«Il giorno di Capodanno segna il primo giorno, il primo mese, l’inizio dell’anno e l’inizio della primavera – scrive Nichiren Daishonin. – La persona che celebra questo giorno accrescerà le sue virtù e sarà amata da tutti».
In un momento così difficile, in cui sembra impossibile decidere di intraprendere nuove imprese, cosa significa “celebrare” l’anno nuovo? Con quale spirito si può dare inizio a qualcosa?
«Se ci chiediamo quale fu l’origine del monte Sumeru – scrive ancora il Daishonin – troviamo che esso ha avuto origine da un singolo granello di polvere, così come il vasto mare si è originato da una sola goccia di rugiada».
Ecco, tutto sta nel coraggio di fare il primo passo. E poi un altro e un altro ancora. Perché, come scrive Daisaku Ikeda, la distanza tra zero e uno è molto più grande di quella tra uno e cento, e anche un viaggio di mille miglia inizia da un primo passo.

L'importanza dell'inizio

Una nuova partenza avviene in un istante, quando nasce quella scintilla nel cuore che ci porta a recitare Daimoku e a cambiare completamente il futuro che ci aspetta. Perché la mente non può prevedere le infinite possibilità che possiamo far emergere e costruire davanti al Gohonzon

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Spesso capita di pensare a un nuovo inizio come a qualcosa di eclatante, di definito, uno stimolo che arriva da fuori: un nuovo anno, un nuovo lavoro o una nuova casa. Ma nel Buddismo il nuovo inizio è qualcosa di personale, unico e incredibilmente essenziale.
Avviene in un istante, quando nasce quella scintilla nel nostro cuore che ci porta a recitare Daimoku e a cambiare completamente il futuro che ci aspetta. Sembra facile, a volte lo è, ma non sempre riusciamo ad accendere quella fiammella di speranza e di vittoria. Questo accade perché crediamo che per decidere, per rilanciare con un nuovo inizio, abbiamo bisogno di farlo prima con la testa, di essere pronti, pronte; ma la nostra mente non può prevedere il futuro né le infinite possibilità che possiamo far emergere e costruire davanti al Gohonzon. La mente afflitta dalla sofferenza non può immaginare lo stato vitale del mondo di Buddità, e per questo continuerà a trovare soluzioni non libere ma impregnate dal colore di quella nostra sofferenza.
Dunque è fondamentale rivolgerci al Gohonzon così come siamo in qualsiasi circostanza e condizione ci troviamo, questo è il nuovo inizio.
Accade nella vita che si debbano vivere esperienze che mettono alla prova la nostra forza e il nostro corpo, può capitare che soffriamo fisicamente per una malattia e non riusciamo neanche ad alzarci per fare Daimoku. In quella situazione lo sforzo più grande è non mollare, ma praticare come possiamo: a mente, sul letto, con un filo di voce, quando non riusciamo a smettere di piangere a causa del dolore ma decidiamo di fare quello sforzo fondamentale per la nostra vita, ed è in quel momento che il viso prima rigato dalle lacrime accoglierà un nuovo timido sorriso.
Non possiamo avere già le risposte alle nostre preoccupazioni; ma possiamo inaugurare un nuovo inizio recitando Daimoku affinché nasca dentro di noi la decisione di vincere.
Per avere una grande vittoria bisogna avere fiducia, dare alla vita la possibilità di stupirci senza porre già noi i limiti alla nostra vittoria. Ricominciare è possibile quando pensiamo agli altri, alle persone a cui vogliamo bene, a quanto desideriamo che loro siano felici: questo stimola anche la nostra felicità e ci sprona a cominciare quel Nam-myoho-renge-kyo di rinascita per dimostrare la grandezza del Gohonzon.
Il presidente Ikeda scrive: «Quando preghiamo rivolgiamoci al Gohonzon esprimendo sinceramente tutti i nostri pensieri e riponiamo fiducia in esso. Ciò significa credere fino in fondo in qualsiasi circostanza, essere fermamente convinti del suo potere, grazie al quale possiamo manifestare benefici incommensurabili.
Per poter trasformare il proprio karma, compiere la rivoluzione umana e conseguire la Buddità in questa esistenza, nella preghiera è importante formulare il voto di vivere dedicandosi interamente all’ideale di kosen-rufu» (NRU, 28, cap. 2).
Immaginiamo di voler percorrere una strada perché vogliamo arrivare a una meta, senza però conoscere il percorso. Bloccarsi al punto di partenza non porterà nessun cambiamento: come possiamo pensare di arrivare al nostro traguardo rimanendo sullo “start” con lo zaino vuoto, senza avanzare neanche di un metro? Ma se iniziamo con un passo, con la recitazione di un solo Daimoku, potremo pian piano fare chiarezza, vedere la strada nitidamente e a quel punto sapremo cosa è necessario mettere nello zaino per arrivare a destinazione.
Passo dopo passo, Daimoku dopo Daimoku, ci attrezziamo di tutto quello che occorre: stato vitale, coraggio e determinazione; percorrendo strade e raggiungendo traguardi che la mente non poteva neanche lontanamente prevedere.
Durante il cammino dobbiamo fare attenzione a non cadere in una “fede dipendente” perché, come spiega Ikeda, sarebbe come ritrovarci a camminare in modo circolare attorno alla base di una montagna senza compiere nessuno sforzo per scalarla. Ciò accade quando “consideriamo la Legge al di fuori di noi” sperando che la nostra preghiera abbia risposta grazie a qualche particolare potere esterno (cfr. BS, 119, 38-39). Allora la fede diviene uno scudo dietro il quale nasconderci per evitare di affrontare la realtà, ma la lotta è il motore della rivoluzione umana.
È con un primo passo, così come siamo, senza giudizio e decidendo ogni giorno di alzare l’asticella per sforzarci sempre di più, che si costruisce la determinazione di vincere. Ikeda ci incoraggia dicendo: «Dove c’è sforzo c’è vittoria», e così possiamo affermare che dove c’è Daimoku c’è sempre un nuovo inizio.

