Una parola capace di suscitare una folla di sentimenti, pensieri e giudizi anche contrastanti: diffidenza, avversione, passione, appartenenza. Tentare di risalire al cuore della sua funzione esistenziale e sociale ci consente di provare a restituire al termine la sua giusta valenza.



Il significato del termine “religione” varia sensibilmente a seconda del contesto storico e culturale. In gran parte del mondo occidentale, così come in America Latina, Russia e nei paesi slavi, la parola deriva dal latino. Si può ricondurre alla radice re-ligare, “legare di nuovo”, suggerendo l’idea di ristabilire un legame con il divino o in generale con ciò che è essenziale; oppure si può far risalire a re-legĕre, “rileggere” o “ripassare con cura”, evocando l’idea di attenzione verso certi doveri o riti. È interessante osservare come nella lingua inglese il termine religion venga spesso contrapposto a spirituality, il primo associato a una dimensione istituzionale e dogmatica, il secondo riferito a un'esperienza diretta, personale, non necessariamente legata a un sistema organizzato. In altre lingue la parola che indica "religione" racchiude sfumature diverse. In arabo il termine dīn (دين) si riferisce a un vero e proprio modo di vivere secondo una legge divina, che comprende anche etica, diritto e spiritualità. In cinese zōngjiào (賾教) rimanda a un sistema istituzionalizzato di credenze e tradizioni. In hindi il termine dharma (धर्म) ha un significato filosofico e spirituale: indica il dovere cosmico, la legge morale, l’ordine dell’universo. In giapponese, la parola shūkyō (賾教) si riferisce agli insegnamenti che si pongono alla base della propria vita.



L’intento che ci ha guidato nell’affrontare questo argomento è stato il desiderio di situare la tradizione del Buddismo della Soka Gakkai, e la nostra esperienza religiosa, all’interno di un panorama variegato, tratteggiato da riflessioni, approfondimenti e chiarimenti, per liberare la “religione” da pregiudizi e interpretazioni frettolose.

Religione

Perché il Buddismo viene considerato una religione sebbene non abbia molte delle caratteristiche che di solito si attribuiscono a un credo religioso? Perché nella pratica buddista si parla di preghiera, fede, rito, oggetto di culto anche se è un percorso di risveglio interiore che in definitiva riguarda solo esseri umani?&nbsp;



Dire che il Buddismo è una religione può suscitare perplessità o scetticismo in chi si avvicina a questo cammino spirituale, o perché si è riluttanti a rinnegare un’altra confessione a cui si sente di appartenere per cultura o nascita, o perché ci si ritiene di fede atea e perciò non inclini ad abbracciare un qualsivoglia credo che implichi una rinuncia alle proprie convinzioni.  Non vi è dubbio che una delle caratteristiche del Buddismo è che non comporta salti fideistici a priori e si prospetta come un cammino “sperimentale” e molto umano, eppure gran parte della letteratura lo considera una delle grandi religioni mondiali. Se il cammino di riforma interiore che prospetta il Buddismo sembra lontano da un’esperienza di tipo religioso, forse è sul concetto di religione che ci dovremo interrogare. Innanzitutto chiarendo che il Buddismo, a differenza dell’Ebraismo, dell’Islam e del Cristianesimo non è una religione rivelata, cioè non esiste per volontà di un dio trascendente che rivela se stesso mediante una figura profetica – o nel caso del Cristianesimo mediante il suo stesso figlio – alle sue creature, le quali sono chiamate alla fede e alla devozione. Il Buddismo, in quanto religione atea (senza un dio), ha una ragion d’essere terrena esplicitamente dichiarata e un fondatore umano che non si pone mai su un piano diverso da questo. Si presenta come un cammino spirituale che nasce da domande umane sull’esistenza, alle quali fornisce risposte che non implicano l’esistenza di esseri o forze soprannaturali. Partendo dal presupposto che ogni religione è una costruzione umana, il Buddismo non solo lo dichiara apertamente, ma ne fa un elemento costitutivo della sua esistenza: per sua ammissione nasce allo scopo di risolvere le sofferenze connaturate all’esistenza umana in virtù del risveglio di un essere umano illuminato, il Budda, che poi mostrò a tutti gli esseri umani la strada per attraversare la sua stessa esperienza. Allora perché non si potrebbe assimilare a una filosofia? O magari a un’espressione artistica? Perché la filosofia si interroga sul reale e cerca risposte utilizzando, in linea di principio, la logica, il ragionamento. E anche quando il suo oggetto di interesse (la natura dell’essere, l’origine del mondo, la finalità dell’esistenza) appare inafferrabile attraverso quelle facoltà conoscitive, ciò avviene sempre in virtù di un ragionamento. E neppure assomiglia all’arte, dove entrano in campo l’emozione o l’intuizione – presenti anche nel processo della scoperta scientifica – facoltà che appartengono al repertorio di capacità umane che si possono sperimentare ed evocare, più o meno facilmente, nella vita comune. C’è dunque qualcosa che rende questo insegnamento diverso da una filosofia, da una pratica psicologica per ritrovare se stessi o da una forma estetica di interpretazione del mondo e, come per molte religioni, questo qualcosa è una forma di trascendenza. E qui sta il punto. Perché nel caso del Buddismo non si tratta di trascendere l’ambito umano per accedere a un’entità divina o sovrannaturale, quanto piuttosto di trascendere le facoltà umane dell’intelletto e della ragione (che portano alla filosofia e che appartengono al mondo di Apprendimento), dell’emozione e dell’intuizione (che portano all’arte, alla scoperta e che appartengono al mondo di Illuminazione parziale), per accedere a una realtà che è allo stesso tempo umana e universale, contingente alla nostra singola vita e illimitata, interna ed esterna a noi (che chiamiamo mondo di Buddità). Per percepire questa realtà abbiamo bisogno di mezzi diversi da quelli normalmente a nostra disposizione, strumenti che ci facciano fare un salto durante il quale la logica e il giudizio momentaneamente tacciono per far posto ad altre facoltà. E atterrare in un luogo altrimenti inaccessibile (la Buddità appunto, condizione inerente a ogni nostro stato vitale) che è allo stesso tempo qualità fondamentale del nostro essere umani e dell’intero universo. Il Buddismo di Nichiren, fa notare il presidente Ikeda (cfr. Buddismo e società, n. 119, p. 34), insegna a non fare affidamento in maniera unilaterale ed esclusiva né sul proprio potere individuale né su qualche potere esterno. E aggiunge: «È solo pregando e fondendoci con il potere della verità eterna e immutabile, che trascende i nostri sé limitati e finiti, che possiamo pienamente attivare il nostro potere». «Negli insegnamenti del Sutra del Loto – scrive Nichiren – le persone certamente sono determinate da se stesse e tuttavia non lo sono. [...] Inoltre [...] le persone sono certamente determinate dall’altro e tuttavia non lo sono» (vedi box). Solo se non ci basiamo esclusivamente su un potere esterno, e neppure soltanto sul nostro potere individuale, commenta Ikeda, possiamo manifestare il potere trascendente che esiste dentro di noi. E pregare, recitare Nam-myoho-renge-kyo, ci permette di farlo. Sperimentare questa trascendenza è un’esperienza mistica, ovvero al di là della logica e difficilmente comunicabile. Perciò per farla serve la preghiera. E serve la fede. Perché non si tratta di comprendere o condividere un ragionamento o una visione del mondo, ma di predisporsi a un’esperienza profonda, e per questo potenzialmente universale. L’esperienza della Buddità. Che deve essere attraversata concretamente per essere compresa senza lasciare dubbi, e si realizza attraverso l’attivazione di facoltà che hanno l’universalità e la trascendenza proprie di una religione. (Marina Marrazzi)



