Flavia, Monica, Maria Cristina, Donato, Ousmane, Francesco, Catia, Lucrezia, Jessica, Michela, Cristina, Luna, Valeria e... ognuno e ognuna di noi. Un movimento di persone comuni, un grande fiume di uomini e donne di tutte le età, ha raccolto la sfida di rendere realtà l'ideale di un mondo in cui nessuno sia lasciato indietro. La Proposta di pace 2018 di Daisaku Ikeda, dal titolo "Un movimento di persone comuni verso un'era dei diritti umani", ci ha ispirato nella scelta delle riflessioni e testimonianze riportate nelle pagine che seguono...



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Ispirandoci alla proposta di pace

Il presidente Ikeda, nella Proposta di pace 2018 pubblicata nel numero scorso di Buddismo e società, indica il rispetto dei diritti umani come l'unica linea di condotta da adottare in ogni ambito delle questioni globali che ci troviamo di fronte. Ne riportiamo alcuni punti per noi particolarmente significativi

Il fulcro del pensiero di Daisaku Ikeda è la filosofia della dignità della vita e della centralità dell'essere umano, da lui recentemente definita "religione della rivoluzione umana". E come mai prima d'ora, la Proposta di pace 2018 si confronta con ogni tipo di problematica da questo punto di vista, per rispondere all'esigenza di una convergenza tra valori etici e strategie politiche. «Sono convinto che un approccio basato sui diritti umani - scrive Ikeda -, radicato in una preoccupazione profonda per la vita e la dignità di ogni individuo, possa condurre alla fusione di etica e politica necessaria all'individuazione di risposte efficaci».
Anche il Trattato per l'abolizione delle armi nucleari approvato lo scorso luglio, sottolinea, pur avendo come oggetto il disarmo è pervaso dallo spirito di una legislazione internazionale sui diritti umani, in particolare per l'accento che pone sugli esseri umani e sulla loro sofferenza: la motivazione fondamentale per la proibizione delle armi nucleari è che esse rappresentano un rischio per la sicurezza dell'umanità.

L'anti-vendetta
Nel ricercare le "fonti spirituali di una legislazione sui diritti umani" Ikeda parte dal presupposto che «al cuore dei diritti umani vi sia il voto di far sì che nessun altro soffra per ciò di cui abbiamo sofferto noi». Così fu per molti di coloro che parteciparono nel 1948 alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani e lo è oggi per gli hibakusha che hanno partecipato alla realizzazione del Trattato per l'abolizione delle armi nucleari.
Ikeda poi fa l'esempio di Nelson Mandela, che nel corso della sua interminabile e brutale prigionia non fu mai sopraffatto dall'odio e anche nei momenti peggiori continuava ad attaccarsi a quel "barlume di umanità" che vedeva nelle guardie carcerarie e a usarlo per andare avanti.

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La bussola morale dei diritti umani

«... è determinante l'espansione di una solidarietà trasversale, qualcosa di intrinsecamente diverso dalla tolleranza passiva nella quale non si ha una reale comprensione delle difficoltà vissute dagli altri»
dalla Proposta di pace 2018

Con quali idee viviamo come buddisti all'interno della società? La lotta per i diritti umani parte da una trasformazione interna attiva e consapevole per riconoscere l'umanità di chi è più lontano e diverso da noi

Ci sono persone con le quali c'è una tale connessione che le loro sensazioni sembrano quasi le mie, con cui penso una cosa e l'altra la percepisce anche se a chilometri di distanza, con cui gioisco quando realizzano qualche vittoria e che non vorrei mai vedere soffrire. Persone talmente strette per le quali metterei a repentaglio la mia vita.
Ce ne sono poi altre, più lontane, non fisicamente ma caratterialmente, culturalmente o semplicemente a pelle, per le quali queste sensazioni sono tutt'altro che spontanee. Per le quali provo indifferenza e se mi sento minacciata sono pronta a difendermi.
Ci sono persone e persone, ci siamo noi e gli altri. Gli altri spesso sono diversi, sono nel torto, sono una minaccia alla mia sicurezza e stabilità, alla mia felicità.
A livello personale conosciamo tutti questa dinamica e con la pratica buddista ci alleniamo ogni giorno a smascherare l'illusione che ci fa sentire staccati dal nostro ambiente e soffrire per relazioni conflittuali.
Ma a livello politico questo si manifesta in uno sbilanciamento di riconoscimento di diritti tra gruppi diversi. Ci sono persone che possono lavorare, avere una casa con tutti i servizi, possono muoversi, trasferirsi e viaggiare, e persone che no, che tutto questo non lo possono avere per una serie di motivazioni apparentemente plausibili.
Leggendo la Proposta di pace per la prima volta con attenzione, ricercando la risposta alla domanda su quale fosse, al di là di ogni credo politico, il miglior modo di vivere la vita pubblica da buddista, sono rimasta stupita dalle posizioni molto nette del presidente Ikeda riguardo a temi spesso controversi. Senza lasciare spazio a possibili interpretazioni sottolinea la centralità dei diritti umani, la visione dell'immigrazione come ricchezza della diversità, senza negare le difficoltà della situazione odierna. La condanna assoluta di ogni forma di guerra o attacco alla sacralità della vita, la richiesta di un impegno concreto a lottare attivamente lì dove i diritti di qualcuno non sono rispettati, chiunque esso sia. Lo sforzo alla conoscenza, al dialogo e l'importanza di mantenere un livello di umanità alto da anteporre a ogni tipo di ragione economica.
Alla base di tutto ci sono i princìpi cardine di questo Buddismo: la sacralità della vita e la Buddità come caratteristica di ogni persona, degna quindi del massimo rispetto.
Ma ci sono diversi livelli di rispetto, c'è il rispetto come stima, che attribuiamo a seconda delle qualità che vediamo nell'altro e che quindi è mutabile e parziale; e il rispetto come riconoscimento, riconoscimento dell'altro come essere umano.
A prescindere dalla cultura, dalle azioni, dal modo di vivere di chi abbiamo di fronte, ci deve essere quello che la filosofa Anna Elisabetta Galeotti ha definito "eguale rispetto" e che mi sembra centrare appieno la visione buddista e l'atteggiamento del Bodhisattva Mai Sprezzante. Porre nella relazione che instauriamo con l'altro una reale considerazione che ci pone sullo stesso livello, che non ha nulla a che vedere con la condiscendenza o il perbenismo e viene prima di ogni considerazione di merito.
Sembra un discorso astratto, sono concetti semplici e condivisibili, ma spesso le nostre convinzioni sono così interiorizzate che è difficile riconoscere quando stiamo agendo fuori da quegli stessi princìpi che razionalmente portiamo avanti.
A maggior ragione, in un momento storico di precarietà economica e di crisi della democrazia, il rischio di cadere nell'illusione che per difendere un mio diritto debba minare quello di qualcun altro è molto alto e in parte si sta già verificando. E facilmente, di fronte a gruppi sociali più deboli, invece di creare un circolo virtuoso in cui lottiamo per i diritti dell'altro riconoscendoci questo potere e mostrandolo agli altri, cerchiamo di salvaguardare ciò che abbiamo con la convinzione che l'altro possa togliercelo, dimenticando che secondo il Buddismo noi abbiamo tutto il potenziale per essere pienamente felici e che i veri ostacoli alla nostra realizzazione sono interni a noi stessi.
Credo sia necessario soffermarci di più a comprendere con quali idee viviamo all'interno della società e con sincerità essere pronti a metterle in discussione anche laddove l'ambiente esterno sembra giustificare le nostre intolleranze.
Mi viene in mente una mia amica, che una sera a cena aveva espresso tutto il suo rancore verso i furti e le illegalità dei Rom, e giustificava questo odio diffuso ammettendo di non provare la minima compassione, anzi un vero fastidio, anche solo nel vederli rovistare nei cassonetti. Un altro amico le ha detto in modo molto sincero e semplice che sì, poteva aver ragione, ma di provare a pensare che ad affacciarsi alla finestra e vedere queste persone rubare non fosse stata lei ma il Budda Shakyamuni: che cosa avrebbe fatto? Chiaramente nessuno aveva la risposta, ma di sicuro non avrebbe provato né odio né cieca pietà.
E da qui è iniziata la vera esperienza della mia amica, che ha deciso di recitare Daimoku per colmare la distanza tra quello che sentiva e i princìpi che stava abbracciando. Pochi giorni dopo si è trovata a lavorare a stretto contatto con una donna rom e sono subito venute a galla le differenze sostanziali tra le due, nonostante lei fosse aperta a ricredersi sui suoi preconcetti.
Ma la vera rivoluzione umana sta qui perché il cambiamento, come in ogni esperienza buddista, non viene in risposta all'ambiente esterno; siamo noi, indipendentemente dall'altro e dalle condizioni oggettive, a scegliere in quale direzione andare. Nel suo caso lei ha mantenuto la decisione di trasformare il suo cuore fino all'ultimo momento e, nonostante un'escalation di eventi poco piacevoli, invece di rialzare il muro con mille nuove conferme ai suoi pregiudizi ha deciso di parlarle... E mentre la donna le raccontava quale sofferenza l'avesse spinta a essere così aggressiva, la mia amica la invitava a fidarsi un po' di più delle altre persone perché nella vita non tutti sono nemici.
Penso quindi che la lotta per i diritti umani parta da una trasformazione interna attiva e consapevole, che richiede anche molta umiltà, ma che se applicata da ognuno di noi non può che portare a un reale cambiamento della società. (Valeria Rotili)

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E se al posto tuo ci fosse il Budda?