Il primo passo  è nel Daimoku, motore  di ogni inizio

Cosa vuol dire affrontare? Anche se non ci si sente affatto coraggiosi davanti a un problema, si dice che il primo passo sia quello di recitare Nam-myoho-renge-kyo davanti al Gohonzon. Il coraggio è decidere di iniziare a trasformare un problema con il Daimoku.
Innanzitutto, affrontare un problema vuol dire non cercare la causa fuori di sé. Se si vede la causa fuori non lo si può affrontare seriamente, se invece si riconosce la causa dentro di sé, allora ci si assume la responsabilità.
Certe volte, pur continuando nella pratica buddista, sorge il dubbio: sto affrontando veramente o non sto affrontando, riuscirò a farcela? Chi continua a lottare, anche con fatica, ha coraggio – ha fede.
È importante cercare di capire a fondo cosa insegnava Nichiren Daishonin, non teoricamente ma sperimentandolo nelle situazioni concrete, affrontando la vita di momento in momento.
È difficile avere coraggio. Quindi è una fortuna non fermarsi, continuare a camminare… Finché non ci si ferma, non si ha il tempo di avere paura.
Alcuni hanno paura di affrontare qualche problema. Come si affronta questa paura? Quel che è certo è che se si affronta il problema, la paura è superata.
Perché la paura di affrontare un problema appare quando si ha qualche scappatoia.
In ogni caso, la paura non si può mettere da parte. Ricordiamoci che chi ha avuto coraggio, ha avuto anche paura. A volte non si ha paura solo perché non ci si ferma. È facile quindi essere preda della paura, per questo è importante continuare ad andare avanti senza fermarsi.
(Tratto dall’intervista “La paura non è un problema", BS, 104, 17)

