Ogni lotta per la libertà, ogni processo di liberazione,
ha inizio da un’illuminazione interiore:
la comprensione del valore
della propria vita e di quella degli altri.
È di questo “pensiero originario”
che vogliamo parlare,
nelle pagine che seguono.

Libertà, risveglio, illuminazione, felicità.
Sono i nomi che esprimono la percezione
della natura più profonda dei fenomeni,
la Buddità.
Una condizione assolutamente libera,
che Nichiren chiama
«l’entità di vita per agire come si desidera».
Una vita che «in ogni istante permea l’universo»,
influente, efficace, libera di cambiare il mondo.

La vita del Budda di assoluta libertà

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Percorsi di libertà

Percorsi di libertà

Il concetto di libertà nella tradizione buddista

di Lodovico Prola

Nel Buddismo antico – che si rifà alle prime fasi della predicazione del Budda – la libertà è un processo di negazione: la salvezza e la liberazione si ottengono spegnendo le fiamme della passione, dell’illusione, del desiderio di vita individuale.Il Sutra del Loto, che contiene la rivelazione dell’Illuminazione del Budda, insegna che non occorre eliminare qualcosa per raggiungere la libertà: questa è una caratteristica intrinseca del mondo di Buddità e pertanto connaturata alla vita 

Chi si avvicina per la prima volta allo studio del Buddismo andrebbe probabilmente messo in guardia: il corpo degli scritti che compongono la letteratura buddista è più vasto di quanto si possa ragionevolmente immaginare. La tradizione parla addirittura di ottantamila sutra, gli insegnamenti fatti risalire a Shakyamuni. Per non parlare poi degli scritti e dei commentari successivi. Se ci si rivolge alle parole del Budda con la speranza di avere risposte univoche si rimarrà presto delusi. La ragione di questa mancanza di omogeneità va fatta risalire non solo alle elaborazioni delle scuole e degli studiosi che si succedettero per oltre duemila anni dopo la morte di Shakyamuni, ma al fondatore stesso. Il Budda infatti per larga parte della sua vita, nel corso delle sue predicazioni itineranti, impartì insegnamenti anche piuttosto differenti, in base alla capacità degli ascoltatori. La tradizione vuole che solo negli ultimi otto anni della sua vita Shakyamuni insegnasse il Sutra del Loto rivelando direttamente la sua Illuminazione.
Anche il tema della libertà non sfugge a questa dinamica: è infatti possibile trovare nella tradizione buddista diverse elaborazioni di tale concetto.
Proviamo comunque a seguire alcune tappe dell’evoluzione di questo tema.
Per quanto riguarda la tradizione più antica, a dire il vero, sarebbe forse più corretto parlare di liberazione piuttosto che di libertà.
Ma procediamo con ordine.
Ottenuta l’Illuminazione, il Budda Shakyamuni iniziò la sua predicazione rivolgendosi ai suoi cinque compagni di mortificazioni. Dapprima essi si allontanarono scandalizzati, ma in seguito divennero i suoi primi discepoli e raggiunsero a loro volta l’Illuminazione. Questo primo famoso insegnamento è chiamato “Sermone di Benares” o Discorso sulla messa in moto della ruota della Legge. In questo sermone il Budda espone le cosiddette quattro nobili verità: tutto ciò che esiste è dolore, miseria e transitorietà. L’origine di questa condizione miserevole è il desiderio e l’ignoranza. Esiste una via per la salvezza. La via che conduce a tale liberazione è “l’ottuplice sentiero”.
Il Buddismo si pone quindi, sin dalle sue origini, come un processo di liberazione che culmina con l’entrata nel nirvana. Il significato letterale di questa parola è “estinzione” o “spegnimento”, come per un fuoco. «L’intero mondo è in fiamme – dice Shakyamuni – Da quale fuoco è acceso? Dal fuoco della passione (raga), del risentimento (dosa), dell’illusione (moha); è infiammato dal fuoco della nascita, della vecchiaia, della morte, della pena, della deplorazione, del dispiacere, dell’afflizione e della disperazione» (citato in A. K. Coomaraswamy, Buddha e la dottrina del Buddhismo, Luni Milano 1994, p. 118). Il processo del continuo divenire di tutte le cose, l’infinito ciclo di rinascite imprigiona il comune mortale conducendolo da un fuoco a un altro. La salvezza e la liberazione, definite in pali con il termine vimutti, si ottengono spegnendo le fiamme della passione, dell’illusione, del desiderio di vita individuale. L’arahat è quel santo che ha ottenuto questa liberazione. Il nirvana è la cessazione del divenire, la libertà è l’affrancamento dall’individualità, di colui che l’ha ottenuta possiamo dire che «niente di lui è restato in lui». Talvolta gli studiosi distinguono anche tra nirvana e parinirvana cioè “l’estinzione finale e completa”, che coincide con la morte fisica. Entrato nel parinirvana il santo non rinascerà più.
Interessante è l’analisi del processo mediante il quale si ottiene questo tipo di liberazione. Nei Nikaya, i testi fondamentali del Buddismo antico, si fa riferimento a due tipi di libertà: la ceto-vimutti o “libertà di mente” e la panna-vimutti o “libertà in virtù della comprensione”. L’Anguttara Nikaya spiega il modo in cui si ottengono queste due realizzazioni (vedi schema a p. 18). Il primo tipo di libertà corrisponde alla libertà dal desiderio, che si ottiene praticando la calma, cioè il samadhi. La seconda è la libertà dall’ignoranza, che si ottiene attraverso il vipassana, cioè l’osservazione introspettiva dell’impermanenza, del dolore, delle passioni, ecc. «Come diviene un uomo ben liberato dalla comprensione? Costui comprende: desiderio, odio e illusione sono allontanati da me, recisi alla radice, divengono come un ceppo di albero di palma, annullati, incapaci di essere nuovamente nel futuro» (Digha Nikaya, III, 270).
Lo sviluppo che il Buddismo ebbe con Nagarjuna (circa 150 d.C.), fondatore della filosofia Madyamika (“la via di mezzo“ da cui poi ebbero origine le scuole tibetane e cino-giapponesi), non produsse al concetto di libertà significative inversioni di rotta: le cause-radice della sofferenza sono il desiderio, la passione e l’attaccamento. La libertà è il raggiungimento dello stato di assenza di passioni. È essenzialmente un processo negativo e non l’acquisizione di determinate virtù o valori. Arya Deva, il maggiore discepolo di Nagarjuna, definisce questo processo spirituale «eliminare tutto». La libertà è un processo di negazione, di annullamento.
Espellere, desistere, eliminare, estinguere, abbandonare, sradicare, rinunciare sono le caratteristiche di questo cammino spirituale.
È nel Sutra del Loto che troviamo un vero cambiamento di prospettiva. Il processo verso la libertà cambia di segno e diviene un processo positivo: i desideri terreni, le passioni, le illusioni non vanno eliminate. Debbono però essere trasformate per raggiungere la libertà. Tutto, anche ciò che prima era considerato negativo e pertanto da eliminare, può essere il giusto combustibile per manifestare la Buddità. Se prima occorreva liberarsi dalla sofferenza, dalle illusioni e dai desideri, ora è proprio grazie a questi che si può divenire liberi. Nel Sutra del Loto è espresso chiaramente che “i desideri terreni sono Illuminazione” (in giapponese bonno soku bodai) e “le sofferenze di nascita e morte sono nirvana” (shoji soku nehan). Tramite la fede è possibile “trasformare il veleno in medicina”. Infatti nel sutra Kan fugen bosatsu gyoho, che fa da epilogo al Sutra del Loto, è scritto: «Anche senza estinguere i loro desideri terreni o negare i cinque desideri, essi possono purificare tutti i loro sensi e liberarsi di tutti i loro peccati».
Nichiren Daishonin spiega questo principio di trasformazione affermando che «la parola soku è Nam-myoho-renge-kyo» (Ongi kuden).
E se nel Buddismo antico il processo di liberazione è un cammino essenzialmente individuale e isolato, nella tradizione mahayana l’ottenimento della libertà assoluta presuppone, accanto alla meditazione, la cosiddetta “pratica per gli altri”, l’impegno cioè a insegnare al prossimo la via per l’Illuminazione e a sostenerlo in questo difficile cammino.
Ma c’è anche un altro aspetto che differenzia il concetto di libertà contenuto nel Sutra del Loto da quello esposto nel Buddismo antico. La libertà è una caratteristica intrinseca del mondo di Buddità e pertanto connaturata alla vita. Non si tratta di rinunciare o eliminare qualcosa per raggiungere una condizione che prima non si aveva. Tramite la pratica buddista si rende manifesta quella forza e quella saggezza per non avere più paura di nulla, per sentirsi liberi dalle catene del destino, per utilizzare qualsiasi esperienza come occasione di crescita. Scrive Daisaku Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto: «La nostra vita in origine è libera da ogni impurità e vasta come l’universo. La rivoluzione umana consiste nel comprenderlo e svilupparlo» (Esperia, vol. 3, p. 5).
Alla nostra natura più profonda è connessa inscindibilmente la libertà. È un potenziale che tutti gli esseri possiedono e hanno più o meno sopito. Dentro ogni essere umano esiste una forza travolgente che eliminando i confini dell’ego si fonde con la forza dell’universo e ci rende assolutamente liberi ma completamente impegnati nel mondo.
Non occorre un lungo cammino di discipline e privazioni. Esiste una chiave per aprire istantaneamente il forziere della libertà assoluta. Scrive Nichiren ne L’entità della Legge mistica: «Queste persone che, scartando onestamente gli espedienti, hanno fede unicamente nel Sutra del Loto e recitano Nam-myoho-renge-kyo, trasformeranno i tre sentieri dei desideri terreni, del karma e della sofferenza nelle tre virtù del corpo del Dharma, della saggezza e dell’emancipazione. La triplice contemplazione e le tre verità si manifesteranno immediatamente alla loro mente e il luogo in cui vivono diventerà la terra della Luce eternamente tranquilla» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 9, p. 10).