«L'empowerment delle donne può rappresentare la forza trainante per ristabilire la speranza e la capacità di andare avanti in circostanze difficili»
Dalla Proposta di pace 2018

In un quartiere alla periferia di Roma dove il malaffare è sotto gli occhi di tutti e penetra nella vita quotidiana, Catia e Lucrezia hanno deciso di non restare a guardare

Ci sono momenti in cui prendi decisioni che condizioneranno la tua vita, ma che solo con il tempo riesci a vedere come punti di svolta. All'inizio non comprendi. Prendi una decisione perché senti un impulso a dire, a fare qualcosa. Mi stupivo di come, nel mio quartiere, certe cose potessero accadere sotto gli occhi di tutti, assolutamente impunite, perché poi l'essere umano è così: se vede una scena tutti i giorni alla fine ci si abitua. Non la nota più. È come tutte le altre.
Eppure il mio quartiere è altro da quello raccontato dalla televisione o dalle cronache dei giornali. Ora che i miei figli sono cresciuti ho cominciato a viverlo di più, a vedere anche la bella gioventù e le associazioni che cercano di migliorarlo e di togliere i ragazzini dai cortili dove possono incontrare non sempre buone compagnie. Ho conosciuto insegnanti motivati, che spesso operano come supporto alle famiglie in un contesto difficile, dove bisogna fare attenzione a come e a chi si parla.
Mi continuavo a ripetere la frase del Gosho Il conseguimento della Buddità in questa esistenza: «Non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente». Me la ripetevo per darmi forza quando incontravo ragazzi che spacciavano droga, non perché li conoscessi, ma perché era evidente. Ho deciso quindi che nella bilancia della vita volevo essere il sassolino che fa la differenza.
Recitavo Daimoku affinché gli spacciatori che vedevo quotidianamente cambiassero zona, si dileguassero dalla mia vista, un poco come nascondere la polvere sotto il tappeto.
Accettai di ospitare uno zadankai a casa mia e successivamente la responsabilità del gruppo. Ho pensato che fosse uno spiraglio, una possibilità non solo per me, ma per tutto il quartiere.
Non ero comunque ancora soddisfatta. Non mi bastava. C'era un'urgenza del dire che mi invadeva. Che la scrittura nella mia vita dovesse avere una funzione reale era stato il primo obiettivo quando cominciai a praticare. Da allora ho avuto diversi benefici in cui la vita mi ha dimostrato che a questo mio desiderio di espressione dovevo crederci.
Così è nato Claudio. Quello che vedevo nelle strade del mio quartiere lentamente ha cominciato a dare vita a un personaggio. E quel personaggio mi ha preso per mano, mi ha mostrato quello che c'era da vedere nella nostra quotidianità e che io invece avrei voluto nascondere.
Ho desiderato fortemente che la storia di Claudio potesse essere utile a tanti giovani e che quel Da ora in poi (il titolo del libro, n.d.r.) con cui lui alza la testa e decide di prendere in mano la sua vita fosse un incoraggiamento per tanti di loro. Il nostro presidente c'insegna che dobbiamo alzarci da soli, che il pregiudizio più grande lo abbiamo verso noi stessi quando non diamo voce alle nostre istanze.
In questo 2018, anno delle brillanti realizzazioni, Ikeda ci chiede di prenderci cura dei nostri giovani e io volevo che questo fosse il mio piccolo e personale contributo all'impresa condivisa con il maestro. Quando ho firmato il contratto con la casa editrice per la pubblicazione ho compreso che il mio libro era un tassello e uno strumento di un grande progetto di consapevolezza e d'incoraggiamento, grazie al quale potevo entrare nelle scuole e avvicinare tanti giovani. Perché loro hanno bisogno di noi, hanno bisogno di seguire un pensiero, di trovare il bello nella vita.
A nove anni mio figlio mi chiese: «Al mondo esistono più persone buone o cattive?». Io gli risposi che al mondo esistono più persone buone solo che quelle cattive fanno molto rumore, sentiamo parlare di loro costantemente.
Ecco, io credo sia giunto il momento di farci sentire e creare un grande baccano. La mia esperienza nasce proprio da qui, da questo desiderio di farsi sentire, di "fare baccano". (Catia Proietti)

LA CERTEZZA CHE SIAMO NOI A POTER DECIDERE

Ho vent'anni e mesi fa sentii profondamente il desiderio, davanti al Gohonzon, di trasformare il karma che mi portava, da molto tempo a questa parte, a essere circondata da persone che disprezzano la dignità della vita spacciando sostanze stupefacenti o facendone un uso personale. Persone che quotidianamente ledono il principio cardine del Buddismo, il principio cardine della vita, ciò per cui lottiamo quotidianamente, ossia la natura meravigliosa insita nell'essere umano.
Dopo questa decisione mi arrivò istantaneamente una telefonata. Era Catia, che mi chiedeva di far parte di un gruppo che avrebbe letto in anteprima il suo libro per individuare le parti su cui poter dibattere nelle scuole. Inizialmente ero impaurita, ma immediatamente dopo sentii che quella richiesta era la manifestazione concreta del mio desiderio di portare avanti kosen-rufu partendo proprio dalla trasformazione di un karma che sembrava non potesse essere mai completamente trasformato. Il mio Daimoku da quel momento si rinvigorì, a ogni pagi- na letta, a ogni incontro con Catia, sentivo che la mia vita stava gioendo e che tutto il veleno si stava trasformando in medicina, la più potente, quella che riesce a rendere la so erenza una forza propulsiva per trasmettere agli altri la speranza, anzi la certezza, che in ogni momento siamo noi a poter decidere di dare una svolta totale alla nostra vita. (Lucrezia Petrucci)

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Così è nato Claudio

«Al cuore dei diritti umani vi è il voto di far sì che nessun altro soffra per ciò di cui abbiamo sofferto noi»
Dalla Proposta di pace 2018

Figlia dell'avvocato Serafino Famà, ucciso dalla mafia, Flavia racconta come ha trasformato il suo dolore in impegno, arrivando a dialogare anche con chi aveva inflitto ad altri la sua stessa sofferenza

