Se i desideri terreni sono Illuminazione

Se i desideri terreni sono Illuminazione

Parlando di realizzazione, di realizzazione di sé, si pensa normalmente al proprio incompiuto che finalmente si compie (che sia espressione di sé nel lavoro, nelle relazioni, ecc). Poi, avvicinandosi al Buddismo e approfondendone il punto di vista, si scopre che realizzazione ha a che fare con una compiutezza più profonda, che oltre a sé abbraccia ogni altro noi nel tempo e nello spazio.
Difficile però unire nel pensiero queste due visioni: la realizzazione del tuo obiettivo personale e la realizzazione più grande, della consapevolezza e della compassione del Budda che tutto racchiude (compreso l'obiettivo), restano concettualmente separate, e se guardi l'una perdi l'altra.

Dal punto di vista del Buddismo questa separazione fa parte dell'illusione. Perché la realizzazione di cui il Buddismo parla, l'Illuminazione del Budda, è esattamente percepire, sentire, vedere che queste due parti sono una parte sola. Nel momento in cui realizzi questo hai realizzato tutto, perché realizzi il cuore del messaggio del Sutra del Loto.

Comune mortale e Budda, nove mondi e Buddità, tutti i fenomeni e realtà fondamentale, desideri terreni e Illuminazione. Sono la stessa cosa (cfr. per esempio Ongi kuden, in Buddismo e società n. 110, p. 50, e in questo numero, p. 43). Qui sta la folgorazione del Sutra del Loto che - a quanto dice Nichiren - fa di questo insegnamento l'unico corretto e in grado di far conseguire l'Illuminazione. Sono la stessa cosa, solo che per capirlo devi guardare attraverso la lente di Nam-myoho-renge-kyo. A partire esattamente da dove sei.

Infatti, senza i nove mondi non ci può essere Illuminazione, e neppure senza desideri terreni. Perché l'Illuminazione è una condizione di pienezza suprema, ma se vista in astratto non si sa come arrivarci. I desideri terreni in quanto tali sono solo attaccamenti e sofferenze: la paura di morire, la paura di soffrire, l'odio e il rancore, la noia e la depressione, l'illusione della felicità relativa. Ma sono l'unica condizione in cui si può manifestare la nostra umanità che desidera cambiare. Migliorare, trasformare, non più soffrire. Illuminare.

Solo se si recita Nam-myoho-renge-kyo a partire da dove ci si trova si realizza che desideri terreni e Illuminazione sono la stessa cosa. E così facendo si sperimenta la più compiuta realizzazione di sé promessa dal Buddismo.

PER APPROFONDIRE 

BIBLIOGRAFIA DELLO SPECIALE

Gli scritti di Nichiren Daishonin, edizioni Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, voll. 1-9.
Nichiren Daishonin, L'eredità della Legge fondamentale della vita, spiegazione di Daisaku Ikeda, in DuemilaUno, n. 32 e in La vera entità della vita, Esperia.
Daisaku Ikeda, Il mondo del Gosho, Esperia, voll. 1-2.
Il Sutra del Loto, Esperia.
Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Esperia, vol. 1.
Daisaku Ikeda, Lezioni sul Gosho L'apertura degli occhi, quinta e sesta puntata, Buddismo e società n. 110 e 111.
Daisaku Ikeda, Per il bene della pace, Esperia, cap. 3.
Daisaku Ikeda, L'umanesimo della Via di Mezzo, Proposta di pace 2002, Buddismo e società, n. 93.
Daisaku Ikeda, Verso un'era di dialogo: esplorare l'umanesimo, Proposta di pace 2005, Buddismo e società, n. 110.
Daisaku Ikeda, In cammino con i giovani, Esperia.
Daisaku Ikeda, I protagonisti del XXI secolo, Esperia.

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La realizzazione di sé

Una volta, mentre erano a cena, il presidente Ikeda la incoraggiò a manifestare a pieno il proprio colore e a non perdere le proprie caratteristiche. Così ha raccontato Asa Nakajima - responsabile nazionale della divisione donne e vice direttore generale dell'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai - tornata dal Giappone. 
Anche sollecitate da questo episodio, l'abbiamo invitata nella nostra redazione per chiarire insieme, sulla base dell'insegnamento di Nichiren Daishonin, il significato della realizzazione di sé.



Cosa significa sentirsi realizzati, alla luce del Buddismo? 
Il Buddismo insegna che la realizzazione personale non riguarda solo gli aspetti materiali della vita, ma anzi che è molto più importante come si vive. Certo è necessario sviluppare la sicurezza di riuscire a realizzare pienamente la propria esistenza nel lavoro, nelle relazioni personali, nella vita quotidiana. Ma in fondo a tutto questo c'è la realizzazione profonda di se stessi, e ciò avviene recitando il Daimoku. 
Il presidente Ikeda spiega che nella nostra vita esistono sia l'oscurità fondamentale sia la natura di Budda, per questo è necessario lottare ogni momento contro la nostra natura oscura e "aprire" la vita. Dovrebbe essere una lotta gioiosa: infatti, facendo emergere la nostra Buddità, appare anche la gioia di vivere. 
È così che piano piano cominciamo a sentirci realizzati e di conseguenza riusciamo a trovare il lavoro che desideriamo, a risolvere i problemi di relazione, ecc. Ma tutto deriva dallo stato vitale: nel Buddismo gli aspetti fisici e spirituali sono inseparabili e il cambiamento inizia nel profondo della vita. Questo è il significato di myoho. 
Quindi è importante realizzarsi proprio lì dove si sta lottando, dove c'è un problema, una sofferenza, una tendenza negativa, utilizzando il Daimoku e costruendo una grande fiducia verso il Gohonzon. 
In questo modo possiamo arrivare a sentire che realizzarsi significa avere una grande sicurezza dentro di sé. Con una condizione vitale così alta si ha voglia di affrontare tutti i problemi della vita. Questo insegna il presidente Ikeda.



Vuol dire che nella vita c'è sempre la possibilità di diventare felici? 
Sì. Infatti realizzarsi vuol dire - in qualsiasi situazione ci si trovi - cominciare a sentire attraverso il Daimoku una grande sicurezza: allora scompare la paura e si comincia a manifestare un atteggiamento sempre più positivo. Seguendo l'insegnamento buddista riusciamo a sviluppare l'ottimismo, cioè la sicurezza di superare qualsiasi problema. 
Gli eventi negativi hanno comunque un senso: ci spingono ad aprire ancora di più la vita, cosa che non può fare nessun altro al nostro posto. Ma per fare così è necessaria una grande fiducia verso il Gohonzon. 
Kaneko Ikeda (la moglie di Daisaku, n.d.r.), in un articolo pubblicato sulla rivista americana Living Buddhism (gennaio 2005), ha riportato un discorso del presidente Ikeda rivolto alle giovani donne in cui dice: «Non potrete catturare la felicità per quanto vi sforziate di inseguirla. La felicità è qualcosa che vi segue, e segue sicuramente una persona che abbraccia la Legge mistica, che ha accumulato buona fortuna. Questa è la legge della vita».



Quindi non dobbiamo inseguire particolari modelli... Questo vuol dire manifestare il "proprio colore"? 
Qualche anno fa il presidente Ikeda mi ha detto: «Non perdere il tuo colore», cioè le tue caratteristiche. Intendeva dire: fai una grande rivoluzione umana senza perdere le tue peculiarità. 
All'inizio non capivo, poi ho cominciato a recitare Daimoku e allora ho compreso che nella nostra vita c'è un valore immenso, e che bisogna tirarlo fuori, per incoraggiare gli altri. Inoltre bisogna fare sempre di più la propria rivoluzione umana e far emergere la Buddità. Ho capito che mi mettevo dei limiti, che avevo un po' paura e non me ne accorgevo. Allora mi sono sforzata ancora di più di tirar fuori le mie capacità. 
C'è una frase famosa dell'Ongi kuden che dice: «I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche» (Ongi kuden, Annotazioni sul Sutra degli Infiniti Significati, cfr. The Record of the Orally Transmitted Teachings, trad. di Burton Watson, ed. Soka Gakkai, p. 200). 
Sensei a me personalmente ha insegnato a manifestare ancora di più le mie caratteristiche e a far fiorire la mia vita non "perdendo il mio colore". Ognuno quindi può e deve far fiorire le proprie qualità, sviluppando un'alta condizione vitale e manifestandola concretamente nella vita quotidiana, mentre incoraggia gli altri.



Nella nostra rivoluzione umana, quindi, non dobbiamo perdere le nostre caratteristiche... 
Assolutamente no, anzi dobbiamo svilupparle sempre di più. Non bisogna assomigliare a qualcun altro. 
Questo forse si ricollega alla sicurezza interiore: quanto più si è sicuri di sé, tanto più ci si sente felici. Ma è sempre una questione di fiducia nel Gohonzon. 
Ciascuno ha le sue caratteristiche, e le manifesta in modo diverso. È importante che ciascuno tiri fuori al massimo il suo valore e manifesti limpidamente il "suo" colore. Se io, ad esempio, ho il colore blu, posso manifestare un blu limpido, se tu hai il colore rosa, puoi manifestare un rosa limpido... ciascuno fiorisce con il proprio colore. Kosen-rufu non è tutto rosa, o tutto grigio, o tutto bianco, ma è di tutti i colori, è una cosa molto dinamica.



Cosa significa realizzare la propria missione? 
Missione (shimei in giapp.) letteralmente significa "usare la vita". Per noi significa propagare il Buddismo, realizzare la missione dei Bodhisattva della terra. Questo dovremmo farlo ogni giorno. 
Ogni persona ha la sua missione, quindi nessuno può dire: «Tu hai una missione più grande, tu una più piccola...». Ognuno deve sentirla attraverso il Daimoku. La missione di propagare il Buddismo dipende dal karma di ciascuno. Ad esempio la missione di Toda, Makiguchi, Ikeda è stata ed è enorme: grazie a loro esiste la Soka Gakkai. Ne La vera entità della vita Nichiren scrive: «Non possono esserci discriminazioni fra coloro che propagano i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo nell'Ultimo giorno della Legge, siano essi uomini o donne: se non fossero Bodhisattva della terra, non potrebbero recitare il Daimoku» (La vera entità della vita, SND, 4, 233). 
Un giovane chiese a Ikeda: «Come posso scoprire qual è la mia missione?». «La chiave - rispose Ikeda - è scalare la montagna davanti a voi. Mentre superate i dislivelli, svilupperete i vostri muscoli e crescerete in forza e resistenza. Questo allenamento vi permetterà di cimentarvi con vette sempre più elevate. Dunque è di vitale importanza continuare a impegnarsi in tal senso. [...] Chi non dimentica mai che la propria missione è unica, è una persona forte. Qualsiasi problema abbia, non ne uscirà sconfitto, potrà trasformare ogni ostacolo in un catalizzatore per una crescita volta a un futuro colmo di speranza» (D. Ikeda, In cammino con i giovani, Esperia, pp. 61-2). 
Ma non dimentichiamo che nel Buddismo il concetto di missione è dinamico, perché continua per tutta la vita. Ne Il mondo del Gosho è scritto che dobbiamo condividere con Nichiren Daishonin il grande voto di realizzare kosen-rufu, e questo vale per sempre.