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NON SOLO INTERNO, NON SOLO ESTERNO



«Ora, negli insegnamenti del Sutra del Loto le persone certamente sono determinate da se stesse e tuttavia non lo sono. Questo perché il proprio sé, o vita, possiede allo stesso tempo la natura di tutti gli esseri viventi dei dieci mondi. Perciò questo sé possiede sin dall’inizio il proprio regno di Buddità e i regni di Buddità posseduti da tutti gli altri esseri viventi. Perciò quando si consegue la Buddità non si assume qualche nuova o “altra” identità di Budda. Inoltre [...] le persone sono certamente determinate dall’altro e tuttavia non lo sono. I Budda, che sono considerati separati da noi, in realtà sono contenuti nel nostro stesso sé, ovvero nelle vite di noi persone comuni. Questi Budda manifestano i regni di Buddità di tutti gli esseri viventi nello stesso modo in cui lo facciamo noi» (Il significato dei sacri insegnamenti della vita del Budda, RSND, 2, 63).
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Ma il Buddismo è una religione?

Per rispondere ai bisogni del nostro tempo occorre, secondo Daisaku Ikeda, una nuova unificazione di fede e ragione che abbracci tutti gli aspetti dell’essere umano. Come dice il Daishonin: «Al di fuori della fede non può esserci nessuna comprensione, e al di fuori della comprensione non può esserci alcuna fede»



Il tema della fede porta l’essere umano a interrogarsi su questioni cruciali, in particolare se essa possa o meno accordarsi con la ragione.&nbsp; In un dialogo sul tema delle religioni del XXI secolo, Daisaku Ikeda e il teologo Lawrence E. Sullivan (direttore del Centro per lo studio delle religioni mondiali dell’Università di Harvard) si pongono una domanda fondamentale: quali sono i criteri per valutare la validità di una religione? (cfr. Daibyakurenge, maggio 1993). Per entrambi gli aspetti essenziali sono se essa sia in grado di rispondere ai bisogni delle persone del proprio tempo e se le persone possono scegliere la propria religione spontaneamente, sulla base di una riflessione autonoma che Ikeda definisce “esercizio della saggezza”. Al contrario una “fede assoluta”, imposta, che non lascia possibilità di scelta, non potrà radicarsi nel sentimento popolare, decretando la morte della religione stessa. Ogni religione o disciplina ha un suo fondatore, un maestro. Il discepolo segue l’insegnamento del maestro e approfondisce la propria fede quando manifesta spirito di ricerca. Il primo presidente e fondatore della Soka Gakkai Tsunesaburo Makiguchi affermava: «Noi impariamo a vivere imitando gli altri. Osserviamo ciò che fanno e copiamo quello che vediamo, fidandoci del loro esempio. […] Dapprima abbiamo fiducia nei nostri maestri e facciamo ciò che ci dicono; poi, dopo aver imparato a imitarli, possiamo cominciare a esprimere la nostra creatività. È così che si impara a vivere» [Makiguchi Tsunesaburo Shingenshu (Raccolta delle massime di Tsunesaburo Makiguchi), ed. Takeshi Tsuji, Daisan Bummeisha, Tokyo, 1979, pp. 16-17].



Una fede che si accorda con la ragione L’insegnamento buddista considera fede e ragione (comprensione) come due elementi reciprocamente funzionali.&nbsp; Scrive Daisaku Ikeda: «Una religione elevata non nega la razionalità e se non tiene conto della ragione non potrà mai guadagnarsi la fiducia dell’umanità. Il Buddismo, la religione della saggezza, è estremamente razionale, al punto che molti occidentali si chiedono addirittura se possa essere classificato come religione poiché non insegna l’esistenza di un essere supremo a immagine dell’essere umano» (SSDL, 1, 254). Nichiren Daishonin dimostrò il valore del suo insegnamento attraverso un approccio razionale. Decise di basarsi sulle scritture per cercare prove a sostegno delle sue convinzioni: «Prendendo i testi dei sutra come mio unico maestro – scrive – avrei stabilito quale fra gli insegnamenti della vita del Budda fosse superiore e quale inferiore» (Ripagare i debiti di gratitudine, RSND, 1, 616). Nichiren non rifiutava i dubbi ma li considerava strumenti per arrivare alla verità. Ne L’apertura degli occhi afferma: «Questo dubbio è il punto essenziale di questo scritto. E poiché è d’importanza capitale per la mia vita, lo solleverò più volte e lo approfondirò prima di provare a rispondervi» (RSND, 1, 216).



La fede è la porta della saggezza Il Sutra del Loto insiste particolarmente sull’importanza della fede. Comprendere i sutra precedenti e credervi è facile, perché sono predicati secondo la capacità degli ascoltatori. «Il Sutra del Loto – spiega il maestro Ikeda – è il più difficile da credere e da comprendere perché è un insegnamento in cui il Budda rivelò direttamente ciò che aveva conseguito. Il sutra predicato secondo l’intento del Budda va oltre le capacità intellettuali delle persone ordinarie. Solo tramite la fede e la comprensione possiamo accedervi» (SSDL, 1, 268). Nel Sutra del Loto la comprensione è intesa come saggezza ed è già contenuta nella fede. Nichiren scrive, commentando il capitolo Fede e comprensione: «“Comprensione” è un altro termine per saggezza. [...] Al di fuori della fede non può esserci nessuna comprensione, e al di fuori della comprensione non può esserci alcuna fede» (La raccolta degli insegnamenti orali, BS, 111). La saggezza è un’intuizione che emerge dalla natura mistica della vita e porta al miglioramento di se stessi e di ciò che ci circonda. Il maestro Ikeda afferma: «La funzione della Legge mistica, la funzione di una vera religione, è favorire la tendenza naturale della vita a migliorarsi e la fede è la chiave per aprire il potenziale della vita e sviluppare la saggezza. Kumarajiva traduce questa continua ricerca di automiglioramento con "fede e comprensione"» (SSDL, 1, 242).



