La visione del mondo che ci guida e condiziona scelte e giudizi non è sempre frutto di una nostra decisione consapevole: siamo immersi, immerse, in un “pensiero implicito” che ci precede, in cui nasciamo e di cui spesso non ci accorgiamo.
Questo è sicuramente il caso del cosiddetto “patriarcato”, un modo di vedere i rapporti tra i due sessi che risente di una visione squilibrata in cui il “maschile” si pone come “Il Soggetto”, e da cui discendono a cascata una serie di conseguenze – nei comportamenti, nei giudizi, nella percezione di sé – che ci condizionano profondamente, uomini e donne, e di cui quasi mai siamo consapevoli.
Scopo di questo speciale è dire quanto sia importante “svelare” questo pensiero implicito nella nostra cultura, per depotenziarlo e restituire libertà e valore al fatto di essere uomini e donne. Questo svelamento è la radice profonda da cui ogni ulteriore passo che riguardi la parità di diritti (sociali, economici, ecc.) fra uomo e donna, o l’eliminazione della violenza sulle donne, può derivare e durare nel tempo, perché solo così sarà convincente e liberatorio per tutti e tutte.

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Nel Buddismo c’è il principio del pesco, susino e prugno selvatico che fa comprendere l’importanza non semplicemente di “riconoscere e accettare” la diversità, ma di sperimentarne il valore perché solo così è possibile per ogni individualità fiorire appieno.
Nel Sutra del Loto, per la prima volta, si afferma la possibilità per le donne di ottenere l’Illuminazione attraverso la storia di Ryunyo, la figlia del Re drago che bambina, femmina e mezza animale mostra al Budda il suo gioiello di inestimabile valore. Non solo. Continuamente Shakyamuni si rivolge a uomini, donne, laici, laiche… valorizzando la specificità di chi praticherà e diffonderà il suo insegnamento.
Afferma il Daishonin, a tale proposito: «Quando io, Nichiren, leggo i sutra diversi dal Sutra del Loto, non provo il minimo desiderio di diventare una donna. […] Solo nel Sutra del Loto si legge che le donne che abbracciano questo sutra non solo sono superiori a tutte le altre donne, ma eccellono su tutti gli uomini» (L’unità di marito e moglie, RSND, 1, 409).
Anche il presidente Ikeda ne coglie sempre il valore e la forza: «Sembra proprio che le donne siano più esperte nella pacifica arte del dialogo da persona a persona. È negli scambi, nelle relazioni della vita quotidiana, simili al ritmo costante del sole che sorge e illumina ogni giorno, che si forma una nuova consapevolezza e si crea un valore autentico e duraturo» (BS, 97). E lancia un appello a tutti e tutte noi, maschi e femmine: «Con le donne come capofila, quando ogni singolo individuo si impegnerà in modo consapevole, saremo in grado di impedire che la società ricada in una cultura di guerra e potremo sviluppare e concentrare le energie per la creazione di un secolo di pace» (Proposta di pace 2000, DuemilaUno, n. 80, cfr. BS, 199).

Patriarcato

Oggi la parola “patriarcato” è entrata nell’uso comune. Anche alla luce di recenti fatti di cronaca che cominciano a essere letti in un’ottica più complessa, come emerge anche dal film di Paola Cortellesi C’è ancora domani che ha avuto un pubblico molto più numeroso di quanti già sono sensibili a questi argomenti. Ma cos’è il patriarcato? Come agisce? Riguarda solo gli uomini? O anche le donne? Come svelarlo, come riconoscerne i meccanismi? Come trasformarlo? È importante tornare alle origini, facendo luce sugli aspetti del patriarcato che ingabbiano uomini e donne. Farlo non è contro nessuno, ma per tutte e tutti. E riguarda ogni aspetto dell’esistenza 

Che cos’è il patriarcato? Cosa significa?
“Patriarcato” significa letteralmente “legge del padre”. È un sistema sociale basato sull’autorità maschile. Ma più propriamente con “patriarcato” si intende, oggi, una visione del mondo che definisce tutto quello che ci circonda a partire da un unico sguardo: quello maschile. Sguardo che si fa portavoce di tutti e tutte e cancella così ogni forma di alterità, ogni differenza. A partire dalla prima differenza. La più significativa simbolicamente e numericamente.
La caratteristica principale del patriarcato è proprio la tendenza degli uomini a definire anche le donne, oltre che se stessi. Cosa deve fare, sentire, essere una donna viene stabilito dallo sguardo maschile. Che diventa, così, la misura del mondo.
Parlare di patriarcato vuol dire svelare questo modo di pensare.
La realtà che ci circonda è come una casa in cui ogni oggetto è stato dislocato nello spazio secondo necessità e desideri maschili. E in cui noi donne ci siamo abituate a vivere. Adattandoci. È una visione che impariamo fin da subito. Invisibilmente.
Svelare questa attitudine inconsapevole è necessario perché gli uomini si predispongano a una nuova avventura creativa: mettersi di fronte a ciò che non gli somiglia, con curiosità e rispetto. E perché noi donne riusciamo a vivere con autenticità ogni aspetto della nostra esistenza, a partire da ciò che desideriamo e non da ciò che gli altri si aspettano che noi si desideri.

Il patriarcato non riguarda solo gli uomini
Il patriarcato non abita solo negli uomini, dunque, ma anche in noi donne, che abbiamo fatto nostro quel modo di pensare.
Fin da piccole, noi femmine, impariamo a guardare il mondo con gli occhi degli altri. Ma non lo sappiamo. Non ne siamo consapevoli.
Quali sono le conseguenze? La cancellazione di un modo differente di guardare la realtà. E questa cancellazione riguarda il modo in cui una donna pensa, desidera, ama, vive la giornata, il lavoro, la salute.
È una cosa talmente invisibile da non averne percezione consapevole.
Questo effetto “colonizzatore” comincia prestissimo, a casa, ma anche a scuola. Perché la cultura impregna ogni ambito della nostra vita.
Immaginate questa scena. Una bambina che chiede alla maestra.
Bambina: Signora maestra, come si forma il femminile? 
Maestra: Sostituendo la “a” alla “o” del maschile.
Bambina: Signora maestra, il maschile come si forma? 
Maestra: Il maschile non si forma, esiste. 
Ecco riassunto, in quattro righe, il senso del patriarcato. Il maschile esiste. Il femminile ne è solo una declinazione.
Ma quale maschile? Un maschile che ormai ingabbia anche gli uomini, costretti ad assimilare un modello antico di eroismo e virilità bugiardi.