Il Buddismo insegna che il fiore del loto sboccia nel fango senza esserne sporcato. Come si concretizza questa immagine nella vita quotidiana? 
Questa immagine rappresenta la nostra rivoluzione umana come Bodhisattva della terra nella difficile società dell'epoca di Mappo. Significa lottare proprio dove si presentano i problemi e far sì che emergano altri Bodhisattva della terra. 
Dobbiamo diventare persone sagge, esseri umani che non vengono influenzati dalle circostanze esterne; per questo è necessario il Daimoku. 
"Fango" vuol dire che intorno a noi ci sono tanti problemi, però Nichiren dice che nella vita funziona il principio di esho funi, cioè siamo noi che possiamo trasformare ciò che ci fa soffrire. Per molti non è facile accettare questo principio. Ma solo facendo così si costruisce un forte io. È un allenamento, e per questo bisogna utilizzare al massimo Nam-myoho-renge-kyo. 
Ne Il mondo del Gosho il presidente Ikeda dice: «È il cuore che è importante» (vol. 1, p. 5). Il cuore cambia di momento in momento, e questo non si vede da fuori. 
Nel Gosho c'è scritto: «Il Sutra Rokuharamitsu afferma che un uomo dovrebbe essere il padrone della sua mente piuttosto che lasciare che essa diventi la sua padrona» (Lettera ai fratelli, SND, 4, 121). Noi diventiamo padroni della mente soprattutto con il Daimoku. Recitando Daimoku cominciamo a ragionare basandoci sulla pratica corretta.



Molte persone, pur praticando il Buddismo, non hanno fiducia in se stesse, tendono a confrontarsi con gli altri e si sentono insicure. Con quale atteggiamento bisogna praticare per sviluppare fiducia in se stessi e speranza nel futuro? 
La sfiducia dipende dalla paura, ma recitare Daimoku è la migliore medicina sia per coprire una tendenza negativa sia per tirare fuori ancora di più una tendenza positiva. 
Recitando Nam-myoho-renge-kyo prima di tutto riconosciamo come siamo fatti veramente: è come se fossimo nudi davanti al Gohonzon. Cominciamo a stabilire un rapporto profondo con il Gohonzon, e ci viene la voglia di rompere il guscio di insicurezza e di sfiducia in noi stessi. 
Il presidente Ikeda ne Il mondo del Gosho spiega che la vera offesa è non riuscire a credere nella Buddità che è dentro di noi: l'oscurità fondamentale si manifesta come insicurezza e sfiducia. 
Quando lottiamo cominciamo ad aprire il mondo di Buddità e, pur non avendo ancora risolto tanti problemi, iniziamo a sentire una grande speranza.



Ci sono persone che pur praticando da tanti anni non riescono proprio ad avere fiducia... 
Forse queste persone non riescono a guardarsi dentro. 
Se si soffre così dopo tanti anni di pratica vuol dire che l'oscurità fondamentale è veramente forte. Ma il problema, comunque, è riuscire a riconoscere questa tendenza nella propria vita. Bisogna essere molto severi con se stessi. Se si ha veramente voglia di cambiare allora si cambia. Fin quando non si decide, non cambia nulla. 
Il presidente Ikeda, a un giovane che gli ha chiesto come fare a non scivolare più in una certa tendenza negativa, ha risposto: «Se stai soffrendo veramente, allora determina con forza di cambiare, il Gohonzon funzionerà certamente. Ma secondo me tu non soffri abbastanza, altrimenti manifesteresti una forte determinazione di cambiare». 
C'è anche il caso di persone che stanno soffrendo veramente, ma non riescono ancora a realizzare il cambiamento: io dico sempre loro che ci vuole anche del tempo, e che bisogna mantenere la determinazione, continuando a recitare Daimoku. Proprio come scrive Kaneko Ikeda: «Myo viene definito l'insegnamento che "rivitalizza"; ciò significa che nel mondo della Legge mistica di Nam-myoho-renge-kyo assolutamente nulla viene sprecato, ma tutto acquista un significato».



Spesso sono proprio le donne che sembra non riescano ad apprezzarsi. 
Le donne sono famose per come sanno far funzionare il Daimoku per realizzare kosen-rufu. Il Daimoku delle donne è potentissimo. Ciò vale nell'attività buddista, nella famiglia, nell'educazione dei figli: tutto parte dal Daimoku. Il presidente Ikeda dice che l'attività delle donne non si vede subito, però è la base di kosen-rufu in ogni paese, e anche nella famiglia. Questa è la nostra natura. 
Scrive ancora Kaneko Ikeda: «La vittoria di una donna nella sua esistenza scorre nella vita di tutta la sua famiglia, dei parenti e dei discendenti, e può trasmettere, come il potere del sole, benefici e buona fortuna a ogni persona con la quale ha creato un legame. [...] Non importa come, ma il XXI secolo deve essere il secolo della pace e dell'umanesimo, il secolo del rispetto e della dignità della vita. Per questo è sempre più importante costruire un secolo delle donne».



Come possiamo fare sì che i bambini crescano felici, pieni di fiducia e consapevoli del grande valore che hanno dentro di sé? 
È una grande fortuna per dei bambini sentire il Daimoku fin da piccolissimi. Sensei dice che una mamma che recita Nam-myoho-renge-kyo ogni giorno, mattina e sera, deve decidere che i figli crescano bene e che siano protetti. È importante che la mamma sia consapevole del funzionamento del Daimoku. Ikeda dice anche che quando i bambini sono lodati sentono molta sicurezza in se stessi, tirano fuori ancora di più le loro capacità e quindi crescono bene.



Come possiamo incoraggiare i giovani d'oggi che a causa della loro insicurezza e sfiducia tendono a omologarsi e a uniformarsi agli altri? 
È importante che ognuno cominci a sentire la propria autonomia fin da giovane, a creare valore partendo dalle proprie caratteristiche particolari e uniche. 
Noi adulti dobbiamo sempre incoraggiare chi è più giovane di noi, dialogare con lui o con lei, proprio come se fossimo genitori. La Soka Gakkai è come una famiglia: noi adulti pratichiamo da più tempo e abbiamo sviluppato una grande sicurezza che dobbiamo trasmettere a chi è nato dopo di noi. Io ho sempre detto che da giovani sbagliare va benissimo, l'importante è che partendo da quell'errore si metta una causa per vincere alla prossima occasione. I giovani non devono aver paura di sbagliare, se fanno così bloccano la loro vita.



Spesso, anche in famiglia o a scuola, quando uno sbaglia viene scoraggiato... 
Questo è un grande problema della nostra società. Ma noi dobbiamo far fiorire i nostri giovani, dar loro una grande fiducia. 
È un'età molto delicata: è facile che i giovani diventino infelici, perché sono molto sensibili. Dobbiamo incoraggiarli sempre, aiutarli, ma senza agire al loro posto. 
I giovani hanno tanta energia e passione. Il mio desiderio è che ognuno di loro decida di approfondire questo Buddismo per realizzare kosen rufu, perché poi toccherà a lui o a lei portare avanti questo grande compito. La gioventù passa velocemente e arriverà presto il momento in cui saranno i giovani di oggi a dover mostrare a chi viene dopo come fare attività per kosen rufu. Lo spirito fresco dei giovani va maturato attraverso la fede.



Con quale atteggiamento si può riuscire a non giudicare le persone, ma invece ad apprezzarle? 
Il presidente Ikeda ne Il mondo del Gosho dice che un buddista deve sempre apprezzare ogni persona, mentre spesso ci viene voglia di sottolineare gli aspetti negativi degli altri. 
Nel Gosho di Capodanno Nichiren afferma: «La sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, la fortuna viene dal cuore e ci fa onore» (SND, 4, 272). Lodare vuol dire avere uno stato vitale alto: una persona che ha una vita grande è portata naturalmente ad apprezzare gli altri. 
Giudicare gli altri è come una malattia da cui dobbiamo guarire con il Daimoku. Il presidente Ikeda dice che a volte, se vediamo qualcosa che non va in una situazione o in una persona, è meglio passarci sopra e non dire nulla. Questa è saggezza. Recitando Daimoku comprendiamo che il nostro scopo è solo quello di realizzare kosen-rufu. Altrimenti, volendo a ogni costo dimostrare che abbiamo ragione, appare solo il nostro egoismo. 
Io sono sicura che la Soka Gakkai italiana sta andando avanti, e tutti stiamo migliorando. Recitiamo Daimoku fino a che Sensei non verrà in Italia. Con una forte decisione nel nostro cuore dobbiamo riuscire ad accogliere il presidente Ikeda in Italia. 
È importante avere la consapevolezza che ciascuno di noi è molto importante perché ha una missione unica.



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Quanto è limpido il nostro colore

La realizzazione di sé

Buddità nella forma presente

Buddità nella forma presente

di Gianna Mazzini

Nell'errore c'è la grazia. Nell'imperfezione c'è la crescita. Nell'essere proprio così come si è, c'è il senso profondissimo della nostra esistenza.
E invece si può passare la vita a voler essere diversi.
Chi non è coraggioso a desiderare di diventarlo, guardando con occhi ammirati quelli e quelle che non hanno mai la voce che trema, e non arrossiscono e non tentennano mai.
Chi non è forte, a desiderare muscoli ed energia pensando che la forza stia solo lì. Chi è collerico a desiderare di diventare come un mare calmo, senza increspatura alcuna. Imparando a controllare ogni ondina e pensando che la vittoria sia lì.