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Connaturata alla vita

Percorsi di libertà

L’esperienza di Josei Toda in carcere

Pubblichiamo un brano liberamente tratto dal romanzo La rivoluzione umana di Daisaku Ikeda dove si racconta della profonda esperienza mistica vissuta in carcere dal secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda, imprigionato nel 1943 perché si era opposto al regime militarista giapponese

Proprio lì, in quell’angusta cella oppressa da pesanti sbarre di ferro, che limitavano l’orizzonte e costringevano lo sguardo a un raggio di pochi metri. Dove tutto era sempre già visto e rivisto. Tutto. Scrittoio e bagno erano la stessa cosa: un ripiano che copriva il lavandino microscopico e, sotto, il sedile che nascondeva il gabinetto.
Ogni giorno Toda leggeva il Sutra del Loto, studiava gli scritti di Nichiren Daishonin e recitava Daimoku. Voleva capire. Sentire nella propria vita il significato di quei testi sacri. Provarne l’effetto.
La sua intelligenza non gli permetteva di accontentarsi di una comprensione superficiale. Leggeva e rifletteva, rileggeva e recitava finché non si sentiva soddisfatto, finché davvero non provava dentro di sé uno stato d’animo che non lasciasse spazio all’incertezza. Una gioia senza limiti che risolvesse ogni dubbio, ogni costrizione mentale. Un’esperienza mistica.
Era quello che aveva provato per la prima volta in quella cella quando era riuscito a sciogliere l’oscurità di quel brano del sutra che descrive l’entità del Budda attraverso le trentaquattro negazioni.
«Fu all’improvviso. La parola “vita” attraversò la sua mente in un lampo. Proprio in quel momento egli sentì di aver trovato la spiegazione autentica dei dodici versi del Sutra Muryogi.
“Il termine entità non può riferirsi altro che alla vita! Se capiamo questo fatto, niente è più velato dal mistero. Adesso capisco: il Budda sta parlando della vita”.
Si alzò in piedi. Non si accorse del freddo e non riusciva a rendersi conto di che ora fosse. Cominciò a respirare con un po’ di affanno, sentendosi pervaso da una gioia infinita, e camminò avanti e indietro senza sosta.
La cella era microscopica. La percorse in su e in giù, completamente immerso nelle sue riflessioni. Aveva i pugni serrati e la schiena dritta.
“Il Budda è la vita, ma anche un’espressione della vita. Non esiste al di fuori di noi, ma proprio nella nostra vita. No, esiste anche al di fuori di noi. È la vita stessa dell’universo. Ogni individuo possiede in sé la natura di Budda e noi possiamo farla emergere recitando Daimoku davanti al Gohonzon”.
Voleva urlare a gran voce, far sapere a tutti ciò che finalmente aveva compreso. Ebbe la sensazione che la sua piccola cella si aprisse verso lo spazio infinito» (D. Ikeda, La rivoluzione umana, Esperia, vol. 4, p. 9).
Quel momento di gioia ed eccitazione rappresentò per Toda una scoperta. Mai aveva provato qualcosa di simile. Chiuso in quella piccola cella provava una sensazione di libertà. Come se gli si fosse aperto davanti un nuovo orizzonte.
Proseguendo nella sua ricerca chiariva e sperimentava tutte quelle frasi che gli erano sempre sembrate vaghe e astratte. Cercava ancora il significato essenziale del Sutra nel suo complesso. Sapeva che era quello il sutra fondamentale tra tutti quelli che Shakyamuni aveva esposto, ma gli mancava qualcosa che lo dimostrasse in modo assoluto. Una consapevolezza più profonda che trasformasse questo sapere ancora teorico.
Gli capitava di parlare ad alta voce nella solitudine della prigionia. Dimagrito in modo impressionante, con gli abiti che gli pendevano addosso come su una gruccia, si soffermava soprattutto sulla descrizione della cerimonia nell’aria: «Innumerevoli bodhisattva emersero dalla terra in risposta alla predicazione di Shakyamuni. Ognuno di essi era alla guida di una moltitudine di persone, pari ai granelli di sabbia di sessantamila fiumi Gange. Altri grandi bodhisattva guidavano schiere minori, composte da un numero pari ai granelli di cinquantamila, quarantamila, trentamila, ventimila o diecimila fiumi Gange» (ibidem, p. 12).
Fu così che dalla fantastica descrizione del sutra Toda si ritrovò proiettato in mezzo a una folla di persone partecipi di un evento straordinario. Non si trattava di un sogno o di una visione. Si trovava in quel luogo e con quelle persone, stava provando la precisa sensazione di aver preso parte a quella cerimonia.
Quando fu passata, era ancora conscio di questa esperienza. Inspiegabile, sconcertante ma vera. Assolutamente vera.
«Io stesso devo aver fatto parte di quella schiera innumerevole, pari ai granelli di sabbia di sessantamila fiumi Gange guidata da Nichiren Daishonin; una cerimonia solenne e radiosa, avvenuta in un’epoca senza inizio né fine. Io stesso appartengo alla schiera dei Bodhisattva della terra!» (ibidem, p. 13).
Dopo, riprendendo a leggere il Sutra sentiva una grande familiarità con gli ideogrammi, come se stesse leggendo un suo quaderno di appunti. Tutto chiaro ormai, quasi ovvio. Era stupefatto.
Questo è l’inizio della storia della Soka Gakkai e del suo grande sviluppo: un solo uomo che decise di propagare il Buddismo di Nichiren Daishonin basato sul Sutra del Loto, affinché tutti potessero raggiungere il suo stesso stato di felicità assoluta. E che riuscì a rendere la sua prigionia un’esperienza che arrivò a incidersi nella vita di molte persone negli anni a venire.

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Uno spazio infinito

Percorsi di libertà

Dipendenza, indipendenza, interdipendenza

di Maria Lucia De Luca

Scoprire che la vita è relazione è la chiave della libertà. Consente di dare forza ai nostri pensieri,alle nostre parole, alle nostre azioni. E ce ne fa responsabili. Quello che conta, allora, è quanto siamo pronti a lottare, a sfidare anche le più avverse circostanze, per mantenere saldo il senso della libertà, per sé e per gli altri. Questa profonda motivazione interiore è il presupposto di ogni libertà concreta

«Si capisce che si stava tutti lì – fece il vecchio Qfwfq – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho detto “pigiati come acciughe” tanto per usare un’immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. […]
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: “Se avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!”. E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte di olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nk:SUB:0:SUB-: pronunciava quelle parole: “…le tagliatelle, ve’, ragazzi!” il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggera di distanze d’anni luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora Ph(i)Nk:SUB:0:SUB-:, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace di uno slancio generoso, il primo, “Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!”, un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nk:SUB:0:SUB-: sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate…».
(Italo Calvino, Le cosmicomiche, Garzanti 1984, pp. 157-161)

Libertà è aprire. Myo significa aprire. «La vita è libertà senza restrizioni – scrive Daisaku Ikeda – È un’entità aperta in costante comunicazione col mondo esterno attraverso uno scambio continuo di sostanza, energia, informazioni, eppure mantiene la sua autonomia. È caratterizzata da questa apertura all’universo e da una libertà armoniosa».1
Libertà è andare da dentro a fuori. È camminare, conoscere, viaggiare. Ricorda Ulisse che varca le colonne d’Ercole con la curiosità e il coraggio di scoprire, di uscire dal buio dell’ignoranza, dalla paura dell’ignoto.
Ricorda il bruco che diventa farfalla.
Ricorda me, che decido di uscire dal tunnel per andare verso la luce.
Ricorda tutti i libri che ho letto: raccontano storie di altri, fanno riflessioni diverse dalle mie. Ricorda tutte le persone che ho incontrato, che sono entrate nella mia vita.
Mi arricchisco, cresco, maturo.
«Ho bisogno di un tu per divenire – diceva Martin Buber, fondatore della filosofia del dialogo – diventando io dico tu».
Libertà è uscire dal guscio, incontrare, confrontarsi.
Per definizione libertà è il contrario di dipendenza – nell’antica Roma gli schiavi liberati si chiamavano liberti – mentre è associata al suo opposto, l’indipendenza: poter decidere di se stessi, della propria vita, delle proprie scelte, senza essere costretti o influenzati da altri, da altro.
Ma fino a dove si è veramente liberi? Estremizzare il concetto di indipendenza può portare alla chiusura, all’egoismo, a una dolorosa solitudine. A una nuova prigione, in cui si dipende da convinzioni, principi e credenze che diventano assoluti e monolitici perché mai sottoposti a discussione. Come si dice: un uomo tutto d’un pezzo.
Noi sperimentiamo invece tutti i giorni come sia impossibile vivere senza confronto, avulsi dal nostro ambiente, in una campana di vetro. L’altro, l’altra sono presenti nella nostra vita, che lo vogliamo o no. Lo verifichiamo continuamente, e il più delle volte cerchiamo di difendere la nostra “libertà” da questi “attacchi” esterni con una lotta eterna, sterile, senza possibilità di vittoria. Finché non ce ne facciamo una ragione.
Perché la vita è relazione. Lo dice la scienza, la filosofia, la religione. È il contenuto dell’Illuminazione del Budda. Shakyamuni descrisse il suo risveglio proprio attraverso quest’idea: «Quando il Dharma si manifesta veramente in un praticante che continua diligentemente a meditare, in quel momento tutti i suoi dubbi e illusioni scompaiono, perché egli ha compreso la legge di origine dipendente».2
Scoprire che la vita è relazione e vivere di conseguenza significa essere veramente liberi, liberi dalla prigione dell’ignoranza. E liberi di realizzare la propria vera natura.
Ikeda parla a tale proposito di coscienza cosmica, la consapevolezza che l’universo esiste grazie alla reciproca relazione e interdipendenza fra le cose. Una convinzione che si esprime attraverso l’etica della simbiosi, «l’atteggiamento spirituale che favorisce l’armonia rispetto all’opposizione, l’unità rispetto alla divisione, il “noi” rispetto all’“io”. Attraverso questo sostegno reciproco fiorisce l’intera comunità».3