Una delle cose che accomuna i superstiti e le vittime di ogni tipo di violenza è la voglia di raccontare la propria testimonianza, non tanto per esorcizzare il proprio dolore - quello resta immutato nonostante il passare del tempo - quanto perché quel racconto possa far sì che non accada mai più a nessun altro.
Non è facile aprire il proprio cuore a perfetti sconosciuti e senza pregiudizi raccontare le proprie ferite ma, come ha affermato l'hibakusha Setsuko Turlow in occasione dell'adozione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, «ci ha convinto l'idea che continuare a parlare della nostra esperienza, così dolorosa da ricordare, sia la cosa giusta da fare e che non sarà mai invano» (Proposta di pace 2018, allegato BS, 188, 23).
Spinte dai medesimi sentimenti, le vittime innocenti delle mafie portano la loro testimonianza nelle scuole affinché anche le nuove generazioni siano consapevoli del passato e di quanto sia fondamentale il contributo di tutti per costruire una società in pace.
Il mio primo incontro con l'associazione Libera fu nel 2005. Ero quasi infastidita dal fatto che qualcuno volesse conoscere me e la storia di mio padre. Il mio dolore era un fatto privato... avevo lasciato la mia terra e non volevo più sentire la parola "mafia".
Mio padre era stato ucciso dieci anni prima. Era la sera del 9 novembre 1995 e lui era appena uscito dal suo studio legale insieme al collega Michele e stava tornando a casa, da noi. Cinquecento metri che non è riuscito a percorrere. Sette colpi calibro 7,65 hanno messo fine alla sua vita terrena. Il commando criminale era composto da circa una decina di uomini che hanno agito a volto scoperto lasciando - fortunatamente - incolume Michele affinché capisse che quel delitto rappresentava un messaggio diretto a tutta l'avvocatura.
Mio padre non era un eroe, era un avvocato. Ed è stato ucciso perché era un avvocato. Un avvocato che onorava la toga che indossava ogni giorno. Che credeva profondamente nel rispetto delle regole da parte di tutti e che si batteva per quello che oggi è conosciuto come il giusto processo. Fu ucciso per aver sconsigliato a una sua assistita, Stella Corrado, di acconsentire alla richiesta del capomafia Giuseppe Maria Di Giacomo - suo cognato e amante - di testimoniare al suo processo. Mio padre le spiegò che essendo parente dell'imputato aveva la facoltà di rifiutarsi di farlo. Avrebbe potuto lasciarla testimoniare senza neppure violare la legge, infrangendo però le regole della deontologia perché non avrebbe tutelato l'interesse della sua assistita.
Una normale valutazione di opportunità, normale se vivessimo in un paese libero dalle mafie e dalla corruzione.
Per dieci anni ho tenuto il dolore dentro di me, vivendolo in modo privato. Pensavo che nessuno potesse capire o volesse sentire la sua, la nostra storia. Poi ho incontrato don Luigi Ciotti, che mi ha presa per mano e mi ha fatto conoscere la famiglia di Libera. È grazie alla condivisione dei nostri ricordi e del nostro dolore che ho imparato a trasformare questo dolore in impegno.
Per tanti anni avevo continuato a dividere il mondo in "buoni" e "cattivi", ritenendo di non voler mai più avere a che fare con persone dal passato (o dal presente) difficile, ambiguo o semplicemente lontano dal mio. Avevo accolto l'idea di portare avanti la mia testimonianza ed ero convinta che fosse sufficiente limitarmi a raccontare la mia storia. Ma con il passare del tempo mi sono resa conto che era necessario andare ancora più in là, gettare il cuore oltre l'ostacolo della diffidenza e della paura e trasformare la mia attività di testimonianza in qualcosa di diverso. In un impegno che puntasse anche alla riabilitazione di chi ha sbagliato.
Così, un giorno di qualche anno dopo, ho accolto la proposta di alcuni ragazzi dell'associazione di fare un incontro pubblico con un ex capo di un gruppo criminale che, dopo aver scontato la pena, aveva deciso di cambiare vita.
Era l'estate del 2013, avevo già abbracciato la pratica buddista di Nichiren Daishonin e dopo qualche mese avrei ricevuto il Gohonzon. Ero molto agitata all'idea di un simile confronto, per questo motivo avevo raccolto quante più informazioni possibili su di lui e sul gruppo armato al quale apparteneva in precedenza. Sapevo come e quando era nato il gruppo, quali reati avevano commesso, con chi avevano stretto alleanze o con chi erano in rivalità. Ma quando sono arrivata nel luogo dove si sarebbe tenuto di lì a poco il dibattito ho visto un vecchietto che a fatica si reggeva in piedi. Portava negli occhi e sul corpo il peso dei crimini commessi. Ho chiesto di essere la prima a intervenire e così ho proiettato il documentario Tra due fuochi, che racconta la storia di mio padre e che avevo realizzato qualche mese prima.
Lui ha guardato con attenzione il filmato e mi ha ascoltato, poi ha iniziato ad attaccarmi, proprio come fa una persona che si sente in difetto. In quel momento ho percepito la sua sofferenza. Probabilmente non aveva mai visto l'altro lato della medaglia, il volto delle vittime innocenti. Anziché irrigidirmi ed erigere un muro ho cercato di andare oltre l'idea che mi ero fatta di lui leggendo la sua storia, oltre il pregiudizio di trovarmi davanti a un criminale. Ho scelto di andare al di là dell'appartenenza e di cogliere la sua umanità con un dialogo cuore a cuore.
Il giorno dopo era il suo turno. Abbiamo tenuto un altro incontro pubblico dedicato alla sua storia e io mi sono seduta ad ascoltarla con curiosità, sforzandomi ancora una volta di liberarmi da ogni pregiudizio. Il suo racconto è stato puntuale e coerente, senza mai scadere nel tentativo di giustificare o di riscuotere pietà. Era ben consapevole di ciò che aveva commesso e aveva pagato col carcere i suoi crimini senza cercare le agevolazioni previste per i collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti. Una volta uscito, però, aveva creato una nuova vita, umile e al servizio dei più deboli in una terra dove nessuno conosce il suo passato criminale. Personalmente ritengo che cambiare atteggiamento e dedicare la propria vita agli altri rappresenti il vero pentimento di una persona e che sia un fatto degno di profondo rispetto.
Alla fine dei due giorni mi si è avvicinato guardandomi negli occhi e mi ha chiesto di fargli una promessa: «Tu mi devi promettere che questo video, che la tua storia la porti a chi sta in carcere, al 41-bis, perché se gli fa l'effetto che ha fatto a me tu quella gente la cambi». Mi vengono ancora i brividi quando ricordo queste parole, perché sono dense di emozioni e di speranza e soprattutto perché, dette da chi come lui ha vissuto gran parte della propria vita tra il malaffare e il carcere, hanno un valore in più.
Se fossi rimasta barricata nelle mie convinte distinzioni tra "buoni" e "cattivi" mi sarei preclusa di incontrare una persona come lui, anzi probabilmente mi sarei anche stupita del fatto che alcuni attivisti dell'associazione di cui sono parte avessero rapporti con simili personaggi.
Invece mi sono fidata di questo meraviglioso gruppo di giovani volontari che dedica tante energie alla creazione di una società più democratica e inclusiva. Mi sono fidata del fatto che tutti noi possediamo la Buddità e possiamo far risplendere il nostro specchio con un impegno quotidiano. Ho guardato la persona cercando di non pensare al suo comportamento e alle azioni precedenti ma illuminando ciò che di positivo stava costruendo nella sua vita, in quel preciso momento.
Ho pensato che Shakyamuni e Nichiren Daishonin ci insegnano che nel Sutra del Loto anche i malvagi possono illuminarsi e diventare Budda e, se loro ne sono convinti, come potevo io rifiutarmi di vedere la Buddità in un'altra persona solo perché aveva un percorso totalmente diverso e distante dal mio?
Come ci ricorda il presidente Ikeda nella sua Proposta di pace 2018, uno dei fattori che finora hanno impedito una guerra nucleare è «lo sforzo di non chiudersi ma mantenere un filo di comunicazione fra i paesi in conflitto».
Entrare in relazione con chi condivide i nostri ideali o la nostra fede non richiede alcuno sforzo particolare e ci viene naturale, ma quando ci troviamo di fronte a delle persone totalmente diverse da noi la tentazione di chiuderci e cambiare strada è molto facile. Ed è in queste occasioni che abbiamo l'opportunità di sfidarci ad agire in controtendenza, sforzandoci di ascoltare e conoscere chi appare molto diverso da noi, a volte opposto. (Flavia Famà)

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Mio padre non era un eroe

«Uno dei capisaldi della filosofia di Makiguchi è che il valore sorga dalla relazionalità. Ciò evidenzia l'importanza di ampliare le reti di connessione che uniscono persone e cose al di là delle differenze»
Dalla Proposta di pace 2018 

Chi avrebbe mai pensato che una buddista e una sostenitrice della difesa personale armata trovassero un terreno di intesa già alla prima telefonata?

«Non sai che voce fa l'Avancarica, il fucile degli ussari!», mi dice Nicoletta al telefono durante un'intervista per un articolo sulle donne che in Italia si armano sempre più per sport (non potrebbero impugnare una racchetta?), difesa personale e... illusione di sicurezza. Sul suo profilo Facebook («posso chiederti l'amicizia?» mi dice come se si aspettasse un diniego) le foto del figlio appena laureato al DAMS che con uno sguardo mite posa accanto a sua madre orgogliosa dei suoi traguardi scolastici.
Nicoletta - si capisce da come e da cosa dice - è una donna volitiva, moglie di un esperto balistico proprietario di un'armeria in un paese in provincia di Udine. Dopo aver visto per anni uomini fermarsi in negozio a parlare di calibri e cartucce e le rispettive mogli aspettarli contrariate in auto, un anno fa ha fondato l'"Associazione donne e armi" il cui logo è un cuore composto da fucili e revolver stilizzati. Al telefono parliamo della sua iniziativa «di donne per le donne, in cui fare educazione, prevenzione e non in ultimo difesa personale», spiega.
Mentre parla non so che pensare (mi si apre un mondo fatto di certezze granitiche e illusioni, come il fatto che dietro l'aumento delle licenze sportive, le più facili da ottenere, si "nascondano" quelle per difesa personale). La ascolto. Penso sappia che quel che mi sta raccontando potrebbe essere usato contro di lei, ma non ci bada.
Poi a un certo punto a bruciapelo mi chiede: «Perché davanti alla minaccia di una pistola tu che faresti?».
«Che cosa le rispondo adesso?», penso. La prima cosa che mi viene in mente è... la verità. E per fortuna, perché mi sento subito a mio agio, alla pari. Ognuna con la sua versione della realtà, mica per forza la stessa. Rispondo: «Se te lo dico ti metti a ridere. Reciterei Nam-myoho-renge-kyo», e aspetto l'effetto che fa. Ma a prevenire lo stereotipo del Buddismo anti-stress aggiungo: «E non perché così tengo a bada l'emotività, ma perché noi buddisti pensiamo che pronunciare questa frase cambi la relazione tra noi e l'ambiente, onde per cui anche l'aggressore potrebbe cambiare idea e abbassare il mirino». Forse ho esagerato, penso.
«Lo capisco bene - dice lei - anche noi pensiamo che il comportamento della vittima sia determinante in quei momenti».
Sento che abbiamo trovato una delle poche visioni che possiamo condividere sull'argomento e mi sento quasi sollevata. Non mi sono sottratta al confronto. L'allenamento al dialogo e alla consapevolezza dell'altro, costruito in anni di pratica buddista, mi permette - anche quando meno me l'aspetto - di non pensare per opposizioni, di uscire dalla logica dell'attacco e della difesa, della vittima appunto e del carnefice. Con la convinzione di un momento sono riuscita a sostituire all'ego la Buddità, lo stato vitale capace di non farmi sentire separata da Nicoletta, per quanto con convinzioni diametralmente opposte alle mie. È bastato il coraggio di espormi. (Monica Piccini)

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Il coraggio di espormi

«L'onore appartiene a coloro che continuano a provare, che non si fanno mai scoraggiare dagli insulti, dalle umiliazioni e nemmeno dalla sconfitta»
Dalla Proposta di pace 2018

FRANCESCO È GENTILE E HA UN CUORE GRANDE

Ousmane Tiono ha 22 anni e viene dal Burkina Faso. Dopo un viaggio di 14 mesi arriva in Italia dove conosce Francesco che gli parla di Buddismo

10 maggio 2018. Incontriamo Ousmane al Centro culturale di Falconara Marittima insieme al suo grande amico Francesco, di cui riportiamo l'intervista nella pagina accanto.

Com'era la tua vita prima di partire?
Mio padre ha sposato cinque donne e lavora per tutta la famiglia. Ho quindici fratelli e in Burkina Faso ero studente delle scuole superiori. Dopo il primo anno ho detto a mio padre che volevo interrompere gli studi e venire in Europa. Lui non era d'accordo, ma ho deciso comunque di partire perché il mio sogno è incontrare tante persone e imparare tante cose. In Africa mi faceva soffrire il sistema sociale, sia in famiglia che nella società. Tra tutti i fratelli, solo io e il maggiore siamo andati a scuola, gli altri non hanno potuto.
Sono partito dal Burkina Faso e solo quando sono arrivato in Niger, nella città di Agadez, ho chiamato mio padre per dirgli che ero partito.