C'era una volta un samurai timido. Timido e poco incline al comando. Non dotato insomma di tutte quelle caratteristiche di leader tipiche del leader: il carisma, il coraggio, la capacità di appassionare gli altri e prendere decisioni. A lui era stato affidato un compito di grande responsabilità e questo lo metteva in crisi, perché lui sentiva di non essere all'altezza. C'era da portare a termine una missione in un villaggio nemico. E lui aveva paura. E mentre gli altri erano tutti impegnati nella ricognizione, lui si vergognava un po' perché l'unica cosa che riusciva a fare era quella di guardare le vie di fuga. I sentieri per scappare. E li memorizzava nella testa. Perché avere paura fa agire così. Pensi a cose che, se hai coraggio, non ti vengono neppure in mente.
Poi, al dunque, l'azione nel villaggio non va come previsto: i guerrieri devono battere in ritirata e solo lui è in grado di condurli in salvo. Che gioia e che riconoscenza da parte di tutti. Sono salvi per merito suo. E sentono di dovergli un po' della loro vita, e allora sì che lo acclamano come capo (cfr. Il Nuovo Rinascimento, gennaio 1996, p. 22).
Non è tanto importante come sei ma che uso fai delle tue caratteristiche.
Nel Buddismo è così: conta il legame che stabilisci ogni volta con le cose, con i fatti, con le persone. Non c'è un meglio assoluto o un peggio assoluto, ma un meglio in relazione a.
La timidezza del samurai, le sue paure, la sua inadeguatezza diventano, a un certo punto, prudenza, capacità di calcolare il rischio e tempestività nel trovare la via di fuga. Lui non vince inventandosi un carattere nuovo, o trasformandosi in qualcuno che nulla teme. Vince rimanendo se stesso e usando le sue debolezze per creare valore. Così è per noi. La nostra realizzazione (processo magnifico e senza fine) passa attraverso la fioritura di ogni singola caratteristica, positiva o negativa che sia.
Recitare Daimoku senza buttare via nulla perché non c'è niente di buono o cattivo in sé. C'è solo qualcosa che ci appartiene profondissimamente e che dobbiamo utilizzare per creare valore. Non eliminare ma trasformare attraverso la preghiera. Questa è la chiave: usare tutto di noi per creare valore.
E questa è soprattutto la strada della "trasformazione del karma in missione".
Grazie al potere del Daimoku noi possiamo vivere il nostro percorso come una scelta, e usare la vita nel senso più alto che c'è.
Un giorno il presidente Toda disse a un giovane: «Non c'è motivo per cui tu ti debba abbattere e non è necessario compiere sforzi irragionevoli per tentare di modificare il tuo modo di essere. Perseverando nella fede [...] quei tratti del nostro carattere che attualmente riteniamo tanto problematici, si trasformeranno con molta naturalezza in virtù. Bisogna vivere con fiducia coerentemente con noi stessi» (Ibidem).

Nell'Ongi kuden si legge: «I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche» (Ongi kuden, Annotazioni sul Sutra degli Infiniti Significati, cfr. The Record of the Orally Transmitted Teachings, trad. di Burton Watson, ed. Soka Gakkai, p. 200).
"Senza cambiare le loro caratteristiche" vuol dire che andiamo bene proprio come siamo.
Ciascuno col proprio karma. Unico. Ciascuno con un carattere, un'impronta, una vita completamente e solo sua. Non replicabile. Neanche fra gemelli, neanche fra le anime più vicine della vicinanza più vicina che si può immaginare. E questa unicità, per il Buddismo, è di per sé un valore.
Non dobbiamo assomigliare ad un modello ma tirare fuori la nostra natura più vera. Considerando tutto quello che incontriamo, proprio tutto, essenziale per manifestare la nostra vita appieno.
Questa trasformazione continua porta a cambiare il mondo. Che è la ragione profonda per cui pratichiamo.
Un giorno ho sentito un architetto parlare della magia delle case e di come si riconosce una casa bella da una casa "così così": le case - diceva - non sono fatte di stanze, ma di "percorsi".
Mi è piaciuto questo pensiero perché l'ho sentito vero. Quel che conta di più non è come è grande la sala, e quanti bagni ci sono in una casa e quanto riccamente allestiti. Conta la disposizione delle stanze, conta come vado da un posto a un altro e quanto è mosso e articolato il mio camminare. Questo pensiero si adatta bene anche alle vite: che non si misurano con le tappe, coi risultati ottenuti (le stanze) ma con lo sviluppo delle parti di sé (i percorsi). Conta dove sono arrivata oggi rispetto a dove sono partita e che strada ho fatto per arrivarci.
E quanto ho sorriso lungo il cammino.
Ognuno di noi è diverso e va bene così com'è. Frasetta corta di undici paroline. Semplice come la vita. Che non va dominata, controllata, diretta come un aeroplanino telecomandato.
Dunque un obiettivo valido potrebbe essere: imparare a lasciare che la vita si manifesti così com'è e ogni volta fare il miglior gesto, usare le migliori parole e pensare i migliori pensieri per fare in modo che da lì, da quella cosa, da quel fatto, da quell'evento si sprigioni valore.
Vivo e so che intuirò il disegno della mia vita solo alla fine.
Come quel giochino della settimana enigmistica in cui c'è da svelare un'immagine che appare solo dopo aver unito con delle linee tutti i punti in ordine crescente. Dall'uno al due, dal due al tre, dal tre al quattro. Senza saltare nessun punto. Usandoli tutti.

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Il ciliegio, il pesco e il susino selvatico

La realizzazione di sé

Pregiudizio e imparzialità

Pregiudizio e imparzialità

di Maria Lucia De Luca

«Considero tutti universalmente uguali, non prediligo questo o quello,
non provo amore per uno e odio per un altro.
Sono privo di brame e di attaccamenti, non conosco limiti né ostacoli.
In ogni momento, per tutti gli esseri predico la Legge imparzialmente;
così come agirei in favore di un singolo, allo stesso modo agisco per numerose persone»
(La parabola delle erbe medicinali, SDL, 131-132)

Le differenze tra le persone sono molteplici, il Budda le riconosce ma non fa discriminazioni. Non è mai parziale, non ha preferenze, rispetta le individualità e desidera che tutti riescano a manifestare liberamente le loro qualità.
Tra tutte le parabole del Sutra del Loto, quella delle erbe medicinali mette in evidenza la varietà degli esseri viventi e l'imparzialità della compassione del Budda.
Il Budda si preoccupa di come riuscire a condurre all'Illuminazione tante persone con circostanze, temperamento e capacità differenti. Non c'è una visione massificata dell'umanità, un amore astratto per il genere umano, o dei modelli di riferimento, ma interesse, curiosità, attenzione, affetto, impegno per ogni singolo esemplare di questa indefinibile e imprevedibile specie umana.
«Niente di ciò che è umano mi è estraneo»: Daisaku Ikeda, nella Proposta di pace del 2002, cita questa frase dello scrittore latino Terenzio (Buddismo e società, n.93, p. 26). Indicando così l'atteggiamento interiore necessario per gettarsi nella mischia.
Parlo di gettarsi nella mischia perché, a meno di non avere una grandissima fiducia in se stessi e un'irresistibile curiosità per tutto ciò che è altro da sé - qualità che spesso viaggiano insieme e che forse possono riassumersi nell'assenza di pregiudizio verso se stessi e verso gli altri - è quasi automatico ricercare persone e condizioni che in qualche modo ci assomigliano e ci fanno sentire protetti, rifuggendo tutto ciò che ci mette in discussione, il nostro personale "campo di battaglia".
Per noi buddisti gettarsi nella mischia è, come sostiene Ikeda nella Proposta di pace di quest'anno, un punto d'onore, il «punto d'onore del bodhisattva». Cercare l'altro, l'altra, per quanto possano apparirci lontani e diversi, o per quanto timore possiamo avere di essere giudicati o disprezzati, è un allenamento senza il quale non si può ottenere l'Illuminazione, non si può perfezionare il proprio carattere, non si può realizzare quel «comportamento da essere umano» che è il vero scopo dell'apparizione del Budda in questo mondo.
Il punto è donare agli altri noi stessi così come siamo: questo è l'atteggiamento di Ryunyo, la bambina drago del Sutra del Loto che - sfidando il giudizio dei grandi saggi - regala al Budda il gioiello della sua vita illuminata. E il Budda lo accetta sorridendo. Immediata si manifesta, con tutte le sue meravigliose caratteristiche, l'Illuminazione della bambina, quasi a premiare il suo coraggio di aver sfidato i "benpensanti". Ryunyo ci insegna a non cercare modelli a cui assomigliare, a non aspettare di essere "migliori" per gettarci nella mischia.
Shakyamuni dichiarò: «Ho scorto un'unica freccia invisibile che trafigge i cuori degli esseri umani». La freccia simboleggia il pregiudizio, l'enfasi sulle differenze individuali. «Il superamento del pensiero discriminatorio - scrive Ikeda commentando questa affermazione - dell'attaccamento alle differenze, è la condizione necessaria per un dialogo aperto, che a sua volta è essenziale per stabilire la pace e il rispetto universale dei diritti umani. La completa assenza di pregiudizi permise a Shakyamuni di esporre la Legge liberamente, adattando il suo stile di insegnamento al carattere e alle capacità di chi aveva di fronte» (Per il bene della pace, Esperia, 2003, p. 30).
Noi amiamo e odiamo. Desideriamo e rifiutiamo. Alcune cose della vita ci piacciono, vorremmo che fossero eterne, altre le aborriamo in partenza, vorremmo che non accadessero mai. Anche questo è assolutamente umano. Il punto è che non riconoscendo tutta questa varietà di sentimenti dentro il nostro cuore, non la consentiamo neanche agli altri. Consideriamo certi comportamenti inammissibili, inumani, perché non riusciamo a vedere quanto anche nelle nostre azioni sia dettato da quegli stessi moti del cuore. Naturalmente ciascuno ha le sue condizioni, nel senso che se si odia qualcuno - sentimento comune a gran parte degli esseri umani - vivendo in luoghi di guerra permanente è più facile avere una pistola in tasca e generare tragedie. Ma può anche accadere, in tutt'altra situazione e pur avendo "le mani legate" da un autocontrollo dettato per lo più dalle circostanze, che se quell'odio non cambia nel profondo del cuore prima o poi troverà la strada per manifestarsi e colpire.
«Capire se stessi conduce a capire gli altri». Nella misura in cui riflettiamo su noi stessi possiamo comprendere gli altri, e interagire con loro da eguali e non da giudici. «Il Budda - scrive Ikeda - conosce tutte le cose non perché le sappia fin dall'inizio, ma perché si concentra intensamente su ciò che desidera sapere. Poiché il Budda conosce la vera entità della propria vita, quando si interessa a una persona è in grado di capirne i pensieri, le sofferenze e tutto ciò che occorre per condurla all'Illuminazione» (La saggezza del Sutra del Loto, vol. 1, p. 221).
Il Daishonin scrive così al suo discepolo Gijo-bo: «"Con unica mente desiderano vedere il Budda e non risparmiano la loro vita". Grazie a questa frase io, Nichiren, ho fatto apparire la Buddità nella mia vita» (SND, 5, p. 4).
Cercando il Budda, la vera entità della propria vita, si ritrova l'essere umano illuminato, e cercando la propria Buddità si percepisce quella degli altri. Per questo Shakyamuni riusciva a vedere le persone come fiori dai mille colori.
«La Legge predicata dal Budda
è paragonabile a una grande nube
che, carica di pioggia di un solo aroma,
bagna i fiori umani
in modo che ciascuno possa dare il suo frutto» (SDL, 135).