Capire la vita
Mi pongo alcune domande relative alla libertà dalla paura, soprattutto della morte.
Scrive Ikeda nel Mondo del Gosho: «Shakyamuni afferma di essersi risvegliato alla verità della Legge buddista e di aver ottenuto la condizione di immortalità o assenza di morte. Questo non vuol dire che non morirà mai, ma significa la libertà dalle sofferenze della morte e dalla paura della morte, l’origine di tutte le paure umane»4.
Perché l’Illuminazione, la comprensione profonda del funzionamento della vita, mi fa passare la paura?
Tento una risposta.
Secondo il Buddismo la realtà è sorretta da due tipi di relazione tra i fenomeni: uno spaziale – l’origine dipendente – e uno temporale – l’eternità della vita (nelle due manifestazioni di vita e morte). Un legame che si costruisce quindi su due piani, nello spazio e nel tempo. Una realtà quadridimensionale, come quella della teoria della relatività di Einstein.
Perché la comprensione di questo concetto può alleviare il mio senso di angoscia?
Di certo può allargare la prospettiva, e anche la mia possibilità di intervento, nell’ambiente e nel futuro. Aumentano cioè il mio potere e la mia efficacia. Consideriamo infatti più da vicino questa rete di relazioni – ai cui nodi stanno i fenomeni. Io sono un fenomeno, e guardo la rete dal mio punto di vista. Agisco. E per azione intendo un’intenzione che può manifestarsi a livello di pensieri, parole o fatti. La mia azione è influente, muove la rete (si propaga da un nodo all’altro); gli altri nodi reagiscono in risposta e influiscono su di me; si arriva a un nuovo equilibrio, io agisco ancora e così via. In una sintesi continua di influenze reciproche.
La libertà sta nella possibilità e nella decisione di mantenere quell’intenzione, di compiere quell’azione, che non cade in un liquido vischioso di immobilità ma muove l’universo. Libertà è credere di poter cambiare.
«Se siete passivi, vi sentirete intrappolati e infelici anche nel più libero degli ambienti, ma se avete un atteggiamento attivo e sfidate le circostanze sarete liberi a prescindere da quanto restrittiva la vostra situazione possa di fatto essere».5
Questa condizione interiore è la causa, il presupposto, di qualsiasi libertà concreta.
È la libertà di Nichiren Daishonin, che da un esilio al quale nessuno credeva che sarebbe sopravvissuto scrive a un suo discepolo: «Ci rivedremo presto a Kamakura».
È la libertà interiore di Nelson Mandela, che nella più angusta delle prigioni, in un pieno e apparentemente intramontabile apartheid, mette nome Speranza alla sua nipotina. «Pensava alla nuova epoca in arrivo, a lei e alla sua generazione che avrebbe goduto del sole della libertà, camminando orgogliosa e senza paura per la strada».6
È la libertà di chi lotta a ogni costo perché tutti possano essere liberi. Una scuola elementare siciliana ha scritto e rappresentato, una decina di anni fa, un testo teatrale dedicato ai martiri e agli eroi dell’antimafia. Sulla copertina della pubblicazione è raffigurato un albero, con tanti nomi sui rami e sulle radici: Falcone, Morvillo, Borsellino, Livatino, Dalla Chiesa, La Torre, Chinnici, De Mauro… e molti altri.
E c’è scritto:
«Ecco l’albero, l’albero
dalle radici viventi…
Questo è l’albero
dei liberi...
l’albero del popolo,
di tutti i popoli,
della libertà
della lotta…».7

Per sé e per gli altri
Libertà a costo della vita. Libertà uguale vita.
Come facciamo a percepire questa libertà? La risposta buddista è tutta nel termine Nam, l’intenzione di far emergere la propria Buddità, l’intenzione di dedicarsi, fondersi, manifestare Myoho-renge-kyo con la totalità della propria, singola vita.
Da tale dedizione scaturisce quella forza interiore che ci rende liberi sempre e ovunque, anche in prigione, quella condizione vitale necessaria «per agire come si desidera».8 Il Budda di assoluta libertà, scrive Ikeda, è una persona comune che vive e usa liberamente la gioia senza limiti che deriva dalla Legge,9 attingendo, in ogni circostanza, al suo potere infinito.

Ma come la usa, il Budda, la sua “assoluta libertà”?
Per condividere con gli altri la sua esperienza, il suo stato vitale. Decide di rinascere, di sperimentare nuovamente le sofferenze di nascita e morte, di limitare ancora la libertà acquisita. Sceglie di ricominciare il viaggio affrontando le difficoltà, le paure, la pigrizia, l’egoismo, in un percorso ogni volta diverso, lungo il quale si incontrano, ogni volta, nuovi compagni di strada. Lungo un cammino che si chiama Via del bodhisattva, l’unica strada possibile per percepire ancora quell’assoluta libertà.
«Ciò che dai a un altro – afferma Nichiren – diventerà il tuo stesso nutrimento, se accendi una lanterna a un’altra persona, la sua luce illuminerà anche il tuo cammino».

NOTE
1) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 1, Esperia, Milano 1999, p. 19.
2) D. Ikeda, Il mondo del Gosho, vol. 1, Esperia 2003, p. 191
3) D. Ikeda, A new Humanism, Weatherhill, New York Tokyo 1995, p. 141.
4) D. Ikeda, Il mondo del Gosho, vol. 1, Esperia 2003, p. 181.
5) D. Ikeda, I protagonisti del XXI secolo, vol. 2, Esperia, Milano 2002, p. 4.
6) D. Ikeda, Il Nuovo Rinascimento, n. 289, p. 8.
7) Pablo Neruda, I liberatori, pubblicata integralmente a p. 40.
8) Nichiren Daishonin, Ongi Kuden, citato in DuemilaUno, n. 34, p. 49.
9) D. Ikeda, Gli eterni insegnamenti di Nichiren Daishonin, p. 166.

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Liberi e libere verso...

Percorsi di libertà

La libertà e il mutuo possesso dei dieci mondi

di Marina Marrazzi

Se ogni condizione vitale contiene anche il mondo di Buddità, secondo il principio del mutuo possesso dei dieci mondi, in ogni momento di ogni giornata abbiamo la possibilità di percepire una libertà sconfinata, indipendente dalle condizioni esterne. Di sentire che l’assoluta libertà del Budda è una condizione vitale che incredibilmente ci riguarda da vicino, perché contiene ogni altra possibile esperienza di libertà

Si dice che una delle qualità del Budda sia l’assoluta libertà.
Assoluta.
Una libertà così sembra troppo grande, scomoda, esagerata per essere gustata come una cosa buona. Meglio la libertà relativa, come quella del mio essere qui, a leggere sul divano col sole che mi scalda, senza dovere fare niente per dovere se non gustare i pensieri che affiorano, e che sembrano più intelligenti in questa pace che mi fa collegare le cose.
Mi piace anche la libertà di quando, dopo cena, me ne vado a camminare nel buio, per qualche strada magari poco nota contro il vento dei mesi estivi, e passo dopo passo i confini si fanno meno tesi, fra le cose e fra me e le cose.
Ce ne sono tante di libertà relative che mi piacciono. E ognuno ha le sue preferite.

Torno a pensare alla libertà del Budda.
Assoluta.
Cioè senza condizioni. Senza limiti. Senza fragilità. Dunque diversa da me come mi sento ora, così condizionata, limitata, fragile. Per questo quella del Budda mi appare una libertà sproporzionata, disumana. Irraggiungibile. Impossibile da toccare e da sperimentare. Quasi in opposizione alle piccole, relative, libertà che mi so conquistare – io come ognuno – e che hanno sapore e odore e colore.
Eppure, è proprio la concretissima convergenza – così inconcepibile – tra me-così-come-sono e la assolutezza del Budda che mi ha conquistato nella pratica buddista. Che mi tiene la mattina e la sera di fronte al Gohonzon a recitare Nam-myoho-renge-kyo. Anni dopo anni. A scavare dentro di me, seduta dentro casa mia, per cercare e trovare quello che nel disagio sembra un bene irraggiungibile – serenità, allegria, forza, benessere, amore, empatia, compassione, energia vitale, divertimento, lucidità di pensiero. Stati d’animo svincolati – liberi – da ogni causa contingente.
Questa concretissima convergenza – ma forse sarebbe meglio dire coincidenza – tra me-così-come-sono e la assolutezza del Budda è la grande rivelazione del Sutra del Loto. Dove è scritto che ogni essere umano è Budda nel momento in cui lo riconosce, e che ogni condizione vitale, per quanto dolorosa e intollerabile, contiene esattamente dentro le sue maglie una felicità senza limiti.

La porta del decimo mondo
Da piccola avevo paura dei brutti sogni. Alcuni, ricorrenti, erano orribili, come quello della strega che mi rincorreva per farmi l’iniezione che mi toglieva la voce. Se la strega mi prendeva, e succedeva quasi sempre, io non potevo più strillare, nessun suono usciva più dalla mia bocca per quanto mi sforzassi, ed ero perduta.
Poi un giorno – un giorno meraviglioso e geniale – ho fatto una scoperta. Se lo volevo, quando l’incubo diventava insopportabile, potevo interromperlo immaginando con tutte le mie forze di sprofondare dentro il pavimento. In questo modo mi svegliavo per qualche secondo, e cambiavo sogno.
Mai avrei immaginato che un “trucco” del genere potesse funzionare anche nella vita.

