Un universo sempre più variegato sia in termini di professioni sia di trattamenti e inquadramenti economici. Sempre più guidato dalle logiche del mercato, asservito agli interessi di aziende multinazionali, il lavoro ha perso la connessione con la funzione sociale che svolgeva in passato. «In questo scenario – scrive Daisaku Ikeda – le persone vengono spietatamente misurate e valutate sulla base del loro contributo volto alla ricerca del profitto. [...] E se vengono trattate come meri mezzi utili a uno scopo, ne risulta che coloro che non possono contribuire a tali obiettivi vengono rifiutati e messi da parte» (p. 7).
Questa situazione genera un diffuso senso di impotenza e di rassegnazione, soprattutto tra le persone giovani. Secondo dati recenti, in Italia i ragazzi e le ragazze che non studiano e non lavorano, in un’età che va dai 15 ai 29 anni, sono 2 milioni e 100 mila, e gran parte di loro neanche cerca un impiego. Il fenomeno dell'abbandono scolastico è sempre più ampio, soprattutto per lo scollamento percepito tra formazione educativa e richieste del mondo del lavoro.
Altrettanta disperazione si genera in chi viene estromesso dalle attività lavorative in età adulta. Come scrive Stuart Rees della Sydney Peace Foundation «alle persone disoccupate viene negato quel profondo sentimento di autostima che deriva dal lavoro, nel senso di guadagnarsi da vivere, di avere la soddisfazione di realizzare qualcosa e di dare un contributo alla società» (p. 8). E sottolinea come un impiego sicuro sia fondamentale per realizzare la giustizia sociale.
Secondo dati di due anni fa, 17 milioni di italiani, poco meno del 30 per cento della popolazione, è a rischio povertà, mentre oltre 5 milioni vive in condizioni di povertà assoluta. L'ascensore sociale è bloccato, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con un impoverimento della classe media che aumenta di generazione in generazione.
Per riuscire a campare in questa società del profitto sono nati i "nuovi schiavi", mirabilmente raccontati nel film di Ken Loach Sorry We Missed You (p. 11), ma anche nelle "Avventure di Gomma e Carboncino" (p. 65).
Abbiamo affrontato questo tema partendo dall'Agenda 2030 delle Nazioni Unite, in particolare collegando alcuni punti evidenziati in due delle cinque P (le dimensioni in cui viene declinato lo sviluppo sostenibile): le Persone e la Prosperità.
E ci siamo poi chiesti dove sia, se c'è, il bicchiere mezzo pieno.
Emerge chiaramente nella funzione della scuola, il luogo dove coltivare e far emergere il pieno potenziale dell'essere umano (pp. 16-17). Centrale in tale processo è l'empowerment della generazione più giovane, che quando viene messa in condizioni di esprimersi fa sentire la sua voce con forza e intelligenza, come racconta il progetto People Have the Power (pp. 18-21).
Del resto ognuno e ognuna di noi può contribuire concretamente al cambiamento attraverso le sue scelte quotidiane (p. 10), e le tante esperienze che pubblichiamo (pp. 12-15) testimoniano in prima persona che, secondo quanto afferma Daisaku Ikeda, «prendendo coscienza della nostra dignità, e trovando un senso di scopo e fierezza, possiamo far sgorgare un coraggio invincibile in grado di affrontare qualsiasi sfida» (BS, 198, 37).

Il lavoro e l'Agenda 2030

Siamo determinati
a porre fine alla povertà
e alla fame, in tutte
le loro forme e dimensioni,
e ad assicurare che tutti
gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità e uguaglianza
in un ambiente sano.

Prosperità

Siamo determinati
ad assicurare che
tutti gli esseri umani possano godere di vite prospere e soddisfacenti e che il progresso economico, sociale
e tecnologico avvenga in armonia con la natura.

NELL'OTTICA DI PORRE AL CENTRO LE "PERSONE" E LA "PROSPERITÀ", DALL'ANALISI DELLA STRATEGIA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE DEL MINISTERO DELL’AMBIENTE[ref]Ministero dell'Ambiente, https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/sviluppo_sostenibile/obiettivi_ita_1.pdf[/ref] EMERGONO DUE AREE DI INTERVENTO:
GARANTIRE LE CONDIZIONI PER LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO
GARANTIRE PIENA OCCUPAZIONE E FORMAZIONE DI QUALITÀ

Le azioni per rendere concrete tali proposizioni si articolano in:
- ridurre la disoccupazione per le fasce più deboli della popolazione;

- assicurare la piena funzionalità del sistema di protezione sociale e previdenziale;

- ridurre il tasso di abbandono scolastico e migliorare il sistema dell’istruzione;

- combattere la devianza attraverso prevenzione e integrazione dei soggetti a rischio;

- garantire accessibilità, qualità e continuità della formazione;

- incrementare l’occupazione sostenibile e di qualità.

Tra i 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile,[ref]Vedi speciale "Tutti insieme appassionatamente", BS 195.[/ref] quelli coinvolti sono:

1 Sconfiggere la povertà
2 Sconfiggere la fame
3 Salute e benessere
4 Istruzione di qualità
5 Parità di genere
8 Lavoro e crescita economica
10 Ridurre le disuguaglianze
16 Pace, giustizia e istituzioni solide

Dall'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile

LE PERSONE E LA PROSPERITÀ

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La prosperità sociale non può essere giudicata solo sulla base dello sviluppo materiale ed economico. La vera unità di misura è rappresentata dalla salvaguardia della vita delle persone e dei diritti fondamentali. Una filosofia che insegni la sacralità della vita è un requisito necessario per costruire una società che miri a questi scopi. (vol. 6 pp. 154-155)

Maggio 1962. In un incidente ferroviario presso la stazione di Mikawashima, causato dalla stanchezza del conducente di un treno, che si era addormentato e non aveva visto il segnale di stop, perdono la vita 160 persone. 

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La prosperità di una nazione non può essere determinata solo calcolando l’ammontare del Pil o la sua ricchezza materiale. La sicurezza e la salute dei cittadini sono garantite? Gli anziani soli, i disabili e i malati hanno la possibilità di vivere confortevolmente? I genitori singoli riescono a crescere i propri figli e a lavorare contemporaneamente? Negli occhi dei ragazzi che hanno il futuro sulle proprie spalle brilla la luce della speranza? I piccoli imprenditori e i dettaglianti possono lavorare con gioia ed entusiasmo? Le persone comuni vivono con fiducia? Solo se la risposta a tutte queste domande è affermativa una nazione può davvero essere considerata prospera. (vol. 9 pp. 253-254)

1964. In previsione delle Olimpiadi di quell'anno Tokyo aveva subito uno sviluppo urbanistico squilibrato, concentrato sulla trasformazione della città in una sfavillante capitale internazionale a spese dei bisogni vitali della cittadinanza. 

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La realizzazione della prosperità di una comunità o di una regione parte dalla trasformazione dell’atteggiamento mentale delle persone che ci vivono e dal coltivare la terra dello spirito umano. Sono questi gli sforzi che fanno crescere un forte spirito comunitario dando origine al rigoglio dei lussureggianti alberi del progresso, allo sboccio dei profumati fiori della saggezza e allo sviluppo di una fertile pianura di felicità. Questo è lo scopo del movimento della Soka Gakkai. (vol. 12 pp. 161-162) 

Agosto 1967. I membri della città di Takayama danno il via a un forte sviluppo turistico della zona. 