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Io e tu, esseri umani

La realizzazione di sé

Il principio di itai doshin

Il principio di itai doshin

di Lodovico Prola

La paura più frequente di chi si trova a un passo dall'entrare a far parte di un gruppo, di un'organizzazione o, più ancora, di un gruppo religioso, è quella di perdere la propria autonomia di pensiero, la propria individualità. Sentiamo il rischio di essere uniformati, abbiamo paura di dover dire addio alle nostre più genuine caratteristiche. Quello di perdere la propria personalità è stato anche il timore iniziale di molti di noi che sono entrati a far parte dell'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. È stato probabilmente il principio buddista di itai doshin a chiarirci un po' le idee sciogliendo al contempo questa preoccupazione. Abbiamo scoperto addirittura che la realtà è diametralmente opposta: realizzando una comunità buddista unita e armoniosa come suggerisce il Budda è possibile rivelare l'infinito potenziale di ciascuno di noi. Quando il Daishonin parla di unità dei credenti intende una relazione in cui si valorizza al massimo l'individualità di ogni persona, permettendole di esprimersi appieno.
«Miei giovani amici italiani - scriveva qualche anno fa Daisaku Ikeda nel poema Suonate le campane del Nuovo Rinascimento - anche se "diversi nel corpo" condividiamo la "stessa mente". "Diversi corpi" hanno tutti individualità e caratteristiche diverse. Per farle sbocciare come fiori meravigliosi dobbiamo piantare alle radici della nostra vita la "stessa mente", il pilastro indispensabile per kosen rufu».

Vediamo allora cosa significa questo importante principio.
I di itai significa diverso, differente. Tai vuol dire corpo, quindi itai indica persone con diverse personalità, diversi caratteri, diverse culture. La comunità buddista ideale si fonda su queste preziose caratteristiche individuali, antepone il rispetto di queste caratteristiche a qualsiasi altra considerazione. «Nella molteplicità delle qualità umane si può riconoscere il principio buddista dei fiori di ciliegio, di pruno, di pesco e di albicocco. Proprio come ogni fiore ha una sua bellezza, così ogni persona ha le sue particolari qualità. [...] L'importante è vivere in accordo con la natura innata che è dentro di noi: lo scopo del Buddismo è realizzare questa potenzialità» (D. Ikeda, I protagonisti del XXI secolo, pag.99).
Do di doshin vuol dire stessa e shin mente.
Nel suo insieme, l'espressione sta a indicare persone differenti che condividono la stessa mente del Budda, il medesimo spirito di Nichiren Daishonin, la stessa fede diretta alla realizzazione di kosen-rufu, l'intenzione e il desiderio di aiutare gli altri a conseguire la Buddità e diventare felici. Avere lo "stesso spirito" significa far proprio il desiderio del Budda e impegnarsi con coraggio per kosen rufu. Scrive infatti il Daishonin: «Se hai la stessa mente di Nichiren devi essere un Bodhisattva della terra» (La vera entità della vita, SND, 4, 233).
«L'insieme dei praticanti buddisti (in sanscrito samgha) può essere visto da due prospettive - scrive Daisaku Ikeda -. Esse possono essere assimilate all'ordito e alla trama di un tessuto. Per tessere, si stende l'ordito nel senso della lunghezza e poi lo si intreccia con la trama. L'ordito rappresenta il legame tra maestro e discepolo e la trama quello tra i membri. Quando questi si intrecciano si crea lo splendido broccato di kosen rufu. Nella maggior parte dei tessuti, l'ordito costituisce la struttura e la trama forma il disegno. Allo stesso modo, finché alla base della Soka Gakkai vi sarà la relazione maestro-discepolo, sarà possibile foggiare uno splendido disegno di solidarietà fra i discepoli» (Il mondo del Gosho, vol. 1, p. 140). Quando portiamo avanti la nostra pratica buddista realizzando il principio di itai doshin, accade qualcosa di simile a quello che Nichiren ha iscritto nel Gohonzon trascrivendo la sua condizione vitale in caratteri cinesi: illuminati da Nam-myoho-renge-kyo tutti gli aspetti della vita rivelano la loro vera natura. Allo stesso modo, quando cerchiamo, così come siamo, di manifestare la stessa mente del Budda, tutte le funzioni della nostra esistenza fioriscono, cioè esprimono il loro più alto e genuino potenziale iniziando a funzionare correttamente per sostenere la nostra e l'altrui esistenza. Tutte le nostre caratteristiche, le nostre intrinseche qualità si orientano per sostenere la vita rivelando il loro aspetto migliore. In una parola si può dire che riveliamo la nostra più genuina "umanità". Naturalmente si tratta di un processo graduale e per certi aspetti difficile: «La vera individualità non fiorisce mai senza un duro lavoro - osserva Ikeda ne I protagonisti del XXI secolo (p. 19) - perciò commettete un grande errore se pensate che ciò che siete ora rappresenta tutto ciò che siete capaci di essere».
Per realizzare itai doshin e far fiorire le nostre individualità e le nostre peculiari caratteristiche dobbiamo curare con particolare attenzione due aspetti della nostra vita, quasi due binari paralleli: queste due vie, che corrispondono alla pratica per sé e alla pratica per gli altri, conducono alla perfetta realizzazione dell'unità dei credenti.
Facendo riferimento al principio di itai doshin, possiamo dire che per praticare correttamente occorre curare giornalmente sia doshin che itai, sia il nostro cuore e la nostra mente, sia il nostro atteggiamento verso gli altri, verso la diversità.
Si può affermare che recitare Daimoku davanti al Gohonzon e studiare il Gosho è ciò che ci permette di avvicinare la nostra vita a quella del Daishonin, comprendendone gradualmente la saggezza, la compassione e l'intenzione, per giungere infine ad avere "la stessa mente" di Nichiren. Ma oltre alla preghiera possiamo dedicare altrettanta cura e pazienza all'atteggiamento che abbiamo nei confronti di chi ci circonda. È questo il momento in cui la nostra fede, cioè il nostro atteggiamento spirituale, diviene pratica. Dal punto di vista dei principi di "fede uguale vita quotidiana" e "Buddismo uguale a società", curare questo aspetto non è poi diverso dal curare la nostra fede. Scrive Nichiren ne I tre tipi di tesori: «La chiave di tutti gli insegnamenti di Shakyamuni è il Sutra del Loto e la chiave della pratica del Sutra del Loto è esposta nel capitolo Fukyo. Cosa significa il profondo rispetto del bodhisattva Fukyo per la gente? Il vero significato dell'apparizione del Budda Shakyamuni in questo mondo sta nel suo comportamento da essere umano» (SND, 4, 179).

Sforzarsi di rispettare e sostenere gli altri è parte integrante della pratica buddista. Il principio filosofico fondamentale rivelato nel Sutra del Loto secondo cui ogni essere umano possiede la natura di Budda implica che ogni credente, superando le differenze individuali, alleni la tendenza a riconoscere e apprezzare le qualità umane positive che esistono in ogni persona esercitando la nobile arte del dialogo, la capacità di trascendere le differenze e condividere i sentimenti più intimi di ciascuna persona. Tutti, a parole, diciamo di rispettare gli altri, probabilmente la nostra intenzione è proprio questa, ma il più delle volte la nostra natura, o il nostro karma, ci induce a criticare le altre persone, a riconoscerne innanzitutto i difetti, credendo erroneamente che sentirci migliori ci faccia sentire meglio. Dobbiamo invece imparare a individuare e a esprimere i pregi delle altre persone, creando pazientemente la tendenza a soffermarci sugli aspetti positivi degli altri. Questa tendenza cambia profondamente la nostra vita, modifica la direzione della nostra esistenza.
Nel famoso brano del Gosho L'eredità della Legge Fondamentale della vita, Nichiren Daishonin afferma: «Tutti i discepoli di Nichiren, sia preti che laici, dovrebbero recitare Nam-myoho-renge-kyo uniti nello spirito (itai doshin), superando tutte le differenze che esistono tra di loro per divenire inseparabili come i pesci e l'acqua in cui nuotano. Questo legame spirituale è la base per la trasmissione universale della Legge fondamentale di vita e morte. Questo è il vero scopo della propagazione di Nichiren. Quando sarete così uniti, anche il grande desiderio di kosen-rufu può essere realizzato senza alcun dubbio» (SND, 4, 224).
«Superare tutte le differenze - spiega Ikeda ne Il mondo del Gosho - significa che tra i discepoli del Daishonin non ci deve essere opposizione o rifiuto verso gli altri. "Diventare inseparabili come i pesci e l'acqua in cui nuotano" può essere inteso come l'atteggiamento di apprezzarsi l'un l'altro in quanto individui insostituibili, cercando di mettere in evidenza la parte migliore di ciascuno. In questo modo "diversi nel corpo, uno nella mente" significa unirsi nella fede sostenendosi l'un l'altro. [...] Stiamo parlando di una relazione in cui, attraverso l'aiuto e il sostegno reciproco, le persone riescono a rivelare il proprio straordinario potenziale» (vol. 1, p. 142).

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Diversi, uniti e straordinari

La realizzazione di sé

Dialogo con i giovani

Dialogo con i giovani

a cura di Anna Conti

Cosa dicono, sul tema della realizzazione di sé, le persone più coinvolte, quelle che stanno cominciando ora a guardarsi intorno e a decidere cosa fare della loro vita?
Da un piccolo forum di giovani della Soka Gakkai di Roma sono emerse alcune riflessioni che qui riportiamo.

«I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche». Che significato ha per voi questa frase tratta dalla Raccolta degli insegnamenti orali di Nichiren Daishonin?