L'importante è camminare

È immensa, profonda. Abita nella natura di ogni essere umano e non dipende dalle circostanze, dal karma che si presenta ai nostri occhi. È la libertà assoluta vissuta e descritta dai nostri maestri, che si rafforza e cresce di fronte alle avversità, al pericolo, all'isolamento

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Si può iniziare, scegliere di nascere ogni istante. Una parola sul foglio bianco. La prima pennellata che non c’era. E quel preciso momento, indimenticabile, in cui decido di guarire. Sono io e il Gohonzon: onesta, sincera, aperta. Nella mia libertà. La esercito, la alleno.
La libertà è immensa, profonda. Abita nella natura di ogni uomo e di ogni donna. E non dipende dalle circostanze. Dal favore dei venti. Dal karma che si presenta ai nostri occhi. I maestri che abbiamo scelto l’hanno descritta così bene, così bene l’hanno vissuta. Quella libertà assoluta che si rafforza e cresce di fronte alle avversità, al pericolo, all’isolamento.
Fu proprio in un’angusta cella che Josei Toda, leggendo il Sutra del Loto, si rese conto che quella che viene definita “entità del Budda” non è altro che la vita stessa. E la gioia che ne deriva non ha limiti: «È come giacere supini in un grande spazio aperto, con le braccia e le gambe distese, e guardare il cielo sovrastante. Tutto ciò che desideri immediatamente appare. Per quanto tu possa donarne agli altri, non si esaurisce mai» (SSDL, 1, 25). Da lì, da quella esperienza di libertà infinita, ripartì la Soka Gakkai, con uno spirito e una saggezza nuovi. E Toda, improvvisamente rilasciato nel 1945, con ancora le accuse pendenti, cambiò il suo nome da Jogai (lett. “fuori dal castello”) a Josei (lett. “castello sacro”).
Lo stesso spirito, di non lasciare che le circostanze ingabbino la vita, lo visse il Daishonin in moltissime circostanze. Quando, condannato a morte, stava per essere decapitato e si risvegliò alla consapevolezza di essere l’unica, preziosa persona che poteva diffondere il Sutra del Loto. Quando, esiliato a Sado, senza alcuna certezza di sopravvivere, trovò la forza di scrivere i suoi maggiori trattati: «La mia dimora – scriverà anni dopo – era una capanna di paglia in rovina in mezzo a un fitto campo di eulalia e ginerio dove venivano seppelliti i cadaveri. La pioggia filtrava all’interno e i muri non proteggevano dal vento. L’unico suono che giorno e notte giungeva ai miei orecchi era il sibilo del vento accanto al mio cuscino e ogni mattina la vista che si presentava ai miei occhi era quella della neve che seppelliva le strade vicine e lontane» (Lettera a Horen, RSND, 1, 463).
Erano persone comuni ma eccezionali, come noi. Come ogni persona. Perché questa capacità di rinascere, di liberarsi dal peso delle circostanze e liberamente iniziare, agire, dare parola, usare ogni piccolo granello di energia per trasformare il brutto che ci circonda, o il male, è propria di tutta l’umanità. Di questa meraviglia parla come pochi altri Etty Hillesum, giovane donna polacca ebrea, rinchiusa e scomparsa in un campo di concentramento. «Non possono farci niente, – scriveva – non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la nostra millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini, e oso dirlo senza falso pudore.[…]. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra» (Diario. Edizione integrale, Adelphi, 2012).
Sì. Sono momenti abbastanza difficili, per tutti oggi. E siamo noi, nelle nostre mura, con le nostre paure, la rabbia, il nostro sentirci limitati dietro una mascherina, a poter trasformare quello che accade in un grande cambiamento, una visione diversa. Cercando quella libertà senza barriere che arriva dalle viscere più profonde e trasforma tutto.
Un nuovo inizio un nuovo ritmo un nuovo passo. «“Uno” è la madre di tutto» scrive il Daishonin (I benefici del Sutra del Loto, RSND, 1, 595).
Così come il monte Sumeru «ha avuto origine da un singolo granello di polvere» e «il vasto mare si è originato da una sola goccia di rugiada», così, oggi, possiamo sperimentare la libertà di essere noi quel granello di sabbia che darà vita a una montagna, la goccia che ne attirerà infinite altre fino a formare il mare più vasto.

