ed esperienziali. Questa credo che sia l’essenza della proposta di Makiguchi.
Se tale competizione umanitaria – una competizione per accrescere la propria influenza basata sul “potere morbido” – mettesse salde radici vedremmo la fine della competizione a somma zero, dove il vincitore prevale in funzione della vittimizzazione e della sofferenza del perdente. Si aprirebbe la strada per un’era
win-win in cui tutti vincono, la dignità di ogni persona sulla Terra viene onorata e ogni paese compete in maniera costruttiva per dare il massimo contributo all’umanità.
Tristemente il mondo è ancora dominato da una spietata competizione per la supremazia nella quale non si pensa mai al prezzo che gli altri devono pagare, una competizione su scala globale sempre più vasta che ha creato un divario sempre maggiore fra ricchi e poveri. Inoltre, man mano che le minacce alla dignità umana non hanno più confini (in ciò la crisi ambientale globale è emblematica), dobbiamo tenere a mente che nessuno Stato che agisca isolatamente potrà produrre una risposta veramente efficace. Il Segretario generale dell’Onu Kofi Annan lo sintetizzò in questa affermazione: «Credo che nel XXI secolo [le diverse percezioni di cosa sia una minaccia] non dovrebbero condurre i governi mondiali a perseguire priorità totalmente diverse e scopi contrastanti. […] Gli Stati che lavorano insieme possono realizzare cose che vanno ben oltre quanto potrebbe realizzare da solo anche il più potente degli Stati».Kofi Annan, “‘In Larger Freedom’: Decision Time at the UN”, Foreign Affairs, maggio/giugno, 84 (3), https://www.un.org/sg/en/content/sg/articles/2005-04-25/larger-freedom-decision-time-un (ultimo accesso
17 ottobre 2023).
Perciò è essenziale che l’Onu metta insieme e coordini le capacità dei singoli Stati, impedendo che si disperdano. La trasformazione di questa organizzazione internazionale, patrimonio comune dell’umanità, in un organo pienamente e autenticamente dedicato agli abitanti di tutto il pianeta dipenderà dal successo di questo processo. Ogni Stato desidera naturalmente ricoprire un posto d’onore come membro stimato dalla comunità internazionale. Attingere a questo potenziale e canalizzare le energie competitive non verso la violenza ma verso obiettivi umanitari: in ciò io ritengo risieda la missione dell’Onu come punto focale della competizione umanitaria. Questa è la strada che dovremmo intraprendere nel XXI secolo.
Per generare un impulso in questa direzione e definire chiari parametri di riferimento al fine di porre l’ideale della competizione umanitaria stabilmente al centro delle attività dell’Onu, desidero sottolineare l’importanza di tre elementi: avere un senso di scopo condiviso, promuovere la condivisione di responsabilità, stabilire campi d’azione comuni. Mi accingo dunque a esporre in questo contesto quelle che a mio avviso sono le sfide fondamentali delle Nazioni Unite, suggerendo progetti di riforma.
Uno scopo condiviso
Come scopo da condividere suggerisco la costruzione di una cultura di pace dedicata alla dignità e alla felicità di tutte le persone del pianeta, basata sulla consapevolezza che la pace è ben di più dell’assenza di conflitti. A questo proposito la prima questione da affrontare è la povertà, che costituisce un affronto quotidiano alla dignità umana. Secondo il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Unpd) oggi nel mondo vi sono due miliardi e mezzo di persone che sopravvivono con meno di due dollari al giorno.
L’amministratore dell’Unpd Kemal Darvis, facendo notare che andando di questo passo gli Obiettivi di sviluppo del millennio – fra cui dimezzare entro il 2015 il numero di persone che vivono in estrema povertà – non saranno raggiunti, ha dichiarato: «Sarebbe una tragedia per i poveri del mondo, ma anche i paesi ricchi non sarebbero immuni dalle conseguenze di questo fallimento. In un mondo interdipendente la nostra prosperità comune e la sicurezza collettiva dipendono in maniera cruciale dal successo della guerra contro la povertà».
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A fronte di una manciata di paesi che consumano enormi risorse e vantano stili di vita sempre più opulenti, una vasta proporzione di abitanti del mondo è condannata a una povertà che sembra non aver fine, a una vita inumana in condizioni degradanti generazione dopo generazione. Correggere questa grave distorsione all’interno della comunità globale è un imperativo umanitario prioritario. E non è uno scopo impossibile. Il costo per eradicare la povertà è stimato pari a circa l’un per cento del reddito globale. Se anche solo una parte delle risorse attualmente destinate alle spese militari fosse reindirizzata alla riduzione della povertà, si potrebbero compiere progressi notevoli.