Noi viviamo dentro stanze. I “nove mondi”. Alcune sembrano prigioni. Sono quelle dove si sta male: l’angoscia dell’inferno, l’insoddisfazione dell’avidità, l’impotenza della stupidità. La rabbia e l’odio della collera. Prigioni dove ci troviamo nostro malgrado, e rispetto alle quali non abbiamo nessuna voce in capitolo. Non dipende da noi se ci troviamo combinati così male. E soprattutto, non dipende da noi poterne uscire. Così sembra.
Invece, tra queste nove stanze e il mondo di Buddità esiste una specie di collegamento interno, un legame reciproco, un “mutuo possesso”: ogni condizione vitale, ogni “mondo”, possiede anche quello del Budda. Non serve uscire da noi, o cambiare natura, per liberarci da quella sofferenza. Non serve cambiare fisicamente stanza, partner, lavoro, città.
Senza che niente accada “fuori” si può uscire dalla stanza della paura, dell’angoscia, dell’ansia, della noia, della rabbia, dove sembra non ci sia altro che paura, angoscia, ansia, noia, rabbia, e accedere a uno spazio aperto dove l’orizzonte è largo. Dove si trova la mia – la tua – capacità di essere libera in modo assoluto: dal dolore, dall’impotenza, dalla paura, senza che nessuna condizione esterna sia mutata. Libera di agire con originalità. Di pensare con limpidezza. Di godere semplicemente della vita che c’è.
È proprio così: io-così-come-sono, in qualsiasi momento, posso sentirmi come Nichiren quando ha manifestato la condizione vitale del Budda che esiste dal tempo senza inizio, che dimora in tutte le persone e che ne costituisce l’essenza. «Una condizione vitale di assoluta libertà, luminosa, illimitata, piena di compassione verso tutti gli esseri viventi e di solidarietà per coloro che soffrono […] caratterizzata da un’inesauribile saggezza ed energia spirituale, [che] trabocca d’immensa forza vitale, buona fortuna e benefici. E arde del coraggio di combattere le tendenze negative in se stessi e negli altri, senza temere niente» (D. Ikeda, Il mondo del Gosho, Esperia 2003, p. 29).
Perché per fortuna queste straordinarie qualità, apparentemente disumane, sono anche mie.

Non lontano da qui
La strada che porta da me-così-come-sono, incastrata in una di queste stanze, alla porta sul giardino della pura libertà è una strada difficile. A volte appare strettissima, oppure una salita senza appigli, altre volte ancora si mostra e si cela, e costringe a camminare avanti senza vedere.
Poi, è una strada sempre nuova, che richiede ogni volta tutta la forza, l’apertura, il coraggio di mettersi in gioco senza trucchi: appena si crede di poter prendere una scorciatoia, perché oramai si conosce il cammino, ci si trova impantanati.
Ma è anche una strada facile, perché per saperla percorrere basta cominciare un passo dopo l’altro, con tutta l’onestà e la sincerità, a camminare come meglio possiamo, con fiducia e senza spaventarci. Senza fermarci.

Mi osservo. È uno di quei giorni in cui le pareti del mio inferno, della mia avidità, della mia stupidità, della mia collera sembrano muraglioni senza spiragli.
Comincio a recitare Daimoku a fatica, il dolore aumenta invece di passare. Accetto di non pensare, di non dirmi che sto troppo male questa volta, e che non ce la farò. Accetto di non pensarci. E di recitare Nam-myoho-renge-kyo provando a sentire la mia vita. Sintonizzandomi su quel poco, un filo sottilissimo, di me che forse mi piace ancora e che non mi fa troppo male ascoltare – fosse anche solo per un briciolo di simpatia animale. Di scavare cercando speranza e poi fiducia.
Poco importa “perché” mi sento così. All’inizio era la paura, le crisi di panico, il terrore di impazzire e di disintegrarmi senza più contorni. Poi c’è stato il dolore acuto della fine improvvisa di un amore, poi la paura per la malattia di mia madre. Conosco anche le catene del grigiore quotidiano, quando la vita ti passa e non assomiglia a quella che vorresti: paura di non farcela, di non avere fatto le scelte giuste, di non essere capace.
Catene. Muri. Circuiti chiusi di pensieri.
Dove sta adesso la mia libertà? Ora come ora non trovo alcun benessere nell’idea di mettermi sul divano a leggere un libro o di uscire per fare una passeggiata. Nessuna leggerezza e senso di libertà.
So che devo fare un salto.

Trovare la porta dentro la stanza che apre il giardino della Buddità. Recitare Nam-myoho-renge-kyo e sperimentare l’esistenza della libertà del Budda non lontana da me qui, non disumana, non troppo grande per essere gustata. Sperimentare la sua esistenza dentro questa stanza.
Recitare Nam-myoho-renge-kyo e non fermarmi. Non fermarmi.
Fino a sentire che il perimetro netto della mia prigione sfuma, la tensione si allenta, i confini si aprono.
Fino ad arrivare a percepire la natura dei fenomeni con le stesse facoltà di Shakyamuni e di Nichiren. Per esempio, vedere con chiarezza che il dolore che c’era nella stanza è frutto di una visione limitata, della paura, di un vizio di pensiero, sentire che c’è un altro modo di guardare, che una soluzione la posso trovare, e che la mia vita anzi ha senso proprio perché mi voglio dedicare con tutte le mie forze a sciogliere quel nodo del mio karma che mi fa cieca, sorda, dolorante.

Vedere le cose così mi dà pace, potere, libertà.

In questo preciso momento la libertà assoluta, per quanto mi sembri incredibile, diventa cosa mia.

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Mi riguarda da vicino

Percorsi di libertà

Una compassione spontanea

di Gianna Mazzini

La libertà ha a che fare col superamento della paura. Quella paura che erige muri contro la sofferenza, ci fa guardare gli altri con sospetto, ci fa sentire distanti, separati, isolati. Che ci fa dire quello che non pensiamo, o imporre ad altri di pensare ciò che non pensano. Una paura che nasconde, che cerca di rompere l’invisibile legame che ci lega a tutti, tutte e tutto. Un legame che invece di togliere, aggiunge: saggezza, felicità, forza. E allora ogni atto di consapevolezza di quel legame, ogni atto di compassione, è un atto di libertà

La libertà appoggiata sulla scrivania, qui, accanto al computer e una fetta di pane.
La libertà intorno al collo come una sciarpa di lana. La libertà che si tocca, come un pezzo di carta, una pianta, un grissino. Come una cosa che si vede, che ha una forma, un colore, una sostanza. E non come una cosa liscia, astratta, senza spigoli. Non come qualcosa che sta su una pagina di storia, o nella scena di un film.
L’ho letto, l’ho visto, lo so, che un giorno le donne afgane non hanno più potuto, per ordine vigliacco di qualcuno e ubbidienza colpevole di altri, lavarsi, studiare e vivere come prima. E che un altro giorno, per fame di potere, donne e uomini africani hanno cominciato a essere rapiti dai loro posti e trascinati a forza in una terra nuova, che è diventata la loro con le catene, gli stupri, le botte. Lo so che uomini e donne ebrei, a un certo punto sono stati isolati dalle leggi, circondati dal sospetto, quindi infilati nei treni, stipati stretti, a morire lontani, a mucchi, annullati negli occhi.
L’ho letto, l’ho visto. So o penso di sapere qualcosa della libertà. Penso di saperla riconoscere, la libertà, penso di riuscire ad accorgermi di quando non c’è più. Penso che ci riusciamo tutti ed è per questo che la libertà la troviamo scritta nei libri e raccontata nei film.
Per imparare a riconoscerla, a sentire quando se ne va, anche quando lo fa zitta zitta.
Perché in genere succede così. Che la libertà, quando se ne va, non te ne accorgi.
Succede quando la paura vince sulle relazioni. Si allargano i solchi fra me e gli altri. Non li riconosco più come simili e penso: se è successo, qualcosa, loro, avranno pur fatto per meritarselo. Gli ebrei, le afgane, i neri. Gli zingari, i palestinesi, le ragazze sulla strada. Lo so che non sono liberi, ma io sì. Sciarpa di lana al collo, la mia libertà non diminuisce se manca la loro. Mi dispiace. Ma io ho fatto tanti sforzi per arrivare fin qui e non posso occuparmi del mondo.
Bugia.
La fitta che sento allo stomaco mi dice che è una bugia. E che in realtà io ho paura. Paura di sentire il legame. Come i medici quando si costruiscono una distanza emotiva dai dolori dei pazienti per non soccombere, allora noi ci tiriamo su un bel muro di pensieri, poi facciamo il tetto, le finestre a ogni stanza e la porta. Qui faccio entrare solo chi dico io.
Di cosa avevano paura quelli che consegnavano gli ebrei alla Gestapo? Di cosa avevano paura gli affiliati del Ku Klux Klan? Di che cosa abbiamo paura noi quando incontriamo gli sguardi di chi ha fame?
Per parlare davvero di libertà bisogna prima parlare di paura.
La paura è una strana malattia, una specie di bacillo che si mangia i pensieri.
Non sono libera quando i miei gesti sono nelle mani di qualcuno o di qualcosa che mi prescinde. Non sono libera se non sono io a decidere di me e della mia vita. Posso anche non avere alcun vincolo che mi costringe eppure sentirmi incatenata e ferma. Posso annegare negli agi e nelle possibilità eppure sentire la prigione. Posso persino organizzare la mia paura e farla diventare una squadra, un esercito, uno stato. Posso coinvolgere mille altri nella mia gabbia e illudermi che sia bene così. La paura diventa allora la base gracile di molte colonne. Diventa un tacito accordo: dato che ho paura di te ti combatto. Dato che ti temo progetto di annientarti. O di tenerti sotto controllo. Limito le tue libertà. Uso i tuoi talenti, ti succhio l’energia, le risorse, le capacità, perché funziona così. E non ho più paura.
Sono dentro un gioco malefico ma non ho più paura. Ho io il “banco”.