La libertà dell'inizio

Un primo passo da solo ha qualcosa di glorioso: alzarsi e farlo. Decidere.
Calato nella vita, nella contingenza, somiglia più alla prima mossa di una battaglia.
Il primo passo potrebbe essere anche solo sottrarsi alle maglie di una vita molto diversa da quella desiderata, fare la prima azione per uscire dalla trappola di un problema.
Pensando all’arte, il primo a venirmi in mente è Matthew Barney, l’artista americano autore di una serie di lavori iniziata nel 1987 e tuttora in corso, “Drawing Restraint”. Le opere sono cambiate, ovviamente, nel tempo, ma i primi disegni sotto sforzo, quelli degli anni 80, sono straordinari e pieni di ispirazione.
L’artista cercava di realizzare dei disegni sulle pareti del suo studio, in alto, sforzandosi di vincere la resistenza opposta da una fascia elastica a terra.
Il progetto si fonda sull’idea che la forma sia il frutto della lotta contro una resistenza autoprodotta. «Racconto il modo in cui una forma combatte per trovare una propria definizione» spiega l’artista, perché «non può materializzarsi o mutare senza lottare contro la resistenza». Ed è lui ad affrontare in prima persona, con il proprio corpo, ogni sorta di impedimento, per superare il limite e compiere la creazione.
La resistenza autoprodotta di Barney mi fa pensare alla varietà di resistenze che si trova ad affrontare chiunque decida di fare un passo importante per la sua vita: non solo resistenze esterne, ma anche interne, quelle opposte dalle tendenze negative, dai toni spesso insondabili della propria oscurità personale, diversa per ognuno. Il coraggio che ci vuole per lanciarsi in questa impresa è immenso, è sporgersi fuori per guardare dentro.

C'è creazione nel vincere la resistenza

I teatri chiusi e le vite sospese. Le scrivanie in salotto e i bambini in quarantena. Quando nei mesi scorsi tutto si è fermato per la pandemia, l’incredulità e la paura hanno messo in stallo anche la prospettiva del futuro. Con l’esclusione di chi ha invece saputo far appello alla creatività che, come scrive Daisaku Ikeda, «significa spingere con forza la pesante porta d’ingresso della vita fino ad aprirla del tutto, più difficile che aprire le porte di tutti i misteri dell’universo». Virus compreso. In questo nuovo inizio (il 2021, finalmente!) la prima parola spetta ad artiste, commercianti e insegnanti che stanno reagendo con idee e soluzioni innovative. Per ispirarci una domanda: come vogliamo reinventarci? Con quali progetti intendiamo rilanciare? 

Teatro-yoga nel parco

Maria Elena Carosella insegna teatro dal 1992, ma soprattutto «garantisce gioia», come assicura a chi s’iscrive al suo laboratorio nel parco pubblico di Villa Pamphili a Roma per imparare a vivere con più leggerezza. «Unisco le asana dello yoga al training dell’attore del teatro occidentale. Non è una mia idea, ma di Jerzy Grotowski, una delle grandi figure del teatro del XX secolo». Ogni parte del corpo opportunamente stimolata comincia a sviluppare una sua creatività in un legame profondo tra mente e corpo (in movimento). Quasi tutti i giorni dopo pranzo Maria Elena esce con uno zaino in spalla con dentro tappetino, cassa acustica senza fili per la musica e libri di poesie, in direzione del parco dove accoglie gli allievi fino al tramonto. Bambini, ragazzi delle scuole medie che si allontanano a fatica dal computer, adulti disoccupati da lockdown protratto. Nel rispetto di ogni Dpcm precisa: «Siamo pochi e attenti a non creare assembramenti, empatici gli uni con gli altri». Così, a metà tra un folletto senza tempo e una nonna qual è da tre anni, non la ferma nessuno.  