ANGELA: Nella società ci sono dei modelli prestabiliti di realizzazione: avere soldi, avere successo, avere rapporti sentimentali di un certo tipo, tanto sesso, ecc... E noi giovani dovremmo andare in qualche modo verso questi modelli. Ma un giorno conosci il Buddismo e scopri che siamo tutti fiori diversi, camminiamo su sentieri diversi e ci realizzeremo tutti in modo diverso. Allora il Buddismo diventa una bella avventura, perché essenzialmente significa capire chi siamo. E scopri che la realizzazione non è sicuramente in quei modelli, anche se sono piacevoli... e comprendi che puoi rimanere come sei, migliorando sempre, non c'è bisogno di diventare come Claudia Schiffer... la cosa bella è che ti accorgi piano piano che le cose che desideri le hai dentro di te, e aspettano solo delle occasioni per manifestarsi.

MARTA: Il presidente Ikeda ci incoraggia sempre a non desiderare di essere un altro fiore, bensì a far sbocciare noi stessi. Tirare fuori le proprie caratteristiche significa che ciascuno è diverso e deve sviluppare il suo fiore particolare. Io per tanto tempo ho sofferto del fatto che gli altri erano bellissimi, avevano tante capacità rispetto a me, trovavo negli altri una bellezza che in me non riuscivo a riconoscere e quindi non stavo bene. Quest'anno finalmente mi sono accorta di sentirmi felice e di amare me stessa. Continuo a vedere la bellezza nelle altre persone, ma riesco a vedere anche la bellezza delle mie peculiarità e il valore della mia diversità rispetto agli altri.
Il Daimoku e l'attività per gli altri, in particolare l'attività byakuren (attività di accoglienza al centro culturale, n.d.r.) mi hanno aiutato tantissimo, perché recitando Daimoku per la felicità delle altre persone in realtà scopri il valore che hai dentro di te. Queste esperienze mi hanno fatto capire che la nostra bellezza risiede proprio nella Buddità; quando, recitando Daimoku, questa Buddità viene fuori, cominci ad amare te stessa riconoscendo le tue potenzialità, e nello stesso tempo le riconosci anche negli altri. Allora tutte le paure e le insicurezze si trasformano.

DANTE: Io ho iniziato la pratica buddista dieci anni fa; fino ad allora cercavo sempre qualcosa fuori, negli altri, quindi non trovavo mai nulla, non mi arricchivo mai, il mio fiore restava chiuso. Come spiega Nichiren nel Gosho, non si può diventare ricchi contando le ricchezze del vicino (cfr. Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, SND, 4, 4). Pian piano, in questi anni, ho fatto un percorso che mi ha portato a riscoprire me stesso, superando crisi esistenziali, di identità, solitudine... è stata una lotta, ma dedicandomi alle attività della Soka Gakkai e incoraggiando le altre persone ho capito che io sono un essere unico, con delle caratteristiche uniche che posso esprimere solo io. Questo mi ha aiutato anche ad accettare gli altri, a non giudicarli con superficialità, a non basarmi sui pregiudizi, a dare la possibilità a ognuno di entrare in relazione con me e dare a me stesso la possibilità di entrare in relazione con chiunque.
È come se un pilastro si fosse edificato nella mia vita, e mi dà la forza di vivermi così come sono, e scoprire sempre di più chi sono. Sento che questo fiore ha cominciato ad aprirsi e a manifestare la sua essenza, la sua identità... è un fiore che mi piace e questo mi permette di apprezzare anche la bellezza negli altri.

SILVIA: Quando ho iniziato a praticare mi ha colpito subito questo principio di "ottenere la Buddità così come siamo". Mi è piaciuto molto, perché ero sempre insoddisfatta: erano tutti più belli, più bravi, più ricchi di me. Avevo questa grande sofferenza...
Allora ho cominciato a vedere che tipo di albero da frutto ero, e se ero un pruno facevo le prugne, non potevo fare le ciliegie; però avevo la possibilità, recitando Daimoku, di fare le prugne più succose, più belle, più saporite, e come quel pruno non ce n'erano altri, c'era quello e basta, gli altri erano diversi.
Ero giovane, avevo ventidue anni: ho cercato di far emergere questi frutti meravigliosi. In realtà è una ricerca continua, perché le difficoltà della vita ti portano da un'altra parte, non ti portano a credere che tu vai bene anche se sei un pruno e non per esempio un ciliegio. Il presidente Ikeda ci esorta a far emergere le nostre caratteristiche così come siamo e a far sì che anche gli altri possano fare la stessa cosa. Ma nel momento in cui faccio questo percorso di riconoscere il valore della mia unicità, riconosco la preziosità dell'altro. Nel mio lavoro cerco di far sì che ogni giorno le persone che lavorano con me possano esprimere il loro valore, il loro potenziale. È difficile, però ogni giorno posso ricominciare e decidere nuovamente.

Cosa significa per voi realizzare se stessi?

FRANCESCA: Per me vuol dire riuscire a essere felice nonostante tutto e poter sperimentare gioia nonostante la sofferenza, che comunque fa parte della vita e non si può eliminare.
Quando ho iniziato a praticare avevo una situazione molto difficile, piena di problemi, soprattutto in famiglia. A quattordici anni ero andata via di casa, vivevo da sola, perciò ho dovuto affrontare problemi abbastanza grossi. Fin d'allora mi chiedevo: «Che senso ha la mia vita, e come posso contribuire alla società?».
In questi ultimi anni c'è stata una grande apertura nella mia vita e finalmente riesco a sentire gioia e speranza, anche di fronte alle difficoltà. Mi ha aiutato molto l'attività buddista, l'incoraggiamento alle altre persone e sentire un rapporto sempre più forte con il mio maestro, il presidente Ikeda.

MARTA: Anch'io sono felice quando sento il presidente Ikeda vicino a me, e quando sento che non c'è nessuna differenza tra me e il Gohonzon, e che tutta la mia vita è in armonia con le altre persone.
Concretamente questo significa avere uno stato vitale alto, riuscire ad abbracciare tutte le persone, uscire di casa e, nonostante le difficoltà quotidiane che si possono incontrare, riuscirle a superare e anche aiutare gli altri. Quando mi sento in armonia con il Gohonzon ci riesco, ma quando le circostanze prendono il sopravvento, e magari non ho il tempo di praticare, allora mi riesce più difficile, però sento che ogni volta posso tornare davanti al Gohonzon.
Il Gohonzon è l'origine di tutto, perciò per me è necessario iniziare la giornata recitando Daimoku per alzare il mio stato vitale, per sentirmi felice, soddisfatta e riuscire a creare valore insieme agli altri.

DANTE: Sentirsi realizzati è difficile, perché la realizzazione passa attraverso tante cose. Per me le cose materiali, pratiche, come l'amore, la casa, il lavoro, i soldi ecc. sono molto relative, anche se importanti, nel senso che oggi ci sono, domani non si sa. Il lavoro lo trovi, lo perdi, ne trovi un altro, la compagna ti lascia, i genitori invecchiano, tutto è impermanente; l'unica cosa che rimane è ciò che costruiamo dentro di noi. Sono vivo perché respiro? Non basta. Vivere vuol dire cercare il valore delle cose ogni giorno, questo mi fa sentire realizzato, mi dà una gioia assoluta. E l'incontro con l'altro è l'esperienza più bella che faccio ogni giorno.

ANGELA: La prima volta che ho recitato Nam-myoho-renge-kyo non avevo altro più da fare. Mi sono sentita felice e desideravo che tutti fossero felici come lo ero io in quell'istante. Ho sentito anche che tutto è possibile. È stato un grande cambiamento: prima tutto era una disgrazia, poi ho scoperto che tutto è possibile, e sta a me realizzarlo. Pensavo che la mia vita fosse un passaggio inutile, pieno di sofferenza; con il Buddismo ho ricominciato a credere di poter cambiare lo stato delle cose, partendo da me stessa. E il Buddismo mi ha riportato alla scrittura, un desiderio che avevo accantonato.

Il presidente Ikeda dice ai giovani: «Senza alcun dubbio ciascuno di noi possiede un talento innato. La questione è come scoprirlo. Il solo modo è quello di impegnarsi fino in fondo, di fronte a qualsiasi situazione si presenti. Il vostro vero potenziale emergerà nel momento in cui darete tutto di voi stessi nello studio, nello sport o in qualsiasi altra cosa in cui vi cimentiate» (In cammino con i giovani, Esperia, pp. 62-3). Riuscite a crederci? E concretamente come fate? 

MATTIA: Io cerco di partire dall'obiettivo di realizzare ogni aspetto della mia vita, anche se è difficile. Ho iniziato a praticare a quindici anni, all'inizio non ci capivo quasi niente... per un ragazzo, per un adolescente, non è scontato credere a queste cose. L'unica cosa in cui credevo era la prova concreta. Sperimentavo la pratica buddista nell'ambito della scuola, al liceo: non ero il più bravo della classe, però ho visto un grande cambiamento, e quelle esperienze mi hanno portato a credere che dentro di me c'è un potenziale enorme.
Ovviamente in questi anni ci sono stati vari momenti critici. Subito dopo la laurea, ad esempio, è stato difficile inserirmi nel mondo del lavoro e capire veramente cosa volessi fare. Ci sono stati momenti di "sbarellamento", perché non ho trovato subito quello che cercavo. Forse dovevo costruire la virtù della pazienza, che io non ho tanto e in generale noi giovani non abbiamo tanto.
Prima è arrivato un "lavoraccio", però l'ho accettato e l'ho portato avanti: ho preso quel lavoro come una cosa temporanea e come una sfida per migliorare me stesso, e comunque mi sono sforzato di rinnovare la mia decisione, molto umilmente. Poi è arrivato un lavoro che si avvicina a quello che voglio fare veramente: mi dà molta soddisfazione, però è stata dura. L'inserimento nel lavoro è duro... io dicevo sempre ai miei amici: per trovare lavoro in Italia ci vuole un grande stato vitale!

MARTA: È vero... magari ti fanno il colloquio, ma non ti dicono subito come è andata, e in quei mesi di attesa è tutta una sfida con te stessa, con le tue insicurezze. «Di certo avranno scelto qualcuno più bravo di me... tanto io non sono all'altezza di quel lavoro...»: ci vuole proprio uno stato vitale alto per tenere a bada i pensieri negativi!
Quando ho iniziato a praticare mi ha colpito una frase di Josei Toda che dice: «Sforzati nelle cose in cui non riesci, perché lì puoi manifestare il tuo valore»: questa frase mi ha accompagnato in tutti questi anni. Nelle cose in cui riuscivo era semplice, ma sfidarmi nelle altre cose era molto difficile, ad esempio parlare con determinate persone, o fare un determinato esame all'università... Ma quando ci sfidiamo nelle cose in cui non riusciamo, allora manifestiamo un grande valore, e questo è un allenamento che ci porta negli anni a sentire di aver costruito dentro di noi quella forza e quella sicurezza che nessuno ci può togliere.