Voglio esortare ogni paese a riconsiderare le sue priorità di spesa e a sostenere attivamente la cooperazione internazionale per lo sviluppo umano che fa perno sull’
empowerment di tutte le persone afflitte dalla povertà, in particolare la campagna dell’Unesco Educazione per tutti.
Oltre ad alleviare la povertà, un altro tema cruciale per porre fine alla cultura della guerra è il disarmo, e in particolare il disarmo nucleare.
Affinché l’ideale della competizione umanitaria metta radici nella comunità internazionale, dovrebbe esserci piena consapevolezza che nessuna società può trovare sicurezza e benessere a spese del terrore e della miseria di un’altra. Dobbiamo formulare nuove norme etiche globali.
La teoria della deterrenza nucleare, che cerca di garantire la sicurezza di uno stato minacciandone altri con il proprio schiacciante potere distruttivo, è diametralmente opposta all’etica globale che la nuova epoca richiede.
L’Onu ospita un forum di dialoghi multilaterali sul disarmo, la Conferenza per il disarmo di Ginevra, ma purtroppo il disaccordo fra le parti ha fatto sì che in pratica da quasi dieci anni, cioè dall’adozione della Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari del 1996, non si sia avuto nessun altro risultato.
La situazione di stallo non è mutata neppure l’anno scorso, nel sessantesimo anniversario dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, ricorrenza che fosse solo per il suo significato simbolico avrebbe dovuto stimolare qualche sforzo verso il disarmo. La Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) a maggio non ha portato a conclusioni concrete. Inoltre, a settembre il Summit mondiale dell’Assemblea Generale dell’Onu ha prodotto una relazione finale dove non figura alcuna menzione alle armi nucleari, con grande disappunto di tutti coloro che desiderano la pace globale.
In questo contesto, nel giugno 2005 la Commissione per le armi di distruzione di massa – un gruppo indipendente di esperti internazionali presieduto da Hans Blix, ex presidente della Commissione di controllo, verifica e ispezione delle Nazioni Unite – ha presentato una proposta sul disarmo nucleare e non proliferazione al Segretario generale Annan.
Il documento sollecita la convocazione presso l’Onu di un Summit mondiale per affrontare i temi del disarmo, la non proliferazione e l’uso terroristico delle armi di distruzione di massa. Inoltre raccomanda che «tutti gli stati possessori di armi nucleari comincino a formulare piani di sicurezza che non prevedano armi nucleari. Dovrebbero prepararsi alla messa fuori legge degli armamenti nucleari…».
Queste proposte sono in linea con ciò che ho sempre sostenuto e quindi mi trovano ovviamente d’accordo. Spero sinceramente che tutti gli Stati considerino attentamente le raccomandazioni della Commissione e diano immediatamente avvio a iniziative diplomatiche per sbloccare l’
impasse che sta ostacolando il progresso verso il disarmo.
Sono passati dieci anni da quando nel 1996 la Corte internazionale di giustizia ha espresso un parere consultivo sulla legalità delle armi nucleari, affermando che «la minaccia di uso di armi nucleari in genere sarebbe contraria al diritto internazionale» e che «esiste l’obbligo di perseguire in buona fede e portare a conclusione negoziati che conducano al disarmo nucleare in tutti i suoi aspetti sotto un severo ed efficace controllo internazionale». Penso che dovremmo esortare nuovamente i governi a considerare seriamente questo parere consultivo e continuare a costruire consenso e impegno a livello internazionale per il disarmo nucleare.
Come sottolinea il rapporto della Commissione Blix «nell’ultimo decennio c’è stata una seria e pericolosa perdita di slancio nelle iniziative per il disarmo e la non proliferazione». Occorre la volontà politica di abolire le armi nucleari. «Se esiste tale volontà, anche l’eliminazione definitiva delle armi nucleari non è fuori dalla portata del mondo». Perciò adesso è della massima importanza che la popolazione mondiale faccia sentire la propria voce.