Roma (e i suoi tesori) in una stanza 

Mettetevi comodi. Potete visitare la Cappella Sistina dal divano di casa, ma soprattutto senza stare con il naso in su tra una folla di turisti accaldati. «Come fare una visita guidata a chi è dall’altra parte dell’oceano?» si è domandato Andrea Domini, che con il primo blocco delle frontiere ha visto calare il sipario sul suo lavoro tra monumenti e musei. «Con i contatti che avevamo in comune, io e un mio amico collega abbiamo organizzato tour virtuali alternativi mettendo l’accento su ciò che nella realtà è più difficile ammirare. Per esempio le opere di Caravaggio, alcune delle quali sono dietro una cancellata, al buio in chiese del centro, oppure le statue del Bernini nella Galleria Borghese, dove mi sono potuto soffermare su dettagli su cui di solito si sorvola per troppa fretta. Ho utilizzato molte immagini, cosa che mi ha fatto venire l’idea di proporre una sorta di “visita-anteprima”, una spiegazione interattiva alla vigilia della partenza dei turisti per Roma, così da rendere più soddisfacente poi la loro esperienza in loco». 

Dal palcoscenico alle pagine di un libro 

Da attrice di teatro, figlia d’arte cresciuta tra Tunisi e Parigi, a voce narrante di oltre 35 audiolibri. «Il lockdown mi ha dato uno stimolo in più per uscire dalle mie abitudini: quel che ci frena è pensare che le cose devono essere come pensiamo che sono sempre state», racconta Viola Graziosi, che ha debuttato a 17 anni con Carlo Cecchi nel ruolo di Ofelia in Amleto. «Non si può fermare la vita. La vitalità come la creatività non riguardano le condizioni esterne, non controlliamo tutto, quindi non possiamo che metterci al servizio di ciò che accade. Il teatro insegna proprio questo, ad avere a che fare con il qui e ora». Con i teatri chiusi lei ha cercato altre strade espressive, non senza fatica. «È chiaro che uno spettacolo in streaming non sostituisce la presenza sul palcoscenico (con questa modalità lo scorso marzo da casa ha recitato il monologo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood per il teatro No’hma di Milano, n.d.r.), come una telefonata non sostituisce un abbraccio. Ma non possiamo metterci in pausa. C’è un romanzo a cui ho dato voce, Biografia della fame di Amélie Nothomb, dove la scrittrice belga si domanda: “Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quell’aspirazione non tanto all’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente, imploro che vi sia qualcosa”». Qualcosa come l’imperfezione di un sospiro o di una pausa, con cui Viola crea nella lettura un’intima vicinanza con chi ascolta. 

Strategia di resistenza a tavola 

Ravioli cinesi a casa come al ristorante. Di fronte al blocco della fase uno, lo chef Gianni Catani si è inventato un modo nuovo di proporre i suoi dumpling: consegnarli a casa cotti al 95 per cento, per poi far ultimare la cottura dai clienti in poche semplici mosse (il foglio delle istruzioni è fornito con tre tipi di salse). Il suo delivery-friendly ha aumentato i guadagni fino al 50 per cento, una nota di ottimismo per i tanti ristoratori che si ritrovano in difficoltà. «Non è stato facile – racconta. – Ho avuto paura di vedere il mio sogno distrutto e rimanere con moltissimi debiti da pagare, soprattutto dopo essere rimasti completamente chiusi per quindici giorni, con una trentina di ragazzi alle mie dipendenze». Un’idea nata come un’esigenza, ma che al momento con tremila ravioli consegnati al giorno è diventato un vero business grazie al sostegno di familiari e collaboratori, che nei momenti più difficili hanno lavorato fino a ventidue ore consecutive, rimanendo anche a dormire nel laboratorio del ristorante. 