Ci racconti il viaggio?
La prima tappa è stata Niamey (una città del Niger vicina al Burkina Faso), dove ho conosciuto tanti giovani come me che volevano andare in Europa. Sono stato lì un mese.
Poi alcuni libici hanno preso trentacinque di noi per portarci in Libia attraverso il deserto. Il viaggio è durato una settimana. Abbiamo vissuto tante cose brutte, tanti maltrattamenti. Non posso spiegare. Ci picchiavano tutte le mattine sotto i piedi con coltelli e bastoni. Il camioncino che ci portava era piccolo, se si fermava dovevamo scendere tutti e camminare per tre o quattro chilometri. È stato terribile. Una mattina sono caduto dalla macchina. Ho pensato che il mio viaggio era finito. Ma un mio amico si è fermato con me e mi ha incoraggiato ad alzarmi. Mi diceva: «Prendi coraggio, prendi coraggio». Mi sono rialzato e ho continuato. Sono stato fortunato. Sono qui grazie a lui.

Così sei arrivato in Libia.
A Sabha, la prima città della Libia, è ancora più pericoloso: i trasportatori vendono le macchine con tutte le persone. Ci sono stato per tre mesi. Non so più dov'è il mio amico, ci siamo persi dopo una settimana. Eravamo circa cento in una stanza senza tetto. Niente bagno. Mangiavamo una volta ogni quattro giorni, riso o pane. Non potevo uscire.
Una volta a Sabha non puoi più tornare indietro, se ci provi ti uccidono. Devi essere fortunato perché da lì o riesci ad arrivare a Tripoli oppure vai in prigione. Potevo solo sperare di continuare il viaggio.
Arrivati a Tripoli passando per la città di Beni Ulid, dopo due mesi ci hanno mandato di nascosto a Sabratha, dove ci si imbarca per l'Europa. Dei cento che eravamo partiti da Sabha siamo arrivati in quattordici.
A Sabratha vivevo in una casa senza tetto. I padroni erano uomini neri (Ousmane li chiama "uomo nero") del Mali, Senegal, Burkina Faso, Costa D'Avorio, Gambia, Nigeria. I nostri fratelli neri hanno imparato come venderci. Fanno da tramite tra chi ci compra e le famiglie nei paesi d'origine, per chiedere il riscatto.
In questo campo ho conosciuto un amico, lui è morto lì. Ho visto morire tanti uomini, donne e bambini. Pensavo che sarebbe successo anche a me.
Dopo sette mesi ho preso il gommone per venire in Italia. Eravamo centoventicinque, tutti ammassati. Uno di noi guidava e in cambio non pagava. Per partire mi hanno chiesto trecento euro. Per fortuna me li ha dati mio fratello. Il viaggio in gommone dura dieci ore per arrivare nelle acque italiane. Lì ci ha preso una nave. Pensavo al mio amico che era morto. Sono arrivato in Italia, in Calabria, il 13 giugno 2017. Da lì mi hanno mandato nelle Marche.

Com'è stato il tuo incontro con Francesco?
L'ho conosciuto quando sono arrivato nel campo e ho subito capito che era una persona molto buona. Mi ha insegnato tante cose, mi ha parlato del Buddismo, e dopo due tre mesi sono andato a una riunione. Prima passavo il tempo a dormire, stavo sempre nel letto ed ero molto triste, ora ogni mattina pratico e mi alzo alle cinque per imparare tante cose. Mi sveglio con il cuore pieno di gioia. Ho cominciato a studiare.
Io mi chiedo: «Cosa posso fare?». Ringrazio l'Italia tutte le notti per essere venuti a salvarci sull'acqua. Sono felice di essere arrivato in Italia. Ora studio, mi do da fare nel campo, leggo, scrivo le esperienze, partecipo alle riunioni buddiste, recito Daimoku e imparo Gongyo.
Sto imparando l'italiano leggendo e copiando le parole di Ikeda che trovo nelle riviste buddiste e nel libro Giorno per giorno che mi ha dato Francesco. Ikeda per me è una persona unica perché porta il Buddismo agli altri, grazie a lui ho conosciuto tante persone come voi. Accanto a lui troverò la strada della mia vita. Riuscire a percorrere la strada che hai scelto vuol dire essere felice.

Ora Francesco ha dovuto lasciare le Marche. Come hai reagito alla sua partenza?
Due giorni dopo che è partito sono stato trasferito in un altro campo. Qui ho trovato un'altra persona che pratica il Buddismo. Francesco mi manca tanto, lo penso tutte le notti. Ho conosciuto tante cose grazie a lui, è molto gentile e ha un cuore grande. È come un padre per me, qui in Italia. Recito tutti i giorni un'ora e mezza, due ore di Daimoku. Sento gioia quando recito Daimoku, felicità. Recitare mi dà forza e coraggio, sento la vita. Recito per Francesco perché ancora non ha risolto i suoi problemi.

Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro
Il mio obiettivo è trovare un lavoro, una casa, ricevere il Gohonzon, sposarmi con una ragazza italiana e avere dei figli... per me due bastano! Il mio sogno è diventare una persona di valore.

PERCHÉ OUSMANE DIVENTI UN LEADER DI PACE PER L'AFRICA

Francesco Moschini, 39 anni, è stato operatore presso il centro di accoglienza marchigiano "Incontri per la democrazia" dove ha incontrato Ousmane

Quando hai conosciuto Ousmane?
Ero nelle Marche già da un anno, mi ero trasferito per motivi personali. I primi tempi sono stati duri, cercavo un impiego con lo spirito di non essere mai sconfitto. Ho fatto diversi lavori, poi mi sono occupato di sistemare un casale sperduto nel nulla.
Quindi ho presentato un progetto presso l'associazione "Incontri per la Democrazia", che si occupa di gestire un campo di accoglienza, dove è arrivato Ousmane. Il progetto prevedeva di inserire i ragazzi nella società italiana tramite il lavoro, la scuola e la creazione di mercati equosolidali tra i paesi di origine e l'Italia.
Quando è arrivato Ousmane era denutrito, con una lunga maglietta, senza scarpe. Era molto rispettoso, non chiedeva nulla. Ci siamo conosciuti giocando a pallone. Lui è forte ma andava subito in porta per non creare problemi nel fare le squadre. Ho notato subito il suo carattere, voleva che si creasse equilibrio. Abbiamo dialogato tanto, ci siamo sempre detti che l'unico modo per cambiare la situazione era partire dalla gratitudine. I primi giorni che gli parlavo di Buddismo voleva ascoltare, mi diceva: «Fammi sentire». Dopo un po' ha cominciato a fare Daimoku e veniva con me agli zadankai e al Centro culturale di Falconara per fare attività di accoglienza alle persone, non mi diceva mai di no.

Hai parlato molto del Buddismo ai ragazzi nella comunità. Cosa ti animava nel farlo? 
Conoscendo meglio il sistema di accoglienza non mi sentivo soddisfatto. È assurdo vedere come i ragazzi, dopo un anno e mezzo di permanenza nei centri, vengano buttati per strada senza documenti e senza alcuna idea di come fare a vivere. E anche chi ottiene i documenti non trova lavoro. Ritengo che così si alimenti nei ragazzi africani una grande illusione, che diventa rabbia e frustrazione. E che a sua volta genera negli italiani un sentimento di razzismo. Per questo ho cercato sempre di dialogare trasmettendo l'importanza di lavorare e impegnarsi al massimo, per far capire loro qual era la realtà, che i problemi non erano finiti.
Sono stato perciò costretto a parlare di Nam-myoho-renge-kyo! Perché si assumessero la responsabilità della propria vita. Ho portato agli zadankai più di quaranta ragazzi di undici paesi diversi.
Qualcuno di loro ha provato a praticare con me, tutte le mattine presto andavo a prendere chi volesse venire, andavamo a casa mia poi ritornavamo al campo per metterci al lavoro. Tanti membri della Soka Gakkai si sono impegnati per aiutare i ragazzi: Catia, Giusy, Francesca, Mauro, Cristiana, Luca, Raffaele...
Ho cercato di trasmettere loro il Buddismo, ma senza forzarli. Mi hanno sempre detto: «Buddismo buono, persone belle, tutti parlare, tutti contenti». I ragazzi non avevano mai visto delle persone che parlavano insieme sedute in cerchio, per loro c'è sempre stato un capo da ascoltare, erano molto colpiti.
Ora ho dovuto lasciare le Marche. Ousmane sta continuando a praticare seriamente.

Perché hai dovuto lasciare le Marche?
Un giorno, due mesi fa, dopo il lavoro ho fatto attività al Centro culturale. Ho portato con me Ousmane e alcune ragazze della Nigeria, che hanno fatto una riunione lì. Li ho riaccompagnati al campo e sono arrivato a casa a mezzanotte, distrutto. Dopo un'ora mi hanno chiamato da Capodimonte, il mio paese di origine, dicendomi: «Vieni subito qui, il tuo locale sul lago sta bruciando!». Il locale che avevo dato in gestione alla mia ex compagna, la mamma delle mie figlie, era stato distrutto in un incendio doloso. Ho iniziato subito a ricostruirlo. C'era tanta fuliggine, avevo sempre la faccia nera. A fine giornata mandavo le foto a Ousmane e gli scrivevo: «Hai visto che sono riuscito anche io a diventare africano!» E lui mi rispondeva: «Aiuto, così mi fai paura!» (ridono).
Mi avevano detto che avrei dovuto abbattere il locale, con un danno di duecentocinquantamila euro. Invece mi sono messo a ricostruirlo con le mie mani, per cercare di recuperare il più possibile, e alla fine il danno è stato di cinquantamila euro. I miei genitori mi stanno sostenendo molto e le mie figlie sono felici di vedere mamma e papà lavorare insieme ogni giorno. Tante persone del paese ci hanno aiutato gratuitamente. Contro ogni previsione, tra qualche settimana il locale riaprirà, in tempo per l'inizio della stagione, ed è più bello di prima.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?
Il pensiero che mi ha sostenuto tanto nelle difficoltà fisiche e mentali in questa situazione era chiaro: che Ousmane riceva il Gohonzon, faccia tante esperienze incredibili e diventi un leader di pace per l'Africa. Sono felice perché Ousmane sta andando in questa direzione, trasmette i principi buddisti ai suoi amici africani e trasforma i rapporti di guerra in legami di amicizia.