Convinzioni e credenze Anche chi sostiene di non avere fede in una religione basa comunque la sua vita su convinzioni che originano da credenze, derivanti da esperienze e idee che influenzano il nostro modo di pensare e agire. Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1956) sosteneva che le nostre credenze «costituiscono la base della nostra esistenza, il terreno sul quale si dispiega la vita umana. [...] Tutto il nostro comportamento, attività intellettuali comprese, dipende dal nostro sistema di credenze» (Ideas y Creencias, Alianza Editorial, Madrid, 1986, p. 26). Dal momento che non possiamo eliminare le credenze, che sono il nostro fondamento, possiamo però scegliere in che cosa credere.&nbsp; Il maestro Ikeda afferma: «Tutte le credenze dovrebbero essere rispettate ma, se non vengono provate dalla ragione e dalla realtà dei fatti, rimarranno credenze personali, soggettive, prive di universalità. Il fatto che la fede di cui si parla nel Sutra del Loto sia associata alla comprensione indica che non si tratta di una credenza personale» (SSDL, 1, 259). Quando la Legge mistica si manifesta nella nostra vita, la nostra esistenza si accorda con essa, manifestando una saggezza che funziona in accordo con le circostanze mutevoli attraverso un movimento bidirezionale: dalla fede alla comprensione e dalla comprensione alla fede, che viene ulteriormente rafforzata dalla comprensione. Un movimento che si ripete incessantemente portandoci verso un progresso illimitato. Come dovrebbe essere, quindi, una religione che risponde ai bisogni del nostro tempo? Ikeda lo spiega così: «Ciò di cui si sente il bisogno oggi è una nuova unificazione di fede e ragione che abbracci tutti gli aspetti dell’essere umano e della società e che includa le acquisizioni della scienza moderna. È la grande sfida che la moderna civiltà deve affrontare: un tentativo di restaurare l’integrità della società umana che è stata frantumata da una ragione senza fede da una parte e da un fanatismo irrazionale dall’altra» (SSDL, 1, 271). (a cura del Comitato nazionale di studio) 



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LE TRE PROVE «Per valutare le dottrine buddiste io, Nichiren, credo che i metodi migliori siano la ragione e la prova documentaria. Ma ancora migliore di queste è la prova concreta» (RSND, 1, 532). Sono quindi tre, secondo il Daishonin, le prove per giudicare la validità di un insegnamento buddista: documentaria, teorica e concreta. Per prova documentaria si intende l’accordo con i sutra. Per prova teorica  la compatibilità con la ragione e la logica. La prova concreta si ha quando il contenuto di una dottrina, una volta messo in pratica, viene suffragato da risultati concreti.
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Fede e comprensione

Una religione che pone al centro la dignità della vita, che riconosce l'immenso potenziale di cui tutti gli esseri umani sono dotati e il loro fondamentale desiderio di felicità. Una felicità realizzabile nel momento presente, causa virtuosa del movimento di propagazione



«La religione è ciò che mira a insegnare quali siano i fondamenti della vita e dell’universo stesso. La religione è la prova decisiva della nostra condizione umana. […] Infatti gli esseri umani possiedono un innato e indistruttibile “istinto di preghiera” e le religioni sono nate proprio per dare una risposta completa a questo tipo di bisogno: non è la preghiera a nascere dalle varie religioni, è piuttosto vero il contrario. […] Anche chi non si considera religioso prega spesso per qualcosa: la speranza che i propri figli godano di buona salute o decidere di migliorarsi sono preghiere, anche se non le chiamiamo così» (Preghiera e azione, pp. 2-3). Queste parole del maestro buddista Daisaku Ikeda ci invitano a riflettere sul senso autentico della religione e sul suo legame profondo con i bisogni più intimi dell’essere umano. Non sempre è semplice comprendere questo aspetto, perché siamo abituati a immaginare un esteso divario tra la religione e la vita quotidiana. Ma a cosa serve, in concreto, la religione? Secondo il Buddismo di Nichiren Daishonin a essere felici, oggi, qui. Perché in questo insegnamento la felicità viene considerata non come un lontano ideale a cui aspirare, ma un’esperienza viva, che si concretizza nel toccare con mano la vita, nell’assaporarne ogni attimo; facendo emergere una condizione di libertà interiore in grado di trasformare anche le situazioni più difficili in occasioni, in benefici. Potremo così costruire la vita che intimamente e profondamente desideriamo, senza rimandare i sogni, le risoluzioni, la felicità a un domani migliore, a un’esistenza più lieta dopo la morte.&nbsp; Per abbracciare il Buddismo di Nichiren non dobbiamo cambiare chi siamo o rinchiudere i nostri progetti e le nostre scelte dentro una morale restrittiva e discriminatoria.&nbsp; Perché il nostro genere, i nostri amori, la nostra identità, le nostre origini, le nostre scelte, la nostra vita tutta così com’è, anche dopo un fallimento o un disdicevole sbaglio, è sempre meritevole e pronta per iniziare una nuova rivoluzione umana. Il Sutra del Loto, infatti, riconosce la natura di Budda in ogni persona, estremamente preziosa e degna di rispetto. È un insegnamento che incoraggia ad aver sempre cura, attraverso le scelte quotidiane, della nostra vita e di quella delle persone intorno a noi; per fare del XXI secolo, come ha spesso sottolineato il maestro Ikeda, un’epoca che pone il principio della dignità della vita a fondamento della società. Una società fatta da persone differenti e ricca di preziose diversità, che non riduce mai gli esseri umani a strumenti per raggiungere altri scopi. Per questo la religione non dovrebbe essere mai un fine, ma sempre un mezzo. Il fine sono sempre le persone. Questo importante aspetto è stato sottolineato da Clark Strand, ex monaco zen, giornalista e scrittore statunitense, autore di un libro che analizza il nostro movimento religioso: «La Soka Gakkai – scrive – non ha codici di abbigliamento, preti, monaci, né uno stile architettonico identificabile: ha preservato la sostanza della vita religiosa facendone cadere l’apparenza. Cosa rimane dopo l’eliminazione delle formalità e delle convenzioni di un culto religioso? Credo che la risposta sia davvero molto semplice: l’interesse per i valori umani basilari, quei valori fondamentali (come la pace, la felicità e la sicurezza; buoni amici, buon cibo, buona acqua) comuni a tutti gli esseri umani e a tutte le tradizioni religiose di ogni paese del mondo» (Il risveglio del Budda, p. 36). Diffondere questi valori fondamentali è il desiderio che sta alla base della condivisione del Buddismo con le altre persone, per risvegliarle alla natura eterna della vita e al loro potenziale che non ha confini.&nbsp;