Tutto per i "miei" bambini 

Sei anni fa Daniela Fazzini ha aperto con una sua amica un parco giochi per bambini. «Ci apprezzavano tutti nella zona, ma in seguito al divieto di assembramento dello scorso marzo siamo state costrette a chiudere». Non potendo prevedere la durata della quarantena, in agosto si è decisa a riconsegnare le chiavi della struttura. «L’ho vissuto come un piccolo lutto: era come se la vita mi stesse chiedendo di abbandonare qualcosa che amavo, in primis il rapporto con i bambini. Per fortuna di lì a poco sono stata contattata da una famiglia che ha deciso di affidarmi i propri figli privatamente, poi se ne è aggiunta una seconda e una terza» racconta. In questo periodo tante famiglie hanno potuto beneficiare del bonus babysitting e seppur nel rispetto della sicurezza e del distanziamento sociale «ho incredibilmente guadagnato di più che con il parco giochi. Non solo, in un momento di paura e ansia per tanti genitori sono riuscita a creare momenti di autentica felicità per i loro figli». 

A scuola, senza abbracci ma vicini 

«Ci siamo trovati, docenti, studenti e famiglie, ad affrontare qualcosa di ignoto con l’urgenza di creare una didattica che non esisteva prima» racconta Annamaria Battaglia, insegnante di una scuola elementare. «Abbiamo cambiato tutte le nostre abitudini, dal pensare alla scuola come uno spazio libero al vivere i vari divieti», tra cui quello più sofferto di non potersi abbracciare. Nonostante ciò «nella mia classe la parola d’ordine fin da subito è stata “positività”, grazie al grande spirito di adattamento dei bambini anche in tenera età, che capiscono la situazione e rispettano le regole non per imposizione ma per apertura mentale». Annamaria ricorda la gioia di alcuni bambini tornati in classe dopo la quarantena: «Avendo sperimentato quanto è triste stare lontani, siamo stati felici di ritrovarci insieme fisicamente, anche se in parte nascosti dalle mascherine».

Sei progetti per iniziare di nuovo

Una persona che inizia a praticare apre la vita alla speranza, a un'immensa gioia e a una vittoria condivisa con chi contribuisce a condurla su questo sentiero