Che fare?
Urge una nuova ri-significazione.
Capace di cambiare il mondo. Perché il rispetto della differenza femminile, la più importante, simbolicamente e numericamente, è garanzia del rispetto di ogni altra forma di differenza.
Che prevede due operazioni distinte eppure connesse. La prima: svelare alle femmine la propria specificità e insegnare a viverla non come difetto, non come un minus, ma come un pregio distintivo.
La seconda: insegnare ai maschi la parzialità, cioè a sentirsi parte di un universo e non a sentirsi l’intero universo.
Servono entrambe le operazioni, perché il problema non è solo l’inconsapevole prepotenza maschile dell’ergersi a soggetto universale, ma anche l’assenza diffusa di uno sguardo femminile autorevole.
Non si deve cadere nell’errore di immaginare la lotta al patriarcato come una lotta agli uomini. In questa rivoluzione culturale non ci sono i buoni e i cattivi.
Siamo tutte e tutti immersi in questa cultura. Che urge cambiare. Introducendo la dimensione simbolica della differenza in ogni ambito del vivere.
L’uguaglianza prevede di essere “uguali” rispetto a un parametro. Ma quale parametro? Uguali a chi? A quel modello, invisibile e presentissimo. Ormai sempre più pesante anche per gli uomini stessi. Ingabbiati in una visione eroica che non consente debolezze e fragilità. Né ri-declinazioni creative di sé.
Nel 1970 una donna straordinaria, Carla Lonzi, una delle menti più fulgide del pensiero delle donne, scriveva così: «L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone. Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita» (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La tartaruga, 2023).

Un mondo a misura d’uomo
Parlare di patriarcato non vuol dire parlare solo degli equilibri delle relazioni sociali e personali fra uomini e donne, non vuol dire parlare di problemi di coppia o familiari. Vuol dire parlare di politica, delle guerre, della crisi climatica, degli equilibri del mondo.
Perché ogni aspetto della realtà è pervaso di cultura patriarcale.
Ogni volta che non si valorizza la differenza si sta colpendo in primis la popolazione femminile.
La differenza c’è, ma non la si vuole vedere. Nello studio delle malattie, nell’analisi dei sintomi, nella sperimentazione dei farmaci, nella progettazione delle automobili, nella compilazione delle antologie e dei libri di testo, nella toponomastica delle città, nei nomi delle vie, delle strade e delle piazze.
Nel linguaggio. Nella struttura delle norme. Nelle regole sociali e comportamentali.
«C’è un elefante che spesso gli scienziati non vedono: le donne si ammalano il doppio degli uomini di Alzheimer, di depressione, di emicrania, di sclerosi multipla o di tumori come il meningioma. Nonostante questi numeri siano noti non succede nulla. Ancora oggi nelle neuroscienze i test in laboratorio sono su soggetti maschi e non è una sorpresa che un elevato numero di farmaci sia ritirato per i gravi effetti collaterali a carico delle femmine» dice Antonella Santuccione Chadha, fondatrice di Women’s Brain Project, organizzazione che sviluppa un approccio alla malattia mentale che tenga conto delle differenze.
Il malcelato rifiuto ad affrontare questo tema in maniera approfondita o il considerarlo una cosa teorica o accessoria dipende anche dalla situazione di precarietà dei nostri tempi, che lo fa sembrare meno importante rispetto alla guerra, alla situazione ambientale, alla condizione economica.
Invece è sostanziale, cambiando questo pensiero cambia tutto.  

Il principio che regola la società
Per capire meglio di cosa si sta parlando è necessario riprendere in mano alcuni capisaldi del pensiero delle donne, rileggere, ad esempio, Virginia Woolf e Carla Lonzi, per ritrovare le radici di un pensiero radicale.
Radicale nel senso etimologico del termine: capace di andare alla radice.
Una delle prime a dirlo è stata proprio Virginia Woolf, in un testo straordinario che si intitola Le tre ghinee.
È il 1938, l’Europa è minacciata dal nazismo e dalla guerra che incombe. Un amico segretario di una associazione pacifista chiede alla Woolf un contributo in denaro per finanziare le attività contro la guerra.
Lei risponde con quel testo, rivoluzionario per l’epoca. Testo in cui afferma che «non si può parlare di guerra se prima non si parla di maschi e femmine». Perché il principio che sta alla base del nazismo e del fascismo è lo stesso che regola, nella società, i rapporti tra maschi e femmine.
Finché uomini e donne non troveranno il modo di stare in relazione in maniera da rispettare autenticamente la loro differenza, niente potrà davvero migliorare in questo mondo.
Era il 1938. È il 2024. Eppure il patriarcato è ancora molto presente nella storia.
Regola le relazioni, organizza i pregiudizi, guida i pensieri, muove le decisioni.

La visione di Sensei
Ricordo come fosse ora l’emozione incontenibile e profonda di quando lessi la Proposta di pace del presidente Ikeda del 2001.
C’è un passaggio straordinario in cui scrive: «Sono certo che nel ventunesimo secolo l’entrata in scena delle donne avrà una portata che andrà al cuore della civiltà umana, e si rivelerà più importante e vitale dell’ottenimento della parità legale ed economica. Un secolo di vita deve essere anche un secolo delle donne» (BS, 87).
«Una portata che andrà al cuore della civiltà umana e si rivelerà più importante e vitale dell’ottenimento della parità legale ed economica». Il nostro maestro stava nominando il senso della trasformazione della cultura del patriarcato.
Che non si limita a pretendere pari diritti. Che non vuole pareggiare. Ma allargare la prospettiva del mondo.
Mai come adesso serve un numero di donne consapevoli di essere “altro” e capaci di conoscere cos’è questo “altro” e di viverlo. Donne capaci di non mancare all’appuntamento con sé stesse. Mai come adesso servono uomini curiosi di sperimentare una nuova dimensione. Mai come adesso servono persone capaci di riscrivere altre mille magnifiche forme di differenza. Perché la realtà, anche se fanno di tutto per farci credere che è così, non è data una volta per tutte.
La realtà si trasforma. E solo un mondo fatto così, del rispetto profondo che esprime l’alterità della differenza, porterà bellezza e futuro.
(Gianna Mazzini)