Il desiderio di condividere l'insegnamento  La propagazione, un aspetto nobile, essenziale del Buddismo, può essere definita come la “pratica di rispettare gli altri” (vedi Il mondo del Gosho, Esperia, p. 501). Ed è naturale desiderare che un’altra persona – specialmente se a noi cara – possa sperimentare quella felicità che noi stessi stiamo vivendo. Questo desiderio, quando autentico, non può che sposarsi con il rispetto della libertà e della volontà degli altri.  In generale, la condivisione di un insegnamento religioso si basa sulla convinzione di quanto esso sia corretto e benefico. Ed è auspicabile che una dottrina come il Buddismo, basata sul rispetto della dignità della vita e che ha come scopo fondamentale la costruzione della pace, si diffonda ampiamente nella società.  D'altra parte, quando si parla di propagazione di un insegnamento religioso può sorgere una qualche forma di resistenza o scetticismo, derivanti dall’idea che si tratti di un tentativo di convincere qualcun altro ad aderire a una certa religione, spinti, in ultima analisi, dal mero desiderio di aumentarne il numero dei seguaci. Tuttavia, se la propagazione fosse basata su questo tipo di interesse strumentale, verrebbe meno il fondamento stesso su cui si basa il Buddismo: il rispetto di ogni forma di vita in quanto tale. Il maestro Ikeda ha più volte sottolineato il significato del nostro impegno nella propagazione del Buddismo: «Parlare alle persone degli insegnamenti del Daishonin, ovvero renderle capaci di trasformare le loro sofferenze al livello più profondo, mostrando loro i mezzi per raggiungere uno stato di felicità indistruttibile, è una pratica che prevede estrema compassione. È la cosa più nobile e suprema che possiamo fare per il bene degli altri. Ci consente di stringere rapporti di amicizia autentica e di forgiare legami forti quanto quelli che uniscono i membri di una famiglia» (NRU, 25, 13). In questo contesto può essere utile soffermarci su un ideale che riveste una grande importanza per i praticanti della Soka Gakkai, ossia “adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese”. Tale ideale, sottolinea il maestro Ikeda, «richiede che ci si risvegli al bene fondamentale dentro di noi, si stabiliscano nel cuore i princìpi di rispetto per la dignità umana e per la vita insegnati nel Sutra del Loto e si faccia di essi il nucleo della nostra visione del mondo. […] E poiché l’essenza di “adottare l’insegnamento corretto” consiste nel costruire un solido fondamento spirituale per la pace nella società, è ovvio che dovremmo unirci alle persone e alle organizzazioni che condividono questo tipo di visione per lavorare insieme allo scopo di proteggere la dignità della vita e realizzare la pace mondiale. La causa per cui ci battiamo non è una nostra prerogativa esclusiva» (Lezione su Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese, Esperia, p. 76). Il beneficio di una pratica religiosa non dipende solamente dal portarla avanti, ma dall’atteggiamento con cui lo facciamo e dallo scopo a cui miriamo. Come scrive Nichiren, «è il cuore che è importante» (RSND, 1, 889).(Mirko Lugli e Rossella Maci)

Buddismo e felicità

Una visione del mondo che trascende l'immediato, pratiche e rituali condivisi, norme etiche, una comunità di riferimento. Queste le caratteristiche trasversali che Elisabetta Colagrossi individua nella varietà delle esperienze religiose nelle diverse società, che rispondono tutte a una generale richiesta di senso della vita e del vivere insieme. Dove il dialogo tra le fedi può configurarsi come un laboratorio concreto di pace, una testimonianza viva della possibilità di convivere nella differenza



In occidente spesso il Buddismo e altre fedi in cui non ci sono divinità di riferimento non vengono considerate religioni vere e proprie ma una sorta di filosofie di vita. C’è un significato univoco di religione, uno o più elementi che la definiscono come tale a prescindere dalle culture e tradizioni? Dobbiamo tenere presente che il concetto di "religione" è storicamente e culturalmente situato. Formulato all'interno della tradizione latina per indicare un fenomeno specifico, quello della religio romana, si è evoluto nel tempo, mantenendo tuttavia una matrice occidentale che inevitabilmente ne condiziona l'uso e l'applicazione. "Religione" resta così un'etichetta costruita all'interno di una prospettiva culturale specifica, non sempre adeguata a descrivere la varietà delle esperienze spirituali nelle diverse società.&nbsp; Non esiste una definizione univoca. Tuttavia, si possono individuare alcune caratteristiche trasversali: una visione del mondo che trascende l'immediato, una serie di pratiche e rituali condivisi, norme etiche, e una comunità di riferimento. Anche tradizioni che non postulano necessariamente una divinità personale, possono configurarsi come religioni nella misura in cui rispondono a queste dimensioni fondamentali. Conflitto violento e convivenza pacifica: la religione può dividere (spesso nella storia è stato così), la religione può unire. Quali sono le caratteristiche principali, secondo lei, di queste due tendenze?&nbsp; La religione, come ogni fenomeno umano, manifesta una profonda ambivalenza: può essere forza di divisione o di coesione a seconda di come viene interpretata e vissuta. Negli ultimi decenni, numerosi studi si sono interrogati sulla possibilità che esista un nesso necessario tra religione e violenza. Le cronache contemporanee tendono a enfatizzare l'aspetto perturbante del fenomeno religioso, riportandone soprattutto gli esiti conflittuali, specialmente quando si intreccia a logiche identitarie e politiche. Di certo, la religione può dividere, quando viene utilizzata per rafforzare appartenenze esclusive o giustificare un qualche dominio. Si parla meno, invece, della sua capacità di generare dinamiche di riconoscimento reciproco, di apertura, di nonviolenza e di costruzione della solidarietà. Eppure, anche questa dimensione attraversa la storia delle religioni e testimonia la possibilità di un diverso rapporto tra fede, alterità e convivenza.&nbsp; Distinguere criticamente e con equilibrio tra questi due possibili esiti — esclusione o incontro — è fondamentale per comprendere il ruolo della religione nello spazio pubblico. Nel corso della storia della nostra scuola buddista, a partire dal suo fondatore, ci si è più volte confrontati con il tema dell’utilizzo strumentale della religione da parte del potere politico. Ciò sicuramente ai tempi di Nichiren, nel 1200, perseguitato proprio perché promuoveva un insegnamento che si basava sul rispetto di ogni persona; ma anche durante la seconda guerra mondiale, quando i fondatori della Soka Gakkai, per aver difeso la libertà di religione, furono imprigionati dalle autorità, che avevano imposto lo shintoismo come religione di Stato; e più volte Daisaku Ikeda ha sottolineato i rischi che si corrono quando un governo autoritario sfrutta la religione come strumento per la propria politica. Venendo all’attuale scenario mondiale, ritiene che oggi stiano emergendo nuovi rischi di un utilizzo strumentale della religione?&nbsp; Sì, il rischio di un utilizzo strumentale della religione da parte del potere politico non è affatto superato. In diverse aree del mondo assistiamo al riemergere di forme di nazionalismo religioso, in cui il riferimento al sacro viene asservito a finalità identitarie ed esclusive. Questo accade quando la religione viene ridotta a strumento di potere, tradendo quella vocazione alla promozione della dignità della vita e della pace su cui insisteva Daisaku Ikeda. Da sempre, la tensione tra fede e potere costituisce una costante nella storia delle religioni. Guardando alla figura di Nichiren Daishonin, colpisce la coerenza con cui affrontò le persecuzioni, rivendicando il diritto di professare liberamente ciò in cui credeva. Come affermò con forza: «Se un cattivo sovrano volesse distruggere gli insegnamenti del Sutra del Loto, non bisognerebbe obbedirgli, anche a costo della propria vita» (Lettera a Horen, Raccolta degli scritti di Nichiren Daishoinin, 1, p. 462). La sua scelta, pur nel contesto storico e dottrinale peculiare del Giappone medievale, continua a richiamare l'importanza della coscienza individuale di fronte ai tentativi di strumentalizzare il sacro.