Quando i termini della questione diventano questi, così crudi e concreti, le parole appaiono improvvisamente leggere, anche quelle belle come “libertà”.
Bisogna allora farle scendere a terra, vedere come ci stanno accanto. Restituire loro forza e concretezza, ridargli senso. Riscrivercele dentro il cuore.
Riparto da un’idea di libertà piccola, la libertà quotidiana. Mi serve di imparare a riconoscere e difendere quella. Certo è un lusso da persone fortunate: che sanno cosa mangeranno la sera, che vivono in case con la luce e l’acqua e i mobili e anche i quadri.
Sento la mia libertà in pericolo quando non mi sento vista. Quando parlo con qualcuno che ha già in mente un’idea, un principio, un giudizio già formato. Quando chi mi sta di fronte non tiene in conto che siamo diversi, diverse le vite, le esperienze, forse anche il sentire. E invece generalizza e mi infila in una categoria, un gruppo, una tribù. Sento la mia libertà in pericolo quando, per paura di perdere qualcosa, compiaccio, condivido, dico di sì e invece non è vero. Quando faccio finta di pensare una cosa che non penso. Quando rimango in una situazione che so che non porta valore. Come se avessi alle caviglie catene invisibili a trattenermi lì, nella paura. In questa specie di pozza scura che annienta la mia capacità di correre. Spostarmi. Andare via di là.
La libertà ha a che fare col superamento della paura.
Ho paura quando penso il mondo freddo, crudo, un posto dove ognuno vive separato dal resto, vive in battaglia, elmetto sulla testa e via, in trincea. Quando accade così, cioè quando mi percepisco sola, divisa, separata dal mondo, gli altri sono una minaccia, diventano avversari. Concorrenti. Qualcuno con cui spartire una torta. E io la voglio tutta per me. Soprattutto se ho fame.
Ma il Buddismo dice un’altra cosa, dice che non esiste nulla di chiuso in sé, di isolato e separato dal resto. Che c’è tutto l’universo dentro di noi se solo ci disponiamo a sentirlo. Dice che la solitudine è un’illusione, che in realtà noi siamo tutti legati come da fili invisibili, come se avessimo una “folla nel cuore” (per citare il titolo di un bellissimo libro di Luisa Muraro). Nel Buddismo non si parla di “persone” e “cose”, ma di “relazioni fra le persone e le cose”. Al Buddismo interessano i legami, i nessi, i fili che legano noi, noi e gli altri, noi e le cose d’intorno. Io non sono un blocco granitico distinto. Anch’io sono il risultato dell’unione di cinque pezzi: io nasco perché il corpo (la forma, il primo aggregato) si unisce e contiene la capacità di provare sensazioni (la percezione o secondo aggregato), la capacità di fare pensieri (la concezione o terzo aggregato), la capacità di agire (la volizione o quarto aggregato) e la coscienza (o quinto aggregato). Dentro di me, continuamente, si incontrano e si scontrano questi cinque pezzi. E io sono il risultato della relazione fra il mio corpo, le mie sensazioni, i miei pensieri, le mie azioni e la mia coscienza. Sto bene quando questi pezzi vanno d’accordo, soffro quando litigano: se il mio corpo desidera una cosa e i miei pensieri un’altra. O se con la mente decido una cosa ma non sono capace di agire in quella direzione. Miliardi di fili invisibili eppure concreti mi legano agli altri e al cielo, alla terra e alle stelle. E la vita sta proprio qui: in questo incrocio magico di tessuti.
È che non riconoscendo i legami diventiamo davvero soli e sole. Coi fili penzuli e la guerra in corpo. E invece non ci sono nemici, se non la mia testa illusa di essere isolata e distinta. Perché all’altro capo dei miliardi di fili che mi legano al mondo ci sono sempre io. Quando prego lo so, lo sento che è così. E allora provo a uscire dalla spirale della paura che annienta la mia libertà (quella piccola come quella grande) avendo nel mio orizzonte qualcun altro. Il mio nemico, il mio vicino, mia sorella, la mia sposa, mio marito, mia figlia, il mio cane, le altre parti di me. Chiunque mi faccia uscire dall’illusione dell’io solo, separato dagli altri e in lotta continua per guadagnarsi un centimetro di vita. Non c’è autentica felicità se chi mi sta intorno è infelice. Se sono capace di non sentire il suo dolore è solo perché mi illudo di aver staccato il filo che ci lega. E ignoro che questo gesto ha un costo altissimo. Nell’illusione di proteggermi dai dolori mi invento un’idea di mondo ghiaccia. Parziale.
Il Buddismo dice che occuparsi degli altri è una forma di consapevolezza della realtà complessa della vita, del costante aggiustarsi di parti fra di loro in relazione. Dice che la compassione è qualcosa che si dovrebbe esprimere in maniera spontanea e naturale nelle proprie azioni e nelle funzioni del nostro cuore. Parlare, tendere una mano, esporre la Legge sono tutti atti di compassione. Atti di consapevolezza del legame.
Mi viene in mente una cosa: che quando si parla del Budda si usano sempre espressioni che implicano un’assenza totale di limitazioni. Il Budda ha una saggezza inesauribile, ha una compassione infinita, ha una forza vitale inarrestabile. E questo perché la sua saggezza è la somma di tutte le saggezze del mondo, la sua forza è la somma di tutte le forze del mondo e così la sua felicità. Come se sotto la terra, coi nostri piedi, comunicassimo con tutto il resto, con quella gioia infinita che tiene insieme l’universo.
Per dirla con Emily Dickinson: «La folla dentro il cuore /nessuna polizia potrà disperdere».
Questa sì che è libertà.

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La folla dentro il cuore

Percorsi di libertà

In prima persona: Maunela Costa e Carlo Di Giusto

a cura di Roberto Carvelli

Maunela Costa
Dai paradisi artificiali dell’eroina, cercati per sfuggire alla prigione del quotidiano, all’autentica libertà interiore, sperimentata in carcere grazie alla pratica buddista