Riguarda gli equilibri del mondo

La tradizione buddista precedente al Sutra del Loto, sebbene in diversi gradi, considera la donna come un individuo inferiore, a cui è preclusa l’Illuminazione. In alcuni sutra le donne sono definite «messaggere dell’inferno» che possono distruggere il seme della Buddità e che, «nonostante esteriormente possano sembrare bodhisattva, nel loro cuore sono demoni».[ref]Il Daimoku del Sutra del Loto, RSND, 1, 130.[/ref] In altri si dice che «niente possa superare, nemmeno la somma totale dei vari desideri e illusioni di tutti gli uomini di un sistema maggiore di mondi, l’impedimento karmico di una singola donna».[ref]Ibidem, 131.[/ref]
In generale viene messo in evidenza come la caratteristica della donna sia la mancanza di fermezza e che, «poiché la caratteristica del Budda è la rettitudine e la franchezza, le donne con le loro ambiguità non potranno mai diventare Budda».[ref]Ibidem.[/ref]
In tale prospettiva, per le donne l’unico modo per superare questo impedimento “pregiudiziale” che, inevitabilmente, si traduce in un senso di inadeguatezza totalizzante e un non sentirsi mai all’altezza di niente e di nessuno, è confidare, per le vite successive, in un cambiamento di genere, sperando cioè di rinascere uomo.
Nel Buddismo di Nichiren Daishonin, invece, si afferma esattamente il contrario, e non solo con grande chiarezza si dichiara che «non devono esserci discriminazioni tra coloro che propagano i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo nell’Ultimo giorno della Legge, siano essi uomini o donne»,[ref]Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 341.[/ref] ma l’Illuminazione delle donne rivelata nel Sutra del Loto, l’insegnamento del Budda su cui si basa Nichiren, assurge a principio di Illuminazione universale.
L’ottenimento della Buddità da parte delle donne, esemplificato dalla figura della figlia del Re drago, Ryunyo, nel dodicesimo capitolo del Sutra del Loto,[ref]SDLPE, 256-266.[/ref] diventa in realtà la chiave dell’ottenimento della Buddità di ogni persona, la base per affermare il principio secondo cui ogni singolo individuo ha il potenziale innato e il diritto di realizzare uno stato vitale di assoluta felicità. 

Ma gli uomini non possono crederci
In questo capitolo, intitolato Devadatta, Manjushri narra ad Accumulo di Saggezza che la figlia del Re drago, di soli otto anni, aveva manifestato uno stato vitale di suprema dignità ed era piena di profonda compassione per le altre persone. Accumulo di Saggezza non riesce a crederci, e in quel momento Ryunyo appare davanti a lui e afferma: «Udendo i suoi insegnamenti, io ho conseguito la bodhi: il Budda soltanto può esserne testimone. Io espongo le dottrine del Grande Veicolo per riscattare gli esseri viventi dalla sofferenza».[ref]SDLPE, 263.[/ref]
Anche Shariputra, un altro discepolo di Shakyamuni, nel sentire queste parole esprime le sue perplessità. Si tratta del più saggio fra i dieci maggiori discepoli del Budda, e infatti non si limita ad elencare i motivi, noti a tutti peraltro, per cui è impossibile per una donna conseguire la suprema bodhi (avere un corpo impuro e corrotto, i cinque ostacoli, ecc.) ma, con un fare “paternalistico”, cerca di spiegarle, dall’alto della sua saggezza, che lei “presume di avere raggiunto la via suprema”, cioè si è convinta di aver ottenuto qualcosa che nella realtà non ha e di essersi immaginata come vera una cosa impossibile.
Prosegue quindi in quello che modernamente chiamiamo mansplaining, ovvero davanti all’espressione di un pensiero, un’idea o una percezione da parte di una donna c’è sempre un uomo (o più) che non la prende sul serio, e si sente immediatamente in dovere di spiegarle la verità delle cose.
Allora la bambina drago prende un gioiello che, come spiega il sutra, è la prova di questo stato vitale di Illuminazione, e lo offre a Shakyamuni. Dopo di che si volta ed esorta Shariputra e tutti gli altri discepoli del Budda a vedere con i loro occhi il vero splendore della sua vita e infine, constatando come ella si dedicasse ad aiutare gli altri, tutti si convincono che Manjushri ha detto il vero.
Questa storia rovescia completamente tutte le credenze precedenti: proprio una creatura con una natura così invalidante, in quanto donna, piccola e animale, nell’udire gli insegnamenti del Budda emerge dalle acque e, dopo aver donato al Budda un gioiello in segno di devozione, raggiunge immediatamente la Buddità.
Nichiren Daishonin commenta così questa vicenda: «Fu un fatto così straordinario che il Bodhisattva Accumulo di Saggezza, il principale discepolo del Budda Molti Tesori nel Mondo della Purezza Preziosa, e Shariputra, noto tra i discepoli del Budda Shakyamuni come il più saggio, protestarono affermando che, stando a tutti i sutra mahayana e hinayana predicati dal Budda per più di quarant’anni, la figlia del Re drago non sarebbe potuta diventare un Budda». Quei sutra «si rivelarono delle assurdità. Accumulo di Saggezza e Shariputra furono costretti a tenere a freno la lingua e chiudere la bocca, mentre tutti gli esseri umani e celesti presenti alla grande assemblea in cui fu predicato il Sutra del Loto giunsero le mani per la grande gioia».[ref]RSND, 1, 131.[/ref]

Riconoscere la sua dignità per tutti e tutte
L’Illuminazione della fanciulla drago non si riferisce, infatti, al suo individuale conseguimento della Buddità, ma sottolinea l’indissolubile connessione tra il riconoscere la piena dignità alle donne e il rispetto per la suprema dignità e valore di tutti gli esseri viventi.
Come afferma il presidente Ikeda ne La saggezza del Sutra del Loto: «Tutti, senza eccezione, possiedono il gioiello della natura di Budda. Questo è il concetto del mutuo possesso dei dieci mondi, dei tremila regni in un istante di vita. [...] I dieci mondi includono il mondo di Animalità. Ryunyo ha un corpo animale e sebbene anche nel mondo animale esiste il mondo di Budda, all’occhio che discrimina non è visibile. Il Sutra del Loto vede il mondo di Budda in tutto ciò che vive, non fa la minima discriminazione fra uomini e donne. Negare l’Illuminazione delle donne è negare i tremila regni in un istante di vita, è negare anche la propria Illuminazione».[ref]La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, p. 31.[/ref]
Nichiren Daishonin, in un passo de La raccolta degli insegnamenti orali in cui commenta il capitolo Devadatta, ritiene che il punto di vista espresso nelle critiche dei bodhisattva verso l’ottenimento della Buddità da parte di Ryunyo sia dettato da una visione caratterizzata dall’ignoranza o oscurità fondamentale.
Nel momento in cui i bodhisattva affermano di non poter credere che la fanciulla nello spazio di un istante abbia effettivamente potuto conseguire la corretta Illuminazione rivelano i sintomi tipici dell’oscurità fondamentale: il dubbio, l’incredulità e la perplessità.[ref]BS, 115, 51.[/ref]
I dubbi e le perplessità, tra l’altro, non riguardano solo il fatto che una “creatura invalida” come Ryunyo possa ottenere l’Illuminazione, ma che lo possa fare “nello spazio di un istante”, poiché anche per questo aspetto viene sovvertita l’idea del Buddismo tradizionale secondo cui l’Illuminazione è la conclusione di un percorso lungo diversi kalpa e caratterizzato da difficilissime pratiche austere. 