Chi è per te Daisaku Ikeda?
Gli ho scritto due volte e finora non mi ha risposto. Vedendo che rispondeva a tutti, dentro di me il pensiero è sempre stato: «Dov'è che sbaglio?». Avevo i sensi di colpa.
Quando mi sono trasferito nelle Marche e ho lavorato nel casale sperduto, mentre pulivo una stanza ho trovato una scritta sul muro: «Da adesso in poi inizia la storia», firmata Daisaku Ikeda. Ho sentito che la risposta era quella. Credo che fino all'ultimo istante dovrò coltivare questo legame.
Da qui nasce la gratitudine, il legame con i genitori, il rapporto con la vita e la rivoluzione umana.
Da questo rapporto capisco chi sono e quanto devo ancora cambiare.
Per me la grande capacità di Ikeda è entrare nel cuore degli altri e condividere il suo desiderio. Non è il leader egocentrico che sta in cima alla piramide, ma il leader che sta alla base e che incoraggia ognuno a fare un po', per agire insieme per la pace.
(A cura di Mirko Lugli)

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Ousmane e Francesco: un incontro speciale

«Non posso fare a meno di pensare che il sentimento comune dei presenti fosse la gioia di constatare come il desiderio di libertà ed eguaglianza da loro condiviso stesse conducendo a un cambiamento dopo l'altro nella società»
Dalla Proposta di pace 2018

Dalla promessa al presidente Ikeda di usare la vita per trasformare pregiudizi e chiusure del nostro tempo, un'esperienza di lavoro al di là di ogni immaginazione

Da dove parto? Parto da quando ho scritto a Ikeda, nel 2014. Perché quando fai una promessa al maestro poi senti di doverla e poterla mantenere con tutte le tue forze, e il risultato è che la realtà si muove e ti viene incontro ogni volta che stai per mollare ma ridetermini di farcela.
Andai a una manifestazione sotto l'ambasciata russa per sostenere Vladimir Luxuria, arrestata in Russia per aver sventolato una bandiera con scritto "Gay è ok". Eravamo venti, e mi prese una grande tristezza. Ero più arrabbiata con i gay che con i russi: perché non c'era nessuno? A casa decisi di uscire da quello stato e di usare la lamentela per fare qualcosa a partire da me. Così scrissi al presidente Ikeda della grande chiusura mentale che sentivo attorno a me, la mia ex era stata cacciata di casa dopo aver detto alla madre che stava con me e sentivo quasi sulla pelle la mancanza di rispetto verso le scelte personali e sentimentali di alcune persone. Perché non tutti possono sentirsi liberi e a loro agio? Gli promisi di trasformare il mio karma e questa sofferenza in missione. Gli mandai delle foto e dichiarai che avrei usato il mio lavoro per kosen-rufu. Non sapevo come, ma avrei fatto qualcosa. I primi anni solo Daimoku.
Avevo deciso di diventare fotografa di professione nel 2005, quando cominciai a praticare, proprio grazie a un incoraggiamento di Ikeda sul lavoro: se non sai da dove cominciare inizia a fare quello che sai fare meglio. Partire dalle foto poteva essere un inizio. Dopo poche settimane un'amica mi disse che cercavano un fotografo di scena. Cominciai così. Concerti, foto di scena, spettacoli. Ma era difficile viverci, e parallelamente facevo altro. Lavoretti che duravano poco perché avevo paura di allontanarmi dalla mia passione, come in famiglia: un fratello pittore, zii musicisti, e tutti alla fine avevano messo da parte il loro talento per avere una vita stabile. Li capivo, ma sentivo che dovevo fare diversamente.
L'anno in cui scrissi a Ikeda decisi di andare a vivere definitivamente da sola, anche se mia madre soffriva di bipolarismo e di crisi maniaco depressive. Grazie al Buddismo avevo però profondamente compreso che la gratitudine, anche verso i genitori, la ripaghi muovendo la tua vita verso la felicità. Per mia madre fu un colpo, si sentì abbandonata e dopo pochi mesi dovetti trovare la forza di chiedere per lei un trattamento sanitario obbligatorio. Le rimasi molto vicina, mantenendo però la mia indipendenza. Una casa di produzione mi offrì un contratto di tre mesi. Accettai. Poi feci un salto. Capii che per essere indipendente economicamente non dovevo aver paura di fare un lavoro diverso ma cercarne uno che fosse flessibile e non mi ostacolasse. Trovai un impiego come segretaria amministrativa in un centro sportivo, che ancora mi permette di pagarmi affitto e spese e di gestire i miei tempi.
Dopo due anni, nel 2016, andai a un'altra manifestazione: "Svegliati Italia". Cento piazze insieme per sostenere la proposta di legge Cirinnà per i diritti civili degli omosessuali. Ogni dieci minuti tutti insieme sollevavano in alto una sveglia per dire che era ora di cambiare. Non portai la mia macchina fotografica grande (temevo di trovare poche persone e rimanere nuovamente delusa), ma una più agile e piccola. Prima di arrivare al Pantheon cominciai a vedere un fiume di colori, famiglie, persone omossessuali e non, bambini. E cominciai a fotografare soprattutto per raccontare al presidente Ikeda cosa stava succedendo. Ci fu un momento molto importante per me, in quella piazza. Vidi un vecchietto che sembrava stesse aspettando tutto questo da una vita. E pensai: devo farlo vedere al mio maestro. Aspettai che quell'anziano signore, con la sua gioia quasi più grande della mia, sollevasse la mano con la sveglia. E scattai.
La settimana dopo ci fu il Family Day al Circo Massimo, contro i diritti degli omosessuali. Avevo timore ad andare, praticamente manifestavano, parlavano e applaudivano contro di me, noi. Ma con la macchina fotografica mi sentii forte, potente. Era una reazione al cambiamento e la mia arma era raccontarla. C'erano cartelli con le scritte più assurde: sagome di omini o donnine vicine con scritto accanto "È sbagliato". Oppure, "Dio vi punirà". Fotografai tutto. Il palco, gli applausi, i bambini con i cartelli in mano che mi facevano tanta tenerezza perché dentro di me pensavo: ma se per caso qualcuno di loro è gay? Anche quelle foto erano per Ikeda, e lì in mezzo ho capito cosa mi piaceva davvero: raccontare la vita e contribuire a cambiarla.
In quel periodo non avevo i soldi neppure per pagarmi la metro e mi scoppiò dentro una grossa sofferenza, per un attimo misi in discussione tutto. Ma in quel preciso momento mi chiamarono dalla redazione di Buddismo e società per dirmi che a Roma c'era un fotografo del Seikyo Shimbun, se volevo accompagnarlo per un servizio che doveva fare sui praticanti romani. Era come se il maestro in persona mi stesse esortando a non arrendermi. Così stampai le foto e chiesi a lui se le poteva recapitare al presidente Ikeda.
Seguii tutte le manifestazioni, le assemblee, i presìdi, le conferenze e, riguardando le foto, mi resi conto che raccontavano un pezzo importante di storia italiana, una lotta per i diritti civili di tante persone. Ne feci un progetto fotografico, volevo che uscisse e che portasse unità e armonia anche tra le tante associazioni gay che spesso purtroppo non vanno d'accordo.
A settembre dello stesso anno andai in Giappone. Portai con me le foto della mia famiglia, di mia madre che nel frattempo aveva trovato una cura giusta e il suo spirito materno, e il mio reportage. Il fotografo che avevo conosciuto a Roma mi portò con lui al Seikyo Shimbun, rimasi senza parole quando tutti si alzarono per applaudirmi dicendomi che ero ufficialmente una fotografa Soka.
Da lì, ha cominciato tutto a volare. A maggio del 2017 un'associazione mi chiede di mostrare le foto del mio reportage a Palazzo Ferraioli, a Roma, in occasione di una conferenza con Monica Cirinnà per progettare il futuro dei diritti civili degli omosessuali. Ma non c'erano abbastanza soldi per stampare le foto in alta qualità. Colgo l'occasione per proporre una rete tra tutte le associazioni, e raccogliamo così un budget sufficiente. Ero riuscita a trovare un modo per sostenere il dialogo tra loro!
Il mio stampatore inoltre mi propone di mandare la foto del signore anziano che alza la sveglia alla manifestazione del Pantheon al più importante festival di fotografia internazionale che si svolge ad Arles, in Francia. Non avevo i soldi ma, saputo che sarebbe stato il 3 luglio, giorno della relazione maestro-discepolo, dico di sì con la decisione di vendere la foto e farla girare nel mondo come avevo promesso a Ikeda.
Ad Arles il proprietario della galleria mi accoglie dicendo di non aspettarmi nulla perché non ero nessuno e lì era pieno di fotografi famosi. Rispondo che non mi importava, perché dietro quella foto c'era un progetto più grande. Parlo così della pratica a lui e ad altri giovani fotografi che esponevano con me, li incoraggio a decidere di vendere le loro fotografie. Il 3 accolgo tutti i visitatori come una vera byakuren - ognuno era un Budda e non sapevo da dove sarebbe arrivata la mia fortuna - sotto gli occhi del gallerista che mi prendeva in giro. Poco prima di chiudere entra un ragazzo giovane, francese, sposato con un siciliano, che vive ad Amsterdam. Si ferma davanti alla foto e mi chiede se è in vendita. Era un art manager che lavora nel mercato della fotografia d'arte ed era interessato alle foto mie e dei miei giovani colleghi! Mi spiega come funziona il mercato, come quotare la fotografia, desidera prenderla in conto vendita e occuparsi di tutto. Naturalmente gli dico di sì!
Tornata in Italia mi richiama e mi propone di esporre quella e altre foto a Parigi insieme ad altri artisti francesi e italiani. Un'esperienza meravigliosa: lui decide di dedicarsi a promuovere la fotografia di giovani talenti italiani nel mondo, chiedendomi di presentargli un nuovo progetto fotografico.
Crisi. Mi sono un po' scervellata per capire cosa inventarmi di "artistico", ma dopo tanto Daimoku decido di seguire la pancia e di tirare fuori un vecchio desiderio: fare un reportage su un ragazzo senegalese che fa la drag queen (si esibisce in cabaret e canti in playback con trucco e abiti femminili) seguendolo nella vita quotidiana e raccontandolo come persona, chi è davvero dietro le paillettes e i lustrini. Ho creato un legame fortissimo con lui, ha iniziato a praticare.
Anche il nuovo reportage a marzo di questo anno approda in una galleria a Parigi. Nel frattempo decido di puntare in alto, voglio che giri il mondo e lo mostro al photo editor del National Geographic, la rivista per me tra le più importanti e coraggiose. "Obama the Queen", così si intitola il reportage, viene pubblicato sulla testata online ad aprile 2018.
Oggi il mio scopo è riuscire a vivere di questo, poter usare tutto il mio tempo e il mio lavoro per la fotografia, per questo mezzo potentissimo che mi permette di fare qualcosa per cambiare il mondo e far arrivare la vita in modo diretto, vero. So benissimo che sto facendo una cosa strana e coraggiosa, tra l'arte e il reportage, ma mi piace, è come voler portare l'arte vicino alla vita vera, alle persone.
(a cura di Manuela Vigorita)