Il termine “soka” di Soka Gakkai significa creare valore, creare felicità. In particolare, il carattere cinese so significa “creare”, ma può anche essere letto come hajimeru, che significa “iniziare”. Quello che noi pratichiamo è il Buddismo della semina: piantare i semi della Buddità – della felicità e della vittoria – nel nostro cuore e nel cuore degli altri attraverso il dialogo è il punto di partenza del nostro movimento. Il Daishonin afferma: «Il Sutra del Loto è il seme, il Budda è il seminatore e la gente è il campo» (Gli elementi essenziali per conseguire la Buddità, RSND, 1, 664).
A volte non è facile. Per germogliare, un seme deve esercitare un grande sforzo per rompere il suo involucro. Deve farsi strada attraverso uno spesso strato di zolle per poter giungere all’aria aperta, sotto il cielo azzurro. Ma è certo che una volta piantato, questo seme prima o poi germoglierà, fiorirà e darà i suoi frutti.
Così è stato per mia madre, che un mese dopo la riapertura dal lockdown, pochi giorni prima di compiere novant'anni, ha ricevuto il Gohonzon. Che grande incoraggiamento! Non esiste limite alla speranza, al desiderio insito nella vita di crescere e rigenerarsi. Se domando a mia madre cosa l’ha convinta dopo tanti anni, mi risponde semplicemente che l’ho coinvolta con il mio entusiasmo, anzi che l’ho «travolta con la mia convinzione». In effetti, se cerco di rintracciare il momento di svolta, ricordo che a un certo punto ho deciso di vincere sul mio dubbio, di credere che anche lei, scettica com’è, potesse iniziare a trasformare la sua vita e fare questo passo.
È certo che durante il lockdown abbiamo avuto modo di stare più vicine. Ciò mi fa riflettere sull’importanza della cura, dell’attenzione che dovremmo avere per ogni persona. Sensei lo dice chiaramente: «Con un costante e sincero interesse per gli altri il vostro cuore, un giorno o l’altro, riuscirà a toccare il loro» (D. Ikeda, In cammino con i giovani, Esperia, p. 24).
Per me è iniziata una nuova vita. È bellissimo andare a trovare mia madre e recitare Daimoku con lei davanti al suo Gohonzon, insieme determinare per la felicità della famiglia e verificare passo dopo passo la visione buddista della vita che ci dice di cambiare dentro, di non guardare fuori. Lei si lascia guidare con fiducia ridisegnando i suoi obiettivi e sostenendo i miei come solo una madre può fare, e così procediamo per mano sul cammino di questa esistenza.
Anche mio nipote Leonardo, a 16 anni, lottando con il coraggio di un cucciolo di leone nei mesi scorsi è riuscito a ricevere il Gohonzon. Con grande entusiasmo si sta lanciando nello shakubuku e dice: «È la cosa più bella della nostra vita, perché incoraggiare gli altri rende noi più energici e forti, è il ruggito del leone per far sì che le persone trasformino la sofferenza in medicina e diventino felici. Consiglio di non smettere di provarci per ottenere una vita piena di persone felici e non angosciate o arrabbiate perché non riescono a realizzare i loro desideri. Più felici rendiamo le persone più il mondo che vediamo diventa immenso, pieno di meteoriti di persone capaci senza tristezza, malinconia, rabbia e paure».
Poi racconta: «Ho insegnato Nam-myoho-renge-kyo a una ragazza che è l’assistente del pulmino che mi porta a scuola. L’ho fatto per gratitudine verso la sua gentilezza di mettere sempre la musica che mi piace. Mi sono sentito rinato per la felicità che le ho trasmesso. La gioia più grande è stata recitare Daimoku mentre lei emozionata mi seguiva, e incoraggiarla sulla malattia di suo padre che stava in ospedale con le parole di Sensei e di Nichiren. Il padre è uscito dal coma, anche lui ha provato a recitare Nam-myoho-renge-kyo, e adesso la loro felicità è al massimo e lei vuole ricevere il Gohonzon!».
Sono profondamente grata a Leonardo e a mia madre per questa gioia, che si rinnova ogni giorno, di scoprire insieme nuove meravigliose possibilità che altrimenti non avrei mai conosciuto. Sensei scrive: «C’è un limite alle esperienze che possiamo vivere in una sola vita. Ma quando consideriamo le sofferenze degli altri come se fossero le nostre, pregando e lottando con una persona dopo l’altra e vincendo insieme a loro, allora la ricchezza della nostra vita aumenta senza limiti, di due, tre, mille, diecimila volte» (MDG, 530).

La gioia di vedere chi inizia

Durante l’estate del 2019 parlai per la prima volta al telefono con una collega, Laura. Avremmo dovuto scrivere assieme un articolo, ma la chiamata prese una piega diversa: mi raccontò di alcune difficoltà che la facevano soffrire. Il fatto che non ci conoscessimo e che ci fossimo sentite per lavoro, all’inizio mi condizionarono. Ma quando mi disse: «Non so neanche perché stia raccontando a te tutto ciò», decisi di superare le mie perplessità e le parlai della pratica. Recitai Daimoku per lei, ma non la sentii più per i successivi tre mesi. Un giorno mi chiamò ed esordì dicendo: «Ho iniziato a praticare e sto decisamente meglio!». Finalmente ci incontrammo e le diedi i contatti di un gruppo nel suo quartiere, a Roma nord. Mi misi l’obiettivo che avrebbe ricevuto il Gohonzon, ma la pandemia aveva stravolto tutto e non c’erano consegne in calendario. Laura, nel frattempo, era tornata a vivere in Umbria, a Ficulle (Terni). A luglio, d’improvviso, mi avvertì che l’indomani, d’accordo con la sua responsabile, si sarebbe recata al kaikan di Roma per riceverlo. A ottobre, poi, è arrivata un’altra notizia inaspettata: aveva fatto shakubuku a 10 persone che a loro volta avevano parlato del Buddismo ad altri amici. Oggi, in un borgo di circa 1600 abitanti sono una quindicina quelli che praticano. Il 25 ottobre su sua richiesta ho organizzato il primo incontro del neonato nucleo di Ficulle coinvolgendo le responsabili dell’Umbria. Si sono connessi in otto: 7 donne e un uomo. Tutti suoi shakubuku!