Nello spazio di un attimo 
In questo episodio del Sutra del Loto ricorrono le parole “rapidamente”, “nello spazio di un attimo”, “breve tempo”, “immediatamente”, e stanno a significare che per poter raggiungere un certo stato vitale non è necessario rimandare, attendere di cambiare le circostanze, le tendenze o aspettare di ottenere determinati risultati, poiché la comprensione della preziosità della propria vita, cioè la vera essenza dell’Illuminazione, è istantanea.
Sempre ne La raccolta degli insegnamenti orali Nichiren precisa: «Le parole “davvero rapidamente” rappresentano la dottrina della realizzazione improvvisa, del conseguimento improvviso e rapido o dell’Illuminazione improvvisa. La stessa idea è espressa nel brano [dell’undicesimo capitolo del Sutra del Loto] che dice: “In tal modo egli conseguirà / l’insuperata via del Budda”».[ref]BS, 115, 53.[/ref]
Tuttavia il nuovo pensiero rappresentato dalla figura di Ryunyo non può essere trasmesso solo con la ragione, giacché le radici della discriminazione sono profonde. Per questo motivo la fanciulla drago ricorre ai simboli e agli espedienti. Davanti alle proteste e alle argomentazioni dei bodhisattva dubbiosi, per prima cosa porge al Budda un gioiello prezioso e il Budda lo accetta immediatamente. Quindi si rivolge a Shariputra e dice che il suo conseguimento della Buddità sarà ancora più rapido della sua offerta del gioiello e dell’accettazione da parte del Budda.
Il gioiello, definito prezioso come l’universo, simboleggia la vita, l’entità della mistica Legge, e offrire il gioiello al Budda significa offrire la propria vita, dedicare la vita, in altre parole significa avere fede.
Il fatto che il Budda abbia accettato il gioiello significa che la vita di Ryunyo è diventata una cosa sola con la vita del Budda: il Budda testimonia che Ryunyo è diventata un Budda.

La vedono trasformarsi in un uomo
Successivamente lei si rivolge a Shariputra e ad Accumulo di Saggezza: «Avvaletevi dei vostri poteri sovrannaturali e guardate come conseguo la Buddità».[ref]SDLPE, 264.[/ref] A questo punto i bodhisattva la vedono trasformarsi in un uomo, portare a termine le pratiche dei bodhisattva e raggiungere l’Illuminazione.
In questo passaggio Ryunyo non si trasforma realmente in uomo, ma chiede agli uomini presenti di usare gli strumenti di conoscenza di cui dispongono per capire una verità più profonda, sotterrata dai preconcetti che impediscono loro di credere, e dato che per loro l’unica Illuminazione possibile è al maschile, non ha altra strada che servirsi di questo espediente.
Ciò significa anche che per le donne illuminate non c’è alcun bisogno di assumere atteggiamenti snaturanti o seguire modelli maschili che non sono propri, solo perché in una società discriminatoria appaiono vincenti.
Il presidente Ikeda afferma: «La dichiarazione dei diritti delle donne che emerge dal Sutra del Loto rende possibile a ogni persona di realizzare una grande felicità. Ogni persona, come Ryunyo, riscattando gli esseri viventi dalla sofferenza nel grande oceano di nascita e morte, si mette in viaggio insieme agli altri verso la felicità assoluta».[ref]La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, pp. 54-55. [/ref]
(Stefania Fusco)

Ryunyo. Il nuovo pensiero

In un’intervista di alcuni anni fa Sakae Takahashi, attualmente consigliera senior della Soka Gakkai europea, mette in evidenza le caratteristiche femminili che è importante si manifestino nella società perché questa possa dirigersi verso una convivenza creativa e pacifica. Sottolinea che l'espressione “secolo delle donne”, utilizzata spesso da Sensei per definire il nostro tempo, non riguarda solo le donne in quanto tali ma soprattutto l'adozione di una corrente di pensiero e di una visione del mondo basate su caratteristiche femminili come il rispetto reciproco, la collaborazione, l’armonia e la convivenza

