Per il Buddismo la malattia è una parte intrinseca della vita. Essere malati non sminuisce in alcun modo il valore della nostra esistenza: come sosteneva lo scrittore russo Lev Tolstoj, «nessuna malattia può impedire a una persona di fare ciò che deve fare» perché «si può realizzare il proprio scopo nella vita sia quando si è malati sia quando si è sani».
Secondo il bioetico Guy Bourgeault la salute non equivale a una completa assenza di malattia ma è la lotta incessante di un organismo per preservarsi in equilibrio dinamico di fronte alla costante minaccia di ammalarsi (cfr. Invito alla lettura, L’essenza dell’uomo, p. 14). Una forza e una resilienza che sono la prova della nostra capacità di essere persone "sane".
Quando consideriamo la malattia come «una parte innata della vita» (La raccolta degli insegnamenti orali, BS, 121, 56) possiamo apprezzare pienamente la ricchezza dell’esperienza di vivere.

La salute: un equilibrio dinamico

Giulia Cesaroni si è occupata per anni degli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla salute e di epidemiologia sociale, studiando le diseguaglianze socioeconomiche nello stato di salute, negli esiti e nell’accesso alle cure. Attualmente sta lavorando a un progetto finanziato dal PNRR sulla posizione socioeconomica e la multicronicità, non solo per misurare le diseguaglianze, ma anche per cercare di spiegarle analizzando il ruolo di diversi fattori. In questa intervista ci dà una panoramica della situazione della salute nel nostro paese.

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Com’è la situazione della salute in Italia? Ci sono differenze rispetto al passato? Quali sono gli ambiti con i maggiori cambiamenti?
In generale con i progressi della medicina lo stato di salute migliora e aumenta la speranza di vita. Rispetto al passato la differenza più grande è l’invecchiamento della popolazione. Noi siamo insieme alla Svizzera il paese più longevo d’Europa. Proprio a causa dell’allungamento della vita alcune problematiche vengono in primo piano, come la multicronicità, ovvero il fatto di avere più di due malattie croniche contemporaneamente.
Questo significa che la sanità, prima organizzata per specialità per cui lo specialista di un organo cura quell’organo, ora necessita di un approccio multidisciplinare perché gli aspetti da considerare sono tanti e le specialità che intervengono sono diverse. Quindi anche i servizi sanitari si stanno organizzando in modo che ci siano team multidisciplinari per prendere in carico il paziente e per seguirlo al meglio.
Una delle cose che mi ha colpito è la quantità delle medicine da prendere: quando ho visto gli anziani della mia famiglia, persone assolutamente indipendenti, confondersi di fronte alla mole di famaci da assumere nella stessa giornata in orari diversi mi sono chiesta: come faranno quelli che non sono così autosufficienti? È una questione veramente complessa, anche riguardo alle possibili interazioni tra farmaci, che vanno studiate attentamente.
Da queste riflessioni è venuta fuori l’idea di analizzare la comorbilità e cercare di spiegare anche le disuguaglianze socioeconomiche che si vedono in quasi tutte le patologie.

Come si manifestano le disuguaglianze socioeconomiche?
Gran parte delle patologie è più frequente nella posizione socioeconomica più bassa. Questo dipende dai fattori di rischio: il fumo, l’alcol, il cibo non sano, la poca attività fisica, che sono più diffusi nella popolazione maggiormente deprivata. È prima di tutto una questione di stili di vita. Poi ci sono anche le differenze di accesso alle cure. In realtà nel servizio sanitario universalistico che abbiamo in Italia quando si riesce a entrare si viene curati in maniera uguale a tutti gli altri, almeno per le terapie di routine. Certo la diminuzione delle risorse, la privatizzazione nell’ambito sanitario, i tagli stanno pesando su un servizio pubblico che finora ha sempre fatto il suo dovere. Ma se si comincia a dover aspettare mesi e mesi per fare un esame…