Lei recentemente ha detto: «Ci troviamo in un'epoca di crisi radicale della coesistenza tra diversi dove il dialogo sembra in declino su molteplici livelli. Le tensioni politiche, economiche e culturali globali testimoniano come la capacità di costruire ponti è messa in discussione ogni giorno», sottolineando quanto l’opera di Daisaku Ikeda «abbia offerto un esempio concreto di come il dialogo possa essere praticato sia a livello personale che istituzionale». Qual è il contributo che il dialogo interreligioso può dare in questa situazione? Il dialogo interreligioso dovrebbe offrire oggi un modello relazionale che va oltre la mera tolleranza. In un tempo segnato da crisi globali e tensioni crescenti — culturali, economiche, politiche — il dialogo tra le fedi può configurarsi come un laboratorio concreto di pace, una testimonianza viva della possibilità di convivere nella differenza. Non si tratta soltanto di accettare l’altro e tollerarlo nel senso latino di tolero, ma di intraprendere insieme un cammino, riconoscendo che il pluralismo non è un ostacolo alla verità, ma una sua possibile espressione. Come affermava il filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing in pieno Illuminismo europeo: “veritas sive varietas” — la verità si dà nella varietà. In questa prospettiva, l'opera di Daisaku Ikeda offre a mio avviso un esempio concreto di come il dialogo possa diventare un impegno quotidiano e una dimensione istituzionale. Ikeda ha saputo intrecciare il dialogo interreligioso con la promozione della pace, dei diritti umani e della dignità della vita, concependolo non come atto episodico, ma come metodo permanente di relazione. Le numerose iniziative culturali e accademiche che ha promosso — tra cui la fondazione del Boston Research Center for the 21st Century e dell'Institute of Oriental Philosophy —, insieme ai dialoghi intrattenuti con esponenti religiosi e culturali di tutto il mondo, restituiscono l'immagine di un dialogo vissuto come costruzione concreta di rapporti e come pratica di riconoscimento reciproco.



Qual è oggi, secondo lei, il rapporto delle persone giovani con la religione? Il rapporto dei giovani con la religione è sempre più variegato. Da un lato, almeno nel contesto europeo, si osserva un progressivo allontanamento dalle istituzioni religiose tradizionali; dall’altro, non viene meno il bisogno di spiritualità e di ricerca di significato. Le nuove generazioni mostrano interesse per esperienze religiose percepite come autentiche, capaci di confrontarsi con le grandi sfide etiche, sociali e ambientali del nostro tempo: dalla giustizia globale alla sostenibilità, fino alla questione del pluralismo. Alcuni sociologi della religione hanno parlato di una “uscita della religione dalle religioni”, per descrivere quel fenomeno per cui la dimensione spirituale non scompare, ma si sposta fuori dagli schemi istituzionalizzati. In questa cornice si colloca anche la distinzione tra "religiosità senza religione" e forme più tradizionali di appartenenza. Non mancano percorsi giovanili che assumono tonalità diverse: talvolta si esprimono in pratiche spirituali personali o sincretiche, talvolta si manifestano come malessere esistenziale, che può sfiorare il nichilismo, ma che a mio avviso conserva comunque un nucleo religioso, nel senso di una domanda radicale sul senso della vita e del vivere insieme.



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LA MIA FORMAZIONE, I MIEI MAESTRI



Se devo riassumere il mio percorso, direi che è stato vario, ma segnato da una direttrice costante: il tentativo di pensare il pluralismo, la differenza, il dialogo. Mi sono formata all'interno della scuola genovese ispirata ad Alberto Caracciolo e Giovanni Moretto, e ho avuto la fortuna di incontrare presto il professor Gerardo Cunico, a cui devo le prime sollecitazioni decisive verso la ricerca. È a lui che risale, tra l'altro, l'istituzione presso l'Università di Genova della cattedra di Filosofia del dialogo interreligioso, disciplina di cui oggi tengo un modulo (in codocenza con il prof. Roberto Celada Ballanti), mentre il mio insegnamento principale è Storia delle religioni. I miei studi sono iniziati con la filosofia della religione, in particolare in Dostoevskij, e si sono poi orientati in modo decisivo verso il pensiero di Jan Assmann, uno dei maggiori studiosi contemporanei del rapporto tra religione, memoria e violenza. A lui ho dedicato le tesi di laurea e di dottorato in Filosofia, maturando attraverso il suo approccio storico-critico il passaggio alla storia delle religioni e a una lettura comparativa delle dinamiche religiose. Presso l'Università di Costanza ho lavorato a stretto contatto con Assmann, che ha seguito la mia ricerca e mi ha coinvolta nella traduzione di alcuni suoi volumi. Accanto alle sue riflessioni sulla violenza religiosa, il suo interesse per il dialogo interreligioso ha orientato anche una parte del mio percorso successivo, portandomi a svolgere attività di ricerca in India, dove ho approfondito alcuni modelli di inclusivismo e il pensiero di Gandhi. (E. C.)
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Pensare il pluralismo, la differenza, il dialogo

B. Wilson e D. Ikeda, La religione e i valori umani, Esperia 2005-2025







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A partire da una cena a Tokyo nel 1979, il sociologo della religione Bryan Wilson e il presidente della SGI Daisaku Ikeda hanno intrapreso un dialogo che è proseguito per anni, anche in forma epistolare, fino a condensarsi in questo libro importante. Muovendo da sponde diverse si avventurano nel mare della religione tentando di scandagliarne insieme i fondali. Parlano “lingue” diverse, ma imparano ad armonizzarle riguardo a temi di grande valore per tutte e tutti noi. L’organizzazione religiosa deve restare un mezzo, anche quando quel mezzo sembra – per una sorta d’intrinseca forza d’inerzia – inesorabilmente divenire un fine. Dietro quel che può apparire un meccanismo impersonale, ci sono sempre scelte di umani che devono sviluppare autonomia nella collaborazione, scartando così dipendenze passive e impulsi autoritari. L’esperienza comunitaria è necessaria – specialmente entro le società moderne che non possono più essere eticamente omogenee – e non va vissuta come antitetica alla “vera fede”. Il fine – l’unico – cui deve mirare lo strumento organizzativo-comunitario è per Wilson “la diffusione di un’etica”; per Ikeda “l’emergere della natura buddica”, che d’altronde si traduce in saggezza e compassione (cuore di ogni etica). Diverse comunità religiose possono riuscire a comprendersi e a collaborare se riferiscono le rispettive particolarità, considerate come preziosi mezzi, a quell’unico fine. La ricerca razionale può e dovrebbe spingersi fino a dove glielo consente la sua natura, indicando il modo corretto di rapportarsi a quel nucleo mistico che i suoi strumenti non potranno mai interamente cogliere. Senza dimenticare la “prova concreta”, la verifica empirica della validità di una fede. 
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 Misticismo, razionalità e verifica empirica



Ikeda: In una qualche misura, tutte le religioni includono elementi mistici che resistono a ogni spiegazione teorica. In effetti, ciò che può essere definito “mistico” è proprio quello che differenzia la religione dalla filosofia non religiosa. Ma gli elementi mistici non sempre hanno effetti benefici. [...] Sopravvalutare il misticismo priva la religione della sua concretezza, mentre sottostimarlo elimina il senso del mistero che genera la fede. (p. 18)  Wilson: Il linguaggio religioso è sempre, da una prospettiva rigorosamente razionale, elusivo, evanescente e poetico nella sua multiformità. Poiché si riferisce a valori ed emozioni oltre che alla realtà empirica, rifiuta l’analisi sistematica e la logica formale. Il prodigio, dunque, non è un evento per cui sia richiesta una specifica valutazione scientifica. (p. 75) Ikeda: Sono d’accordo con lei [riguardo ai prodigi]. […] Benché l’attrattiva spirituale delle religioni dipenda da elementi intrinseci che resistono a una spiegazione razionale, nelle attività missionarie è importante rendere le dottrine più chiare possibile, così che i non iniziati possano afferrarne il significato. In questo campo però si arriva a un punto oltre il quale la ragione non può andare e le dottrine religiose devono essere accettate sulla base della fede. (pp. 76-77) […] Nello scegliere e nell’attenersi a un insieme di dottrine religiose, l’individuo deve sempre […] esaminare accuratamente quali effetti la fede in quella religione può avere sulla sua esperienza concreta. (p. 88) La religione può generare una nuova diffusione di valori