Manuela Costa ha quarantatré anni e una voce morbida, piana, serena. Vive a Cagliari. Dall’altra parte della cornetta rumori di casa: la figlia di nove anni che gira intorno, il marito che esce, l’organizzazione della famiglia dopo una giornata da ragioniera contabile, «un lavoro che non avrei immaginato di poter fare» dice. Non sembra casa sua o non lo penseresti, almeno a rivivere i giorni della droga dai diciassette anni, un viavai dall’India e buchi sulle braccia durati almeno quattordici anni. Poi il Buddismo. Scrive Manuela: «Era stato come rinascere. Sì, era stato proprio come rinascere. L’incontro col Buddismo del Daishonin aveva avuto per la mia vita quell’esatto significato. Dal buio che mi avvolgeva completamente aveva a poco a poco iniziato a farsi strada una debole scintilla di luce che si era trasformata poi in un meraviglioso sole che illuminava, scaldava e dava vita a tutto ciò che mi circondava. Ero agli arresti domiciliari, quando iniziai a praticare, e avevo ventisette anni».
Fino ad allora una libertà fraintesa: «Tutto in nome della libertà. In suo nome ci siamo ammazzati. Un percorso disseminato di croci, il nostro. Sai, era come avere dei valori alternativi, giusti ma fraintesi, bellissimi solo nella testa. Se uno mi avesse fermato e mi avesse chiesto non avrei saputo spiegarli. Alla fine c’era molto conformismo, lo stesso e più di quello che rifiutavo perché in definitiva era come essersi creati delle regole e non accettare altro, e tutte le parole a cui cercavamo di dare un senso divennero una sola: eroina».
Scrive Manuela: «Per me la fine fu il carcere, o meglio fu il punto di arrivo per una nuova partenza. Venni arrestata per traffico di sostanze stupefacenti e condannata a otto anni di reclusione. Avevo perso l’uomo che amavo, morto in un incidente stradale dopo dodici anni di vita insieme, avevo perso la mia libertà e soprattutto avevo perso la mia identità. Sola, disorientata e molto, molto infelice inizio a praticare. I miei genitori erano riusciti a farmi avere gli arresti domiciliari, e di quelle lunghe giornate passate a casa molte erano le ore che passavo a recitare le preghiere e a leggere sul Buddismo, e più leggevo e più recitavo più trovavo una risposta a tante delle domande che da giovane avevo inseguito. Decisi così di riprendere gli studi e mi diplomai dando quattro anni in uno. Proprio in occasione dell’esame di maturità ottenni la libertà provvisoria. Superai l’esame diplomandomi, lavorai durante il periodo estivo e infine decisi di iscrivermi all’università, tirando fuori un grande sogno tenuto nel cassetto per tanto tempo. L’energia che mi muoveva era quella di una diciottenne, e in fondo sentivo proprio che era come se la mia vita fosse ripresa lì dove l’avevo costretta a fermarsi, a diciotto anni».
Ma a questo punto, la Manuela che ha ritrovato faticosamente senso alla sua storia, che ha litigato con la falsa libertà dell’eroina e scoperto una libertà dell’Io riceve all’improvviso un foglio. «Mi chiedevano di tornare in carcere. Avevo passato tutti gli iter burocratici, la mia condanna era divenuta definitiva e il Tribunale di sorveglianza da cui dipendevo aveva deciso di sottopormi a un periodo di osservazione comportamentale da effettuarsi in detenzione. Il mio fascicolo era vuoto, non risultava nulla della nuova Manuela, quella degli ultimi due anni, non lo studio, nulla. Ora che avevo ritrovato una libertà più vera dovevo ribussare al carcere di Buoncammino. Piangendo disperatamente per due giorni e mezzo, pensando di scappare e recitando Nam-myoho-renge-kyo: fu così che iniziò uno dei periodi più belli della mia vita. Quei quattro mesi di detenzione furono un meraviglioso viaggio dentro me stessa. Ciò che avevo intorno era un mondo fatto di dolore e disperazione, le mie compagne erano piene di sofferenza, di rabbia, di solitudine e non conoscevano nessun mezzo in grado di alleviarle. Non mi ero mai sentita così sola nella mia vita. Ma a differenza della prima volta in cui mi trovai in carcere, avevo con me la pratica buddista. Quando il primo giorno che trascorsi in carcere il portellone della cella in cui ero stata messa venne chiuso alla sera come d’abitudine, togliendo quel poco di illusione di aria e di spazio, quando le luci furono spente e tutte le altre ragazze dormivano, io ero lì, seduta sul letto a chiedermi che cosa fosse la libertà. Continuai a domandarmelo in quei mesi mentre aiutavo le mie compagne a scrivere le lettere, me lo chiedevo quando parlavamo e gli spiegavo del Buddismo insegnando ad alcune di loro a leggere Gongyo, mentre la mattina prestissimo al buio mi alzavo e mi chiudevo nel bagno per riuscire a recitare le mie tre ore giornaliere di Daimoku, quando stupefatta vedevo l’armonia trasformare l’ambiente e le persone intorno a me, non c’era un momento della mia giornata in cui quella domanda non fosse da qualche parte dentro il mio cervello: cos’è la libertà? Quella libertà per cui avevo fatto così tanti errori, quella libertà per cui tanti dei miei amici adesso non c’erano più?». Inizia a farsi spazio l’idea di un cerchio da chiudere e insieme la sicurezza che Nam-myo-ho-renge-kyo e il carcere potessero essere il mezzo per compiere questo viaggio. «Mi alzavo – racconta Manuela – alle 5,30 per praticare, credo che se non lo avessi fatto sarebbe stato devastante. Le guardiane mi guardavano sospettose. Ero molto cambiata, per quanto loro mi conoscessero poco dal mio precedente ingresso. Erano perplesse, non ci credevano al mio cambiamento, all’inizio. Poi, mi hanno iniziato a dare fiducia affidandomi la pulizia delle camerate che è un premio davvero perché hai libertà di movimento nel carcere. Il tempo diventava relativo anche se avevo voglia di uscire, è chiaro». Poi la svolta. Un giorno preciso.
«Capitò la notte di Capodanno. Avevamo festeggiato la serata con una ricca cena preparata da noi, ci furono balli, canti e tante risate e alla fine le mie compagne si addormentarono ubriache e felici prima della mezzanotte. Quando arrivò l’ora feci un brindisi solitario all’anno nuovo, guardai fuori dalla finestra della cella le luci dei fuochi d’artificio che scoppiavano nel cielo di una bellezza unica, e preso il libretto feci un Gongyo di mezzanotte che non dimenticherò finché sarò viva. Dentro di me una felicità che nessuna parola al mondo potrà mai esprimere. Ecco cos’era la libertà, finalmente avevo trovato la risposta. Non ci sono mura, né celle né sbarre né chiavi che possono imprigionare una persona libera. La libertà non è una condizione fisica, essere liberi significa essere se stessi dovunque ti trovi, credere in qualcosa e portarlo avanti anche se tutti intorno a te ti deridono, non seguire le mode o i credo altrui. Essere liberi è una condizione interiore ed è qualcosa di cui un altro non ti potrà mai privare, neppure il tuo carceriere. Potevano imprigionare il mio corpo, ma il mio spirito continuava a essere libero, e quella notte io e l’universo eravamo la stessa cosa, non esisteva più nessuna differenza. Era una sensazione di grande leggerezza e di gioia. Trovare una cosa dopo tanto che la cercavi e rimanere stupita perché era lì, era sempre stata lì e tu non la vedevi. È stata una magia, una scoperta, come usare qualcosa che non conosci, non sai, ma qualcosa di semplice. “Quelli che credono nel Sutra del Loto sono come l’inverno, che si trasforma sempre in primavera” recita il Gosho L’inverno si trasforma sempre in primavera. La mia primavera era arrivata».
Ora Manuela. quarantatre anni, una bambina di nove e un marito. Completa, serena: «Sai, ogni tanto mi devo riaggrappare al ricordo di quella notte dell’ultimo dell’anno del 1989 in cella. È facile perdersi. Sei preso da tante cose non sostanziali. Bisogna avere qualcosa di solido. La fede. Non credo ci sia altro nella vita».

Carlo Di Giusto
Le sfide sportive di una squadra di basket in carrozzina, la libertà di non sentirsi condizionati, di potersi muovere, di esprimere le proprie potenzialità

La Santa Lucia Sport è la squadra italiana più titolata del basket in carrozzina avendo vinto quattordici campionati italiani, tre coppe Italia, la Coppa internazionale André Vergauwen (torneo europeo riservato alle squadre che nei tornei nazionali si sono classificate dal secondo al quarto posto), la Coppa dei Campioni EuroCup.
Prende il nome da un ospedale di Roma all’avanguardia nella riabilitazione motoria dove si allena e gioca. Nell’anno appena trascorso un palmares di tutto rispetto (coppa dei campioni e coppa Italia) a cui è mancato il campionato italiano perso in finale con il Sassari per il grande slam.
L’allenatore (che è anche alla guida della Nazionale italiana) si chiama Carlo Di Giusto, ha quarantotto anni e della squadra fino a qualche tempo fa era anche giocatore, nel ruolo di pivot. «Ho iniziato nel 1980 – racconta – un amico mi invitò a vedere un allenamento. Era da ridere vedere tutta quella gente che correva in carrozzina dietro al pallone. Io ho la polio all’arto destro, quindi deambulo e a me dava anche un po’ fastidio quell’esibizione della disabilità, fino a che in un’azione due si sono ribaltati – erano tempi in cui ancora non esistevano le carrozzine più “tecniche” che ci sono ora – e uno ha detto all’altro “ti spezzo le gambe”… quell’agonismo mi ha fatto capire che c’era qualcosa di grosso intorno a quel modo di fare sport».
La pallacanestro in carrozzina rappresenta la massima espressione del recupero fisico di un portatore di handicap perché consente al giocatore di esprimersi in azioni spettacolari di gioco veloci e fantasiose, identiche a quelle che si possono ammirare nella pallacanestro giocata da normodotati. La possono praticare tutti i disabili da traumi (paraplegici e amputati), da virus (poliomielitici), da cause congenite (particolari malformazioni della spina dorsale). A chi è capitato di seguire una partita anche solo in televisione non può passare inosservata l’abilità, la percentuale di realizzazione nei tiri. Tecniche, dimensioni del campo, altezza dei canestri e quasi tutte le regole sono uguali alla pallacanestro in piedi, cambia solo la dotazione della carrozzina in luogo dei piedi. E la grossa difficoltà da superare è infatti rappresentata dal mezzo meccanico che deve diventare uno strumento vantaggioso e non solo un peso da far traslocare per il campo. La preparazione specifica consiste nell’insegnare al giocatore come dominare il mezzo e come servirsene in modo da creare tutte quelle situazioni utili (blocchi e veli) che gli permetteranno di realizzare un canestro. «In realtà – racconta Di Giusto – la disabilità non è mai un tema di conversazione. Nel senso che magari si parla più delle conseguenze che dello stato. Magari può succedere che uno ti chieda di essere incoraggiato per altri problemi. Un problema sentimentale o di lavoro, quasi mai questioni fisiche. Piuttosto in modo indiretto, come ad esempio l’impotenza che per i disabili di sesso maschile è una difficoltà ricorrente». Da un punto di vista squisitamente tecnico l’obiettivo a cui mira ogni allenatore è l’acquisizione da parte dei giocatori di tutti gli automatismi atti a realizzare la massima confidenza con la sedia a rotelle allo scopo di velocizzare al massimo tutte le azioni di gioco. «In tutta sincerità – aggiunge l’allenatore – direi che il tema dominante è in realtà la possibilità, l’opportunità di poter esprimere la propria libertà come sportivo. È la libertà di non sentirsi condizionati, potersi muovere e fare qualcosa che prima sembrava improponibile, esprimere le proprie potenzialità. Ma non è solo e tanto un fatto singolo. Nel basket non si arriva a raggiungere certi risultati se non come gruppo e come persona insieme».
Ma alla fine, anche se basterebbe vedere la grande dimestichezza con il campo, i cambi di fronte repentini e le fughe palla alla mano, i tiri da fuori, rimane altro. «L’amicizia, il senso di gruppo. Il fatto che ci si vede non solo per allenarsi, magari per andare a mangiare la pizza insieme. E poi rimane il fatto che abbiamo contribuito a sdoganare la disabilità. Ora muoviamo denaro. Ci vengono a vedere anche cinquecento persone, il Cantù addirittura ha ottocento spettatori a partita. E poi abbiamo costretto le strutture ad adeguarsi. Aerei, alberghi che devono dotarsi di ascensore. Noi creiamo un problema, condizioniamo e costringendo a risolverlo aiutiamo anche gli altri. È il caso di dire che la nostra è una vittoria per il gruppo».