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Il vulcano Jessica Guidi

«Pur essendo particolarmente vulnerabili agli effetti della bolla di filtraggio di quest'era digitale, i giovani sono al tempo stesso una forza potente per superare la discriminazione e il pregiudizio»
Dalla Proposta di pace 2018

Dialogando dei dieci mondi con le mie alunne ho capito meglio ciò che pensavo di sapere bene

- Però, prof, non mi sembra possibile questa Buddità... la felicità assoluta, a prescindere dalle circostanze... A parte il Budda, lei ne conosce davvero di gente che vive così?
- Sì, ma non devi pensare a un essere trascendente... Ti ricordi cosa dicevamo l'altra volta, il "mutuo possesso dei dieci mondi"?
- ...Ah, sì. Che la Buddità contiene tutti gli altri mondi.
- Esatto. E che vuol dire, secondo te?
- ...
- Vuol dire, ad esempio, che anche un Budda soffre, si arrabbia o gioisce quando le cose vanno bene, ma illumina tutte queste cose a partire dalla sua Buddità. Un altro modo per dirlo è questo: soffre, ma non soffre di soffrire.
E alle tre alunne dell'ultimo anno per un attimo si illuminano gli occhioni. Sorridono perché hanno capito davvero: qualcosa nella loro vita risponde e dice sì, a questo potrei anche credere, in effetti.
E a me parlare del Buddismo mahayana in classe - nel contesto del corso di Alternativa all'insegnamento della religione cattolica, che ho avuto la fortuna e l'onere di tenere quest'anno nel mio liceo - dà a volte più soddisfazione che parlare di Schopenhauer o Hegel: e non solo perché il mio cuore ha sposato quel Buddismo, ma perché il discorso di Shakyamuni, di T'ien-t'ai e di Nichiren fluisce più coerente, più vitale e convincente di tanti discorsi canonici del programma liceale di Filosofia, la mia materia base d'insegnamento. Eppure quanti spunti di collegamento, quanti divani occidentale-orientale sui quali possiamo allungarci con la mente, mentre i nostri corpi restano aggrappati ai banchi dell'auletta dedicata a chi ha scelto Alternativa invece della tradizionale ora di Religione o dello studio assistito!
Ci sono anche P. e F., occhi vivaci e mobilissimi, capelli corti: ragazze che lanciano a tratti frecciatine piuttosto acuminate, in qua e in là, lasciando intravedere le proprie ferite. Prendo un sorso di "bevanda al gusto di caffè" e faccio segno con gli occhi di mettere via il cellulare:
- Cosa vi ha colpito di più della lezione scorsa?
- Mah, forse quella cosa che gli intellettuali all'inizio erano visti male... anche giustamente, per la loro tendenza a essere arroganti, e poi però nel sutra...
- ...del Loto
- Sì, il Sutra del Loto non condanna nessuno, apre alla possibilità della Buddità anche per loro...
E stavolta sono io a sorridere contento perché forse ho capito davvero, ho capito meglio, dopo tanti anni nei quali ero convinto di averlo capito del tutto, quello che sto per "spiegare" di nuovo a queste alunne speciali: che non c'è niente di male a essere intellettuali e artisti, ma che l'unica cosa che conta veramente è il cuore, l'umanità, la compassione. La si può esprimere con un trattato filosofico o con un raffinatissimo dipinto, ma questi non valgono più, e neanche meno, della compassione tradotta nel gesto esperto di un'infermiera o nella serenità attenta di un collaboratore scolastico.
Cerco su questo punto un dialogo di voce e sguardi, prima che di concetti, anche con D., sempre elegante, cresciuta in un quartiere disagiato, dove è forte l'influenza di gruppi estremisti.
Spiego queste cose con un po' di timidezza, ma con evidente entusiasmo. E, nelle giornate migliori, l'entusiasmo si trasmette per osmosi alle mie ore di insegnamento "normali", sicché i vari Kant, Aristotele o Giordano Bruno risplendono anch'essi - più del solito - della loro intrinseca natura illuminata.
Intanto il pentamestre scivola verso l'estate.
- ...E i "tre potenti nemici" li ha affrontati anche la Soka Gakkai, l'organizzazione contemporanea che diffonde il Buddismo di Nichiren. Avete mai sentito parlare della Soka Gakkai? Promuove anche mostre itineranti sui diritti umani, sul disarmo... qualche anno fa qui a Roma c'era Senzatomica.
- Ah sì, prof! Io l'ho vista, con una mia amica, ci avevano invitato... bella, interessante, sì.
- E tu? [chiedo poi a S., che ho scoperto essere figlia di una praticante] Tua madre ti ha mai convinta ad andare a una riunione buddista?
- No prof! Me lo dice sempre, che ci terrebbe tanto... ma io non... non sono religiosa, non voglio iniziare a praticare. Però qualche mese fa ho regalato a G. Amore e amicizia di Ikeda. Me l'aveva dato mia madre. Poi l'ho letto anch'io, e anche quello sul lavoro!
E G. fa sì con la testa, senza alzare gli occhi. Forse sta già pensando all'interrogazione dell'ora dopo. Ma il suo lieve, sincero sorriso dice che quei volumetti hanno lasciato un segno. (Donato Ferdori)

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Ma lei, prof, ne conosce davvero di gente che vive così?

«Ogni persona che, pur portando il fardello delle proprie difficoltà personali, si adopera per il bene degli altri, manifesta la propria essenza originale e porta avanti la missione di illuminare la società con la luce della dignità»
Dalla Proposta di pace 2018 

Una giovane giornalista pugliese al servizio della sua gente fa emergere documenti scottanti sulle nefaste conseguenze ambientali legate al progetto del gasdotto nel Salento