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La pace e la prosperità di un luogo dipendono solamente dalla determinazione delle persone che ci vivono. Se le persone perdono la speranza e si rassegnano, la società non potrà che deteriorarsi. La chiave per costruire una terra di felicità si trova interamente nello sviluppo degli esseri umani. [...] È vitale far emergere la saggezza per aprire la strada nell’intricato labirinto della realtà. Il Daishonin afferma: «Da quest’unico elemento della mente scaturiscono tutte le varie terre e condizioni ambientali». […] In ultima analisi la costruzione di una comunità e di una società migliori può essere totalmente ricondotta all’energia, all’entusiasmo e alla saggezza delle persone che le compongono.
(vol. 13 pp. 253-254)

1969. Ikeda ribadisce la sua decisione di impegnarsi affinché l’isola di Okinawa sia restituita al Giappone e vengano rimosse dall’isola le armi nucleari e smantellate le basi militari. 

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Se formare soldati eccezionali è la priorità di una nazione, i malati e i disabili vengono emarginati. Quando invece l’obiettivo è diventare una potenza economica, solo chi può contribuire alla sua prosperità è considerato una valida risorsa.
In questo scenario le persone vengono spietatamente misurate e valutate sulla base del loro contributo volto alla ricerca del profitto. Se le persone vengono trattate come meri mezzi utili a uno scopo, chi non può contribuire agli obiettivi della nazione viene rifiutato e messo da parte.
Per creare una società in cui tutti i cittadini siano valorizzati senza distinzioni, i governi non devono trattare le persone come mezzi utili a uno scopo, ma piuttosto considerare la loro vita come il valore supremo. (vol. 26 p. 210)

1978. Raccontando la storia del medico Eita Nagano, che da giovane aveva lavorato a lungo in un sanatorio, Ikeda riflette sul valore degli esseri umani a prescindere dalle loro condizioni.

Da La nuova rivoluzione umana

LAVORO ED ETICA

Il lavoro: una fonte di dignità (2010)
«Secondo le stime, nel 2009 il numero dei senza lavoro nel mondo è arrivato a 219 milioni, il livello più alto mai registrato. Penso che sia importante soffermarsi sulle innumerevoli tragedie umane che queste cifre sbalorditive rappresentano. […]
Le difficoltà di trovare un’occupazione, oppure il licenziamento subito dopo essere entrati nel mercato del lavoro, possono avere gravi ripercussioni sui giovani. Oltre alle inevitabili difficoltà economiche, i giovani disoccupati cominciano a sentirsi privi di valore e a nutrire grande incertezza sul futuro, fino a perdere la voglia di vivere. La dignità umana è ugualmente in pericolo quando le persone sono costrette a lavorare in condizioni disumane e degradanti, o quando la mancanza di un lavoro sicuro impedisce loro di fare progetti per il futuro.
Sulla base della convinzione che il “lavoro non è una merce” e che “il lavoro deve essere una fonte di dignità”, l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo, International Labour Organization) ha invocato il concetto di lavoro dignitoso per tutti». (BS, 140, 33)

Sapere di essere necessari alla società (2012)
«Attualmente sto portando avanti un dialogo con il professor Stuart Rees della Sydney Peace Foundation, in Australia, sul tema della pace e della giustizia. Un aspetto di questo argomento è il problema della disoccupazione, che rappresenta una minaccia inaccettabile alla dignità umana.
Come ha scritto Rees: “Alle persone disoccupate viene negato quel profondo senso di autostima che deriva dal lavoro, nel senso di guadagnarsi da vivere, di avere la soddisfazione di realizzare qualcosa e di dare un contributo alla società”. Il lavoro e l’impiego sono una sorta di conferma di essere necessari alla società. Grazie al costante adempimento di una funzione che noi e solo noi possiamo svolgere, il lavoro può costituire una fonte di realizzazione e di orgoglio anche se non arreca fama o riconoscimenti». (BS, 152, 10)

Il rischio di una generazione perduta (2013)
«Particolare preoccupazione suscita la situazione dei giovani. Il 12 per cento circa dei giovani del mondo sono disoccupati e, anche tra quelli occupati, oltre 200 milioni si trovano costretti a lavorare per meno di due dollari al giorno [dati Ilo]. L’Organizzazione avverte: “Se non si intraprendono azioni immediate ed energiche, la comunità globale si troverà di fronte al triste lascito di una generazione perduta”. Una società che toglie speranza ai giovani non può aspettarsi di realizzare la sostenibilità o di creare una cultura dei diritti umani». (BS, 158, 29)

Sentirsi utili aiuta l’autostima (2017)

«Il lavoro è il mezzo per guadagnarsi da vivere e dà significato alla vita. [...] Per rispondere alla massiccia disoccupazione scatenata dalla grande depressione americana iniziata nel 1929, nel corso del New Deal fu fondato il Corpo civile per la conservazione, finalizzato al mantenimento e miglioramento dei parchi naturali e delle foreste.
Parteciparono al programma oltre 3 milioni di giovani e furono piantati più di 2 miliardi di alberi. Attraverso queste attività i partecipanti riguadagnarono autostima e la sensazione di essere utili, di fornire il proprio contributo agli altri e alla società.
Ancora oggi questi parchi nazionali e queste foreste continuano a salvaguardare la biodiversità e l’integrità ecologica, svolgendo anche una funzione importante nell’assorbimento dei gas serra». (BS, 182, 34)

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Dalle Proposte di Pace

LAVORO ED ETICA

Josei Toda incoraggiava i giovani dicendo loro che dovevano avere sogni tanto grandi da sentirli quasi irraggiungibili. Nella realtà di oggi, caratterizzata da una forte disoccupazione giovanile e da difficoltà economiche, come possiamo mantenere il desiderio di trovare il lavoro dei nostri sogni e lottare per ottenerlo?