[...] Nella storia del genere umano tanta gente ha dovuto subire la guerra, la violenza, la povertà, la discriminazione, e in particolare le donne, i bambini e le bambine, i deboli della società, sono state le principali vittime di queste tragedie. Molte volte il presidente Ikeda ha espresso la sua intenzione di creare un XXI secolo nel quale tutti i bambini e tutte le mamme possano godere di una vita piena di gioia. Tali parole esprimono la sua fede e la sua determinazione nel trasformare le tendenze delle persone, il destino del genere umano. Vuole realizzare un mondo che permetta a tutti gli abitanti della Terra di vivere pacificamente, tranquillamente e felicemente, senza alcuna minaccia o discriminazione.
[...] Per creare una società pacifica e per risolvere i vari problemi a livello globale, come quello ambientale e le altre questioni che affliggono il mondo contemporaneo, dobbiamo invertire la direzione in cui si sta muovendo la nostra epoca: da una società gestita e controllata dalla competizione e dalla forza a una società di convivenza che si basa sulla reciproca comprensione e sulla cooperazione. Vale a dire operare una trasformazione dal potere duro al potere morbido.
Il potere duro è una caratteristica maschile rappresentata dal patriarcato che ha dominato a lungo la storia umana; il potere morbido si può considerare una caratteristica femminile, che si esprime nell’amare teneramente e allevare per tutta la vita. È certo che tutte e due le caratteristiche vivono contemporaneamente in un singolo individuo, ma naturalmente la caratteristica femminile è dominante nelle donne.
[…] Nelle contraddizioni e nei problemi della società attuale si riscontra una ipertrofia dell’ego e della coscienza umana. Per risolvere radicalmente tali problemi e per cambiare profondamente la società occorre perciò che l’idea e l’azione siano basate sulla realtà. Il presidente Ikeda l’ha definito un modo di pensare “a misura di vita”, come è scritto nel sottotitolo della sua Proposta di pace 2003 (BS, 97, 36).
Ikeda dice: «Con il termine a misura di vita mi riferisco a una maniera di pensare che non si allontani mai dalla dimensione umana, a una sensibilità umanistica per la vita sia nella sua totalità sia nei dettagli dell’esistenza quotidiana» (Ibidem, 43). […] Afferma inoltre: «La soluzione è ripristinare la nostra sensibilità nei confronti della vita, la nostra consapevolezza tangibile delle realtà del vivere quotidiano, e in ciò sono convinto che le donne possano giocare un ruolo particolarmente importante. Gli uomini tendono a diventare schiavi delle proprie ampie concettualizzazioni e astrazioni, mentre in tutte le epoche le donne sono rimaste molto più legate ai ritmi dell’ecosistema naturale» (Ibidem, 48).
[…] Una cosa vorrei mettere in rilievo: tali caratteristiche femminili si devono manifestare nella società. La cosa importante, quindi, non è semplicemente che le donne ottengano posizioni sociali analoghe a quelle degli uomini. È senz’altro una cosa meravigliosa che le donne facciano carriera nella società secondo le proprie capacità, che la posizione sociale venga definita dalle proprie attitudini, dal proprio carattere, dalle proprie esperienze e non dal sesso. Ed è anche molto bello che le donne si assumano grandi responsabilità in ogni campo della società. Ciò che conta di più, però, non è raggiungere una determinata posizione sociale, ma come ci si comporta. Se le donne agiscono in modo maschile (e talvolta più che maschile), usando poteri duri come la competizione, il selezionamento, le misure autoritarie ecc., non si può cambiare la società. Mi dispiace molto trovare questa tendenza in alcune donne che hanno posizioni importanti nel mondo politico.
Con l’espressione “secolo delle donne” quindi non s’intende solo il miglioramento della posizione sociale femminile, ma anche e soprattutto che la società adotti una corrente di pensiero, una visione del mondo basata sulle caratteristiche delle donne come il rispetto reciproco, la cooperazione, la collaborazione, l’armonia, la convivenza ecc. Tali caratteristiche non sono una prerogativa esclusiva delle donne ma appartengono anche agli uomini. Però credo che proprio le donne, che ne sono maggiormente dotate, abbiano la missione di manifestarle al massimo nella società, per “educare” e sensibilizzare gli uomini che le circondano e per guidare la società.
(Testo integrale: Spostare il mondo verso la pace,  BS, 107)

Se le donne agiscono in modo maschile non si può cambiare la società

Il fatto di essere maschi o femmine c'entra con le leggi e con il diritto? Di fronte a questa domanda apparentemente bizzarra una donna di legge si risponde raccontando l'acquisizione di una nuova consapevolezza