Wilson: In generale, non sono ottimista sulla capacità umana di controllare le forze nocive che sono all’opera nel mondo contemporaneo. Ammesso che si possa fare qualcosa, probabilmente può essere fatto solo tramite una nuova diffusione di valori profondamente sentiti e seriamente meditati che possano essere accettati da milioni di esseri umani. La difficoltà di una tale prospettiva è che, per essere efficace, il movimento di diffusione di quei valori dovrà essere internazionale e operare in molte culture differenti. Perché questo avvenga, i valori dovranno essere espressi a un livello estremamente generale, dato che dovranno essere applicati in contesti culturali molto diversi e in condizioni sociali ampiamente divergenti.[…] Non è facile per gli esseri umani comprendere che i loro bisogni individuali […] sono collegati alle questioni […] globali che l’umanità ha di fronte. […] Forse solo la religione può essere in grado di far capire questo collegamento e di colmare il divario da un lato tra i differenti interessi locali e gli obiettivi globali dominanti della civiltà mondiale e delle culture di tutta l’umanità dall’altro. (p. 95) Ikeda: Sospetto che la civiltà e gli stili di vita dei nostri giorni contribuiscano grandemente alla riduzione di ciò che lei chiama “inclinazioni umanitarie”. Inoltre, credo che la religione abbia proprio il ruolo di rafforzare, migliorare e approfondire queste inclinazioni. I miglioramenti necessari non possono essere ottenuti soltanto attraverso misure sociali, scientifiche o economiche, ma, come lei suggerisce, richiedono la riforma della consapevolezza a livello individuale, quella riforma che Josei Toda, il secondo presidente della Soka Gakkai, definì “rivoluzione umana”. Poiché io vedo le cose in questa prospettiva, sono completamente d’accordo con lei quando dice che la religione è l’unica fonte che permette di mobilitare le inclinazioni umanitarie. Sicuramente è un dovere delle persone religiose colmare il divario tra i numerosi e differenti interessi locali e gli obiettivi generali della civiltà umana globale. (p. 96)



L’organizzazione religiosa: mezzo o fine?



Wilson: C’è una costante e irrisolvibile tensione sulla giusta misura in cui la religione può essere organizzata. Ovviamente, questa tensione è percepita differentemente dai diversi gruppi all’interno di un movimento religioso. Ci saranno sempre quelli che sono indotti dalle loro specifiche attività a rimarcare con la più grande forza la qualità intrinseca dell’esperienza spirituale. Altri sentiranno che la spiritualità viene talvolta espressa in modi che impediscono di fare ciò che essi ritengono meglio per l’organizzazione. L’equilibrio è spesso delicato. Come lei correttamente ha detto, le organizzazioni possono arrivare a sovvertire gli scopi del sistema spirituale che sono nate per servire. I sociologi chiamano un tale processo “spostamento dei fini”: gli originari scopi religiosi vengono oscurati dalla preoccupazione di mantenere l’organizzazione adeguatamente funzionante, e dalla focalizzazione sulle tecniche, le procedure e l’efficacia. Queste preoccupazioni puramente procedurali possono essere imposte con tale forza che la qualità incontaminata della verità religiosa non viene più riconosciuta come il fine per cui l’organizzazione è stata creata.  L’organizzazione può allora arrivare a vivere interamente per se stessa […]. Chiaramente, le moderne tecniche organizzative e il coordinamento razionale degli sforzi divengono indispensabili per i movimenti religiosi, come per tutte le altre imprese che cercano di mantenere una presenza sociale o internazionale nel mondo moderno. [Tuttavia] gli esperti dei mezzi talvolta perdono di vista il fine per cui quei mezzi sono impiegati. […] Ikeda: In troppe organizzazioni religiose i mezzi – e specificamente i mezzi per sostenere la propria posizione di potere e di influenza – sono diventati predominanti. […]  Dicendo che un movimento religioso richiede costante vigilanza per assicurare che i mezzi non sovvertano i fini, lei ha individuato una verità che tutti i leader religiosi dovrebbero costantemente tenere a mente. (pp. 140-141) Un’organizzazione deve permettere a ogni suo membro di partecipare a tutte le fasi della propria attività con completa indipendenza, garantendo allo stesso tempo un nucleo di autorevolezza capace di presentare le dottrine della fede in una forma non distorta, che i membri possano accettare senza difficoltà. (p. 156) Autoritarismo e autorità in ambito religioso 



Ikeda: L’organizzazione automaticamente implica il potere, che a sua volta genera il desiderio di vantaggi e di fama. A dispetto del tentativo di assicurare che solo i più nobili e i più saggi possano accedervi, i ruoli di maggiore autorità sono spesso ricoperti da individui la cui sola motivazione è il desiderio di potere o di gloria. […] Visto che grandi comunità di credenti non possono né esistere né svilupparsi a meno che non vengano organizzate, è di primaria importanza educare i fedeli e i ministri del culto al più alto spirito di moralità e devozione. (p. 138)&nbsp; L’autoritarismo non è solo imposto dall’alto, ma anche sostenuto e forse perfino generato dal basso, grazie a ciò che lei definisce “il bisogno di chiare certezze e la richiesta di pronunciamenti autoritativi”. […] Di conseguenza, credo che dobbiamo insegnare ai membri delle organizzazioni religiose ad avere uno sguardo critico, a comprendere che asservirsi di buon grado alla volontà altrui non porta al proprio bene. (pp. 158-159) [Inoltre] la religione non può essere gestita come un’azienda […] dal momento che si occupa della qualità intrinseca della vita, che resta al di là della misurazione quantitativa. [...] Purtroppo, però, diventando più estese e più centralizzate, le organizzazioni arrivano a considerare gli individui non più che ingranaggi di un meccanismo […] e perciò tendono a ignorare o a eliminare gli aspetti individuali che non sono direttamente pertinenti ai ruoli organizzativi. (pp. 150-151)&nbsp; Per questa ragione, nella Soka Gakkai io cerco di ridurre al minimo la centralizzazione dell’autorità dando il massimo potere ai nuclei organizzativi locali. (p. 153) Wilson: Questi problemi dell’organizzazione religiosa sono intrinseci, sorgono dalla natura difforme tra i fini religiosi necessariamente non razionali e l’utilizzo di mezzi crescentemente razionali. Come si può impedire che mezzi organizzativi efficienti inquinino i fini spirituali? Forse la risposta sta nel coltivare, a tutti i livelli, la consapevolezza delle tensioni e dei pericoli dell’organizzazione. (p. 150)