Il presidente Ikeda ci incoraggia a fare del nostro meglio per realizzare i nostri sogni. È importante misurarsi con questa sfida, in particolare durante la gioventù. Ma poiché il Buddismo si basa sul principio di "fede uguale vita quotidiana", è essenziale ottenere delle vittorie nella realtà di tutti i giorni. Non è consigliabile ridursi ad avere problemi economici e vivere un'esistenza di stenti solo per rincorrere i propri sogni.
Ciò che conta è la nostra determinazione. Se è rivolta al bene di kosen-rufu, allora anche se i sogni non si realizzano subito sicuramente un giorno ciò avverrà in una forma che supera la nostra immaginazione. Ci sono persone che riescono a ottenere il lavoro dei propri sogni ma poi finiscono con l'allontanarsi dalla fede e alla fine falliscono anche nel lavoro. Al contrario ci sono persone che all'inizio sembrano non realizzarsi, ma poi a quaranta o cinquant'anni riescono a far sbocciare in modo incredibile la loro vita.
A uno studente universitario che gli chiedeva se dopo la laurea avrebbe dovuto accettare un lavoro anche se non coincideva con le sue aspettative, il presidente Toda rispose: «Tu vorresti avere un metro di misura per scegliere la tua strada, è questo che chiedi? Il metro di misura è il valore.
II maestro Makiguchi era solito dire che è stupido seguire le cose che ci possono più o meno piacere senza tener conto dei vantaggi e degli svantaggi, ed è sbagliato preoccuparsi soltanto di ciò che ci reca vantaggio senza tenere conto dei princìpi di bene e male. Sarebbe auspicabile trovare il proprio lavoro ideale, ovvero un impiego che racchiuda tutti e tre i criteri della teoria del valore (la teoria del valore di Makiguchi si fonda sui tre criteri di bellezza, guadagno e bene, n.d.r.): che sia piacevole (esprima cioè la bellezza), porti beneficio a chi lo svolge (generi quindi guadagno) e sia utile alla società (contribuisca così al bene).
Tuttavia la vita non è così semplice come noi speriamo. Sono pochissime le persone che riescono a realizzare il desiderio di un lavoro ideale, mentre nella maggior parte dei casi sono costrette a svolgere lavori che non avrebbero mai pensato di fare. Cosa fare in questi casi? Io vorrei suggerire a voi giovani di non lasciarvi scoraggiare, anche di fronte a simili circostanze. Piuttosto dovreste riversare tutte le energie nel vostro attuale impiego, applicandovi in esso e cercando anche di migliorarne le caratteristiche.[...] Per quanto sia sgradevole il vostro impiego, lavorate sodo, indirizzate le vostre preghiere al Gohonzon e sforzatevi al meglio. Verrà certamente il momento in cui troverete un lavoro che vi piace, che vi reca beneficio e che contribuisce al bene della società nel suo complesso. Ogni aspetto dei lavori che avrete svolto fino a quel momento diventerà una preziosa esperienza. La fede si manifesta nella vita quotidiana e nella società» (La rivoluzione umana, vol. 8, pp. 161-162).
E il presidente Ikeda, in accordo con quanto detto dal suo maestro, sottolineando l'importanza di perseguire i propri sogni scrive: «Un vero sogno deve portare al proprio miglioramento, altrimenti è semplicemente un capriccio, la manifestazione del proprio ego. È un desiderio effimero. Un vero sogno aspira alla felicità e alla giustizia, si ricollega al bene degli altri e alla pace nella società» (Seikyo Shimbun, 2 marzo 2000).

(da una domanda al Corso di studio europeo 2016, BS, 180, 32)

Il lavoro dei nostri sogni

LAVORO ED ETICA

«Considera il servizio al tuo signore come la pratica del Sutra del Loto» scrisse Nichiren Daishonin. Lavoro e pratica religiosa, attività lavorativa e percorso spirituale sono – dovrebbero essere – strettamente legati.
Possiamo ritrovare concezioni analoghe, non dualistiche, in alcuni momenti della storia del pensiero occidentale, della cultura che scorre nelle nostre vene di europei. Hegel ad esempio considera il lavoro – in particolare la produzione di beni – come una tappa cruciale in quel percorso di progressiva autocoscienza e liberazione che trova la sua espressione più completa nella religione e nella filosofia: costruendo qualcosa (un tavolo, una torta, una canzone…) imprimiamo nella materia che plasmiamo il marchio della nostra individualità, creatività e libertà, e quando poi contempliamo ciò che abbiamo realizzato – un oggetto a disposizione della collettività di cui siamo parte attiva – siamo in grado di riconoscerci in esso, apprendendo qualcosa di noi che prima non sapevamo di essere.
Nell’aristotelismo (ancora oggi vivo in molti filosofi morali e politici) troviamo invece il principio per cui “la felicità è attività dell’anima secondo virtù”. In altre parole, siamo veramente felici non tanto quando otteniamo ricompense di vario genere per ciò che abbiamo fatto (che pure hanno la loro relativa importanza), quanto piuttosto mentre facciamo ciò che facciamo, mentre lavoriamo. “Virtù” qui significa in primo luogo un impegno totale, la presenza di spirito in ciò che si fa, nella consapevolezza che stiamo contribuendo a qualcosa di più grande di noi, a una tradizione e a una comunità cui apparteniamo. Se il lavoro diviene solo un faticoso mezzo verso un fine a esso esterno, estraneo, perdiamo di vista questa prospettiva, e con essa la felicità che l’attività lavorativa può e dovrebbe contenere.
Recitando Daimoku prima di tuffarci nella quotidianità lavorativa abbiamo la possibilità di portare con noi sul luogo di lavoro quella suprema e gioiosa presenza di spirito senza risparmi di vita che coltiviamo davanti al Gohonzon. E anche se i meccanismi economici in cui siamo immersi conducono spesso nella direzione opposta a quella indicata da Aristotele, Nichiren Daishonin e Hegel, possiamo costantemente aprire brecce di consapevolezza e libertà.
(Donato Ferdori)

Brecce di consapevolezza e di libertà

LAVORO ED ETICA

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Cosa possiamo fare individualmente affinché vengano rispettati i diritti di tutte le persone che lavorano?

 
Informiamoci Libri, articoli, ma anche internet. Non è difficile trovare informazioni sulle criticità del mondo del lavoro: l’illegalità, lo sfruttamento, l’utilizzo di materie pericolose per la salute di lavoratori e lavoratrici. Più siamo informati più siamo in grado di scegliere.
Occhio al prezzo È certo che i prodotti con prezzi sottocosto, sia alimentari sia di consumo – pensiamo ad esempio alla raccolta dei pomodori o alle grandi catene di abbigliamento low cost – hanno alle spalle una filiera di lavoro sottopagato. Come consumatori e consumatrici responsabili possiamo scegliere di acquistare solo prodotti con un prezzo equo.
Facciamoci sentire (o Il potere del boicottaggio) Sono tante le campagne che promuovono azioni contro aziende che sfruttano il lavoro, è importante sostenerle e diffonderle, perché la ricaduta sui consumi è il miglior dissuasore di sempre.
Scegliamo i nostri marchi Tante aziende hanno una sana etica del lavoro. Possiamo acquistare prodotti nati su terre liberate dalla mafia, di aziende in via di fallimento riscattate dai propri dipendenti, di produttori che ridistribuiscono gli utili tra i lavoratori, imprese che tutelano e sostengono il lavoro delle donne e la maternità, marchi equosolidali che garantiscono il giusto margine ai produttori... Per fortuna la scelta è davvero ampia!
Diventiamo turisti consapevoli In troppi paesi ancora il turismo si fonda sullo sfruttamento di manodopera locale a paghe irrisorie. Quando programmiamo un viaggio rivolgiamoci a catene di alberghi o ad agenzie turistiche che sostengono i diritti dei lavoratori locali.
Partiamo dal nostro quotidiano Quando scegliamo di farci portare una cena a casa, quando facciamo un acquisto last minute online, sappiamo che stiamo probabilmente sfruttando il lavoro sottopagato di qualcuno?
(a cura di Elisabetta Nepitelli)