Il diritto è una costruzione maschile? Qualche anno fa questa domanda mi sarebbe sembrata stravagante: il diritto procede per astrazioni – una delle prime cose che ci insegnano a Giurisprudenza è che le norme sono generali e astratte – dunque cosa c’entra con il diritto essere uomo o donna?
Oggi questa domanda non mi sembra più stravagante.
Il fatto che il diritto sia “a misura di maschio” è una constatazione, non un giudizio: per secoli, maschi sono stati i legislatori, i giudici, gli avvocati. Le donne non c’erano dove si creavano le leggi, dove si applicavano le leggi, dove si studiavano le leggi.
Questa assenza non è stata senza conseguenze: perché se il diritto “disegna” la società, un diritto pensato, creato e amministrato da uomini inevitabilmente disegnerà – come in effetti ha disegnato - una società in cui le donne semplicemente non ci sono.
Possiamo dire che le cose sono cambiate nel momento in cui le donne hanno avuto accesso ai luoghi dove si creano le leggi, si studiano le leggi, si applicano le leggi? Non v’è dubbio che la presenza di donne laddove non era contemplata abbia creato scompiglio: per dirla con le parole di Carla Lonzi, è stata “l’irruzione di un imprevisto”.
Faccio solo un esempio: Lidia Poët, la prima donna italiana ammessa nel 1883 all’esercizio dell’avvocatura. La sua iscrizione all’Ordine degli Avvocati suscitò scalpore, fu impugnata dal procuratore generale e innescò un lungo contenzioso, che si concluse con una sentenza della Corte di Cassazione che è un capolavoro di misoginia condita con stereotipi.
In essa si afferma che «la donna non può esercitare l’avvocatura», che è inopportuno che le donne confluiscano «nello strepitio dei pubblici giudizi», magari discutendo di argomenti imbarazzanti per «fanciulle oneste», o che indossino la toga sui loro abiti, ritenuti «tipicamente bizzarri».
Il fruscio delle gonne di Lidia creò un imprevisto simbolico: la presenza di una donna dove non era contemplata. Anche se Lidia non poté mai esercitare a pieno titolo, fu attivissima nella vita culturale e giuridica dell’epoca. E soprattutto ha aperto una strada per quelle che sono venute dopo, diventando un modello a cui altre bambine, ragazze e donne possono guardare pensando che se è stato possibile una volta potrà esserlo ancora, se lo desiderano.
Ma non è solo questione di “quantità di donne”, di donne giuriste per restare nel mio ambito.
Mi sono chiesta se – dopo che la strada è stata aperta – la diffusione di magistrate, avvocate, donne parlamentari, professoresse, abbia prodotto cambiamenti significativi: più precisamente, se l’aumento quantitativo abbia portato a cambiamenti qualitativi. Serenamente rispondo di no, e lo faccio a partire dalla mia esperienza di giurista.
Per decenni ho studiato e poi insegnato diritto senza che nemmeno mi sfiorasse il pensiero dell’assenza di soggettività femminile: del resto, pensavo, le norme sono generali e astratte, servono a filtrare la realtà attraverso l’astrazione, maschio o femmina non c’entra. Ho accettato come universale una rappresentazione della realtà che è invece parziale cioè “di parte”: e l’ho accettata senza neppure accorgermene, tanto è stato “naturale” assorbire quella visione.
E ora? Il mio sguardo sul diritto (e sul mondo in generale) è cambiato nel momento in cui ho cominciato ad averne consapevolezza (non è stata una intuizione individuale, è stato ed è un percorso, insieme ad altre donne).
Per usare in maniera diversa la mia competenza ho prima dovuto riflettere sul modo in cui il mio sapere si era strutturato e prendere coscienza che ogni rappresentazione “neutra” della realtà è il più delle volte una sofisticata opera di cancellazione della specificità femminile.
Le donne potranno anche diventare maggioranza ovunque, ma cambierà poco se il metro di misura è quello maschile che noi per prime abbiamo assunto come l’unico valido.
Provo a spiegarmi meglio.
Il viaggio verso la parità di diritti tra uomini e donne è stato un viaggio lungo e necessario la cui bussola – consapevolmente o meno – è stata però l’interiorizzazione di una visione inferiorizzante delle donne e l‘assunzione del parametro maschile dell’essere nel mondo come modello di “pienezza”: di diritti, di possibilità di autorealizzazione, ecc.
Non voglio assolutamente sminuire l’importanza dei risultati ottenuti per conquistare la parità di diritti, ma mi domando se anche qui non si celi una sorta di cancellazione. Abbiamo giustamente chiesto e ottenuto gli stessi diritti degli uomini e c’è ancora moltissimo da fare in questa direzione. Ma il punto è che guardando solo alla parità non si dà ragione della specificità femminile. Molto meglio di me lo dice la filosofa Luisa Muraro nel suo libro Al mercato della felicità: «L’insensatezza dell’emancipazione era di voler rimediare agli effetti di un’ingiustizia senza nome ignorandola e ribadendola. Per emanciparsi bisognava sostenere che le donne non sono inferiori agli uomini e mostrare che non c’è differenza tra donna e uomo, che voleva dire farsi entrare in testa il pensiero dell’inferiorità, l’abitudine a un confronto con lui. Ma io sono una donna, non c’è da dimostrare, c’è da essere».
Indubbiamente ci sono esempi importanti di leggi che hanno considerato la specificità dell’essere femminile.
Sono leggi preziose, perché hanno strappato il velo dell’astrattezza e introdotto norme “a misura di donna”, spesso sotto la spinta del movimento femminista: la legge a protezione delle donne lavoratrici e delle lavoratrici madri, del 1971, che istituisce il divieto di licenziamento in gravidanza; la riforma del diritto di famiglia, del 1975, che abolisce la figura del capofamiglia maschio; la legge sull’istituzione dei consultori, dello stesso anno; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (1978) e, solo nel 1996, la legge contro la violenza sessuale sulle donne per cui lo stupro diventa un reato contro la persona e non più contro la morale. Fino a misure di “diritto diseguale” (ad esempio il meccanismo delle c.d. quote) per riequilibrare situazioni di squilibrio quantitativo.
Mi domando se questa delle norme a misura di donna sia l’ultima frontiera, rappresenti cioè il massimo che si può fare per la condizione femminile.
Me lo domando perché comincio ad avvertire una sorta di insoddisfazione, la sensazione che manchi qualcosa: e intuisco che quel mancante è carico di possibilità inesplorate, dunque lì ci sarebbe una bella sfida per chi si occupa di diritto.
Manca, ad esempio, la considerazione della differenza come valore da premiare, piuttosto che sempre e solo come disparità da pareggiare.
C’è un potenziale enorme che noi donne non abbiamo ancora espresso: serve consapevolezza – prima di tutto nostra – del valore dello sguardo diverso che siamo in grado di portare in ogni contesto.
Sogno un mondo nel quale le quote rosa non siano più necessarie. Un mondo nel quale la sapienza femminile sia ricercata proprio in quanto tale e dove il traguardo non sia fare le stesse cose degli uomini (in qualche misura quella sfida è già vinta) ma fare cose diverse. Anche grazie a strumenti giuridici che premino la differenza.
Alla luce di questa nuova consapevolezza che vado acquistando riconosco che il mio modo di stare nel mondo, anche nel mondo del diritto, è cambiato. Ma devo costantemente esercitarmi, altrimenti scatta in automatico il pensiero “devo dimostrare di essere brava come un uomo”. Io invece voglio essere brava come una donna!
(Enza Pellecchia)

Sono una giurista

Giovani uomini e giovani donne si confrontano con sincerità e apertura su un tema vissuto in prima persona tutti i giorni, attraverso riflessioni ed esperienze, per accendere una scintilla di consapevolezza in più. Partecipano Ginevra Geracitano, Chiara Scribani Rossi e Marco Zecchiaroli di Roma, Carlo Bigazzi di Firenze. Coordinano Lorenzo Di Nardi e Rossella Maci

Rossella: L’idea di realizzare questa tavola rotonda nasce dalla volontà di confrontarci tra giovani su come il “patriarcato”, parola che purtroppo non è solo un’idea ma ancora un'evidente realtà, intervenga nelle nostre vite ed esperienze. Sarebbe bellissimo poter accendere nei lettori e nelle lettrici una scintilla di attenzione in più su come questo argomento sia così presente, anche se velato, nella nostra quotidianità.
Lorenzo: Abbiamo individuato tre punti su cui avviare la conversazione. Non vogliamo convincere nessuno, ma far scaturire qualche nuovo elemento di consapevolezza.

Vivendo in una società patriarcale, ognuno e ognuna di noi è parte della questione. In un sistema sbilanciato tutte le parti che lo compongono ne soffrono, anche chi è in una posizione apparentemente privilegiata. Quanto è importante sviluppare consapevolezza di ciò? Qual è la vostra esperienza?