«Per quanto una persona creda nel Sutra del Loto, se è colpevole di non aver rimproverato un'offesa alla Legge cadrà sicuramente nell'inferno, così come una sola zampa di granchio può rovinare mille vasi di lacca», scrive Nichiren Daishonin a un seguace laico nel Gosho Gli elementi essenziali per conseguire la Buddità (RSND, 1, 663-664). L'esperienza che sto per raccontarvi ha avuto inizio con queste parole iscritte nel cuore. Sono una giornalista freelance, mi occupo di violazione dei diritti umani per varie testate. A lungo ho concentrato la mia attenzione sul continente americano fino a quando recitando Daimoku, esattamente un anno fa, in crisi per il mio lavoro perché precaria da tempo, alle mie preghiere è seguita una risposta chiara: dovevo occuparmi della mia terra d'origine.
Pur vivendo a Roma da quattro anni non avevo mai smesso di interessarmi alla mia regione, la Puglia. Era giugno del 2017. Il giorno dopo l'incontro donne e giovani donne, a cui mi ero dedicata sinceramente sostenendo le compagne di fede, ricevetti la notizia di aver vinto il premio Ciampi. L'Ordine nazionale dei giornalisti mi premiava per un'inchiesta sul caporalato in Puglia. Quella vittoria mi servì da sprone a continuare nel mio percorso lavorativo e a volgere lo sguardo ancora più attentamente verso quanto stava accadendo nella mia terra.
Già da tempo seguivo da lettrice le poche notizie diffuse in merito alle proteste in corso in Salento contro la realizzazione del gasdotto proveniente dall'Azerbaigian e destinato ad approdare a San Foca, marina di Melendugno. Sentivo che era giunto il momento di verificare di persona i fatti e di accertarmi della veridicità delle informazioni che circolavano in merito. Troppi erano i dubbi che mi sorgevano leggendo di una concentrazione di centinaia di estremisti ambientalisti, addirittura violenti che - a quanto leggevo - vivevano in Salento, quel Salento che conoscevo bene.
Coinvolsi una collega videomaker, anche lei freelance, le raccontai dei miei dubbi e dell'esigenza di girare un documentario indipendente per assicurarmi che la verità non fosse compromessa. Pregai sinceramente davanti al Gohonzon affinché le nostre vite fossero protette e, con i pochi risparmi, partimmo per Melendugno. All'arrivo constatai ciò che temevo. Gente comune, quella gente di cui ci parla il presidente Ikeda, era vittima di un processo di criminalizzazione. Faceva più comodo raccontare di un popolo retrogrado che ostacolava il progresso del nostro paese ricorrendo alla violenza in difesa di qualche decina di alberi, piuttosto che far emergere le numerose contraddizioni di un affare da 45 miliardi di dollari. L'accoglienza ricevuta dalla popolazione, desiderosa di far sentire la propria voce, mi convinse a proseguire. Trascorsi una settimana con la collega e poi vi tornai molte altre volte.
In una di queste, mentre registravo la voce del contadino che ha ceduto il suo terreno agli attivisti per costruire un presidio (poi divenuto il protagonista del mio documentario), entrai in possesso di un documento agghiacciante: uno dei maggiori esperti di ingegneria energetica a livello internazionale, dopo aver valutato il progetto dello stabilimento di gas che sorgerà a poche centinaia di metri dalle abitazioni, denunciava «rischi estremamente rilevanti, incendi, esplosioni, specie in zone fortemente antropizzate». Non potevo tacere. Non potevo far finta di non aver letto, non soltanto in quanto giornalista, ma perché ho fatto un voto al mio maestro e non intendevo venire meno alla mia promessa.
Trascorsi l'estate alla ricerca di un editore che pubblicasse la mia inchiesta. Dopo vari dinieghi, uno dei più importanti settimanali nazionali la accolse. Nomi, dati, documenti. Tutto era nero su bianco e soltanto il Daimoku mi consentiva di continuare a credere che stessi facendo la cosa giusta. Quattro ore dopo la pubblicazione, dell'articolo sul sito del giornale non vi era più traccia. Ricevetti decine e decine di messaggi da lettori che mi chiedevano una spiegazione. E io la chiedevo alla redazione. Mi vennero raccontate varie versioni nel corso del mese successivo. Sarebbe tornato online, sarebbe finito anche sul cartaceo e altre ancora.
In quei giorni veniva uccisa la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. Poco dopo l'esplosione della sua auto, suo figlio rendeva noto che la madre - se fosse stata ancora in vita - avrebbe trovato il bandolo della matassa di un affare che parte dall'Azerbaigian e termina con un gasdotto nel Sud Italia.
Trascorsi giorni complicati, giorni in cui temevo per la mia vita e la vita dei miei familiari. In quel periodo mi capitò anche di essere seguita da un'auto mentre rientravo a casa dopo aver ritirato ulteriori documenti sul gasdotto. Leggevo ogni sera un Gosho. E mi sforzavo di rileggere le frasi che avevo sottolineato anche più volte nel corso della stessa giornata. Una di queste è: «La vita passa in un lampo. Per quanti terribili nemici possiate incontrare, scacciate ogni paura e non pensate mai di retrocedere» (La pratica dell'insegnamento del Budda, RSND, 1, 351).
Recitai Daimoku per percepire la Buddità dei colleghi che avevano rimosso l'inchiesta, Daimoku affinché tornasse pubblica, Daimoku per proteggere la vita di tutti. A distanza di un mese, vennero meno quasi tutte le cose che mi erano state comunicate. La mia inchiesta non sarebbe andata sul cartaceo. Né sarebbe tornata online in versione integrale. Avrei dovuto scegliere se farla pubblicare in versione ridottissima o nulla. Accettai la prima soluzione. Ancora oggi infatti è pubblica. A quel punto iniziai a fare Daimoku per trovare un editore libero da qualsiasi condizionamento che mi consentisse di continuare a pubblicare inchieste sull'argomento. Pochi giorni dopo apparve su un'altra testata un articolo che citava il mio. Quella fu l'occasione per presentarmi alla nuova redazione, con cui da allora collaboro.
In quei giorni decisi anche di candidare l'articolo rimosso al concorso per il più importante premio di giornalismo della Puglia. Lo spedii a colpo sicuro. E dopo qualche mese seppi di averlo vinto. Alla premiazione, avvenuta pochi mesi fa, si è parlato della mia inchiesta dinanzi a tutte le autorità della mia città, capoluogo di regione.
Nel frattempo ho avuto varie difficoltà personali. Ciononostante sono riuscita a scrivere ancora altre inchieste e a concludere il documentario; tante persone si sono mostrate solidali, offrendosi di aiutarmi. L'anteprima nazionale si è svolta a Lecce il 10 aprile, in occasione del Festival del cinema europeo. La sala era gremita ed erano presenti tantissimi cittadini e le più importanti personalità politiche della regione.
Nel frattempo la magistratura ha riaperto l'indagine sul quantitativo di gas presente nello stabilimento che sorgerà a Melendugno, ipotizzando che sia stata aggirata una direttiva europea sulla sicurezza che avrebbe - qualora applicata - anche imposto la consultazione popolare.
Nel corso di questi mesi ho saputo che a Melendugno ci sono dei compagni di fede. La notizia mi ha riempito il cuore di gioia e ha rinvigorito la mia promessa al presidente Ikeda di non mollare mai, continuando a testa alta il mio lavoro senza lasciarmi intimidire. (Maria Cristina Fraddosio)

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Non potevo tacere

«C'è una gioia condivisa che sorge dagli sforzi di sostenere ogni persona, al di là delle differenze, affinché non si perda d'animo davanti alle sfide della vita»
Dalla Proposta di pace 2018

Non bastano le istituzioni a garantire i diritti umani. Serve l'opera attenta delle persone, quelle che vi si dedicano con passione e si prendono a cuore il destino degli altri. Ne abbiamo incontrate alcune nel corso un'intera giornata trascorsa tra Abruzzo e Marche, dove da pochi giorni si è trasferita la sede di On the Road, la onlus che da quasi trent'anni si occupa in Italia di tratta e sfruttamento - nella prostituzione, nel lavoro forzato, nell'accattonaggio o in attività illegali - e di assistenza alle vittime della violenza di genere. Michela, che segue le vittime dal punto di vista legale, Luna, che si occupa dell'accoglienza delle vittime di tratta, Cristina, la responsabile della comunicazione che ci dà il benvenuto nella nuova sede di Porto d'Ascoli, ancora in allestimento.
«On the Road nasce negli anni '90 come associazione fatta da suore e volontari - comincia a raccontare Cristina Pizzolato, come un fiume in piena -. Era iniziato da poco il fenomeno della tratta degli esseri umani e la gente da queste parti non aveva mai visto tante ragazze nigeriane, albanesi, romene prostituirsi sul ciglio della strada. Quei volontari hanno cominciato ad avvicinarle per far sentire loro che c'era qualcuno che non era interessato né ai loro servizi né a sfruttarle economicamente, ma alla relazione umana. Così si è costituito il gruppo.
Poi, man mano che il fenomeno si è ingrandito, in Italia sono nate tante associazioni e ora esiste un vero e proprio sistema anti-tratta a livello nazionale, con un numero verde specifico [mi mostra cartoncini formato tessera]. Noi li distribuiamo in strada dicendo: se sei in difficoltà, chiama. A questo numero verde risponde un centralino a Venezia, che individua l'ente di competenza della zona da cui proviene la telefonata, e crea il contatto».
Ma come succede che si diventa vittime di tratta? le chiedo. «L'immaginario della ragazza che viene rapita e portata in occidente contro la sua volontà è completamente mistificato. Sono padrone del loro destino, semplicemente si affidano alle persone sbagliate, come se una di noi volendo acquistare una casa si rivolgesse a un truffatore. La linea che separa chi aiuta da chi sfrutta è sottilissima: da un lato è qualcuno che ti permette di migrare, dall'altra pretende qualcosa in cambio, con il ricatto del rito magico tribale che ti vincola a ripagare un debito la cui entità, però, ti sfugge totalmente. Il fatto è che si tratta di ragazze per lo più senza scolarizzazione e con una condizione socio-economica talmente disperata che rende la scelta quasi obbligata.
Poi, una volta partite da casa, seguono spesso lo stesso tragitto di altri migranti, ognuno in viaggio con il suo personale "patto" economico.
Noi di On the Road entriamo in contatto con queste ragazze prima attraverso le unità mobili, poi mettendo a disposizione sportelli a bassa soglia dove tutti possono accedere per informazioni e consulenza e, in una progressione di servizi, offriamo la presa in carico, l'orientamento, la formazione, l'inserimento socio lavorativo. è un lungo tragitto».
Una questione mi preme: come si comportano i nostri connazionali? Insomma, quanto è difficile l'integrazione? «Purtroppo bisogna riconoscere che il livello di discriminazione da parte della nostra società è altissimo, sia in ambito lavorativo sia in quello sanitario. E anche quando non c'è vera e propria discriminazione, il linguaggio, i modi e i toni con i quali ci si rivolge a questi stranieri sono, al massimo, di tiepida tolleranza.
È importante che la televisione e i giornali vengano formati in questo senso, perché hanno un'enorme responsabilità nella costruzione dell'odio nel nostro paese. Enorme. Ma se il mondo dell'informazione continuerà a funzionare così, l'odio ci distruggerà».

QUANDO DAL DIRITTO NASCONO I FIORI

Intervista a Michela Manente, avvocata di On the Road

Come sei arrivata a occuparti di traffico di esseri umani?
La mia storia parte da lontano. Ho sempre sentito il desiderio di aiutare gli altri. Quando nel '97 arrivarono gli albanesi in Italia mi presentai alla caserma di Teramo dove operava la Caritas; poi, sempre nella Caritas sono diventata volontaria in carcere.
A quel punto ho capito che mi interessava garantire l'accesso ai diritti a chi non ne aveva la possibilità, e così ho deciso di diventare avvocata. All'inizio ho cominciato a occuparmi dei diritti dei migranti, poi nel 2003 ho incontrato casualmente in questura una ragazza di On the Road che si trasferiva, ero la persona giusta e mi ha presentato. Così, dai profughi albanesi ai carcerati, sono passata a occuparmi delle persone vittime di tratta e di violenza.
E non ho più lasciato.