Nelle fasce socioeconomiche più basse includevi anche gli immigrati?
Io mi riferivo soprattutto alla popolazione italiana. Per quanto riguarda l’immigrazione noi siamo un paese di immigrazione ancora recente, a differenza di tanti paesi del nord Europa dove sono molti gli stranieri arrivati alle seconde generazioni. Invece noi stiamo ancora abbastanza all’inizio, con un 10 per cento di popolazione immigrata.
Quello che emerge dagli studi epidemiologici è l’effetto del cosiddetto “migrante sano”: le persone che partono in cerca di fortuna devono stare bene, non possono farlo se non hanno risorse fisiche sufficienti. Quindi in tutte le patologie, tranne pochissime, si vede che gli italiani, a parità di età, stanno peggio.
Per le persone straniere il problema maggiore è l’accesso alle cure. In Italia c’è una grande differenza da regione a regione. In alcune c’è uno sforzo gigante di integrazione, ad esempio di scrittura delle informazioni in più lingue. E ci sono associazioni di volontariato molto impegnate nella mediazione culturale. Invece a Roma io questa cosa non l’ho vista molto.

Cosa ci dici dei nuovi sviluppi, per esempio la medicina di genere?
La medicina di genere è nuova fino a un certo punto. Diciamo che è un po’ difficile farla entrare nel modo di pensare comune.
Ci sono tantissime differenze tra maschi e femmine, ad esempio per lo scompenso cardiaco i fattori di rischio sono molto diversi: per gli uomini sono le malattie ischemiche del cuore mentre per le donne l’ipertensione, il peso… È importante cercare di capire quali sono le differenze nei fattori di rischio perché intervenendo su questi si riesce a prevenire la malattia.
L’altro aspetto è che da sempre noi femmine ci siamo curate prendendo medicine basate su trial clinici fatti sugli uomini. Ora piano piano sta passando l’idea che i test si devono fare anche sulle donne, perché siamo diverse nelle reazioni, dal punto di vista ormonale, dal punto di vista del peso. Non è detto che la quantità di farmaco che serve a un uomo sia la stessa che serve a me. E poi le donne vivono di più, questa è un’altra differenza. Anche se una cosa è la speranza di vita, altra è la speranza di vita in buona salute. Non è detto che se si vive di più si viva di più in buona salute.

Secondo te cosa significa “stare bene”?
Come dice il presidente Ikeda, stare bene profondamente è una condizione assolutamente indipendente dalla malattia, dallo stato fisico di quel momento. Affrontiamo tante malattie nell’arco della vita, quindi la sfida è riuscire a stare bene nel mentre, a gioire della vita comunque. C’è talmente tanto malessere nella società che bisogna cercare di guarire prima di tutto lo stato vitale.

Come epidemiologa puoi valutare se ci sono fasce di popolazione, o luoghi geografici, dove questa capacità è più sviluppata?
È difficile valutare lo stato vitale, la felicità, o la capacità di guarire. Ci sono però molti studi sui super longevi nel mondo. Da noi in Sardegna in diversi paesi la popolazione vive particolarmente a lungo, e ci sono degli stili di vita che accomunano questi luoghi. Intanto l’abitudine a muoversi: una persona che cammina lo fa anche quando invecchia. Poi stare insieme agli altri, fare delle cose insieme, avere una socialità. E anche preoccuparsi degli altri.
Sembrano un po’ le caratteristiche delle attività della Soka Gakkai: stare insieme, preoccuparsi degli altri. Sarebbe bello fare un’attività di zona camminando…

La sanità italiana in un mondo che cambia

Nei panni di Shin'ichi Yamamoto, il protagonista del romanzo La nuova rivoluzione umana, Daisaku Ikeda rivolgendosi a un gruppo di medici analizza la stretta relazione tra salute spirituale e salute fisica, e attraverso lo scritto di Nichiren I tre tipi di tesori spiega come coltivando la prima siamo in grado di rafforzare la seconda e contribuire al potere di recupero del corpo dalla malattia