Le nostre scelte fanno la differenza

LAVORO ED ETICA

Con molto pathos ma senza sentimentalismi, il film Sorry We Missed You di Ken Loach è rivelatore e necessario. Protagonisti moglie e marito con figli, eroi della classe lavoratrice immolati sull'altare di una spietata "gig economy", il modello economico basato sul lavoro occasionale a chiamata dove l’assenza di un contratto sembra rendere inutili il coraggio e la dirittura morale.
Gli affetti e la coerenza sono piuttosto zavorre ostili nella nuova schiavitù del lavoro freelance, come dichiara il regista che, per girare il film, si è immerso nel contesto del nuovo precariato: «Il paradosso è che a sfruttare l’operaio non è tanto il datore di lavoro ma il lavoratore stesso». Nel film infatti i protagonisti sono sia stritolati dal meccanismo dell’impresa in proprio sia vessati dalle agenzie interinali.
Vi è una responsabilità collettiva che chiede una risposta sociale all’incalzare di modelli produttivi che propongono nuove schiavitù. Ma c'è anche, sotteso nel film, un appello alla responsabilità personale. Anche in settori di lavoro garantiti, il rischio più grande è aderire a una visione sociale ed esistenziale ansiogena che riporta tutto a uno schema di prestazione alienata dal fine; il pensare la propria vita unicamente come un mezzo rapido e asettico per raggiungere obiettivi esterni che non riguardano mai il reale benessere degli individui e della collettività. La tirannia del tempo, che la tecnologia esaspera, diventa fagocitante, un eterno presente che incalza e non concede tregua. Il film, mentre ci conduce in un girone dantesco in cui si avvitano inesorabili i destini dei coniugi e dei loro due figli, ci apre squarci di splendide relazioni. L’empatia tra Abby (la madre) e i suoi pazienti: lei che piange mentre la signora di cui si occupa le pettina amorevolmente i capelli. La dolcezza del rapporto padre-figlia. L’autorevolezza pedagogica del poliziotto con il ragazzo. Quest’ultimo, quasi come un eroe collodiano, per seguire i suoi sogni artistici vende il giubbotto, comprato a prezzo di grandi sacrifici. Tanti frammenti di esistenze, tenacemente avvinghiate ai legami, agli affetti, che, «mentre piegano il capo innocente», come direbbe Leopardi, affermano un’unica possibile resilienza: rimanere umani.
Qui trovo un barlume di speranza, un’implicita via di fuga ravvisabile nel film, che richiama le parole di Daisaku Ikeda: «Ogni cosa che accade nella società è opera degli esseri umani. Per tale ragione, anche se può sembrare una via indiretta, qualsiasi iniziativa che miri a costruire un futuro migliore deve iniziare da un loro cambiamento. Tutto ha inizio dalle persone e finisce con le persone, compresa la realizzazione della pace nel mondo e della felicità dell’umanità» (BS, 198, 35).
(Giovanna Gobattoni)

Sorry We Missed You

LAVORO ED ETICA

Silvia è una donna risoluta. E per fortuna. Con una laurea in Scienze Politiche conseguita mentre da ragazza vendeva frutta al mercato di San Lorenzo a Firenze dov'è nata, da vent’anni lavora in un sindacato confederale. Dopo vari ruoli, anche importanti, oggi è vicepresidente di vIVAce, l’associazione dei liberi professionisti e dei freelance. Nella categoria rientrano tutti i professionisti con partita Iva, come avvocati, social media manager, psicologi, giornalisti freelance, startupper, grafici, creativi digitali e tanti altri. Milioni di persone (più di cinque, nel nostro paese) senza tutele né diritti. Accomunate da un lavoro autonomo, intermittente, a singhiozzo, senza un reddito stabile e spesso con bassi compensi per via di una competitività non regolamentata (oltre il 25 per cento degli autonomi vive al di sotto della soglia di povertà calcolata dall’Istat).
«La nostra associazione – racconta Silvia, che quattro anni fa ha inventato vIVAce da zero – si occupa di individuare e affrontare i bisogni di questi lavoratori offrendo consulenza, per esempio su come ottenere il sostegno maternità, e servizi come corsi di formazione e accesso a bandi agevolati». Si fa rete anche online e appena possibile ci s’incontra di persona, parlando di diritti e riempiendo di fatto un vuoto culturale e soprattutto politico.
Un’iniziativa, la sua, frutto di sforzi e di rivoluzioni umane. «Tutto è iniziato cinque anni fa quando il mio ruolo di segretaria nazionale, per il quale mi ero trasferita a Roma, era giunto a scadenza, e in attesa di una nuova collocazione mi sono trovata con una scrivania, una stanza e uno stipendio ma senza più un lavoro da svolgere. Aspettavo di capire cosa fare. Più passava il tempo, però, più stavo male e mi demoralizzavo. Riuscivo a tirare fuori la forza per non sprecare le mie giornate lavorative solo davanti al Gohonzon, ricevuto nel 1994, a 19 anni, principalmente sulla spinta di un folle amore per un ragazzo che mi trovava tutt’altro che attraente».
In quel periodo di lotte e scoperte – siamo nel 2015 – Silvia comincia a sentire di voler fiorire in ogni aspetto della sua vita. «Pratico per essere felice e la felicità passa anche da una relazione sentimentale degna di questo nome, pensavo. Fino ad allora infatti, pur dicendo di volere un amore e una famiglia, davanti all’eventualità "scappavo” mettendo sempre davanti la carriera in cui ero lanciatissima». È quello il momento in cui incontra Michele, e «per la prima volta in vita mia l’amore va meglio del lavoro».
Questione di giorni, e di ichinen. Continuando a fare Daimoku, infatti, allenta la frustrazione ed entra in ufficio con una domanda: “Dove sarà la gemma preziosa in questa situazione?”. Con tanto tempo libero a disposizione decide di rimettersi a studiare il mercato del lavoro rendendosi conto che «il sindacato confederale, nelle sue tre sigle, non si è mai occupato di tutelare il mondo dei liberi professionisti che hanno bisogni identici a quelli di tutti gli altri lavoratori». Malattie, ferie, infortuni, disoccupazione, pensione.
Tra il 2016 e il 2017 presenta quindi il suo progetto dell’associazione vIVAce, accolto favorevolmente dalla segreteria del sindacato. «Da sola, e grazie a tanto Daimoku più potente delle mie capacità, m’invento un nome, costruisco il sito, produco i contenuti, conosco freelance in tutt’Italia e dialogo con loro per capire bisogni ed esigenze di chi lavora con una partita Iva. Riesco anche a diventare un’interlocutrice per la legge sul lavoro autonomo».
Il tempo passa e lo scorso aprile arriva il giorno più difficile per lei, quello in cui l’associazione, ormai istituita, può finalmente ottenere persone e riconoscimento politico. «“Bene è arrivato il mio momento”, penso. E invece no, mi viene comunicato che non sarò io la presidente di vIVAce, la mia creatura, bensì un collega. Piango, siamo punto e a capo. Inizio a recitare tre ore di Daimoku al giorno per avere giustizia. A 44 anni mi sembra di non aver realizzato nulla.
Mentre faccio Daimoku, e ospito le riunioni per la preparazione degli esami di primo livello, capisco che è arrivato il momento di disarmarmi. Dalle parole del presidente Ikeda realizzo che il mio scopo è fare kosen-rufu in quel posto di lavoro e non ricoprirne il posto da numero uno. Una consapevolezza che mi ha subito alleggerita, permettendomi di collaborare con il mio nuovo capo. Dopo qualche giorno scopro di essere incinta. Io e Michele aspettiamo un bambino dopo anni di tentativi! Complice la gravidanza, che procede benissimo, continuo a impegnarmi al massimo nel lavoro, conquistando la stima dei detrattori, fino a veder approvata lo scorso 18 novembre (!) l’esistenza di vIVAce. Grazie al mio progetto, riconosciuto anche con la nomina di un referente in ogni città, i lavoratori a partita Iva dal 2020 avranno finalmente una rappresentanza.
Il 6 gennaio è nato mio figlio, a cui mi posso dedicare con la soddisfazione di aver messo le basi per una rivoluzione culturale e aver imparato che con il Daimoku l’impossibile diventa possibile. Basta non mollare e continuare a recitare qualunque cosa accada. E soprattutto non giudicare il momento presente dalla superficie, perché tutto si muove anche quando sembra immobile».
(Monica Piccini)