Voi siete tutti giovani, quale missione sentite nella vostra vita?

DANTE: Io vorrei semplicemente utilizzare la mia vita per dimostrare ciò che insegna il Buddismo, cioè che l'essere umano ha un valore assoluto, non in quanto essere umano singolo ma in relazione a tutto il resto. Vorrei manifestare tutto il mio potenziale, migliorare sempre di più e approfondire ogni giorno il legame con il mio maestro.
Francesca: Mi ritrovo spesso ad avere relazioni con persone che hanno molti problemi e nonostante abbia solo ventiquattro anni mi capita di incoraggiarle e trasmettere loro fiducia. Questa per me è una grande missione. Recitando Daimoku riesco a trasformare il "veleno in medicina", cioè a utilizzare i miei problemi e le difficoltà per crescere e diventare più forte, e questo mi permette di incoraggiare anche le altre persone che soffrono.

MATTIA: Sento molto in questo momento la voglia di continuare a fare la mia rivoluzione umana e mettere il maggior numero di persone possibile in condizione di fare altrettanto. Vedo che i cambiamenti fatti in questi anni di pratica mi hanno fatto bene, ogni giorno cambia qualcosa in me e c'è una continua trasformazione interiore. Tutto questo mi porta a sentire chiaramente qual è la mia missione: far conoscere il Buddismo ai miei amici, ai miei familiari, a tutte le persone che conosco, per far provare anche a loro questo strumento fortissimo che ci fa cambiare in positivo, che ci fa diventare altruisti e migliorare la vita.
Il presidente Ikeda per me è un esempio concreto. Da giovane era malato, pensavano che non potesse vivere oltre i trenta anni, invece ha portato il Buddismo di Nichiren in centonovanta paesi. Nel mio piccolo mi sforzo di seguire la sua direzione: sono un giovane della Soka Gakkai e sono proprio contento di diffondere il Buddismo nel mio ambiente. Il mio Daimoku è sempre indirizzato in tal senso.

MARTA: Anch'io desidero fortemente non fermarmi nel mio sviluppo personale e contribuire allo sviluppo continuo della Soka Gakkai. Il presidente Ikeda ci dice sempre di aver realizzato i desideri del suo maestro. Anch'io, nel mio piccolo, vorrei un giorno poter dire che ho realizzato il desiderio del mio maestro.
Silvia: Quando ho iniziato a praticare pensavo che avessero una missione solo i medici, gli insegnanti ecc., ma io lavoro nel turismo... che missione posso avere? Però ultimamente ho capito che il mio compito è diventare felice e aiutare più persone possibili ad essere felici recitando Nam-myoho-renge-kyo.

(Grazie di cuore ad Angela Pellegrino, Dante Mattia, Francesca Fabriani, Marta Arkerdar, Mattia Duni e Silvia Manco)

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Buddismo è scoprire chi siamo

La realizzazione di sé

in prima persona
Donatella Anserini Siccardi

in prima persona
Donatella Anserini Siccardi

Vengo da una famiglia cattolica e benestante. Ho lasciato l'osservanza e la pratica cattolica quando avevo trentacinque anni, perché non accettavo l'ingerenza della Chiesa e dei suoi rappresentanti nella politica e nella vita sociale.
Mi sono fidanzata molto giovane, a sedici anni, e a ventiquattro mi sono sposata. Il mio matrimonio dopo un po' di tempo ha cominciato a non funzionare: mio marito era molto egoista, e dopo qualche anno se ne è andato con un'altra donna lasciandomi con due figlie piccole.
Ci siamo prima separati e poi divorziati, con un assegno di mantenimento non alto e molto discontinuo.
Mi ero intanto rimessa a studiare - il mio ex marito quando stavamo insieme preferiva che io non lavorassi - e con una laurea di assistente sociale ho subito trovato lavoro in un'azienda.
Ho affrontato con coraggio, anche se con sofferenza, la situazione: i miei familiari mi hanno appoggiato e aiutato molto. Ho avuto soddisfazioni nel lavoro e nelle amicizie, ho coltivato tanti interessi; ma le mie figlie hanno sofferto molto, anche perché il padre le vedeva raramente per quanto io lo invitassi a interessarsi di più a loro. Ciononostante sono riuscite bene negli studi e sono ambedue laureate.
La parte più carente della mia vita era quella affettivo-amorosa. Avevo poco più di trent'anni e già un matrimonio finito; avrei avuto bisogno anche di amore. Ma tutti i tentativi di creare un nuovo rapporto finivano male - mi resi conto solo più tardi del perché.
Mia figlia Flavia, che aveva cominciato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin, mi invitava a partecipare alle riunioni, ma io all'inizio ero molto scettica; cominciai a recitare Daimoku saltuariamente per mia figlia Gabriella che era all'estero e aveva molti problemi psicologici, anche a causa del padre.
Arrivata ai miei cinquantanove anni, Flavia continuava a invitarmi ad abbracciare il Buddismo e a praticare "per essere felice". A quell'epoca io ero serena sia nel lavoro sia nelle amicizie e nei miei molteplici interessi, ma alla fine, nel novembre del 1989, iniziai a partecipare alle riunioni di discussione (zadankai) e la cosa mi piacque. Desideravo solo serenità e pace, ma Flavia mi continuava a chiedere se volevo "essere felice" e mi invitava a praticare per trovare un compagno adatto a me. Io ero scettica, perché non volevo più soffrire e l'amore mi sembrava solo fonte di sofferenza. Comunque, dopo molte titubanze, ho cominciato a praticare per iniziare un rapporto con Mimmo, un amico di due anni più grande di me, vedovo di una mia carissima amica, ingegnere, persona simpatica e intelligente, che avevo visto comportarsi con molto affetto e dedizione verso la moglie malata e verso le figlie. Dopo sette mesi che praticavo, nel 1990, a sessanta anni, mi sono fidanzata con Mimmo, e dopo quindici mesi di fidanzamento ci siamo sposati; non per convenienza - come potrebbe sembrare parlando di persone della nostra età - ma perché era nato un amore. Mi rendevo conto di essere cambiata: per la prima volta avevo scelto una persona che non mi faceva soffrire e dalla quale non mi sentivo dipendente. Stavo diventando una persona più forte e serena, capace di vivere un rapporto affettivo pieno senza dover rinunciare alla mia personalità.
Ora, dopo quindici anni e mezzo di pratica e quattordici e mezzo di matrimonio, a settantacinque anni, sono felice come non avevo immaginato di poter esserlo a venti.
Attraverso la pratica buddista ho raggiunto questo: una terza - o quarta - età di serenità e felicità. Non ho mai smesso di praticare perché sono riconoscente al Gohonzon e continuo a praticare per me, per tutti i miei familiari ed amici, «per la pace nel mondo e la felicità di tutta l'umanità».

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Mi sono innamorata a sessant'anni