Il nutrimento dei popoli

Dall'Intesa con lo Stato italiano al dialogo interreligioso, fino alla nuovissima Fondazione "Be the Hope": Alberto Aprea ci prende per mano in un ampio e particolareggiato racconto di alcune tappe fondamentali della storia più recente della Soka Gakkai italiana, mettendo in evidenza il legame indissolubile che il maestro Daisaku Ikeda ha costruito con il nostro Paese fin dalla sua prima visita nel 1961. E sottolinea quanto i progressi compiuti da allora siano il frutto dell’impegno condiviso del maestro e dei discepoli per gettare le basi di un’epoca di pace



Sono passati quasi dieci anni dalla firma dell’Intesa con lo stato italiano. Cosa è cambiato da allora e come si stanno sviluppando le attività religiose e sociali della Soka Gakkai nel nostro paese? Prima di rispondere a questa domanda vorrei esprimere la mia più profonda gratitudine nei confronti del maestro Ikeda, perché tutto ciò che abbiamo realizzato in Italia fino a oggi è stato grazie ai suoi incoraggiamenti, alle sue visite e alla sua dedizione instancabile per aprire un'epoca di pace.&nbsp; Quest'anno segna il 65esimo anniversario della sua nomina a terzo presidente della Soka Gakkai e dell'inizio dei suoi viaggi intorno al mondo «per tracciare il corso di un grande fiume di pace e felicità», come lui stesso afferma nella prefazione al romanzo La nuova rivoluzione umana (NRU, Prefazione V).&nbsp; Oggi più che mai sentiamo quanto siamo fortunati ad aver potuto trascorrere questo tempo prezioso insieme a lui, e quanta cura Sensei ci ha dedicato, in ogni momento e in ogni situazione. La scomparsa del maestro Ikeda ha suscitato in noi una profonda riflessione sul legame indissolubile che egli ha costruito con il nostro Paese, a partire dalla sua prima visita in Italia, nel 1961, e su quanto profondamente la sua visione della rivoluzione umana e del rispetto della dignità della vita sia arrivata a permeare la società italiana. Tutti i progressi compiuti nei sessantaquattro anni trascorsi da allora sono il frutto dell’impegno condiviso da maestro e discepoli per gettare solide basi per un’epoca di pace. In particolare l’Intesa con lo Stato italiano, ottenuta nel 2016, rappresenta una pietra miliare che ha consolidato non solo il nostro status giuridico, ma anche il nostro contributo culturale e civile alla società italiana, e oggi la Soka Gakkai si presenta come una realtà profondamente integrata nel tessuto sociale del paese. Nel settembre del 2018 il maestro Ikeda ha dedicato una guida fondamentale a tutti noi italiani nella quale, riferendosi al traguardo dell'Intesa, affermava: «La vostra missione e responsabilità sta divenendo sempre più grande riguardo alla realizzazione della pace e alla prosperità della nazione in quanto organizzazione che agisce insieme allo Stato italiano» (NR, 636).&nbsp; E ci esortava a sviluppare una fede sempre più forte mirando a diventare persone sagge che manifestano il principio di "fede uguale vita quotidiana" nel luogo di lavoro, nel quartiere e nella comunità in cui viviamo, creando valore e ampliando sempre di più la nostra rete di amicizia e fiducia. Questa visione trova espressione nelle nostre attività quotidiane per diffondere nella società i valori dell’umanesimo buddista, come la compassione, il rispetto per la dignità della vita e l’inclusione.&nbsp; I nostri sforzi in questa direzione non si limitano alla sfera religiosa: grazie anche all’accesso ai fondi derivanti dall’8x1000, stiamo sostenendo numerosi progetti e iniziative su temi come la convivenza e la cittadinanza globale, il rispetto per l’ambiente, l’abolizione delle armi nucleari, i diritti umani e la ricerca scientifica. Grazie a questo impegno, la Soka Gakkai sta consolidando legami di fiducia nelle realtà locali e un dialogo costante con le istituzioni. Questo ci permette di venire riconosciuti non solo come comunità religiosa, ma anche come forza attiva che collabora per il bene comune, promuovendo in modo tangibile la costruzione di una società migliore.&nbsp;



Come si declina l’impegno della Soka Gakkai italiana per la pace, la cultura e l’educazione? Qual è la sua radice nell’insegnamento buddista? Il Buddismo insegna che la trasformazione sociale nasce dalla rivoluzione umana, cioè dalla trasformazione interiore degli individui, che sono in definitiva i responsabili dello sviluppo della società. Nichiren scrive: «Se la mente degli esseri viventi è impura, anche la loro terra è impura, ma se la loro mente è pura, lo è anche la loro terra; non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente» (RSND, 1, 4).  “Terra” qui si riferisce all’ambiente sociale e naturale in cui viviamo. Secondo il Daishonin, la chiave per il cambiamento sociale è un profondo cambiamento interiore, una rivoluzione del nostro cuore.  Riguardo alla relazione tra impegno religioso e "secolare", il maestro Ikeda utilizza la metafora di un fiume le cui acque irrigano il terreno, fecondando il suolo e permettendo la crescita di alberi e piante rigogliosi. L'umanesimo buddista è come un grande fiume e le persone comuni sono il terreno in cui scorrono le sue acque. Gli alberi, l’erba e le piante corrispondono al fiorire della pace e della cultura. Ikeda Sensei ha sempre sottolineato l’importanza di un approccio umanistico alla religione, in cui la spiritualità non è separata dalla vita quotidiana, ma la abbraccia permeandone ogni aspetto.  Questo nostro impegno concreto si esprime anche nelle riunioni di zadankai, che costituiscono il cuore delle attività della Soka Gakkai, incontri di dialogo che accolgono persone di ogni provenienza e di ogni età, dove si costruisce una comunità inclusiva e si esplora insieme come affrontare le difficoltà della vita attraverso la pratica buddista. Sono luoghi di ascolto reciproco, di crescita e condivisione che rafforzano i legami sociali e favoriscono la coesione, la pace e il rispetto della diversità.