Non giudicare dalla superficie perché tutto si muove anche quando sembra immobile

Ho iniziato a praticare nel 1997, a 23 anni, e nel 2003 mi sono trasferito a Roma per realizzare il mio sogno di bambino: “fare i film”.
A onor del vero, la fortuna accumulata recitando Daimoku, studiando e facendo attività per kosen-rufu mi ha permesso di realizzare molto più di quanto avrei creduto prima ancora che questo desiderio si realizzasse: mi sono laureato in Storia e critica del cinema con il massimo dei voti e ho cercato l’armonia familiare, prima di trasferirmi nella capitale e lavorare come assistente alla regia e poi come aiuto regista per numerose serie tv, e non solo.
Questo per 8 anni (fino al 2011) con una certa continuità, cosa molto rara per chi lavora a progetto come molti del settore. Un vero universo di operatori di macchina, scenografi, costumisti, truccatori, parrucchieri, sarte, manovali… E io nel 2005 ero già addirittura nelle possibilità di comprare una casa.
Nel 2011 entro in un tunnel di disoccupazione che – non lo avrei mai immaginato – sarebbe durato 7 anni. Durante questo lungo periodo mi è capitato di accettare lavori mal pagati (o addirittura non pagati, ma con la promessa di un ritorno economico futuro) solo per paura che nessuno mi avrebbe più chiamato. Accettavo qualunque proposta vivendo nel timore che prima o poi sarei rimasto senza i soldi per il mutuo e le bollette…
Mi rendo conto che questa cosa che mi è accaduta è oggi un problema che riguarda davvero molte persone, soprattutto giovani. Imparentate con l’illusione che una qualche gratifica possa arrivare da fuori, accade sempre più spesso che si alimentino paura e senso di inadeguatezza. E lì bisogna davvero tornare a essere maestri della propria mente.
Nel Gosho La dichiarazione unanime dei Budda delle tre esistenze (RSND, 2, 785) si legge: «Così, di tutti i fenomeni del mondo intero, non ve n’è nemmeno uno che non sia creato dalla mente». Ho sempre sentito molto il principio di esho funi, che mi insegna quanto appunto l’ambiente, tutto ciò che mi circonda ma anche ciò che mi accade dipenda da me. È così che, a suon di Daimoku e di incoraggiamenti dati e ricevuti, è maturato in me il desiderio di “darmi il giusto valore” e uscire da quella inutile modalità “piove governo ladro” che ci fa sentire impotenti e non padroni della situazione, che ci fa dire “tanto non c’è verso”. Spesso dare all’esterno le “colpe” è un atteggiamento molto vicino al non dare valore a se stessi, quel valore di cui parla il Buddismo quando ci insegna che invece siamo perfettamente dotati così come siamo, e che praticare ci permette di sprigionare un potenziale incredibile.
Con spirito rinnovato ho intrapreso una battaglia di Daimoku e shakubuku per lo più rivolto ai giovani, parlando del Buddismo a circa venti persone, alcune delle quali hanno iniziato a praticare subito e due di loro nel 2019 hanno ricevuto il Gohonzon. Tutto questo ha misticamente riaperto le porte della mia amata professione portandomi a lavorare per una serie Rai di grande successo, con un compenso che mi ha permesso di tornare a respirare. Peraltro il titolo non poteva essere più evocativo: La strada di casa. Ma la vera esperienza è stata sentirsi dire recentemente, dal mio amico/socio/collega Vincenzo, in occasione di un nuovo ingaggio: «Stavolta ho trattato io la parte economica per te! Lo scorso anno sei stato troppo modesto, non ti sei dato il giusto valore!».
(Sandro Fogli)

Non ti sei dato il giusto valore

LAVORO ED ETICA <a>|</a> esperienze

«Usa la strategia del Sutra del Loto prima di ogni altra. Allora tutti i nemici saranno annientati». Questa frase di Gosho mi ha permesso di sperimentare il potere della fede tutte le volte che, nel corso di questi dieci anni di pratica, mi sono ritrovata senza lavoro e senza soldi.
Quando ho iniziato a praticare avevo una laurea in sociologia che mi consentiva di vivere, e un attestato di operatrice olistica che mi permetteva di coltivare la mia passione per i massaggi e le cure naturali.
Dopo pochi mesi persi il lavoro perché la Regione Campania tagliò i fondi per il sociale. Ma invece di disperarmi trovai il coraggio di affidarmi al Daimoku e superare i limiti della mia mente.  Anche se ritenevo impossibile guadagnare dignitosamente, visto lo scarso interesse al Sud per le cure naturali, volevo vivere della mia passione. Ispirata dal Daimoku mi iscrissi a una scuola di Naturopatia, per migliorare le mie competenze e approfondire la medicina tradizionale cinese.
Iniziai ad associare le mie sfide personali all’attività per gli altri: volevo incoraggiare tutti con la mia vita. Presto mi proposero un lavoro di massaggiatrice in un centro benessere e, anche se non avevo un contratto e mi pagavano poco, mi sembrava già un gran beneficio. Avevo ancora da parte 60 mila euro ottenuti come risarcimento per un incidente subito da ragazzina. Ma nel 2012 una truffa collettiva mi fece perdere tutto. Persi anche ogni senso di sicurezza: dovevo fare affidamento solo su me stessa. Fu allora che iniziai davvero a prendere la vita nelle mie mani.
Mi consigliarono di approfondire lo spirito dell’offerta e decisi di sostenere in denaro la Soka Gakkai ogni mese. Questa azione costante mi ha permesso di scoprire i tesori del cuore, primo fra tutti la gratitudine. Ogni volta che il mio conto rischiava di azzerarsi mi si offriva un lavoro o ricevevo un rimborso, finché mi proposero di lavorare con un contratto stagionale in una spa di lusso di Capri.
Ma, ancora una volta, dopo due anni restai senza lavoro. E ancora una volta non mi feci scoraggiare. Cercai tra gli annunci convinta che avrei ricevuto un beneficio ancora più grande, e arrivò: trovai un’offerta che sembrava fatta proprio per me perché una spa di prestigio cercava una naturopata con formazione in medicina tradizionale cinese. Unico neo: era sul lago di Garda.
Per tre anni ho lavorato in questa struttura, che mentre ero lì ha vinto per ben due volte il premio di migliore spa del mondo, e lì sono cresciuta moltissimo professionalmente. Nonostante i ritmi di lavoro davvero intensi riuscivo a trovare il tempo per l’attività. E iniziavo a riconoscere sempre di più il mio valore professionale.
Nel 2017 però cominciarono a manifestarsi fastidi fisici provocati dai ritmi di lavoro sempre più intensi, e quando mi si stava offrendo un contratto a tempo indeterminato, a 40 anni, il medico mi disse che dovevo assolutamente cambiare professione. I dubbi e la paura mi assalirono: dove avrei più trovato un altro lavoro stabile alla mia età?
Ma dovevo avere rispetto per la mia vita e smetterla di dubitare di me stessa.
Così mi sono licenziata e sono tornata a Napoli non sapendo cosa sarebbe accaduto, ma con una rinnovata consapevolezza del mio valore e dell’esperienza acquisita. Non ho avuto neanche il tempo di cercare che, proprio a Napoli, ho ricevuto una proposta di lavoro da terapista come libera professionista, il che mi permette di lavorare meno e guadagnare di più. Ora ho più tempo da dedicare alla mia formazione e anche alle attività della Soka Gakkai, per ringraziare il mio maestro offrendo la mia prova concreta.
(Rosa Costa)