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Due storie oltre il limite

Percorsi di libertà

Il dizionario della libertà

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di Alba Donati

Con la consulenza dell’Accademia della Crusca, luogo della compilazione del primo vocabolario del mondo, è nato il Dizionario della libertà. Ventisei parole, scelte e descritte dai maggiori scrittori, poeti, saggisti e filosofi dell’area euro-mediterranea, che per affinità o contrapposizione sono utili per ridefinire i contenuti del termine libertà, ormai abusato e delegittimato da ogni senso di responsabilità. Ideatrice e curatrice la poetessa Alba Donati, che in queste pagine racconta la genesi e i contenuti dell’opera

Una delle professioni più lontane dall’idea di libertà è quella dello psicoanalista. Quello di Anything else di Woody Allen, per esempio, fonda la sua presenza scenica sulla non partecipazione ai problemi del suo paziente: non parla, non dice la sua, sta zitto e immobile come una statua di vetro. Faccio questo esempio non a caso. La libertà è una parola strana che rischia di morire laddove era nata, e nasce quando la si è data per morta. Voglio dire che la psicoanalisi è nata come una disciplina che doveva emancipare l’individuo dalle sue costrizioni psichiche, doveva, in altri termini, contribuire al suo processo di liberazione. Ma così come tutto si corrompe anche la psicoanalisi ha perso, in molti dei suoi rappresentanti, il suo mandato nel momento in cui si è istituzionalizzata, diventando una pratica di esplicazione del potere (in questo caso individuale, dell’analista sul paziente). Questo sottile arco di tempo che intercorre tra l’idea della libertà e la sua attuazione è il più rischioso. Si ricorre sempre all’esempio della Rivoluzione francese per dimostrare che una forte carica positiva può trasformarsi in una macchina di morte se… Se cosa? Cos’è che può salvare la libertà e farne, non un evento aurorale destinato a capovolgersi in una opaca notte dei tempi, ma una pratica di vita?
Ma andiamo per gradi. Una sera di primavera di due anni fa mi sono messa a discutere con un amico, il poeta Paolo Fabrizio Iacuzzi, di tutto questo: delle parole che vengono al mondo con un significato e che nel corso del tempo si corrompono, si piegano alle leggi della storia fino a trasmettere bagliori contrari a quelli che avevano presieduto alla loro nascita. Vi ricordate in Schindler’s list la sorpresa di Oskar di fronte al sintagma “trattamento speciale”? Ci siamo chiesti allora se la condizione della libertà non fosse diventata davvero, come nella famosa gag di Corrado Guzzanti, sinonimo di “fare un po’ quel c… che ci pare”. La tradizione neoliberale, la suprema legge del mercato, l’assoluta vittoria del capitalismo come unica ipotesi di vita, ma anche certe derive della rivoluzione sessuale, e la biogenetica, la ricerca scientifica hanno tirato in lungo e in largo le capacità espressive della libertà che si è rivelata, alla fine, una coperta troppo corta per giustificare tutto.
Insomma, ci dicevamo quella sera, sarebbe bello se oggi esistesse un dizionario della libertà, le cui parole dalla A alla Z contribuissero, punto per punto, a ridefinirne i contenuti. Se è vero, come sostiene uno dei maggiori filosofi contemporanei, Jean-Luc Nancy, che la libertà non è un’idea né un valore, né un diritto ma solo un’esperienza allora si può e si deve pensare a tutte le parole perdute, a tutte le parole da imparare di nuovo, parole che siano in grado di creare la necessità di questa esperienza.
Abbiamo cominciato a pensare agli scrittori e ai filosofi che ci sarebbe piaciuto coinvolgere in questo progetto: Abraham Yehoshua, Zygmunt Bauman e Jean-Luc Nancy, Fernando Savater, Tahar Ben Jelloun... Ci siamo immaginati l’Europa come un grande cerchio con al centro la Toscana, luogo residuale della civiltà e della resistenza democratica e al centro del centro abbiamo individuato un altro luogo storico di resistenza della lingua, un’istituzione prestigiosa come quella dell’Accademia della Crusca. Sono stati proprio loro, i cruscanti, insediatisi nel 1583 nella Villa Medicea di Castello, vicino a Firenze, a compilare il primo repertorio lessicale del mondo, il Vocabolario degli Accademici della Crusca che uscì a Venezia presso Alberti nel 1612. Il Vocabolario si impose in tutta la lessicografia europea tramite le edizioni che si susseguirono fino a quella del 1863-1923 rimasta incompiuta e bloccata, pensate, alla parola “ozono”. Basta consultare quel Vocabolario per rendersi conto della migrazione dei significati delle parole assediate dalla storia. L’ozono non poteva che essere un gas allotropo dell’ossigeno con poteri ossidanti e utile come disinfettante. Ma se dovessimo riscriverla oggi quella parola quanto Novecento malato e colpevole si depositerebbe sulla sua descrizione! Esistono anche percorsi che vanno nella direzione opposta: se, ad esempio, prendiamo il primo vocabolario e consultiamo la prima parola ci troviamo davanti a una sorpresa: “a bada, tenere a bada il nemico”. Questa parola, se invece apriamo, per rimanere nell’ambito dell’Accademia, il Sabatini-Coletti (il professor Sabatini è oggi il nuovo presidente della Crusca), troviamo: “badare, accudire qualcuno o qualcosa, badare ai figli, alla casa”. Il cammino di questa parola ha evidentemente perso la durezza relativa al “sorvegliare” per accentuare un valore più buono e democratico, quel “guardare ammirati” che col tempo diventa “fare attenzione”.
Il mio amico Iacuzzi cominciava a quel punto della serata a produrre le sue più fantasiose configurazioni geografiche: che cos’altro non è la Crusca se non il cuore della Toscana che a sua volta si trovava a essere una sorta di ipotetico 44° parallelo tra l’Europa e il Mediterraneo, e in virtù di ciò il luogo più adatto per accordare i suoni che da nord, da sud, da est e da ovest, sarebbero arrivati a costruire il Dizionario della libertà del nuovo millennio?
Così, con la consulenza dell’Accademia della Crusca, è nato il Dizionario della libertà, dentro questa esigenza di ridefinizione della parola al singolare, nella convinzione che la pratica della libertà sia una sola e che quella debba essere ritrovata. Un dizionario dove letteratura, storia e filologia potessero costituire un’esperienza unica. In effetti è andata così, il Dizionario della libertà (Passigli Editori, 2002) è un oggetto che contiene magia, pensiero, saggezza, poesia, impegno civile, storia. È articolato in ventisei voci, secondo lo schema dell’alfabeto latino, scritte dai maggiori scrittori, poeti, saggisti e filosofi dell’area euro-mediterranea. L’area dell’Europa e del Mediterraneo è stata suddivisa in ventisei aree geografico-linguistiche e ogni scrittore è stato invitato a rappresentare il suo gruppo linguistico, così lo svedese Lars Gustaffson per le lingue nordiche, il finlandese Arto Paasilinna per le lingue ugro-finniche e via dicendo. Ognuno di loro ha scritto una parola che, per affinità o per contrapposizione, è utile a ridefinire i contenuti della libertà. Una parola consumata dall’uso, delegittimata da qualsiasi senso di responsabilità e ridotta ormai a definire solo un certo tipo di economia di mercato. Insomma una parola senza orizzonte. Ma la libertà, dice subito Todorov nella prima parola del Dizionario – Az, cioè Io in bulgaro – non è un valore assoluto e va affiancato ad altri valori perché possa rimanere nel campo dell’umano: l’amore per esempio, la responsabilità verso i figli e verso gli altri abitanti del pianeta.
Gli risponde il basco Atxaga con la sua Babes, alla lettera Bebè, ma anche “riparo, rifugio”. Chi non possiede questa lettera nel proprio nome non accede alla libertà e la libertà non sarà mai tale se non comprende un riparo per i più deboli. La Comprension, gli fa eco il poeta friulano Giacomini (per le lingue ladine), è un atto stesso della libertà, senza un atto di ascolto verso gli altri si finisce in una gabbia di matti come quegli emigrati della sua terra che tornarono benestanti dopo fatiche e umiliazioni e adesso senza nessuna comprensione umiliano gli immigrati di oggi.
Potrei continuare e far risuonare una voce nell’altra, ma mi fermo. Ci sono autori importanti in questo libro: Abraham Yehoshua, Tahar Ben Jelloun, Arto Paasilinna, il teorico dei no-global Zygmunt Bauman, Fernando Savater, Franco Cordelli, il poeta siriano Adonis, Lars Gustaffson, lo scrittore turco Orhan Pamuk, Jean-Luc Nancy. Ma voglio parlare di un poeta che noi conosciamo pochissimo: il lituano Tomas Venclova. Venclova ha scritto la parola Rashtas, che significa “scrittura” ma anche indica «le sagome delle costellazioni o delle nuvole o delle foglie degli alberi», tutto ciò, insomma che lascia intuire un disegno nascosto, non visibile al colpo d’occhio. Poi ci racconta che il suo popolo conobbe la scrittura molto tardi rispetto agli altri d’Europa e per questo, forse, la rispetta in un modo tutto particolare. Si dice spesso che la scrittura sia il primo passo verso la libertà e Venclova ci spiega in che senso questo è vero per i lituani. Quando, alla fine del Settecento, la Russia zarista occupò la Lettonia, l’Estonia e gran parte della Polonia, il primo atto predisposto per sfiancare la già fragile identità lituana fu quello di proibire la stampa lituana in caratteri latini e introdurre il cirillico.
Chi avrebbe mai pensato che nella Storia esistesse una figura mitica come il Contrabbandiere Portalibri che sfidando il freddo e il pericolo della prigione avanzava nei boschi, per sentieri sconosciuti, portando dall’estero i libri con le lettere proibite? Ebbene, racconta Venclova, a Kaunas, accanto al monumento del Milite ignoto c’è il monumento al Portalibri ignoto. Non è una parabola è realtà, appunto, storia. Questo libro racconta anche questo, racconta cose che non sapevamo e che hanno il sapore delle favole di magia che studiava Propp.
Ci sono anche storie più cruente in questo Dizionario, ci sono parole che andrebbero cancellate per parlare almeno un po’ di libertà. È il caso della F di Fianna di Joseph O’Connor: si tratta delle antiche bande di eroi guerrieri irlandesi. Avevano un mito: la violenza eroica. Su quella stessa erba, in quelle stesse torbiere, sono stati ammazzati e sepolti migliaia di civili dal 1798 a oggi in nome di un odio di antiche origini. O’Connor non fa distinzioni tra cattolici e protestanti e dice: «Non si scordino mai, quelli che scrivono la vera storia non solo d’Irlanda, ma di qualsiasi società funestata dalla guerra etnica e dall’odio razziale fiannistico, che i morti di trenta anni di jihad nordirlandese erano, in massima parte, irlandesi poveri dell’una o dell’altra tribù, tutti caduti in nome di un complesso di astrazioni e lealtà cui sarebbe dovere, per ogni scrittore o artista, di non cedere mai». La libertà in questa accezione evidenzia che per molti nel mondo la libertà è ancora libertà di vivere, di sopravvivere. E questa libertà, prima di tutto il resto, è quella che tutti noi, paesi civili ed evoluti, dovremmo garantire.
Ma se dovessi tirare una riga sotto tutti questi interventi e fare una somma, essa suonerebbe all’incirca così: nessuna libertà prescinde dal rapporto con l’altro e cioè il rapporto con l’altro trasforma lo spazio chiuso del singolo in un’area di crescita. E ancora: la libertà non è assoluta ma esiste solo all’interno di una declinazione, è, come dire, una parola che esiste solo al servizio di qualcos’altro. Il resto è tirannia e sopraffazione. È questo che non ha capito lo psicoanalista di Anything else e hanno, per fortuna, capito molti altri analisti più liberi che fondano il rapporto psicoanalitico sulla relazione.
L’ultima parola del Dizionario è del poeta tedesco Durs Grünbein: Zitat. «Ogni scrittore sa di aver avuto un giorno, un momento in cui la sua esistenza singola gli è apparsa come uno stato di coercizione dal quale poteva liberarsi unicamente con un salto, a capofitto, nella citazione». La citazione non è lo spazio erudito del racconto ma il luogo dell’incontro con gli altri autori, un luogo vibrante di connessioni e di scambi. L’autarchia lascia il posto al dialogo, il cammino è semplice, va da un io a un tu. Una riflessione semplice ma non facile da applicare, una di quelle cose su cui tutti siamo d’accordo ma su cui pochi hanno davvero lavorato.
Tutti gli scrittori qui hanno dimostrato che la famosa affermazione di Margaret Thatcher secondo la quale «non esiste una cosa come la società» è solo un’ipotesi insidiosa, e che piuttosto è la nostra libertà che rischia di non esistere più se non in vista di un nuovo pensiero collettivo-comunitario-societario.