Come si attua la relazione con le altre fedi, il dialogo interreligioso da parte dell’IBISG? Il dialogo interreligioso costituisce uno strumento imprescindibile per costruire la pace, la comprensione reciproca e la coesione sociale.&nbsp; Secondo l’insegnamento del maestro Ikeda, le religioni dovrebbero valorizzare le rispettive differenze e anche riconoscere la loro saggezza comune, collaborando per il bene dell’umanità. Nella Prefazione all'edizione italiana del libro del Gosho, Sensei afferma con chiarezza: «Nel contesto del dialogo interreligioso moderno è necessario quindi accettare e valorizzare le molteplici caratteristiche di ogni singolo credo e, allo stesso tempo, afferrare la profonda verità e sapienza presente nelle sue dottrine. Non vi è dubbio che, così facendo, ogni religione potrà esercitare un’influenza positiva sulle altre e diventare sempre più una religione dedicata alla felicità del genere umano. Inoltre, continuando a percorrere questo cammino di dialogo e reciproco miglioramento, ogni fede potrà manifestare il proprio valore intrinseco, contribuendo alla creazione di un sodalizio di “religioni per l’essere umano” in grado di trasformarsi nella forza più grande per la realizzazione della pace nel mondo. Questo è il mio desiderio» (RSND, 1, XI). Facendo tesoro di queste indicazioni del maestro Ikeda, il nostro impegno come Istituto è rivolto a coltivare il dialogo interreligioso con la consapevolezza che, se vissuto con sincerità e rispetto reciproco, esso costituisce uno strumento potente per costruire una società più umana e pacifica. Per questo da anni la Soka Gakkai italiana partecipa attivamente a numerosi incontri interreligiosi, come ad esempio quelli promossi dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana), o agli incontri internazionali annuali di preghiera per la pace delle religioni mondiali organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio. La scomparsa del maestro Ikeda ha suscitato molte reazioni in numerose istituzioni e confessioni religiose in Italia che hanno avuto modo di conoscere la sua opera e i suoi insegnamenti nel corso degli anni. È stato un momento in cui abbiamo compreso ancora più profondamente quanto la sua figura sia radicata nel nostro Paese e quanto i legami da lui costruiti sin dalla prima visita in Italia, nel 1961, siano diventati indissolubili. Questi legami hanno creato il terreno per la diffusione del Buddismo nella società italiana. A questo proposito, desidero condividere un’esperienza. Pochi giorni dopo la scomparsa del maestro Ikeda, durante un incontro con tutte le confessioni religiose presenti in Italia, la Commissione per il Dialogo Interreligioso della CEI ha voluto osservare un minuto di silenzio in sua memoria, seguito dalle parole di cordoglio espresse da tutti leader religiosi presenti. Questo gesto simbolico mi ha profondamente commosso perché ha rivelato fino a che punto la sua figura in quanto leader religioso e uomo di pace fosse apprezzata dai rappresentanti delle diverse confessioni. Un momento di importanza fondamentale nel contesto del dialogo interreligioso è stato l’udienza privata tra il presidente della Soka Gakkai Minoru Harada e Papa Francesco, nel 2024. Questo incontro ha rafforzato i nostri legami con la Chiesa Cattolica e ha dimostrato che la collaborazione tra religioni è non solo possibile ma necessaria per affrontare le sfide globali che l’umanità si trova ad affrontare, come il disarmo e la tutela dei diritti umani e dell’ambiente. L'impatto di questo evento è stato notevole, poiché ha rafforzato la stima e la fiducia tra la Chiesa Cattolica e la nostra organizzazione. Un importante passo avanti che ha coronato decenni di impegno nel costruire relazioni di amicizia e fiducia seguendo l'esempio di Ikeda Sensei, che ha sempre fatto del dialogo lo strumento principale per creare la pace.&nbsp; Sono convinto che il patrimonio di dialoghi e profondi legami umani costruiti dal maestro Ikeda e da noi ereditati continueranno a dare i loro frutti ancora nel futuro, senza esaurirsi mai. Come discepoli, da parte nostra ci impegneremo al massimo per portare avanti la sua opera per la pace nel mondo e la felicità di tutte le persone. Nei romanzi La rivoluzione umana e La nuova rivoluzione umana Sensei ci ha lasciato tutte le indicazioni necessarie per farlo.



Puoi parlarci della Fondazione “Be the Hope”?&nbsp; Il 13 febbraio 2025 è nata la Fondazione “Be the Hope”, costituita dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Il suo nome – “Sii la speranza” – riflette lo spirito con cui è stata creata: portare speranza concreta nella società, attraverso iniziative civiche, culturali ed educative ispirate ai valori dell’umanesimo buddista. La fondazione è un ente autonomo, senza fini di lucro, e rappresenta un passo significativo per poter sviluppare ulteriormente l’impegno della Soka Gakkai nella società italiana con iniziative anche a livello sociale e istituzionale. Potrà accedere al 5x1000, stipulare partnership e sostenere progetti già noti, come "Senzatomica" e "Cambio io, cambia il mondo", oltre a promuovere e sviluppare nuove iniziative a livello nazionale e internazionale. Sebbene giuridicamente autonoma, "Be the Hope" è espressione diretta dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, suo ente fondatore, che ne garantisce la coerenza spirituale e valoriale. A questo proposito, qualche tempo fa un gruppo di giovani domandò al maestro Ikeda quale fosse il punto cruciale da non perdere di vista nel portare avanti le nostre attività per il bene della società. E il maestro Ikeda rispose: «La fede viene prima di tutto. È la forza centripeta che crea unità e armonia. Quindi bisogna partire dalla forza centripeta rappresentata dalla fede, e basandoci sulla fede dedicarci alle attività nella società (forza centrifuga) per contribuire come buoni cittadini. Ma non dobbiamo mai perdere di vista la fede, il filo conduttore, il punto di origine di tutto» (cfr. NR 905). Ed è proprio su questo principio che si fonda "Be the Hope": un’energia che nasce dalla fede e si espande nella società, per contribuire alla costruzione di un futuro di pace, rispetto e dignità. Se si vuole davvero preservare la propria sicurezza, bisogna anzitutto avere a cuore la stabilità e la pace dell’intera società. A questo proposito il maestro Ikeda afferma: «Le persone autenticamente religiose non hanno a cuore soltanto il loro interesse personale, non si sentono appagate nel ristretto ambito della loro sfera individuale. Essere autenticamente umani significa pregare e operare per trovare soluzione ai problemi che affliggono tutti i nostri simili. Non esiste Buddismo al di fuori della società umana. Una religione alienata dalla società, è una religione priva di vita. Non è una religione nel vero senso della parola, non lo è per la gente. [...] Una persona che prega per una società pacifica e ha considerazione per gli altri, diverrà naturalmente conscia della necessità di contribuire attivamente alla società e agirà sulla base di questa consapevolezza» (NRU, 2, 201). Inoltre, vorrei sottolineare che la Fondazione è stata concepita fin dall’inizio con la partecipazione attiva dei giovani, che costituiscono il cuore pulsante della sua missione. I giovani hanno entusiasmo, creatività, intuizione. Sono in grado di affrontare con coraggio le sfide del presente e di costruire una società nuova. Kosen-rufu è un ideale che guarda a diecimila anni nel futuro. Ogni passo che i giovani compiono oggi, ogni impegno che si assumono contribuisce ad aprire la strada per l’umanità intera. Per questo sostenere la crescita dei giovani equivale ad alimentare la speranza per il mondo. Sempre nella guida del 2018, punto di riferimento imprescindibile per tutti noi italiani, anche per il futuro, Ikeda Sensei scrive: «Il maestro Toda affermava spesso: “I giovani rappresentano la grande nave della gente comune”. È responsabilità dei giovani prendere il timone per superare le onde furiose dell'epoca e guidare le persone comuni verso la pace, verso la felicità. Il movimento di kosen-rufu in Italia nell'epoca pionieristica venne aperto dai giovani. Essi si risvegliarono al potenziale inerente alla vita che permette di vincere su qualsiasi karma, si risvegliarono alla gioia di agire per il bene delle persone e della società, e si alzarono prendendo l'iniziativa. Da ora in poi incoraggiando i giovani, facendo crescere i giovani, per favore continuate ad avanzare insieme ai giovani. Tutti hanno un cuore giovane. Costruite una Soka Gakkai italiana giovane, in cui tutti ardono di passione giovanile, e continuate ad avanzare in allegria costruendo un grandioso futuro» (NR, 636). (a cura di Alessandra Fornasiero)

La Soka Gakkai italiana oggi

Risalire al cuore della sua funzione esistenziale e sociale ci consente di restituire a questo termine la sua piena valenza, al di là dei molti sentimenti, pensieri e giudizi che può suscitare 

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