Shin’ichi disse: «La scienza medica analizza obiettivamente le cause della malattia e le cura in base a ciò che scopre. Il Buddismo invece si concentra sulla comprensione della vita stessa, perché è in essa che le malattie mettono radici e il Buddismo ne ricerca le cause interne». Sottolineò che il senso di alienazione che molte persone provano nella cultura e nella società contemporanea può produrre uno stress eccessivo e malattie psicologiche, rimarcando l’importanza di aiutare le persone a ripristinare la forza interiore e un senso di valore e di benessere a un livello più profondo, come componenti essenziali per mantenere la buona salute.
Continuò dicendo che era fondamentale concentrarsi non solo sugli aspetti fisici ma anche su quelli emotivi, mentali e spirituali della salute, in particolare sulla formazione di un atteggiamento mentale forte e positivo e orientato verso la vita. Come indica il proverbio giapponese “la malattia parte dalla mente”, non esiste una vera salute senza salute spirituale. […]
Citò poi un passo dalla lettera del Daishonin I tre tipi di tesori: «Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore!» (RSND, 1, 755).
[…] Shin’ichi spiegò: «La frase “tesori di un forziere” si riferisce al denaro e alla ricchezza materiale. I “tesori del corpo” sono la salute, le abilità fisiche e le conoscenze. I “tesori del cuore” sono la forza e la luce interiori, la ricchezza del carattere e l’umanità. […]
Anche la più grande ricchezza non è inesauribile e può essere perduta in un attimo, per esempio in caso di calamità. Ma se godiamo di buona salute possiamo sempre ricominciare, lavorando per acquisire nuova ricchezza. Questo è il motivo per cui il Daishonin scriveva: “Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo”. Ma anche i tesori del corpo svaniscono gradualmente, perché invecchiamo o perché ci ammaliamo. Non sono eterni. Inoltre, pur avendo un corpo forte e sano, se la nostra mente è inquinata dalle insicurezze e dalle paure, o dall’invidia e dalla malizia, le nostre vite saranno molto infelici. [...]
I tesori del cuore sono la chiave per la vera felicità. Il Mahatma Gandhi (1869-1948) osservò con saggezza: “La felicità è in gran parte una condizione mentale”. Ma la civiltà moderna ha poca considerazione per il cuore e per la mente e finora si è concentrata esclusivamente sull’acquisizione dei tesori del forziere e del corpo. Per tale motivo i paesi sviluppati hanno accumulato ricchezze materiali e grazie all’accesso a cure mediche avanzate hanno in un certo senso reso la vita più confortevole e comoda. Ciò ha provocato disparità economica tra nazioni sviluppate e in via di sviluppo. Inoltre, il maggiore comfort godibile nelle nazioni sviluppate non ha necessariamente prodotto soddisfazione spirituale o felicità, anche per il fatto che i desideri umani sono insaziabili.
Sebbene le cure mediche siano progredite, le persone sono preoccupate per la loro salute e si sentono sempre più alienate, frustrate e apatiche. È il risultato di aver fallito nel comprendere il vero valore dei tesori del cuore: la salute della mente e dello spirito.
Il cuore ha un potere illimitato. Potremmo perdere i tesori del forziere e quelli del corpo, ma finché custodiamo i tesori del cuore possiamo condurre una vita piena di gioia e radicare in noi una solida condizione di felicità.
I tesori del cuore sono anche la fonte che ci consente di acquisire i tesori del forziere e quelli del corpo. Rappresentano la salute spirituale, sono la fonte della speranza, del coraggio, dell’entusiasmo e della volontà di vivere. Come scrisse il filosofo svizzero Carl Hilty (1833-1909): “La salute si rinnova lavorando tanto da essere dimentichi di sé”».
Shin’ichi continuò: «Mentre le persone accumulano questi tesori del cuore apprendono quanto sia preziosa la vita, trascendono i limiti dell’ego e sono in grado di dedicarsi al nobile scopo della felicità degli altri. Nell’acquisire questa salute spirituale, inoltre, sono in grado di ottenere qualcosa che contribuirà al potere di recupero del corpo e alla capacità di rafforzare la salute. In realtà non siamo completamente sani se non lo siamo anche spiritualmente. Penso che sia importante diffondere ampiamente questa verità nella società».
Disse che il tipo di assistenza medica necessaria per sviluppare una salute spirituale e mentale avrebbe dovuto estendersi oltre l’approccio meramente reattivo – ovvero la cura delle malattie dopo che sono insorte – e indirizzarsi verso un approccio proattivo, orientato a preservare, promuovere e migliorare la salute. Aggiunse che la missione della Divisione medici non doveva consistere in un approccio passivo alla prevenzione della malattia quanto in una sensibilizzazione positiva per garantire a tutti una vita sana, attiva e vigorosa. Chiuse il suo discorso chiedendo loro di non limitarsi a curare le malattie, bensì di curare sempre le persone. Il pubblico rispose con un applauso pieno di entusiasmo.

(Da un discorso alla terza riunione generale della Divisione medici del 15 settembre 1975, NRU, 22, 257 e segg.).