Carlo: Credo sia importante maturare la consapevolezza degli effetti di questo fenomeno, se si vuole creare una società che sia più giusta e più felice. Bisogna iniziare dal riconoscere che c’è una parte privilegiata e una parte che subisce questo privilegio, e agire partendo dalle cause. Parlando tra giovani vedo maggiore sensibilità al tema, mentre tra persone adulte si fa forse più fatica a riconoscere che viviamo in una società di questo tipo. O magari lo si riconosce ma si pensa che non ci si possa fare nulla, perché "è sempre stato così".
Devo dire inoltre che il patriarcato spesso non è visibile in maniera eclatante. Agisce più sottotraccia. Infatti nei miei contesti quotidiani spesso non mi accorgo immediatamente delle dinamiche patriarcali che sono presenti, questo probabilmente perché sono un maschio. Una cosa che però ho notato è che nei maschi in generale c’è questa tendenza che porta a reprimere la propria sensibilità, perché si pensa che se sei uomo devi essere sempre stoico rispetto alle situazioni che ti fanno soffrire. Per un lungo periodo ho vissuto così, non accettando questa parte di me più sensibile, vedendola come una debolezza. Ho dovuto fare un percorso per riappropriarmene.
Ginevra: La percezione che ho io rispetto al patriarcato è che se ne faccia una questione di massimi sistemi quando invece riguarda un’esperienza intima, quotidiana. In questo forse le femmine mi capiscono: c’è tanto di subdolo e di non visto in quello che ci succede giornalmente. Personalmente sperimento tante situazioni che passano inosservate, ma in cui mi sento cancellata. Come quando in un meeting di lavoro c’è qualche uomo che parla per te e ti dice che “così si fa”. Apparentemente non se accorge nessuno, ma in realtà crea un grande disagio, la sensazione di non sentirsi davvero partecipi di un discorso, di una situazione, senza capire perché. Si crea un netto stacco di ruoli ma non si valorizza la diversità, e piano piano una ragazza si costruisce una consapevolezza di sé sbagliata, perché è come se a noi femmine ci mancasse sempre un pezzo.
Chiara: Spesso noi donne in primis non siamo consapevoli di questi meccanismi che agiscono nel profondo, perché siamo cresciute in una società che detta modelli basati su una visione prettamente maschile. Quindi abbiamo il dovere di scardinare questi meccanismi nella nostra vita per far emergere la visione femminile e andare verso una società bilanciata che potrà portare beneficio sia agli uomini sia alle donne.
Penso che molte donne si comportino secondo modelli maschili. Quando ho avuto come capo una donna sono stata felice, perché è stata per me fonte d’ispirazione. Nonostante questo, mi è capitato di assistere ad atteggiamenti al lavoro in cui donne leader cercavano di sovrastare gli altri, attuando un meccanismo tipicamente maschile. Oppure mi è successo di sentir dire che l’abbigliamento con cui ci si presenta al lavoro deve essere consono, perché lavorando anche con uomini non bisogna indurli a distrarsi. Dunque ritengo che sia importantissimo che noi donne, dialogando con altre donne, facciamo emergere sempre di più la consapevolezza di cosa vuol dire il femminile e poi ci impegniamo anche nel dialogo con uomini per fargli conoscere questo lato.
Marco: Ho riflettuto sul concetto di maschile e femminile, due aspetti presenti in ogni persona. La disarmonia tra queste due forze degenera spesso nella violenza connessa al patriarcato. Il patriarcato è una delle conseguenze dell’ignoranza fondamentale degli esseri umani. Però ogni giorno ognuno di noi può scegliere come agire e provare a creare un equilibrio nuovo. Mi ha colpito questa frase di Daisaku Ikeda ne La saggezza del Sutra del Loto: «Il conseguimento della Buddità della fanciulla drago dimostra non solo che le donne possono diventare Budda, ma anche che gli uomini possono diventarlo. Gli uomini che negano l’Illuminazione delle donne negano anche la propria Illuminazione» (vol. 2, p. 26). Ecco, io in quanto uomo mi pongo la questione e la affronto.
Come vivo la questione patriarcale? Io non mi sento libero. Non so che ne pensate voi, in quanto uomini. Non mi sento libero perché questa cosa nasce in primis dentro di noi, da questa disarmonia che nei maschi si traduce in una difficoltà nell’esprimersi o anche nell’ascoltare, noi stessi e gli altri. Credo che le vittime di questa disarmonia siano sia le donne sia noi, indirettamente.

La pressione sociale imposta dal patriarcato nella quotidianità non è sempre esplicita, ma spesso lavora a livello profondo, sia per gli uomini sia per le donne. Quanto sentite forte questa pressione, relativamente alle aspettative lavorative, all’essere bravi/e, fidanzati/e o non esserlo, alle tappe da raggiungere come il matrimonio, la famiglia ecc.?

Rossella: Personalmente mi sento fortunata perché in famiglia non ho mai percepito una disparità di genere, e nemmeno a scuola o nelle amicizie che ho avuto. Mi sono sentita e definita libera ed emancipata, ma nonostante questo la pressione sociale è molto presente nella mia vita. Ho assorbito l’idea che c’è un’età per laurearmi, per sposarmi, avere dei figli… Tutti concetti che hanno lavorato in modo subdolo e velato dentro di me, e un giorno mi sono ritrovata a pensare: ma è davvero questo che voglio?
Marco: Riflettendo su questi temi ho notato che quando tra amici maschi si parla di relazioni sentimentali si racconta tutto attraverso la prospettiva del possesso, della conquista, come se fosse una dinamica di potere. Perché avviene? Perché si usa questo linguaggio? Perché manca un’educazione a parlare delle proprie fragilità. Questa lacuna del non riuscire a esprimersi genera frustrazione, una delle cause di situazioni da cui possono scaturire atti di violenza.
Volevo riportare un’esperienza che vivo quasi quotidianamente. La sera, tornando a casa, se incrocio una donna che viene verso di me percepisco immediatamente tensione da parte sua, per il semplice fatto che sono un uomo. Questo a me fa proprio male, perché mi sento percepito come una minaccia, e cerco subito di allentare la tensione, magari fischiettando. Partendo da queste situazioni voglio impegnarmi per creare un cambiamento affinché un giorno con la persona che incrocio possa scambiare qualche parola con naturalezza, senza questa tensione che ci inibisce.
Carlo: Personalmente una dinamica che vedo spesso in contesti maschili riguarda il sessismo verbale, che viene fatto passare per goliardia innocua. Far notare questa cosa come sbagliata può metterti in una posizione difficile. In passato non l’ho fatto per paura di risultare un fastidioso rompiscatole. Ma ora lo faccio. Perché non basta solo fare proprio l'impegno a non avere questi comportamenti, è fondamentale cercare di sensibilizzare anche gli altri. Nonostante il giudizio e la paura di perdere la considerazione dei miei amici voglio andare oltre. Questo è quello che vorrei cambiare, manifestare coraggio anche mettendomi in una situazione scomoda.
Chiara: Rispetto alle “tappe”, chiaramente per avere figli a livello biologico ci sono dei tempi, e come donne sentiamo anche questa pressione. Ci immaginiamo, a causa di quello che ci suggerisce la società, che a un certo punto la donna si sposa e fa i figli. E spesso siamo in questa dinamica senza chiederci veramente se è quello che desideriamo. Ma questo è l’obiettivo che mi metto ogni anno: sentire di essere sempre aderente a me stessa, interrogarmi se quello che sto facendo è perché la società mi porta a pensare che io debba comportarmi così oppure lo desidero veramente.
Ginevra: Secondo me il problema non è tanto delle cose di per sé ma di come si manifesta questa imposizione. Per esempio, io posso scegliere di diventare mamma, ma è nel modo in cui la società mi dice che devo esserlo che io mi sento stretta, e allora come donna lavoro internamente per scoprire il mio modo di fare le cose. Ricerco altre donne per non sentirmi sola in questo percorso di auto-scoperta, per ampliare i miei orizzonti, le possibilità che voglio tirare fuori dalla mia vita.
Chiara: Abbiamo anche la responsabilità di diventare dei modelli per le donne che abbiamo intorno.
Ginevra: Infatti, ci sono donne che per conquistare il ruolo di leader piano piano si strappano “pezzi di pelle” per aderire a un modello diverso da quello che sono, arrivando ad autodistruggersi perché nella nostra società il leader è fatto su misura maschile.
Rossella: Mi ricordo che quando ero piccola era diventato da “sfigate” se ti piacevano le cose “da femmina”, come se rinnegare gli aspetti femminili ci rendesse più forti, ci permettesse di essere considerate alla pari o avere successo. Questa pressione ha lavorato in modo subdolo dentro di me, trasformandosi negli anni nella necessità di ricercare la perfezione negli studi o sul lavoro perché come donna dovevo dimostrare di più, rispetto magari a colleghi maschi che vivevano le cose con più serenità.