La naturopata resiliente

SCUOLA E SOCIETÀ
<h1>Come far capire che anche in mezzo a tanta trascuratezza si può coltivare la speranza?</h1>
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Ho sempre immaginato la scuola come un ecosistema il cui benessere è dato dalla corretta comunicazione e dalla cura reciproca tra le sue componenti. Studentesse e studenti entrano in un mondo il cui codice va fatto loro conoscere in tutte le sue sfumature, affinché possano beneficiarne: ogni materia è un aspetto di questo codice, e l’educazione nel suo complesso è una metaeducazione attraverso le cui componenti si insegna (cioè si mostra) la complessità della vita e si fornisce uno strumento per guardare fuori e dentro di sé. Educare in latino è un verbo agricolo: vuol dire “far uscire” e sta a indicare l’attività di chi coltiva la terra e ha cura che le gemme crescano in piante rigogliose.
Il liceo dove insegno si trova a Torbellamonaca: è la scuola più grande di Roma, con circa duemila “abitanti”, collocata in una periferia tra le più povere; è zona di frontiera e incontro/scontro fra mondi diversi fatti di senso civico e di abdicazione alla civiltà.
Vivere e andare a scuola qui ha, a prima vista, l’apparenza di essere fuori da tutto, chiusi in un mondo grigio (come grigia è la scuola) e senza speranza.
Ma la frontiera è simbolicamente un passaggio e i giovani che vengono a scuola sono gemme nascoste: vederle e farle risplendere sta a noi. Come far capire che anche in mezzo a tanta trascuratezza si può coltivare la speranza?
Minacciati da un diffuso senso di rassegnazione (ma che mi frega, ma chi te lo fa fare, tanto non serve, tanto voi ci date solo voti, la vita è altro), misurano la ricchezza in quantità di denaro – e se chiedo loro che ci farebbero, con tanti soldi, non sanno rispondermi –: anche questa è rassegnazione.
Ma nulla cambia se io per prima non cambio: la certezza che in ogni giovane persona io mi trovi davanti esistono infinite potenzialità è il cuore sia della mia rivoluzione umana sia del mio modo di relazionarmi con l’ambiente esterno. E la scuola è un passaggio essenziale per lo sviluppo di questa consapevolezza. Dove l’egoismo dilaga, insegniamo che si vince insieme.
Da questo punto di vista un’iniziativa importante del quartiere è la scuola popolare di Torbellamonaca, un progetto nato alla fine del 2018 dal desiderio di un gruppo di persone – impegnate per lavoro o studio nel mondo della scuola e dell’università – di offrire a studenti e studentesse degli istituti superiori la possibilità di “recuperare” lacune senza dover pagare le ripetizioni private, pratica diffusa che di fatto esclude tutti coloro che non possono permettersela. La sede che ospita la scuola popolare è El “Che”ntro, il centro sociale di Torbellamonaca a Largo Mengaroni. L’ideale alla base è che questa sia una modalità per liberare lo studio dall’unico vincolo del voto: non è una semplice ripetizione gratis, ma un mutualismo attivo, basato sullo scambio: insegno a chi ha bisogno e a sua volta chi ha ricevuto offrirà il proprio aiuto. I murales che stanno colorando il quartiere sono la manifestazione di quanta luce creativa si sprigioni quando si apprezza integralmente una persona.
Un'esperienza che, per dirla come Pepe Mujica, ex presidente dell'Uruguay, dimostra come la prosperità non sia “quanto”, ma “come”; e la logica dell’accumulo individuale mostra tutta la sua fragilità nel momento in cui si insegna e si impara – vicendevolmente – che prosperità significa agire per la speranza.
(Giulietta Stirati)

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<h1>Ho cominciato ad aprire la mente e a desiderare qualcosa di più per la mia vita</h1>
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La società è il luogo in cui tutti noi esseri umani viviamo e siamo inseriti. È il posto in cui affrontiamo situazioni legate al tempo e agli orari da gestire, lo spazio in cui ci relazioniamo con l’autorità e con le regole da seguire, il terreno in cui dobbiamo ottenere dei risultati, risolvere problemi e confrontarci con le altre persone.
Se penso al momento della mia vita in cui ho cominciato a relazionarmi con questi aspetti, potrei dire che si tratta del periodo scolastico, in particolare quello delle scuole superiori. Ricordo di avere cercato il distacco dalla mia famiglia, l’indipendenza e l’emancipazione. Di aver affrontato difficoltà come l’autorità degli insegnanti, l’inserimento sociale con i compagni e nei gruppi, le prime situazioni legate all’amore, e ho incominciato a fare qualche piccolo lavoretto.
All’epoca ancora non praticavo ed era più difficile affrontare sia le questioni legate alla quotidianità sia quelle legate a quel momento di trasformazione in cui si passa velocemente dall’infanzia all’età adulta. La scuola in questa fase gioca un ruolo fondamentale per la formazione culturale e la crescita umana di un adolescente, è la prima importante funzione esterna che permette di aprire le vedute sulla vita rispetto al più protetto ambiente familiare che, in alcuni casi, può essere anche deleterio.
Io ho frequentato il Liceo Scientifico Edoardo Amaldi nel quartiere di Torbellamonaca a Roma, una zona conosciuta per fatti di cronaca che hanno poco a che fare con attività legali. Come polo giovanile di un quartiere periferico e in parte ghettizzato, quel liceo ha avuto e ha tuttora la stessa funzione sociale: togliere i ragazzi dalla strada, da eventuali situazioni familiari difficili, e dare una possibilità di realizzazione per la loro vita.
Questa scuola è stata per me un’ancora di salvezza, sebbene avessi minacciato più volte i miei genitori di smettere di andarci. Ho avuto la fortuna di avere insegnanti che erano prima di tutto persone ricche di umanità e che avevano a cuore la mia crescita. Ricordo che alcuni di loro si battevano per la vita e il futuro di studenti e studentesse, anche quando erano i giovani stessi a non volerlo e a non capirlo. Quei professori mi hanno insegnato a studiare e, così facendo, ho cominciato ad aprire la mia mente e a desiderare qualcosa di più per la mia vita. Purtroppo tutto ciò l'ho capito soltanto dopo anni e non mentre lo stavo vivendo.
A posteriori, da praticante buddista, posso dire che la scuola è anche da considerarsi il primo vero momento di costruzione per un adolescente, il primo terreno in cui cominciare a seminare delle cause positive per la propria vita, in cui si inizia a scoprire che tipo di frutto si vuole diventare: “ciliegio, susino, pesco o prugno selvatico”.
Ecco perché la scuola può essere considerata una palestra di vita in cui, affrontando e superando le prime difficoltà legate al periodo, si cresce e si impara a riproporre lo stesso atteggiamento anche per il futuro.
Proprio perché, come scrive il presidente Ikeda, «una persona capace è in grado di far crescere altre persone capaci», penso che il Liceo Amaldi abbia una funzione preziosa e cruciale. Sarò sempre grato a questa scuola e ai suoi insegnanti.
(Andrea Lorenzini)