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Cominciamo dalle parole

Libertà

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MIGUEL HERNàNDEZ (1942)
da L’uomo in agguato

Il ferito
......

II

Per la libertà sanguino, lotto, sopravvivo.
Per la libertà i miei occhi e le mie mani
come un albero carnale, recluso e generoso
ai chirurghi io offro.

Per la libertà mi sento molti più cuori
che sabbie nel petto: danno spuma le mie vene
e entro negli ospedali, tra cotoni e bende
come fossero gigli.

Per la libertà mi distacco a fucilate
da quelli che hanno gettato la propria statua nel fango,
a colpi mi stacco dai piedi e dalle braccia
dalla mia casa, da ogni cosa.

Perché dove due occhiaie vuote faranno giorno
lei poserà due pietre di futura visione
e farà sì che nuove braccia e nuove gambe
crescano dalla carne abbattuta.

Germoglieranno alate di linfa e senza autunno
reliquie del mio corpo che perdo a ogni ferita.
Perchè come l’albero abbattuto rigermoglio:
perché ancora ho la vita.

PABLO NERUDA (1904-1973)

I liberatori

Ecco qui l’albero, l’albero
della tempesta, l’albero del popolo.
Dalla terra sorgono i suoi eroi
come le foglie dalla linfa,
e il vento sconquassa le fronde
della moltitudine chiassosa,
fino a che cade un’altra volta
il seme del pane sulla terra.
Ecco qui l’albero, l’albero
di nudi morti alimentato,
morti flagellati e feriti,
morti dai volti impossibili,
trafitti dal piombo dei revolver
spezzettati dalle raffiche dei mitra
resi polvere e vento dal tritolo.
Ecco qui l’albero, l’albero
dalle radici viventi,
estrasse salnitro dal martirio,
succhiò sangue con le radici,
e cavò lacrime dal suolo:
le inalberò nelle sue fronde,
le spartì nella sua architettura.
Divennero a volte fiori
invisibili, fiori sepolti,
oppure altre volte accesero
i petali, come pianeti.
E l’uomo raccolse sui rami
le corolle irrigidite,
le passò da una mano all’altra
come magnolie o melagrane
e d’un tratto aprirono la terra,
e crebbero fino alle stelle.
Questo è l’albero dei liberi.
Albero terra, albero nube,
Albero pane, albero freccia,
albero pugno, albero fuoco.
L’annega l’acqua tempestosa
della nostra epoca notturna,
ma il suo alto fusto fa oscillare
il cerchio della sua potenza.
Ancora ricadono i rami
già divelti dalla collera,
e una cenere terribile
copre la sua antica maestà:
così superò altre epoche,
così sortì dall’agonia,
finché una mano segreta,
certe braccia innumerevoli,
il popolo, serbò i frammenti,
nascose tronchi invariabili,
e le sue labbra erano foglie
dell’immenso albero sparso,
per ogni dove seminato,
che camminava, con le radici.
È questo l’albero, l’albero
del popolo, di tutti i popoli
della libertà, della lotta.
Affàcciati alla sua chioma:
tocca i suoi raggi rinnovati:
affonda la mano nelle fabbriche
dove il suo frutto palpitante
propaga la luce ogni giorno.
Alza nelle mani questa terra,
partecipa a questo splendore,
prendi il tuo pane e la tua mela,
prendi il tuo cuore e il tuo cavallo
e monta la guardia al confine,
al limite delle sue foglie.
La punta delle sue corolle
difendi, spezza le notti avverse,
sorveglia il ciclo dell’aurora,
respira le altezze stellate,
per reggere l’albero, l’albero
che cresce nel mezzo della terra.

RABINDRANATH TAGORE (1861- 1941)
da Gitanjali 

XXXV

Dove la mente non conosce paura
E la testa è tenuta ben alta;
dove il sapere è libero
dove il mondo non è stato frammentato
entro anguste mura domestiche;
dove le parole sgorgano
dal profondo della verità;
dove lo sforzo incessante tende le braccia
verso la perfezione;
dove il limpido fiume della ragione
non ha smarrito la vita
nell’arida sabbia del deserto
delle morte abitudini;
dove tu guidi avanti la mente
verso pensieri e azioni sempre più ampi;
in quel cielo di libertà, Padre,
fa che il mio paese si desti.

PAUL ELUARD (1985-1952)
da Capitale de la Douleur

I loro occhi sempre puri

Giorni di tempi lenti, giorni di pioggia,
Giorni di specchi infranti e d’aghi perduti,
Giorni di ciglia chiuse all’orizzonte dei mari,
Di ore tutte uguali, giorni di prigionia.

La mente mia che brilla ancora sulle foglie
E i fiori, la mente mia come l’amore è nuda,
L’aurora che lei scorda le fa abbassar la testa
A contemplare il corpo così obbediente e vano.

Eppure, li ho visti io, i più begli occhi del mondo,
Dèi d’argento che portano zaffiri nelle mani,
Veri dèi, e uccelli nella terra
e sull’aqua, li ho visti.

Mie sono le loro ali, non c’è niente,
Oltre quel volo, che scuota la mia pena,
Volo di stella e luce,
Fiume, pianura, roccia, quel volo
E i flutti chiari delle loro ali,

Il mio pensiero che la vita e la morte tengono in volo.

EMILY DICKINSON (1830-1857)

Io abito la possibilità –
una casa più bella della prosa –
con tante finestre in più
e porte migliori.

Ha stanze come cedri –
lo sguardo non può penetrare –
ha per tetto la volta
del cielo sterminata.

La frequenta la gente più amabile –
Così ci passo il tempo:
le mie piccole mani spalanco
per colmarle di Paradiso.

*****

Portatemi il tramonto in una tazza –
le anfore contate del mattino –
le gocce di rugiada –
Ditemi quanto lontano salta il mattino –
e quando il tessitore dorme
che adorna d’azzurro gli spazi –

Scrivetemi quante sono le note
nell’estasi del nuovo pettirosso
tra i rami stupefatti –
e quanti giri fa la tartaruga –
e quante coppe di rugiada beve
l’ape ebbra –

Chi gettò i ponti dell’arcobaleno –
e chi le docili sfere conduce
con fili di morbido azzurro –
e quali dita fanno le stalattiti –
chi i grani della notte conta
perchè nessuna perla manchi?

Chi costruì questa casetta bianca
e chiuse le imposte così bene
che il mio spirito non può più vedere?

Chi mi farà con tutto il necessario uscire –
in un giorno di gala –
per volar via
oltremodo fastosa

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Percorsi di libertà

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