Secondo voi quanto è difficile uscire dagli stereotipi di genere?

Lorenzo: Per chiudere il cerchio vi racconto un’esperienza. Sono cresciuto in una famiglia di sinistra con due genitori istruiti. Eppure l’aspetto patriarcale era presente in tutte le situazioni quotidiane. Nel dialogo, nella gestione del denaro e nelle mansioni che una donna doveva svolgere in casa. Mio padre sempre al lavoro, mia madre da sola con noi figli. Parametri che poi ho cercato di smontare. Ricordo che quando avevo vent’anni percepivo un malessere forte, che durava da tanto. Così ne ho parlato con mio padre, dicendogli che non mi sentivo bene, non mi sentivo felice. Lui mi fa: «Non ti devi preoccupare, la felicità non esiste e comunque non è importante. Tu devi studiare e lavorare». E io ho pensato: «No. Io devo essere felice». Poco dopo ho incontrato il Buddismo e ho trovato una strada.
Chiara: Penso che tutte noi abbiamo un ruolo fondamentale nel decostruire queste dinamiche interiori e avere delle intuizioni nuove. Io negli ultimi anni leggo libri principalmente di scrittrici donne, perché ho l’esigenza di rivedermi e attraverso la lettura scoprire parti di me. Oppure, dialogando con un’amica, mi è capitato di sentire attraverso le sue parole che aspetti di me che ritenevo sbagliati erano invece un valore aggiunto. È importante questo dialogo fra donne per ispirarsi a vicenda, e così anche con gli uomini, per lasciare un cambiamento importante nel mondo.
Marco: Dentro di me resiste ancora forte questo pensiero pericolosissimo della differenza tra parlare con una donna o con un uomo. Al di là di qualsiasi altro valore o caratteristica che ha quella persona, automaticamente io imposto la conversazione e le azioni in un modo oppure in un altro a seconda del genere. Mi sento meno a mio agio se parlo con un uomo, come se avessi più paura o più deferenza. Allo stesso tempo ho più la tendenza ad assecondarlo. Mentre ho la tendenza a prendermi più spazio e a sentirmi legittimato se parlo con una donna. Questa cosa mi fa soffrire perché se ce l’ho io che non mi sento un mostro, significa che è radicata in tante persone. In questi anni si sta lavorando molto su questi temi, sono fiducioso. Passo dopo passo sta avvenendo un cambio di rotta che coinvolge tutta l'umanità.
Ginevra: Io non credo che ci sia ancora stata una grande svolta. Anzi c’è il rischio che alcuni movimenti femministi annullino completamente la diversità tra maschi e femmine, che invece va valorizzata. E per farlo è importante che siano le donne a tirare fuori una voce nuova.
Chiara: Anni fa, leggendo Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf mi si è aperto un mondo. Lei dice che quando le donne hanno iniziato a scrivere, si sono dovute inserire in modelli già da secoli impostati da uomini. Si chiede: chissà se una donna, componendo per esempio una poesia, la scriverebbe come un uomo. E conclude: non mi posso rispondere, tra cento anni lo vedremo, quando una donna invece di avere come modelli gli uomini inizierà a esprimere sé.
Fino a questo momento gli uomini sono stati abituati a vedere il mondo solamente con la loro visione, e ora devono mettersi nella predisposizione di comprendere noi donne. Solo così possiamo veramente creare un mondo più equilibrato. Sensei parla sempre del XXI secolo come del secolo delle donne, di quanto sarà importante e fondamentale il nostro ruolo per creare cambiamenti positivi.
Carlo: Grazie per quello che avete detto. Per rispondere alla domanda, penso che la prima cosa da fare sia interrogarsi interiormente rispetto a questo tema; noi buddisti siamo particolarmente fortunati perché abbiamo un grande strumento che ci porta a guardare dentro noi stessi. Però bisogna deciderlo, non è scontato e richiede molto coraggio. Credo che scardinare le dinamiche del patriarcato nella società sia un processo che parta dall'alzarsi da soli, attivandosi in questo senso in prima persona e ispirando così anche gli altri. È una cosa da fare giorno per giorno, una lotta davvero contro la propria oscurità. Ecco, decido qui nuovamente di portarla avanti insieme a voi.

Sveliamo insieme il patriarcato a beneficio di maschi e femmine

Oggi la parola “patriarcato” è entrata nell’uso comune. Ma cos’è il patriarcato? Come agisce? Riguarda solo gli uomini? O anche le donne? Come svelarlo, come riconoscerne i meccanismi? Come trasformarlo? È importante tornare alle origini, facendo luce sugli aspetti del patriarcato che ingabbiano uomini e donne. Farlo non è contro nessuno, ma per tutte e tutti. E riguarda ogni aspetto dell’esistenza. 

Patriarcato

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