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Il valore e la potenza dell'esperienza scolastica

SCUOLA E SOCIETÀ
<h3>People Have the Power: un progetto per sensibilizzare e mobilitare i giovani nel contrasto alle disuguaglianze</h3>
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«Di fronte a fenomeni che stanno diventando epocali, come la crisi ecologica e quella sociale, i giovani sono spesso disillusi e scoraggiati dall'inerzia di una classe politica che non sembra prendere seriamente in carico problemi quali quello delle crescenti disuguaglianze e della rottura della coesione sociale». Così esordisce Mikhail Maslennikov, laureato in matematica e statistica economica, policy advisor sul tema della disuguaglianza all’interno di Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief), e responsabile del progetto People Have the Power. «Oxfam ha nella sua mission la lotta alla povertà estrema. L’acuirsi delle disuguaglianze in Italia e nel mondo è un fenomeno che ostacola la fuoriuscita dalla povertà per milioni di persone. Con il progetto People Have the Power abbiamo voluto rivolgerci ai giovani con un pacchetto formativo sul tema della disuguaglianza e un successivo percorso di attivazione dei più motivati per renderli protagonisti di azioni di contrasto alle disuguaglianze nei propri territori. Anche se molti dei ragazzi e ragazze che hanno partecipato al progetto vivono in condizioni decisamente benestanti, capiscono che l’estremizzarsi delle disuguaglianze è un problema serio, che ci coinvolge tutti e tutte per le ripercussioni sociali che ne derivano in termini di tenuta della stessa coesione sociale». 

Come è nato questo progetto, che mira a formare le giovani generazioni e al loro empowerment, in un momento in cui invece sono rassegnate, non vedono futuro, scappano dalla scuola…?

Nasce come progetto educativo finanziato dall’Aics (Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo) che ogni anno stanzia fondi per iniziative della società civile sull’educazione alla cittadinanza globale promuovendo, tra l’altro, una cultura comune sui temi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
L’obiettivo centrale era riflettere insieme ai ragazzi su quali fossero le cause e le conseguenze delle disuguaglianze nelle loro varie sfaccettature: spaziali, fra città e zone rurali e fra quartieri all’interno delle stesse città, disuguaglianze che si ripercuotono sulla dimensione di genere, razza, etnia, religione, background familiare. Un focus prevalente è stato poi dato a un approfondimento della disuguaglianza economica.
Il progetto ci riporta dentro la cornice delle regole comuni che, come cittadini italiani, ci siamo dati: siamo guidati da una carta costituzionale bellissima, che all’articolo 3 sancisce il principio dell’uguaglianza. Ridare il potere alle persone, far valere la dignità di ciascun individuo, lavorare per un’economia umana, sono queste le motivazioni che si celano dietro la scelta del titolo del progetto.

Alla fase formativa ne è seguita una operativa?

Sì, il progetto ha spronato i giovani ad attivarsi sui propri territori (sono 12 le città italiane coinvolte, non necessariamente nelle periferie o nelle aree socialmente più difficili, tramite un partenariato che oltre Oxfam ha visto la partecipazione di molte altre Ong) con l’obiettivo di organizzare momenti extrascolastici, forum territoriali dove ragazzi e ragazze potessero discutere e presentare ai decisori politici locali proposte concrete, con la possibilità di organizzare iniziative ed eventi pubblici che coinvolgessero la cittadinanza, anche in un confronto intergenerazionale.
Ne è nato anche un manifesto (vedi box a p. 20) in cui in maniera sintetica i giovani alzano la voce su alcuni macro-ambiti che ritengono prioritari e sui quali chiedono l’intervento delle istituzioni pubbliche, in primis del governo. 

In questa fase successiva sono stati coinvolti anche giovani non necessariamente studenti? 

Sì, ci sono stati eventi ai quali hanno partecipato giovani non studenti, e anche persone non giovani. Alcune iniziative hanno avuto momenti di riflessione congiunta, gruppi di discussione, ospiti e una massiccia partecipazione del pubblico; altre sono state più “ludiche” ma sempre con un’accentuata componente culturale, magari con espressioni artistiche sul tema della disuguaglianza: poesie, performance canore, teatro, letture. Non è facile raggiungere l’interesse pubblico su temi che le persone sentono, ma che possono risultare anche un po' respingenti. Per questo la chiave di lettura che i ragazzi hanno proposto è stata un tentativo di guardare come queste disuguaglianze e disparità si perpetuano di generazione in generazione, come si perpetuano ostacoli e scorciatoie che alcuni hanno nel nostro paese, l'esistenza o meno di mobilità sociale e intergenerazionale. Del resto il tema della mobilità sociale non interessa solo i giovani in prima persona, ma anche chi pensa ai figli e ai nipoti.

Oltre a chiedere un intervento alle istituzioni, cosa prevede il progetto per trasformare in modo più profondo i valori e l'interpretazione della realtà nelle coscienze sia di chi la subisce sia di chi la impone? 

Certo, le persone sono stanche di petizioni. Sebbene restino tuttora un sistema efficace per quantificare il consenso pubblico su un dato tema, è pur vero che tali petizioni spesso rimangono disattese, alimentando il senso di impotenza e sfiducia dei cittadini verso le istituzioni.
Ma nel caso di People Have the Power ritengo che anche in un incontro di pochissime persone, se lasciamo qualcosa, insinuiamo un dubbio, uniamo dei puntini che prima si vedevano separati, abbiamo ottenuto un risultato. Se l’obiettivo è arrivare al cambiamento del senso comune, far capire i meccanismi per cui le traiettorie di vita sono così diverse, prendere coscienza della problematica, questo è un primo risultato nella speranza che sempre più individui possano diventare moltiplicatori di questo messaggio e cittadini critici. Per poi passare da cittadini critici a cittadini attivi occorre affinare categorie logiche, scegliere e decidere mettendo al centro il bene collettivo. Può un progetto del genere, al di là del manifesto, ambire a tradursi in azione? Forse ancora no, è un percorso molto lungo che richiede tempi di maturazione superiori all’arco di vita del progetto. Ma il seme di una formazione critica è stato gettato: i ragazzi capiscono benissimo cosa voglia dire frattura sociale, sono motivati ad agire e pronti a infrangere, anche con il sapere acquisito, le barriere che vedono, per costruire ponti laddove è possibile.

Qual è l’età dei ragazzi e delle ragazze che hanno partecipato al progetto?

Direi intorno ai 15-16 anni, ma ai forum territoriali si sono avvicinati anche universitari, ventenni e trentenni. Prima ci siamo concentrati sulla formazione in ambito scolastico con laboratori nelle scuole superiori, poi sono stati avviati percorsi di formazione extrascolastici per “giovani leader”, i catalizzatori dell’attività territoriale.
È importante che, alla fine dell’esperienza, i ragazzi e le ragazze abbiano chiesto “cosa possiamo fare”. Vogliono continuare ad approfondire teoricamente e intervenire sul territorio, magari con attività di sensibilizzazione. A tutti noi partner del progetto spetta quindi rafforzare la nostra capacità di recepire questo genere di richieste e proseguire – là dove richiesto – l’opera di accompagnamento di questi giovani che intendono attivarsi.

Anche il dossier è stato redatto dagli studenti? 