La realizzazione di sé

in prima persona
Carlo Paragona

in prima persona
Carlo Paragona

Il tema della realizzazione è fondamentale nella mia vita. Quando ero più giovane pensavo che la realizzazione di sé fosse il successo e il raggiungimento dei propri sogni e aspettative, nel mio caso fare il cantante, essere ricco, amato. Quindi realizzarmi era un punto centrale: rincorrere i miei limiti per mettermi alla prova, per vedere se li sapevo superare, coincideva con l'affermazione stessa della mia identità.
Eppure in realtà la cosa non funzionava, perché ogni volta che mi battevo per raggiungere qualcosa di grande, non appena ci arrivavo vicinissimo e capivo che ce l'avrei fatta cambiavo obiettivo, come fossi mosso da una fame che non riuscivo a saziare. Perché quello che volevo in realtà era dimostrare a me stesso che avevo la capacità di farcela.
Poi ho iniziato a praticare, sei anni fa, a ventinove anni. Così ho cominciato a "usare" il Gohonzon, questo strumento meraviglioso che è l'Oggetto di culto per osservare la propria mente, questo specchio fantastico che permette di vedere dentro la tua vita, vedere come ti sei mosso nel passato e come ti muovi nel presente, quali sono le tue sensazioni ed emozioni, come ti relazioni con la vita stessa.
Incontri il bello, ma anche il brutto di te, per cui tanto dolore. Scopri quei meccanismi che hanno portato solo male nella tua vita. E allo stesso tempo preghi per realizzare qualcosa di "bello", qualcosa di "bene" per la vita.
Da allora le cose sono cambiate tantissimo.
In questi anni ho cercato di creare in me la capacità di ricevere il bene dalla mia stessa vita, e il concetto di realizzazione è stato molto legato a questo processo. Un processo che mi ha portato a capire che realizzarsi non è ricevere qualcosa che si manifesta materialmente (trovare un lavoro, un fidanzato) ma che questi sono aspetti manifesti di un processo tutto interiore, che si compie quando si riesce a stabilire un contatto con la propria vita profonda. Questo contatto ha dato l'opportunità alla mia vita di manifestarsi.
Se i primi anni di pratica sono stati una "valle di lacrime" - perché non ottenevo le cose che desideravo, il rapporto con il mondo e con la gente andava male, continuavo a sentire l'incapacità, l'impossibilità di realizzare la mia vita in maniera differente - poi, il contatto con la vita profonda mi ha fatto scoprire al mio interno una grandissima potenzialità, una grandissima forza, che non viene toccata da tutti quei meccanismi di sofferenza e di insoddisfazione. Questa parte è la nostra Buddità, che quando pratichiamo si apre, come quei cassetti che hai sempre lasciato chiusi e che hanno dentro cose che ti piacciono tanto e tu nemmeno te ne ricordavi.
E così è stato con la mia vita: riconoscere in me delle cose stupende che io non pensavo neanche di possedere, perché fino ad allora nelle esperienze e negli incontri che avevo avuto non le avevo mai viste manifestarsi. Proprio questo mi ha portato alla fine ad avere risultati completamente diversi: la realizzazione dell'unione con la mia vita profonda mi ha fatto ottenere una realizzazione materiale.
Per cominciare a livello sentimentale: ho cominciato a mettere in discussione moltissimo me stesso. Lasciando da parte ogni atteggiamento di rivendicazione nei confronti della vita ho cominciato a chiedermi: in che modo voglio questo amore? in che modo ne ho diritto? perché? Ho visto tanti miei limiti, e ho cominciato veramente a fare un grande lavoro su di me. Se io oggi ho una relazione sentimentale che dura da tre anni - cosa impensabile prima - e se soprattutto è una relazione che sta producendo una crescita nella vita mia e in quella del mio compagno, lo devo al lavoro che ho fatto. Questo è stato un punto di partenza fondamentale. Poi il processo si è andato allargando a molti altri aspetti della vita. Per esempio a quello lavorativo.
Io sono un broker di assicurazioni. Ma sono sempre stato alla ricerca dell'espressione del mio talento. Fin da quando ero bambino mi sono sentito dire: ah, tu hai una bellissima voce e devi cantare, allora io studiavo canto, ore e ore di lezione... Oppure: ah, tu con questo fisico devi fare lo sport, e io allora mi buttavo a corpo morto nello sport... Seguivo sempre indicazioni esterne, che mi convincevano e pensavo di dover assecondare, però non era mai un qualcosa che emergeva veramente dalla mia vita. Era sempre un processo indotto, e non sapevo mai quale idea portare fino in fondo.
A un certo punto ho cambiato registro: mi sono messo a praticare per fare emergere quello che ancora non sapevo. Come un ignorante, uno che semplicemente non sa, mi sono messo a praticare per sapere qual è il mio talento. Così facendo è venuta fuori un sacco di roba.
Per esempio, una delle cose che mi piace fare tantissimo nella vita è cucinare, ma non avevo mai pensato che questo sarebbe potuto diventare un lavoro. Invece, da quando ho cominciato a praticare così, mi si è presentata una miriade di occasioni: proposte di dirigere o aprire ristoranti, l'offerta (che ho accettato) di insegnare in una scuola di cucina italiana a Londra per periodi di un mese tre/quattro volte l'anno, pagato, richieste di servizio catering a privati... , e continuano a capitarmi cose incredibili, compreso un progetto a cui sto lavorando di cui ancora non posso dire niente ma che ben presto uscirà allo scoperto...
Anche in questo caso, la realizzazione che sento non è tanto che sto facendo una cosa che mi piace da morire, ma che sono riuscito a far esprimere la mia vita liberamente. E so che questa cosa è un bene, perché se nel corso della mia vita mi sono ammalato - non solo nell'animo ma anche di una malattia gravissima - penso che molto sia dovuto al fatto che fino a ora non avevo mai permesso alla mia vita di esprimersi in questa maniera.
Se hai dei sogni che non realizzi, se hai degli obiettivi che non hai il coraggio di perseguire, se hai una sofferenza che non sciogli o dei dolori che non vuoi rimuovere dalla tua vita, queste cose prima o poi ti faranno ammalare. Io questo l'ho capito proprio bene. E quindi ho cominciato a invertire la tendenza e a dirmi: non mi voglio fare male, voglio guarire. E non solo dalla mia malattia, ma soprattutto dalla tendenza a creare nella vita le condizioni per cui questa si ammala. Secondo me questa è la più grande conquista che ognuno di noi può fare, ed è anche un dovere. Per me lo è, perché fare a meno di questo vuol dire tornare a creare il male nella mia vita.

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La mia cura: esprimere la vita

La realizzazione di sé

in prima persona
Bozena Goldos

in prima persona
Bozena Goldos

Bozena (si pronuncia "Bojena") ha trentaquattro anni e viene dalla Polonia. È in Italia da tredici anni, con la mamma al seguito (il papà, i fratelli e i nipoti sono rimasti a casa), e per dodici lunghi anni ha fatto la colf in giro per Roma mantenendo se stessa e tutta la famiglia. Una ragazza dalle mani d'oro - dice chi l'ha avuta in giro per casa per tanto tempo - affidabile, responsabile, intelligente, capace. Che potrebbe fare molto di più nella vita. Eppure fino a tre anni fa niente la smuoveva dal suo tran tran. Fino a quando Barbara l'ha invitata a recitare Daimoku con lei davanti al Gohonzon (il Buddismo lo aveva incontrato da molto tempo, visto che lavorava da molti praticanti, ma nessuno fino a quel momento, forse per rispettare il binomio Polonia-Cattolicesimo, le aveva mai chiesto di provare).
«Io all'inizio praticavo per gli altri, per mio fratello, a me non ci pensavo tanto. Ma a un certo punto una mia responsabile mi ha detto: tu devi praticare per te stessa. Per la tua felicità più che altro. Gli ho dato retta e ho cominciato a praticare per me, e lì si sono smosse un sacco di cose. Quando pratichi per gli altri risolvi le cose degli altri, ma tu rimani un po' indietro. Quando ho cominciato a praticare per me ho lasciato il mio ragazzo, con cui stavo da otto anni, poi ne ho trovato un altro che mi ha fatto soffrire tanto. Lì ho capito quello che volevo da un uomo, e quello che non volevo. E ho fatto la lista delle caratteristiche.
Comunque continuavo a praticare anche per gli altri. E facevo tanta attività: come byakuren, come responsabile di gruppo... Per me l'attività nella Soka Gakkai è sempre stata, fin dall'inizio, la chiave per trasformare la mia vita. Ad esempio, in un periodo in cui stavo proprio giù per l'amore, ho sostenuto tanto una mia amica del gruppo che aveva i miei stessi problemi, e aiutando lei trasformavo la mia sofferenza. Questa credo che sia stata la svolta. Perché poi, quando ho fatto attività per la mostra dei diritti umani ai Mercati Traianei, ho incontrato il mio attuale ragazzo, e questo è stato il mio più grande beneficio».

Quali sono stati i tuoi primi obiettivi, le prime verifiche?
All'inizio la situazione non si smuoveva tanto. Però io avevo la fede dell'«inverno che si trasforma sempre in primavera». Stavo soltanto aspettando che arrivassero i momenti migliori. Avevo la fede che la mia vita sarebbe cambiata sicuramente, mi ci voleva soltanto il tempo. Ed è stato così. Mi ricordo che quando ho deciso di cominciare a studiare - avevo appena lasciato il mio ragazzo - non sapevo quale materia scegliere, c'erano in ballo molte cose. Allora mi sono affidata al Daimoku, mi sono detta: scegliamo insieme al Gohonzon.
La dottoressa presso la quale lavoravo insegnava nella scuola per tecnici di riabilitazione psichiatrica. Non faceva altro che dirmi: ti ci vedo proprio a fare questo mestiere, sei adattissima. Mi ha portato un giorno a scuola, mi ha fatto vedere di che cosa si trattava, quello che avrei dovuto fare, e ho deciso di pensarci su. Cercavo di immaginare come sarebbe stato. Nel frattempo ho continuato a recitare Daimoku e a fare attività. Alla fine la scelta è avvenuta spontaneamente: mi sono svegliata una mattina e ho deciso: lo faccio. E più vado avanti più si conferma la mia scelta.
Poi ho dovuto superare gli esami di ammissione, perché c'era il numero chiuso. E lì è uscito fuori il mio problema, quello di disprezzarmi, quello che mi aveva sempre impedito di fare altro. Dicevo a me stessa: non ce la farai mai, ma come fai a pretendere di presentarti lì e passare tutti gli esami... Invece all'esame di ammissione mi sono classificata terza su sedici. È stato un grande successo, pensavo di essere arrivata ultima... e invece il Gohonzon mi ha sempre mostrato che non è così. Al primo esame ho preso il voto più alto di tutta la classe e così sono andata avanti. Ma non ho dovuto superare solo il problema della fiducia in me stessa. Per esempio, nonostante io studi tantissimo non riesco a trasmettere quello che ho studiato. Però ho trovato dei professori che capiscono questa difficoltà, non mi penalizzano, anzi a volte mi alzano pure il voto. Ho deciso comunque di smuovere anche questa cosa, dal secondo, terzo anno andrà sempre meglio.

Dicevi che l'attività è stata fondamentale? 
Sì, nella mia esperienza l'attività buddista è al primo posto. Perché così ho pure più fede. Quando faccio attività penso agli altri, non alla mia ricompensa, però so che dopo mi torneranno queste cose. Aiutare gli altri è il mio mestiere e proprio grazie all'attività ho capito quello che volevo fare nella vita.
E poi borsa di studio, attività fatta, ogni esame, attività fatta: tutti ventotto, voto più basso ventisette. Anche l'uomo della mia vita l'ho incontrato facendo attività.

Quando hai deciso di studiare e di lasciare il lavoro? 
Credo che fosse un desiderio che mi portavo dietro da parecchio, anche da prima di praticare, però non riusciva ad emergere, con tutte le paure che avevo. Con il Gohonzon è venuto fuori chiaramente.
Poi c'è stata anche l'esperienza della casa. Prima di praticare condividevo una stanza con tre ragazze, e in casa c'erano altre cinque persone. Ma quando ho deciso di ricevere il Gohonzon ho avuto l'esigenza di trovarmi una stanza tutta mia. Non sapevo proprio come, perché con i prezzi che girano sembrava impossibile. E invece ho determinato di ottenere la casa come la desideravo, quanto doveva costare, in quale parte di Roma doveva stare. E un'amica dalla quale ero andata a recitare Daimoku affittava una stanza, proprio al prezzo che volevo io e dove volevo io...
Adesso vivo con il mio ragazzo in una casa meravigliosa, con una bella terrazza e un grande salone dove ospitiamo le riunioni buddiste.
All'inizio non convivevamo. Quando ho cominciato l'università lui mi ha chiesto di andare a vivere a casa sua, così ora mi sostiene anche economicamente.

Da quanti anni ti mantenevi da sola? 
Da dodici anni, adesso sono "mantenuta", e non me lo fa pesare, non mi sembra vero... Durerà poco, perché sono intenzionata a laurearmi al più presto, entro tre anni, per cominciare subito a lavorare.

(a cura di Maria Lucia De Luca)

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Ed è emerso il mio vero desiderio...