A tal fine propongo un decennio di azione Onu della popolazione mondiale per l’abolizione delle armi nucleari. Tali armamenti continuano a proliferare e il primo passo per affrontare tale realtà è sensibilizzare sempre più persone al fatto che la minaccia nucleare è rilevante per la loro vita e che possono fare qualcosa a riguardo. Un decennio di azione promosso congiuntamente dall’Onu e dalle Ong sarebbe vitale per stimolare tale consapevolezza. Sostengo anche la proposta avanzata dalla Commissione Blix di convocare al più presto un Summit mondiale, o in alternativa una sessione speciale dell’Assemblea generale dell’Onu, per giungere a decisioni forti sul tema del disarmo. Tali iniziative da parte degli Stati rifletterebbero e sosterrebbero l’emergente consenso internazionale intorno a questo tema.
L’importanza di lavorare progressivamente per la realizzazione di un mondo senza guerra, continuando incessantemente a fare pressioni per il disarmo e infine per l’abolizione delle armi nucleari, fu uno dei punti sui quali Joseph Rotblat, presidente emerito delle Conferenze Pugwash su Scienza e Affari mondiali e io eravamo profondamente d’accordo.
Se vogliamo, una volta per tutte, calare il sipario su un’era vissuta sotto la minaccia della distruzione nucleare, dobbiamo ripensare la concezione, su cui si basa la deterrenza, di un interesse nazionale che giustifica le armi nucleari come un “male necessario”. Sia il Manifesto Russel-Einstein (1955) firmato anche da Rotblat, sia la Dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari (1957) del mio maestro Josei Toda confutano la teoria della deterrenza e rifiutano nettamente di ammettere l’uso delle armi nucleari in qualsiasi circostanza.
Nelle forti parole di Toda, le armi nucleari minacciano il diritto dell’umanità all’esistenza e perciò sono un male assoluto; la loro abolizione è un dovere comune a tutti gli esseri umani. Lo scopo centrale del decennio di azione per l’abolizione delle armi nucleari che io propongo farebbe di questo concetto uno dei cardini fondamentali della nostra epoca.
Fin qui ho esaminato i temi della povertà e del disarmo alla luce di un senso di scopo condiviso, ma ovviamente vi sono altre questioni che pesano sull’umanità. Fra queste la crisi ambientale globale, particolarmente complessa perché per risolverla occorrerebbe riesaminare alle radici la civiltà umana. L’urgenza di questa crisi mi ha spinto a chiedere, nelle mie Proposte di pace annuali, di incrementare gli sforzi per la creazione di un quadro istituzionale in cui convogliare la saggezza dell’umanità verso la risoluzione delle sfide ambientali, dando maggiore centralità all’Onu.
I temi della povertà, del disarmo e dell’ambiente richiedono tutti iniziative concordate dalla società internazionale, basate su un comune senso di appartenenza al genere umano e di responsabilità verso il futuro. Perciò è assolutamente essenziale che questo senso di scopo condiviso si affermi attraverso le Nazioni Unite.
Responsabilità condivisa
Desidero ora concentrarmi sulla necessità di promuovere un senso di responsabilità condivisa, in particolare istituendo contesti che permettano alle nuove generazioni di partecipare attivamente alle varie decisioni dell’Onu e alle attività delle sue agenzie locali.
Nel febbraio 2006 l’Istituto Toda per la Pace globale e la ricerca politica, che fondai nel 1996, ha tenuto una conferenza internazionale a Los Angeles sul tema della riforma e del rafforzamento dell’Onu. Mi ha colpito in particolare la dichiarazione di Anwarul K. Chowdhury, [all’epoca] sottosegretario dell’Onu, che ha detto: «Nel futuro le Nazioni Unite dovrebbero essere un’organizzazione che interagisce più strettamente e concretamente con i giovani per trarre beneficio dalle loro idee e dal loro entusiasmo nel dare forma al futuro del mondo».
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Se l’Onu vuole realizzare appieno il proprio potenziale è essenziale che ottenga la comprensione e il sostegno del maggior numero possibile di cittadini e cittadine del mondo. Allo stesso tempo, per risolvere i problemi globali occorre sostituire il modo di pensare prevalente, che dà la massima priorità agli interessi nazionali, con un senso di responsabilità condivisa che metta al primo posto l’interesse dell’umanità e del pianeta. Le persone giovani devono essere le protagoniste di questa impresa.
Ritengo che l’Onu, entrata nel suo sessantesimo anno [nel 2006 all’epoca di questa Proposta,
n.d.r.], debba promuovere l’impegno attivo dei giovani come fulcro della sua nuova partenza. Si dice che Archimede abbia affermato: «Datemi un punto d’appoggio e con una leva solleverò il mondo»; con questo spirito dovremmo garantire ai giovani un “punto d’appoggio” all’interno dello sviluppo dell’Onu.