Come si svolge il tuo lavoro?
In questi anni sono state tante le persone che ho avuto la possibilità di assistere ma, ci tengo a sottolinearlo, non da sola. Sarebbe impossibile. Io lavoro in équipe, con assistenti sociali, psicologi, colleghi disposti ad assistere le vittime, queste persone speciali particolarmente vulnerabili sotto miliardi di punti di vista.
Nel percorso dalla denuncia all'audizione davanti a un giudice è indispensabile il contributo di figure specializzate che sostengano la vittima dal punto di vista psicologico, la fortifichino e le facciano, per esempio, capire l'importanza di costituirsi parte civile nel processo penale per poter rivendicare il diritto al risarcimento del danno.
Infatti l'obiettivo non è solo, e non tanto, la condanna dell'imputato a farsi magari dieci anni di carcere, ma il risarcimento personale.

Appena ci siamo incontrate mi hai detto qual è per te la vera posta in gioco...
Sì, il fatto che la nostra presenza riesce a provocare un cambiamento anche nella magistratura, nelle istituzioni e, in genere, nelle persone che sono nel processo.
Il mio lavoro mi piace davvero quando c'è corrispondenza tra me, che ponendomi di fronte a un problema umano riesco a escogitare tra le maglie del diritto gli strumenti da utilizzare di fronte a una situazione impossibile, e l'altra parte, per esempio un giudice, che si chiede la stessa cosa. Allora davvero, in questa materia arida com'è il diritto, nascono i fiori!

Mi fai un esempio?
Ho assistito una ragazza malata di linfoma non-Hodgkin allo stadio iniziale che aveva dovuto continuare a prostituirsi fino a quando, troppo malridotta, non era più oggetto di mercato. Poiché era clandestina non aveva voluto fare la denuncia. Dopo un primo periodo di cure, l'ospedale voleva dimetterla, ma lei non aveva nessuno da cui andare e senza denuncia neppure noi potevamo accoglierla. Così ho escogitato una strada legale e ho fatto un ricorso per costringere l'ospedale a tenerla ricoverata. E la giustizia ha risposto... In questo caso la donna è stata tenuta nell'ospedale di Pescara, ha deciso di denunciare ed è nato un grande processo contro tantissimi trafficanti nigeriani, intere famiglie, che si è concluso con arresti pesanti e forti risarcimenti per le vittime. Purtroppo la ragazza, dopo due anni di terapie, è morta.
Altro caso, al tribunale di Avezzano assistevamo quindici lavoratori indiani per sfruttamento e loro dovevano riferire quanto erano stati pagati; si erano preparati coscienziosamente e si erano scritti le risposte sulla mano (nel nostro processo non si può fare!). La controparte se ne è accorta e quando noi ci siamo opposti dicendo che era un caso particolare, che per loro era davvero difficile potersi ricordare... il Gip ha dichiarato: «Li autorizzo a leggere sulla mano!». Lì di nuovo ho visto il cambiamento, la delicatezza di comprendere la situazione, perché se le cose si vogliono fare si possono fare. Non che si debba essere necessariamente a favore delle vittime, ma per far emergere la verità e arrivare al cambiamento delle persone bisogna autorizzare certe cose che sono al limite.

Da dove ti viene tale capacità?
Io mi porto dentro le persone. Un collega che si occupa di altro quando la sera ha finito chiude, io non chiudo mai... perciò bisogna essere in tanti.
In questi anni ci sono stati momenti di scoraggiamento e altri incoraggianti. Come ti dicevo io porto avanti delle istanze che la legge mi permette ponendo sempre l'attenzione sulla vittima. Esempio: nel processo penale c'è una fase che si chiama incidente probatorio: in caso di necessità (se la persona sta per morire o si trova in una situazione di coartazione psicologica) si può anticipare il suo interrogatorio e poi in dibattimento quella persona non deve più essere sentita. È chiaro che noi cerchiamo sempre di favorire questo strumento: un conto è che la vittima denunci nell'arco di cinque-sei mesi, un altro è che ci debba ritornare a distanza di anni, magari dopo aver cambiato vita, trovato un lavoro, ecc. Questo è usare la legge ponendo l'attenzione sulla vittima.
Altre volte la strada è stata invocare delle normative europee in sede di tribunale quando l'Italia non le aveva ancora recepite, e vederle poi applicare. è il caso dell'audizione protetta (che permette di essere interrogati senza farsi riconoscere); alcuni anni fa da noi era prevista solo per le vittime di tratta, ma chi ha studiato il fenomeno sa che quella prostituta è anche vittima di tratta, che nel nostro sistema giuridico ha molti più diritti. Mi è capitato che il giudice si rendesse conto che autorizzare la mia istanza poteva avere effetti positivi anche sul suo lavoro, perché quella vittima in condizioni protette avrebbe certamente parlato con più serenità.

Hai a che fare con un sistema criminale che muove diversi miliardi di dollari. Hai mai avuto paura?
Io mi sono sempre sentita, come dire, aiutata da una forza superiore. La mia modalità è quella di "perseguitare" i trafficanti, di andare fino in fondo; ogni anno vedo se lavorano, dove stanno, cosa fanno... Quindi che ci siano persone, i trafficanti nigeriani, che possano avermi mandato maledizioni, che abbiano cercato di influire negativamente sulla mia vita arrivo a crederlo, e non è piacevole. Vivere in un'atmosfera dove sai per certo che fanno riti vudù contro di te o contro le forze dell'ordine, quando nelle intercettazioni senti che si informano sui particolari, sui nomi, su chi è il giudice... Paura no, sono fiera di quello che faccio, ma non sono spavalda. La cosa che voglio ripetere è che in questo lavoro non sono sola, su ogni caso decidiamo sempre insieme, ci sosteniamo a vicenda.

E la forza per andare avanti chi te la dà?
L'insieme di queste persone.

E la motivazione?
Questo lavoro cambia me, cambia la vittima, cambia il giudice, cambia il poliziotto; quindi il diritto, che è uno strumento così arido, se si legge bene può diventare un motore del cambiamento.

PER NON PERDERE QUEL SOGNO

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Intervista a Luna De Angelis, operatrice di On the Road

Com'è il primo approccio con le ragazze? 
Io lavoro nell'accoglienza delle persone che vengono già identificate come vittime di tratta, alle quali viene offerta la possibilità di seguire un programma di assistenza con l'obiettivo finale di essere integrate nel territorio. Quando entrano qui queste donne hanno accettato di accedere ai nostri programmi e di essere inserite nelle nostre strutture. Ciononostante, all'inizio c'è sempre diffidenza.
A volte siamo noi operatori ad avere aspettative fallaci. Dimentichiamo di essere di fronte a persone che hanno un sistema di riferimento molto distante dal nostro e che in base a questo vengono consigliate. Spiegare per esempio che entrare in Italia nel modo in cui hanno fatto loro è illegale e che quindi devono legalizzarsi; che da una parte c'è l'ideale e dall'altra la realtà, è molto complicato. Fanno sempre il confronto con ciò che dicono i connazionali, è ovvio che la fiducia non nasce da subito.
Quella che cerchiamo di creare, all'inizio, è la relazione. Con pretesti vari: gioco, musica, fare cose insieme, passare del tempo nelle strutture, per esempio a pulire le stanze, così si scoprono tante cose... Più tempo si passa insieme, più si crea la relazione e più è facile costruire la fiducia.

Anche da parte vostra, mi dicevi, a volte c'è un'aspettativa negata...
L'aspettativa c'è: se tu vieni a chiedermi aiuto allora farai quello che ti suggerisco di fare. Scordiamo che spesso obiettivi che a noi sembrano auspicabili ai loro occhi possono non esserlo.
A volte perdiamo di vista che sono persone partite con un sogno, e il nostro compito è aiutarle a non abbandonarlo. Certo le cose non sono facili come se le erano immaginate e come erano state loro prospettate, devono accettare di essere arrivate in un paese, in un continente, pieno di contraddizioni quanto il loro.
Le aspettative del mito europeo vengono deluse prima con il viaggio, poi nel rapporto con i servizi e le strutture che le accolgono.
Perciò il nostro obiettivo è cercare insieme un sistema di orientamento condivisibile e all'interno di questo, in base al loro progetto, definire e ridefinire insieme degli obiettivi.

Ridimensionando quelli alla partenza?
Il sogno deve rimanere, la prospettiva non deve essere perduta. Arrivano dopo viaggi terribili, attraversano esperienze traumatizzanti, occorre far loro riscoprire la prospettiva del sogno con cui sono partiti. Rinvigorire la loro speranza e aiutarli a mantenerla durante il lungo tragitto fino all'integrazione.

Come fate?
Una cosa fondamentale è la sospensione del giudizio. Se siamo noi i primi a chiuderci all'interno di una chiave di lettura (ed è un rischio che si corre con grande facilità) tutto diventa angusto, per entrambe le parti. Occorre creare davvero una relazione con quella persona, starci insieme nelle attività quotidiane, diventare un suo punto di riferimento nel tragitto di integrazione. Non c'è una procedura standard da imparare a tavolino.
Di solito, senza scolarizzazione e conoscenza della lingua, per la normativa italiana i lavori che si possono svolgere sono davvero pochi, mentre con qualcuno già specializzato nel suo paese si può tentare di ottenere la medesima mansione. Insomma, bisogna valutare caso per caso e trovare insieme la strada migliore. Il nostro è un sostegno, non è assistenza, passa per il confronto, la relazione, la fiducia.
E poi, voglio aggiungere, per me questo lavoro è anche un modo per conoscersi meglio. È vero che è una relazione d'aiuto, ma tu ci sei!
(a cura di Marina Marrazzi)

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