Curare la persona non la malattia

Apprendere da altre culture può offrirci uno sguardo più critico sul nostro modo di intendere salute e malattia, collocandolo accanto ad altri sistemi terapeutici. Questo il messaggio centrale del dialogo che abbiamo intrattenuto con Roberta Altin, docente di antropologia presso l’Università di Trieste, che si occupa di migrazione e dell’approccio alla salute in un’ottica interculturale.

Ci racconti un po’ di sé, della sua storia…
Ho avuto una vita un po’ complicata. Vengo da una situazione di immigrazione, i miei erano profughi… Erano scappati dalla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale e io ho vissuto tra diversi mondi che all'epoca erano molto distanti, molto divisivi. Ho capito solo in seguito che mi sono interessata ai migranti per risolvere cose che risalivano alle mie esperienze familiari.
Ho avuto un innamoramento pazzesco per l'antropologia perché mi dava risposte esistenziali, e così mi sono ritrovata a studiare i migranti che stavano arrivando in Italia nei primi anni ’90, non avendo ancora la possibilità di fare lavoro sul campo, il mio sogno, che avrei realizzato in seguito diventando esperta di Africa occidentale.
Lo dico adesso a distanza di anni: è stato un percorso esistenziale. Come spesso succede, certi filoni di ricerca molto sentiti riflettono domande che trovano risposta, attraverso gli altri, a quesiti che si hanno con sé stessi. Come un tarlo che conduce a una spinta che diventa creativa.

Cosa si intende con antropologia medica e che approccio ha alla salute?
Molto in generale possiamo dire che l’antropologia medica si occupa della dimensione sociale e antropologica della salute, e di come culture differenti abbiano elaborato differenti pratiche, credenze e conoscenze intorno ai problemi collegati alla salute, alla malattia e alla cura.
Nata in contesto coloniale, ha vissuto un momento molto attivo quando psichiatri e medici andati a lavorare in Africa occidentale hanno iniziato a occuparsi di trance, di cura collettiva di un disagio psicosociale espresso attraverso il corpo (simili fenomeni di possessione li avevamo anche noi in Italia, come il tarantismo in alcune zone del meridione). Ma in Africa la cosa che colpisce è la comunità. Di fronte al disagio le persone non hanno paura, la comunità ti contiene, ti protegge dal farti male, e la possessione assume così un costrutto simbolico.
Da noi invece quando si soffre di un disagio psichico si rimane ancora più soli, con lo psicofarmaco o anche con la terapia che è comunque individuale e mai socializzata. Benché l'uso di antidepressivi e ansiolitici sia dilagante, la nostra società teme il disagio psichico, ne ha paura e nessuno ne parla, anche se è noto che il primo atto di cura è la condivisione perché così si smorza l'isolamento.
Come antropologa trovo questo fenomeno veramente sconcertante, segno di un mondo che è tecnologicamente molto avanzato ma culturalmente molto arretrato. Invece con uno sguardo antropologico è possibile ragionare su una prospettiva più ampia, non solo legata al contesto in cui si vive.
Non sono una tradizionalista, non ho un tipo di approccio esotico alle altre culture. Dico però che esistono concezioni diverse da cui noi dovremmo trarre beneficio in maniera più consapevole, perché un benessere “occidentale” da un lato non è sostenibile, dall'altro porta con sé una serie di disagi che neppure riusciamo a vedere. Apprendere da altre culture può offrirci uno sguardo più critico verso il nostro sistema, collocandolo accanto ad altri sistemi terapeutici.
In molte culture per esempio non c'è l'idea del corpo separato dalla mente, un retaggio “cartesiano” che noi diamo per scontato. Ma questa nostra concezione dicotomica esplode nel momento in cui si ha un disagio, un problema, una malattia che può non essere solo fisica ma di “intercapedine” fra un mondo e l’altro, e spesso il medico non riesce a coglierla, non riesce a trovare risposte.
La capacità reattiva di chi è malato dipende tantissimo dall'impianto sanitario, cioè dall'operatore che lo cura e dalla concezione che c'è dietro: ci si interroga su chi si ha davanti, su che cosa ci sta realmente comunicando? Un problema che non riguarda solo gli stranieri. Rispetto a una volta oggi è difficile trovare un bravo internista, che guarda l'insieme, la complessità. Stiamo costruendo ovunque degli iper-specialisti molto bravi, molto competitivi, però l'obiettivo finale spesso si perde per strada. Hanno prevalso la tecnologia e la visione di un corpo molto sezionato, a discapito della complessità dell'essere umano.