Si stima che circa la metà dei paesi che emergono da una guerra vi ricadano nuovamente nel giro di cinque anni. Nelle società che hanno vissuto i conflitti e la tragedia della violenza ricorrente è estremamente difficile che i membri della generazione al potere riescano a svincolarsi dal circolo vizioso dell’odio e della violenza. Per questo è importante puntare sulla nuova generazione, meno legata al passato, e trovare modi che permettano ai giovani di esplorare nuove idee e nuovi approcci per realizzare pace e prosperità per tutti.
La stessa formula vale nell’affrontare la riduzione della povertà, il disarmo e il degrado ambientale: si potranno ottenere progressi significativi solo quando i semi del cambiamento, piantati nei cuori della prossima generazione attraverso sforzi costanti e instancabili nel campo dell’educazione e della sensibilizzazione, daranno i loro frutti. La dichiarazione del mio maestro in cui affidava l’abolizione delle armi nucleari ai giovani si basava proprio su questa visione lungimirante.
In tal senso si potrebbe organizzare ogni anno, prima dell’Assemblea generale dell’Onu, un incontro di rappresentanti dei giovani di tutto il mondo per dare ai leader mondiali l’opportunità di ascoltare le idee della nuova generazione. Sarebbe inoltre auspicabile creare occasioni affinché studenti e giovani possano partecipare alle attività locali delle agenzie dell’Onu per un periodo di uno o due anni, e sperimentare direttamente il significato delle Nazioni Unite e la portata dei problemi che devono affrontare. Ciò permetterebbe loro di conoscere direttamente l’impatto delle questioni globali sulla vita delle persone e di partecipare alla ricerca di soluzioni.
Attualmente circa cinquemila persone vengono inviate ogni anno in varie parti del mondo attraverso il programma Volontari delle Nazioni Unite (Unv). Ma i partecipanti hanno un’età media di 39 anni e vengono reclutati principalmente fra professionisti che hanno già esperienza in aree specializzate. Credo che sarebbe utile potenziare questa iniziativa con ulteriori strutture che consentano anche a studenti e giovani intorno ai vent’anni di fare esperienza sul campo.
Un’altra area da migliorare è il sistema dei programmi di tirocinio dell’Onu, che non dovrebbero accettare solo laureati ma anche studenti universitari e giovani operatori delle Ong, dando loro l’opportunità di partecipare alla definizione delle politiche da adottare preparando brevi relazioni per le delibere dell’Onu. Si consoliderebbe così un meccanismo grazie al quale i giovani possono venire coinvolti in vari aspetti dell’organizzazione internazionale. I laureati della Soka University of America stanno già partecipando a questo tipo di programmi.
Mi torna in mente un dialogo con Elise Boulding, esperta di Studi per la pace, nel quale la sociologa sosteneva l’importanza di offrire alle giovani generazioni spazi in cui esprimere appieno le loro capacità, sottolineando la necessità di dare ai giovani maggiori occasioni di crescita come cittadini globali. Mi raccontò che soleva raccomandare agli studenti del suo corso internazionale di Studi per la pace di trascorrere un semestre lavorando come stagisti presso una sede locale di una Ong per sperimentarne direttamente le attività.
Implementando idee come queste spero che la struttura dell’Onu nel suo insieme possa sviluppare più attenzione nei confronti dei giovani, pianificando attivamente una loro maggiore partecipazione. In tal senso suggerisco di istituire un’agenzia dedicata alle attività per i giovani di tutto il mondo e un dipartimento della gioventù all’interno dell’amministrazione dell’Onu.
Tali iniziative si affiancherebbero ai crescenti appelli da parte delle Ong al fine di istituire un’agenzia dedicata allo sviluppo di politiche più efficaci e coordinate per l’
empowerment delle donne che, dopo tutto, rappresentano la metà della popolazione mondiale. Le Nazioni Unite devono promuovere l’
empowerment dei giovani e delle donne che vivono in condizioni difficili in varie parti del mondo. Se l’Onu riuscisse anche a garantire la partecipazione attiva dei giovani e delle donne alle sue attività, riflettendo così una maggiore diversità di opinioni nella gamma delle sue iniziative politiche si creerebbe un’era più promettente per tutti.