La realizzazione di sé

in prima persona
Roberto Carvelli

in prima persona
Roberto Carvelli

Perché ho iniziato a praticare il Buddismo? Non è questa la prima domanda che mi farei se volessi intervistarmi. Piuttosto, perché ho continuato, perché continuo. L'inizio è importante e felice - ora dico fortunato -, infatti non si dimentica. 17 marzo 1991: primo zadankai e primo giorno di pratica. Poi una lunga interminabile serie di Nam-myoho-renge-kyo fino a oggi. Curiosità, insoddisfazione, difficoltà relazionali, familiari, sentimentali, desideri, aspirazioni: sono tutte risposte superficiali e a posteriori. Tutte possibili. Forse si inizia per prova. E si continua per lo stesso motivo. Si prova. A vedere dove si può arrivare. Dove ci può portare questo viaggio di approfondimento e insieme di semplificazione della nostra vita. Un viaggio profondo ma anche molto semplice, come una religione dovrebbe suggerire. Nessuna pretesa. Siamo noi. Noi che proviamo. Ho iniziato a praticare con un obiettivo: scrivere un libro. Ho continuato per dieci anni ma senza darmene pensiero e rinunciando a proposte di pubblicazione a mie spese, a scorciatoie, ricatti. Poi in un anno ne ho scritti tre - meglio: li ho pubblicati. Prima ho pregato, mettendo da una parte questo desiderio e tutti gli altri, convinto che la pratica mi avrebbe aiutato a raggiungerli attraverso una strada insondabile che doveva essere fatta (non lo capivo del tutto, razionalmente, ma lo facevo come un bambino che si fa guidare) di aiuto agli altri, di sostegno nella pratica di chi iniziava come me qualche mese prima. La fiducia mi ha premiato ma prima di quei dieci anni. Passo passo, senza quasi accorgermene, sono riuscito a vincere depressione, dolore. A superare le insoddisfazioni, a recuperare un rapporto familiare compromesso da violenze e odi personali che mi avevano portato anche ad alzare le mani su chi avevo di più caro al mondo e a lottare quotidianamente con il masso immobile dei sensi di colpa. Io, nella mia cieca superficialità, recitavo Nam-myoho-renge-kyo per i miei obiettivi personali e nel frattempo sgranocchiavo il masso. Praticavo e mi alleggerivo. Mi sentivo sempre meglio. La grandezza del Buddismo può essere, infatti, nello stimolarci a intraprendere questo percorso (profondo e interiore oggi mi sembrano aggettivi inadeguati per difetto) solleticandoci con quello che è a portata di mano. Certe volte, in certi casi, il semplice capriccio, la cosa apparentemente futile. L'importante è la pratica. Forse a chi guarda dall'esterno, questo intraprendere un viaggio verso il mare quando si dovrebbe andare al lavoro può sembrare consolatorio. Non è così. A chi pratica correttamente, a chi cerca di approfondire non deve riguardare il dove ma il perché. È giusto che all'inizio il dove sia un desiderio, un piacere. Poi bisogna fermarsi di tanto in tanto e vedere. Sono più contento, le cose sono migliorate? Mi sto sforzando di rivoluzionare fino in fondo la mia vita? Si vedono dei risultati? Se le risposte sono ancora dei no, si continua rivedendo cosa di questo semplice eppure complesso sistema di vita non è ben adoperato. Se la concentrazione sulle piccole cose ci impedisce di vedere il grande che sta facendo il Buddismo nella nostra vita forse si finirà per smettere. Spesso a chi guarda dall'esterno è evidente prima che a noi, bisognerebbe farne tesoro, anche se è doloroso. Di certo, parlare di realizzazione personale per il Buddismo non è parlare di raggiungimento di obiettivi. Realizzazione significa cambiare radicalmente il proprio punto di vista e pensare che in qualsiasi circostanza ce la faremo. Che non potrà esistere ostacolo abbastanza alto per chi allena la propria fede alle misure crescenti delle difficoltà, qualsiasi esse siano, fino all'ultimo dei nostri giorni. E ora, mentre lo scrivo, so che mi troverò davanti altri muri e che dovrò trovare altre risposte, provare ancora. Se ora guardo alle spalle pensando alla mia realizzazione vedo una famiglia felice, armoniosa (e non è che le persone che mi stavano attorno siano cambiate più di tanto). Guardo con altri occhi? M'illudo? No, è la realtà. La realtà che vedo con altri occhi. Avete presente quando si legge "purificare i sensi" credo sia così: uno pulisce attraverso la recitazione i propri sensi e vede diversamente. La mia famiglia è quella - forse dovrei dire "sempre quella" - ma io la vedo diversa. Vedo l'amore, vedo il rispetto e vedo anche i problemi e il dolore che possono causare ma non me ne sento vittima. Né vedo carnefici. Anche se guardo i libri (sono in una piccola teca e tra contributi ad antologie e volumi miei sono ora undici - ma presto tredici) non vedo carta, né onore, orgoglio, vezzo. Vedo fatica e crescita. Vedo uno che scrive e si domanda «come posso tirare fuori di più da me per tentare di darlo agli altri?». È un bello spettacolo: non i libri appunto, ma il sudore non solo fisico che li ha prodotti e spero che questa immagine si possa riprodurre e approfondire. E nel frattempo... tutto il frattempo che c'è. Un lavoro di anni fisso nell'oscurità della notte per mantenere questa passione e poter riuscire a comprare una piccola casa nel luogo esatto in cui la volevo. Poi un altro lavoro di giorno - finalmente e all'improvviso, "fortunosamente" (ma è una parola che a chi pratica il Buddismo dovrebbe evocare la sgrossatura delle incrostazioni del karma) - un lavoro migliore, con un gruppo di persone meravigliose. Poi ancora battaglie. Per rimanere vicino a mia madre che sta soffrendo e a mio padre che fatica a sostenerla. Tutti insieme come un corpo unico, senza più distinzioni tra di noi, uniti dopo tanti anni di incomprensioni e violenze reciproche. Ecco perché continuo e cerco di fare tutto quello che posso per aiutare gli altri a fare altrettanto o a iniziare.

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Come un viaggio verso il mare

La realizzazione di sé

a cura di Manuela Vigorita

HANS LODEIZEN (1924-1950)

negli animali ti ho ritrovato
mio piccolo occhio mio mulino senza ali
e con questa canzone insieme andiamo
lungo la spiaggia:

fa sorgere il sole dall'alba
non voglio vivere senza futuro

se non udranno la mia voce
se sognano nel loro buio umano
se non odono la mia voce
la vita è molto più breve

non voglio sognare in un mondo
senza salvezza voglio essere vivo
voglio fare del mio corpo un universo
che non fluisca soltanto nella noia
ma che rida e sia pieno di danze

sono solo
o c'è chi mi aiuti
chi mi dica almeno un sì?

voglio creare un sole nella notte

EMILY BRONTE (1818 - 1848)

Quando giorni di bellezza ornano la terra
o scendono notti tempestose
il mio spirito conosce bene il cammino
che dovrebbe seguire

Cerca il suo luogo da sempre sacro
amato fino dall'infanzia
ogni altro spazio è dimenticato
ogni sofferenza ogni lacrima

FEDERICO GARCÌA LORCA (1898-1936)

Mio cuore

Mio cuore vai
con le sagge tartarughe,
mio cuore, attraverso
un Sahara di luce!

Mio cuore vai
con le sagge tartarughe,
élice per il corpo
e ali per lo spirito

Con i loro piviali
da cerimonia
le tartarughe insegnano
l'inutilità dei piedi.

Conoscono le falsità
di orizzonti celesti
e dedicano la loro vita
a studiare una stella,
una stella con la quale
impregnano la corazza.

Mio cuore vai
con le sagge tartarughe,
élice per il corpo
ed ali per lo spirito
non ti mancheranno quando
sentirai la Terra muoversi.

Mio cuore, spegni
la tua vecchia sete di limiti.

HERMANN HESSE (1985-1962)

La via interiore

Chi già trovò la via interiore
chi col suo intimo fervore
ravvisò il nocciolo del vero:
che la sua mente sceglie il mondo e Dio
soltanto come simbolo e figura,
vedrà ogni fatto, ogni pensiero
colloquiare con il proprio io
che il divino contiene e il mondo intero.

RABINDRANATH TAGORE (1861 -1941)

Visione

Quello che volevo dire
e che non ho detto
era solo questo:
attraverso la mia porta
davanti agli occhi
ho visto mille volte
l'universo eterno.
L'eterna intelligenza dello sconosciuto
ogni giorno in tanta semplicità
ha riempito l'intimo del cuore:
non so se potrò dire con parole semplici
questa verità.

Risuona il canto della terra nuda
sotto l'ombra del gelso solitario
sull'altra sponda del fiume
ara il contadino la ripida riva
volano via le anatre dalla spiaggia di sabbia
senza erba e senza persone.
Le acque stanche del fiume dimesso
come occhio spento e mezzo attento
chissà se vanno o sono ferme.

Da molto tempo segnata da impronte di piedi
la strada amica del raccolto
cammina tortuosa lungo i campi
corre una parentela tra la capanna e il fiume.

Quante volte il poeta ha contemplato
tutte queste immagini
questo villaggio alla luce di marzo,
questa terra desolata, quel traghetto,
quella linea azzurra del fiume,
in quel lontano seno di sabbia
presso le acque solitarie
nel luogo del mercato, quel bisbiglio serrato,
solo questo guardare,
questo camminare sulla strada,
questa luce, questa aria,
questo fuggire improvviso di nubi
sulla corrente dell'acqua,
il cammino silenzioso delle ombre:
il cuore ha cercato di vedere
quello che nelle gioie e nelle pene
a più riprese lo ha reso perfetto.

EMILY DICKINSON (1830-1886)

483

Cosa solenne è dentro
sentirsi maturare -
pendere dorata - mentre più in alto -
la scala del creatore finisce
e nel frutteto molto più sotto -
senti un essere - che cade -

Stupendo - sentire il sole
che ancora lavora la guancia
e non la pensi finita
con l'occhio freddo critico dell'opera -
sposta - un poco - il picciolo
per dare uno sguardo al tuo torsolo -

Ma più solenne - sapere
che la tua possibilità di raccolto
si avvicina un poco - ogni sole
l'unico - per talune vite.

721

Dietro di me - strapiomba l'eternità -
davanti a me - l'immortalità -
io stessa - il termine in mezzo -
la morte solo il grigio che sopraggiunge dall'est
e nell'aurora si dissolve e scompare
prima che l'ovest si apra -

C'è un regno - dopo - dicono -
in perfetta - ininterrotta monarchia -
il cui principe - di nessuno è figlio -
lui stesso la sua imperitura dinastia -
lui stesso - se stesso diversifica -
in replica divina.

Perciò - vi è miracolo davanti a me -
e miracolo dietro - in mezzo -
un crescente della luna nel mare -
come mezzanotte a nord di essa -
e mezzanotte a sud di essa -
e nell'aria - un uragano.

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La realizzazione di sé

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