Una tendenza che ha comportato anche la separazione netta tra malattia e salute, dove la salute è diventata una condizione standardizzata che risponde a canoni e protocolli…
In questo senso, un aspetto che trovo davvero problematico è come viene interpretato, mal vissuto, il declino verso l'età avanzata. È chiaro che la malattia è segnale di un difetto, ma la vecchiaia non è una malattia, anche se ineluttabilmente molte cose possono non funzionare più. In altre situazioni e in altri tempi questa era l’età in cui finalmente ci si poteva rilassare e non dover continuare a offrire le massime prestazioni, invece noi abbiamo completamente omesso l'anzianità e la caducità di un corpo che ineluttabilmente va verso la morte, l'unica cosa che ci accomuna. Nasciamo e moriamo.
Ci si chiede quale sia il confine fra l'artificiosità di mantenere efficiente un corpo e la cura, se manca l'accettazione del tempo che passa. Il corpo macchina ti distoglie dal contesto di una vita che forse richiederebbe di essere rallentata.
Noi abbiamo l'arroganza occidentale di poter controllare questi processi, perché i confini della nascita e della morte sono ormai difficilissimi da definire. Pensiamo alle diatribe bioetiche o religiose per definire dove inizia e finisce la vita… Con le tecnologie è tutto saltato. Questo ci dà un enorme senso di potenza, conoscenza, capacità di intervenire. Ma chiediamoci quanto, in termini di beneficio e di comprensione della complessità della vita, come società occidentale abbiamo guadagnato.

Ci ha colpito la tripartizione che lei fa del concetto di malattia in illness, disease e sickness, termini che a un primo sguardo sembrerebbero sinonimi. Può spiegarcela meglio?
Si tratta di tre definizioni che, se incrociate, ci possono aiutare a capire in maniera complessa, antropologica, il concetto di malattia.
L’illness è in qualche modo quello che la persona sente. Quando dico “ho la cervicale” non è che lo penso, il dolore ce l'ho. Questa iIlness è molto banale, altre invece sono più complicate. In chi somatizza un problema, che letteralmente “incorpora” un disagio, il corpo diventa uno strumento di comunicazione, anche disperata. Il corpo di un ragazzo anoressico di 45 chili per un metro e 90 è un messaggio disperato, parla, e non si sa quale risposta dare, perché la risposta è su un altro piano di articolazione del linguaggio.
Disease è la diagnosi, in questo caso “anoressia”, che rientra in una tabella di categorie stabilite che cambiano nel tempo. Il narcisismo, per esempio, una volta era una malattia mentale, poi negli Stati Uniti la categoria è stata eliminata e di colpo quel disturbo è sparito.
E poi c’è sickness, che riguarda la valutazione del ruolo del malato e della malattia nella società. Una definizione che ha anche valenza politica, esercitando un forte tipo di controllo: se sto male quello che mi dicono è di stare ferma perché poi mi vogliono produttiva al massimo. Tre giorni di malattia, poi devo rientrare. Il sistema di corpo macchina non riguarda solo la medicina ma la società nel suo complesso.
Se proviamo a incrociare l’illness (quello che una persona prova, come traduce il suo sintomo, come lo legge quando sta male) a disease (la diagnosi che ne dà la medicina ufficiale) e a sickness (come la società la inquadra e la gestisce) possiamo in qualche misura ricostruire la complessità definita dalla parola “malattia”.