Desidero inoltre invitare le università e le istituzioni accademiche mondiali a sostenere attivamente l’operato delle Nazioni Unite come parte integrante della propria missione sociale. Alcune università hanno già programmi in base ai quali ricercatori e istituti di ricerca forniscono supporto accademico a varie attività dell’Onu. Oltre a espandere questi programmi, le università dovrebbero offrire anche specifici corsi sulle attività dell’Onu per sensibilizzare maggiormente gli studenti e il pubblico in genere.
Ritengo anche necessaria la creazione di una rete studentesca a sostegno dell’Onu. In passato avevo proposto di stabilire una rete globale di cittadini per proteggere e sostenere le Nazioni Unite; credo che formare una nuova generazione di persone dotate di talento e capacità, il cui impegno è rivolto all’umanità intera e non solo a uno specifico Stato o etnia, sia l’unico modo per dare all’Onu quel sostegno a lungo termine di cui ha così bisogno.
In questa impresa gli studenti e le studentesse sono il fattore chiave. Esistono già Ong che sviluppano reti di sostegno alle Nazioni Unite fra gli studenti di tutto il mondo. Rafforzandole ci si potrebbe indirizzare verso uno scenario in cui singoli studenti e università si collegano tra loro per formare una rete di reti a supporto dell’Onu che avvolga tutto il globo. Questo è il futuro che immagino per i legami fra Onu, studenti e università.
Per quanto riguarda lo sviluppo di un senso di responsabilità condivisa desidero inoltre proporre, per contribuire a risolvere l’annoso problema che ha l’Onu di garantirsi fonti di finanziamento stabili, l’istituzione di una struttura separata, da affiancare ai contributi degli Stati membri, in cui venga sollecitato il sostegno diretto dei cittadini del mondo.
Avere stanziamenti stabili è essenziale se si vuole che l’Onu adempia alle proprie responsabilità di rispondere efficacemente alle problematiche globali. Il versamento ritardato di contributi già stabiliti e promessi compromette la capacità dell’Onu. Le restrizioni finanziarie spesso impediscono alle Nazioni Unite di realizzare progetti urgenti e attività importanti. Per superare questi problemi ribadisco il mio appello per la creazione di un fondo popolare a favore dell’Onu che accetti donazioni su larga scala da parte della società civile e diventi così un’ulteriore fonte di finanziamento.
In realtà il budget operativo dell’Unicef proviene sia da contributi governativi sia da raccolte fondi private, e circa un terzo dei proventi originano dal settore privato. Questo esempio dimostra il potenziale per la creazione di un nuovo sistema nel quale vengano impiegati fondi donati da singoli individui, organizzazioni e società attive a livello internazionale per sostenere le attività dell’Onu, principalmente in campo umanitario.
Azione condivisa
Infine vorrei discutere dell’importanza di stabilire aree di azione condivisa. A tal fine propongo di istituire uffici regionali Onu per approfondire le relazioni con gli Stati membri e coordinare le attività delle varie agenzie in ogni regione.
Per mettere in moto le attività dell’Onu occorrono tempo e sforzi notevoli. In particolare, quando una società entra in crisi, sono essenziali la comprensione e il sostegno dei paesi circostanti.
Le questioni globali sono complesse e così inestricabilmente interconnesse che gli sforzi separati e isolati per risolverle hanno scarse probabilità di riuscita. Ciò è simboleggiato dalla “spirale PPE” [Poverty, Population Growth, Environmental Degradation,
n.d.r.] nella quale i cicli di povertà, crescita della popolazione e degrado ambientale hanno creato una sinergia negativa. I problemi globali differiscono da una zona all’altra e richiedono risposte appropriate alle singole circostanze.
Alla luce di tali fattori sono convinto che la creazione di centri di coordinamento delle Nazioni Unite in ogni regione potrebbe migliorare la capacità di rispondere alle esigenze di continuità, complessità e regionalità. Tali centri potrebbero rivestire grande importanza in una più vasta promozione dei diritti umani, della sicurezza umana e dello sviluppo umano attraverso approcci centrati sulla pace e la felicità dei singoli popoli.
Detto questo, non ritengo necessario ristrutturare le agenzie già esistenti. Il senso della mia proposta è creare maggiore vicinanza fra l’Onu e gli Stati membri e costruire una sinergia positiva fra le agenzie Onu di ogni regione. Ciò permetterebbe loro di stabilire campi d’azione condivisi e di affrontare le questioni regionali in maniera più coordinata.