No, il dossier Non rubateci il futuro è un lavoro di ricerca da me curato (vedi box).
Affronta il tema della mobilità sociale quale chiave di lettura per analizzare gli impatti della disuguaglianza sulle giovani generazioni. Si tratta di un tema molto sentito dai giovani, che spiega in gran parte le ragioni delle loro flebili aspettative.
Per esempio: cosa vuol dire "ascensore sociale bloccato"? In Italia in concreto vuol dire che i figli di oggi sono più poveri, patrimonialmente e come reddito, dei loro genitori. E che, peggio ancora, i ricchi di oggi sono figli di ricchi e i poveri di oggi sono soprattutto figli di poveri. 

In una situazione di assoluta rassegnazione come quella attuale, al termine del progetto i ragazzi sono cresciuti, si sono sentiti più potenti?

Bella domanda, la girerei ai nostri ragazzi.
L’obiettivo del progetto era far sì che partecipasse anche il meno interessato, motivarlo. Dare una possibilità di guardare oltre, di uscire dal proprio “orticello” e imparare a chiedersi criticamente cosa fare e come comportarsi per fare la differenza nei propri territori. Sono convinto che anche qualcuno tra i meno motivati abbia fatto un salto.
Il fervore in alcuni di questa generazione già c’è. Lo dimostrano le mobilitazioni degli ultimi tempi sulla crisi climatica, che sono un richiamo e un monito molto importante verso i decisori politici. Serve dare voce alle nuove generazioni, valorizzare le loro innumerevoli potenzialità. Speriamo che questi progetti servano a questi giovani per motivarli a essere cittadini attivi, consapevoli dei propri diritti e saggi detentori di un potere che metta sempre al primo posto il bene di tutti.

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<h3>MANIFESTO DEI GIOVANI PER UN FUTURO PIÙ EQUO</h3>
«Questo manifesto è stato redatto da un gruppo di giovani del progetto People Have the Power ed è rivolto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ai suoi ministri affinché si intraprenda con urgenza un’efficace azione di governo per contrastare le disuguaglianze che attanagliano il nostro paese e minano il futuro delle giovani generazioni.
Questo manifesto è altresì indirizzato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in quanto massimo garante della Costituzione che ha tra i suoi princìpi fondamentali quello dell’uguaglianza».
Con questo incipit si apre il manifesto nel quale i giovani sollevano la voce per contrastare il fenomeno «allarmante e profondamente nocivo» delle disuguaglianze. E chiedono con forza a chi ricopre incarichi politici di «dare un taglio alle disuguaglianze» con azioni concrete per rimuovere le condizioni che impediscono a tanti giovani di aspirare a una vita libera da precarietà, povertà ed emarginazione, indicando gli ambiti di intervento pubblico ritenuti prioritari: Istruzione pubblica, Politiche del lavoro, Servizi per la socialità e la cultura.
Il Manifesto si chiude con questo richiamo: «Oggi la nostra voce risuona forte e chiara verso le istituzioni: non rubateci il futuro». (http://peoplehavethepower.oxfamitalia.org/download/Manifesto.pdf)

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<h3>DOSSIER SUI GIOVANI E LE DISUGUAGLIANZE IN ITALIA</h3>
Non rubateci il futuro: un lavoro di 23 cartelle che dà voce, nelle due pagine finali, ai punti salienti del manifesto redatto dai giovani. Con l’ausilio di grafici, schemi e tabelle, la ricerca analizza temi come la mobilità sociale e l’uguaglianza di opportunità, la mobilità intergenerazionale, il ruolo dell’istruzione, la dispersione scolastica, il mercato del lavoro con particolare riguardo alle giovani generazioni.
(https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2019/09/MB_NON-RUBATECI-UL-FUTURO.pdf)

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(Marina Marrazzi e Maria Lucia De Luca)

C'è un potere da reclamare per il bene di tutti

SCUOLA E SOCIETÀ

30 anni, laureata in Scienze della Mediazione Linguistica, attualmente è educatrice presso la fondazione a capo della biblioteca della sua città, Settimo Torinese. Interessata al volontariato rivolto ai giovani nella sua stessa situazione, ha fondato un gruppo informale che vuole raccontare in modo creativo i bisogni dei cittadini, il modo in cui i giovani vedono le sfide, la lotta alle disuguaglianze e la questione ambientale, realizzando ambienti accoglienti in cui esprimersi e «staccare dallo stress dovuto all'instabilità di fondo che caratterizza oggi la vita di noi giovani».

Come ha conosciuto questo progetto e in che ruolo vi ha partecipato?

Ho conosciuto questo progetto grazie al mio contatto con Re.Te. Ong, un'associazione di Torino che si occupa di cooperazione allo sviluppo. Qui ho iniziato a partecipare ad attività di progetti, come quello di Oxfam, che riguardano le sfide globali alle quali siamo sottoposti noi giovani nella società odierna: i cambiamenti climatici, la lotta alle disuguaglianze, l'educazione di qualità, etc. Sono temi che sento molto vicini da sempre, ma in particolare da quando ho deciso di partecipare ad attività di volontariato e cittadinanza attiva nel mio territorio, più o meno un paio di anni fa, al termine della mia carriera universitaria. Ho partecipato al progetto People Have the Power in qualità di young leader, partecipando a forum, attività di formazione di giovani nelle scuole e pianificando e attuando eventi e attività nelle città di Aosta, Genova e Torino. Sono così riuscita ad allargare il mio raggio di azione come giovane cittadina attiva in territori diversi dal mio.

C’è stata una trasformazione del suo punto di vista dopo aver riflettuto ed essersi confrontata con altri giovani intorno a questi temi?

Con assoluta certezza, poiché ho potuto approfondire con dati concreti quale fosse la situazione nel nostro paese in merito alle disuguaglianze economiche, dandomi l’occasione di comprendere più da vicino cosa succede nelle nostre città. Il confronto con i miei coetanei nel progetto è stato uno strumento di arricchimento del mio pensiero, e non sono mancate occasioni di dibattito che hanno aperto il confronto tra diversi punti di vista sulla società del nostro presente. Poi, durante gli eventi territoriali, sentire il parere delle istituzioni in merito ai temi del progetto e vedere il loro desiderio di impegno a collaborare con i giovani e pensare ad azioni locali concrete mi ha infuso coraggio e l’aspettativa di un futuro più equo.

L’impegno in questo progetto ha avuto per lei ricadute concrete?

Gli eventi sul territorio mi hanno avvicinata moltissimo alle istituzioni della mia città, con le quali si è creato un rapporto di dialogo aperto e prospettive di co-progettazione di politiche dedicate al mondo giovanile nell’ambito di formazione, lavoro e iniziative culturali, sempre con l’appoggio di Re.Te. Ong, che è stata, oltre che partner nel progetto, una guida per me e altri giovani del mio territorio. Lavorativamente parlando, partecipare a People Have the Power mi ha fornito ottime competenze comunicative e organizzative che hanno arricchito il mio bagaglio di soft skills. Inoltre, mi ha permesso di conoscere centinaia di ragazze e ragazzi di tutta Italia che hanno, come me, il desiderio di cambiare il mondo in prima persona.

Il coraggio e la prospettiva di un futuro più equo

Sempre più guidato dalle logiche del mercato, asservito agli interessi di aziende multinazionali, il lavoro ha perso la connessione con la funzione sociale che svolgeva in passato.

Per il pieno sviluppo del potenziale umano

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