Esistono attualmente in Italia dibattiti sull’importanza di acquisire dalle culture di popolazioni immigrate visioni differenti dalla nostra che ci potrebbero arricchire enormemente?
Oggi in questo siamo molto, molto regrediti rispetto al recente passato, se penso al centro Frantz Fanon[ref]Frantz Fanon (1925-1961) è stato uno psichiatra, antropologo, filosofo e saggista francese, nativo della Martinica e rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione, che ha analizzato questo
processo dal punto di vista sociologico, filosofico e psichiatrico.[/ref] di Torino (associazione fondata nel 1997 che riunisce professionisti con diversa formazione come psicologi, psichiatri, mediatori culturali) creato da Roberto Beneduce, etnopsichiatra, o a Didier Fassin, che ha operato per anni in Medici senza Frontiere e poi è tornato a occuparsi dei migranti in Francia, probabilmente uno degli antropologi più quotati…
Attualmente c'è una componente, meno accademica, che fa ricerca all’interno delle istituzioni e che è sensibile a queste tematiche. A Modena ci sono alcune realtà, ma siamo in minoranza. Io faccio ricerca nelle scuole, o sulla salute delle donne migranti negli ospedali, interrogando gli infermieri più ancora che i medici. Ma bisogna tenere presente che si va a intervenire quasi sempre su situazioni di marginalità economica. Le donne nigeriane che vanno al centro Fanon sono per lo più vittime di tratta e hanno da battagliare.
Nella realtà chi ha un livello di consapevolezza della propria cultura "altra" tale da poter dialogare non viene da noi. Invece quelle che arrivano sono persone che pur essendo portatrici di valori sono fortemente schiacciate da grosse difficoltà economiche e sanitarie, e in queste condizioni è difficile che esprimano le loro diverse visioni. Devono sopravvivere, e hanno paura. Le persone si vergognano e non ti trasferiscono i loro valori perché sono intimorite, c'è un clima di respingimento, di razzismo. Dentro gli ospedali ancora adesso non si parlano altre lingue, molti medici si arrabbiano perché non capiscono, chiamano il mediatore, ma a volte basterebbe sapere due tre parole di inglese…
Del resto evidenti problematiche di inserimento non riguardano solo i migranti ma purtroppo in misura crescente anche parti della popolazione italiana, che stiamo perdendo, proprio letteralmente, anche come scolarizzazione. Ho fatto recentemente alcuni studi sulla dispersione scolastica con background migratorio, ed è emerso che stiamo costituendo vere e proprie nuove schiavitù dove i minori non accompagnati che arrivano dal Bangladesh vengono precipitati in aziende navali prestigiose, creando filiere di nuove schiavitù con tanto di donne e uomini vittime di tratta.

Che contributo ci possiamo aspettare dalla medicina transculturale?
La medicina transculturale è un po’ un connubio, un dialogo fra medici e operatori sociali, spesso antropologi, che lavorano in équipe interdisciplinari.
È nata in Italia negli anni ’90 per interpretare, comprendere, dare risposte a interrogativi che all'inizio potevano essere anche molto elementari… Lo ricordo come un periodo molto importante: ci chiamavano per interagire con le donne nigeriane vittime di tratta, per comprendere come vivevano il corpo, l'idea del juju, il rituale di assoggettamento subìto prima di partire per cui si sentivano addosso il malocchio. Facevamo dei fumetti per dialogare con queste donne, per insegnare loro a usare il preservativo con i clienti.
La scuola francese ha funzionato inizialmente come riferimento, penso ai lavori nelle banlieue parigine dove si sono creati ghetti senza fine. Da noi invece, dove ci sono tantissime componenti migratorie, a parte qualche caso non si sono mai formati veri e propri ghetti. Ritengo che il motivo sia che la componente straniera è entrata a far parte dell'italianità in maniera più morbida rispetto ad altre nazioni, chissà forse anche grazie alla nostra eterogeneità che salva un po’ anche noi… perché in fondo noi italiani non siamo così omologabili.
(Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi)


[box] Roberta Altin è docente di discipline demo-etnoantropologiche presso il dipartimento di Studi umanistici dell'Università di Trieste e in seno allo stesso ateneo coordina il Centro interdipartimentale sulle Migrazioni e Cooperazione allo sviluppo Sostenibile (CIMCS).

Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: Stella polare: 20 anni di rotta e di rete anti-tratta (a cura di R. Altin e V. Saba), EUT, Trieste 2023; Fuoriclasse: migranti e figli di migranti (dis)persi nel sistema scolastico di un'area di frontiera (a cura di R. Altin), EUT, Trieste 2022.[/box]

Lo sguardo antropologico ci restituisce una prospettiva più ampia

La salute è la lotta incessante di un organismo per preservarsi in equilibrio dinamico di fronte alla costante minaccia di ammalarsi. Una forza e una resilienza che sono la prova della nostra capacità di essere persone "sane".
Quando consideriamo la malattia come una parte innata della vita possiamo apprezzare pienamente la ricchezza dell’esperienza di vivere.

La salute: un equilibrio dinamico

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