Fra gli organi già esistenti che potrebbero assumere le funzioni di centri regionali Onu vi sono le cinque commissioni del Consiglio economico e sociale (Ecosoc): le Commissioni economiche e sociali per Asia e Pacifico, Asia occidentale, Africa, Europa, America Latina e Caraibi.
Attualmente, come esemplificato dall’Unione Europea e dell’Unione Africana, l’integrazione e la cooperazione regionale stanno progredendo in varie parti del mondo. Credo che sarebbe utile istituire centri regionali Onu che possano fungere da ponte fra queste organizzazioni e la sede centrale dell’Onu, oltre a costituire punti cardine per sostenere una governance globale centrata sulle Nazioni Unite.
Infine vorrei sottolineare la necessità di rafforzare l’alleanza fra Onu e società civile, il fattore chiave essenziale per sviluppare campi d’azione condivisa.
La partecipazione della società civile alle Nazioni Unite è notevolmente aumentata grazie alla serie di Conferenze Onu che si sono svolte negli anni ‘90. Il partenariato fra governi e Ong con interessi simili ha portato a risultati epocali come la Convenzione sulle mine anti-persona e l’adozione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale.
Il Panel delle personalità eminenti sulle relazioni fra Onu e società civile è stato istituito nel 2003 e ha pubblicato il suo rapporto
We the Peoples: Civil Society, the United Nations and Global Governance (Rapporto Cardoso) l’anno seguente. Il lavoro di questo gruppo di esperti è stato importante per far crescere la consapevolezza del ruolo della società civile nel sostenere il lavoro dell’Onu.
Il Comitato delle Ong religiose presso l’Onu, il cui presidente attualmente è un rappresentante della Sgi, ha organizzato insieme a organizzazioni e agenzie Onu e vari governi, la Conferenza sulla cooperazione interreligiosa per la pace nel giugno 2005. Il fatto che queste tre componenti – società civile, governi e Onu – abbiano collaborato nel realizzare una conferenza interreligiosa presso le Nazioni Unite è stato considerato un evento veramente rivoluzionario.
Per rivitalizzare l’Onu affinché soddisfi le aspettative della popolazione mondiale è indispensabile che le Nazioni Unite, gli stati membri, le Ong insieme ad altri rappresentanti della società civile apprezzino le reciproche qualità e ruoli specifici e approfondiscano la loro collaborazione. Spero che queste tre parti continuino a sedersi allo stesso tavolo per discutere dei problemi attuali che l’umanità deve affrontare e sviluppare nuove modalità creative di azione congiunta in uno spirito di dialogo e cooperazione.
È mia sincera convinzione che la condivisione di un senso di scopo, di responsabilità e campi d’azione comuni sia un aspetto fondamentale per lo sviluppo dell’Onu nel XXI secolo.
Conclusioni
La Lega delle Nazioni fu creata come risposta alla prima guerra mondiale; le Nazioni Unite nacquero dalla determinazione di non ripetere mai più gli orrori della seconda guerra mondiale. Come membri della specie umana dobbiamo concretizzare la determinazione di salvare il nostro pianeta dal ripetersi di tali tragedie. Dobbiamo ulteriormente rafforzare l’Onu per migliorare la governabilità globale per il bene di tutti gli abitanti del pianeta.
Abbiamo l’obbligo di compiere il primo coraggioso passo verso questo obiettivo: a tal fine è essenziale dare impulso a una riforma dal basso che unisca le voci delle persone a sostegno dell’Onu. Non possiamo permetterci di aspettare passivamente che emergano riforme all’alto attraverso delibere intergovernative.
Se prestiamo veramente ascolto al monito del ventesimo secolo, così devastato da tragedie, possiamo capire come l’azione e la solidarietà siano i fattori chiave per il ventunesimo secolo. Nella misura in cui le persone coglieranno questo spirito e decideranno di realizzare un’ampia solidarietà per il cambiamento, riusciremo a costruire una cultura di pace in tutto il mondo. Sono convinto che questa sia la sfida centrale che l’umanità deve affrontare nel secolo attuale.
I protagonisti di questa impresa non sono altro che i singoli esseri umani, i cittadini e le cittadine, e soprattutto le persone giovani.
La visione che ispira la Sgi è quella di un mondo di pace e di reciproca fioritura per tutta l’umanità nel nuovo millennio. Al tal fine continueremo a unire i nostri sforzi a quelli di persone di buona volontà in ogni parte del mondo al fine di permettere all’Onu di adempiere la nobile missione che gli è stata affidata.