Uno shakubuku… deflagrante

Intorno alla metà del Novecento, alla luce dell'alba seguita alla sconvolgente notte delle due guerre mondiali, due filosofe – Hannah Arendt e María Zambrano – sono arrivate, per vie diverse, a intendere la nascita come metafora fondante nell'ambito di una radicale riconsiderazione dell'etica, della politica e, più ampiamente ancora, della stessa tradizione filosofica occidentale.
Zambrano va in cerca di una "ragione materna" che, in antitesi a un sapere assoluto, si faccia «divinamente materialista» nel senso dell'attaccamento al concreto, all'umano reale. Solo una razionalità così intesa è in grado di offrirci quelle verità germinanti di cui la vita ha bisogno nel suo continuo rinascere. «Perché non basta nascere una volta [...] La vita umana esige di venire continuamente trasformandosi, di venire incessantemente correggendosi». Zambrano afferma infatti che l'umano si distingue dagli altri animali in quanto è mancante di definitività: ha una nascita incompleta ed è perciò chiamato a un nascere interminabile, reso possibile dal tempo e dalla speranza.
Ma l'incompletezza implica anche la novità che ognuno e ognuna di noi è per il mondo: come l'alba che lacera l'oscurità, ogni bambino e ogni bambina entra nel mondo «ferendolo» perché lo apre «a una nuova storia», a un «futuro imprevedibile», e questa ferita vitale, attraverso cui si fa strada la luce, si allarga a ogni nostro nuovo inizio, ogni volta che apriamo e tracciamo una via.
Analogamente, per Arendt, «con la parola e con l'agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale». «Agire, nel senso più generale, significa prendere un'iniziativa, iniziare [...], mettere in movimento qualcosa [...] Poiché sono nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli umani [...] sono pronti all'azione. [...] Quest'inizio – anche per Arendt, come per Zambrano – non è come l'inizio del mondo: non è l'inizio di qualcosa, ma di qualcuno che è a sua volta un iniziatore», un'iniziatrice, in quanto è libero, libera. Così, da ogni umano «ci si può attendere l'inatteso» a causa dell'unicità, della novità che la sua vita è.
Se la pensatrice spagnola sottolinea il ruolo ostetrico della speranza, la politologa tedesca insiste su quello del coraggio, che «è praticamente già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e iniziare una propria storia», nel «lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è». Tale rivelazione di sé non è propriamente intenzionale: essa, piuttosto, emerge quando siamo semplicemente con gli altri. Quando invece siamo aprioristicamente contro o a favore di qualcuno, l'azione e il discorso non sono più tali: la prima diviene violenta e il secondo si riduce a «chiacchiera», entrambi meri mezzi per raggiungere fini prestabiliti. L'etica e la politica vere e proprie – e il potere autentico che ne scaturisce – si danno quindi solo dove «parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole [...] non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire relazioni e dare vita a nuove realtà».

Fonti: María Zambrano: El pensamiento vivo de Séneca (1944), La Guía, forma del pensamiento (1943), Hacia un saber sobre el alma (1950) e Persona y democrazia (1956).ì
Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2010.

Agire è nascere

In un momento così difficile, in cui sembra impossibile decidere di intraprendere nuove imprese, con quale spirito si può dare inizio a qualcosa? Tutto sta nel coraggio di fare il primo passo, perché la distanza tra zero e uno è molto più grande di quella tra uno e cento.


L'importanza dell'inizio

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