È la capacità di far fronte agli urti della vita. Non significa solo saper superare le difficoltà: la resilienza è l’abilità di utilizzare gli eventi avversi per scoprire in sé potenzialità nuove e inesplorate.
A livello collettivo consiste nell'affrontare eventi difficili trovando la forza e le risorse per una nuova fase di crescita.
Una comunità resiliente sa costruire relazioni, condivide intenti e valori, ed è consapevole della propria storia. Perché conservare la memoria illumina il presente e sviluppa la resilienzadei popoli affinché un altro mondo sia possibile.[ref]dall'Appello ai giovani del mondo per la resilienza e la speranza[/ref]
«Se rimaniamo invincibili nel cuore – scrive Daisaku Ikeda – possiamo procedere passo dopo passo, confidando nella prossima vittoria».
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Invincibili (la forza della resilienza)

Avete presente il film Vita di Pi dove, in seguito al naufragio di un transatlantico che trasporta un circo al completo, un giovane indiano si ritrova su una scialuppa in mezzo all’oceano da solo con una tigre feroce, e alla fine riesce a salvarsi?
A ogni nuova difficoltà (gliene capitano di tutti i colori) si pensa: beh, questo è troppo, non ce la può fare. Eppure, quella capacità di mordere la vita, di trovare soluzioni incredibili per non cedere agli elementi, di tirare fuori l'ultima goccia di coraggio che non crede di avere, alla fine lo portano in salvo.
Un eroe? Un campione di "resilienza" piuttosto: le mirabolanti capacità che mette in gioco sono tutte perle di un patrimonio condiviso, perché la resilienza è una qualità che esiste in natura, fa parte della vita e appartiene anche alla materia.
In fisica definisce la capacità di un materiale di resistere alle forze che gli vengono applicate: è resiliente se non contrasta l'urto fino a spezzarsi ma lo ammortizza e lo assorbe in virtù delle proprietà elastiche della sua struttura.
Etimologicamente si fa derivare dal latino re-salio, che denota l'azione di risalire su una barca capovolta dalle onde del mare, o al verbo resilire, rimbalzare, saltare indietro. In ogni caso indica la capacità di reagire a qualsiasi caduta, di sopportare qualsiasi carico.
Un concetto che ha fatto fortuna, e così il termine ha valicato l'ambito tecnico. Secondo l'Accademia della Crusca il suo uso esplode intorno al 2011: da allora il sostantivo - insieme al corrispondente aggettivo "resiliente" - compare sempre più spesso sui media e si applica agli ambiti più diversi. In ecologia si chiama resiliente un sistema capace di tornare velocemente al suo stato iniziale dopo una perturbazione; nella produzione dei tessili si dice di un tessuto che riprende la forma originale dopo una deformazione, senza strapparsi; in psicologia, le persone resilienti sono quelle capaci di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare la vita di fronte alle difficoltà, quelle che, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, riescono a dare nuovo slancio alla propria esistenza e a ripartire "risalendo" sulla barca rovesciata della loro vita dopo averla di nuovo ribaltata.
Il giornalista e semiologo Stefano Bartezzaghi la definisce "parola chiave di un'epoca" dal forte valore simbolico, visto che l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica ed ecologica mondiale è fornito da una parola di tutt'altro tenore: crisi.
Ma, tornando a noi, viene da chiedersi dove la troviamo tutta questa potenza per non cedere e farcela alla fine?
Una volta la si chiamava semplicemente "forza d'animo", scrive il filosofo Umberto Galimberti in un articolo di qualche anno fa, e forse l'espressione basterebbe senza dover ricorrere a parole inutilmente "tecniche" (vedi una nostra intervista a lui su questo numero, p. 19). è quella forza che riconosciamo al fondodi una decisione presa dopo aver analizzato tutti i pro e i contro, perché in quella scelta ci sentiamo a casa. «Essere se stessi, assolutamente se stessi: questa è la forza d'animo».
Qualcosa da non cercare lontano, ma al fondo di noi. Maurizio Andolfi, neuropsichiatra infantile e terapeuta della famiglia, si sofferma sulla capacità di trovare la forza "da ciò che non si è avuto". «Molte persone crescono con il sentimento di quello che non hanno avuto e ne soffrono così tanto che tutti i loro rapporti finiscono per essere danneggiati. Ma il punto non è tornare indietro e far avere a quella persona ciò che le è mancato, piuttosto aiutarla ad accettare i suoi buchi, le sue perdite come punti di forza e non di debolezza. Aiutarla a trovare la forza da ciò che non ha avuto, mentre di solito si pensa che la forza provenga solo da quello che si è avuto» (BS, 99, 44).
Se la resilienza è una dotazione base degli esseri umani, ci si può allenare a svilupparla. Per esempio, cambiando il modo in cui vediamo noi stessi e il mondo (vedi box alla pagina seguente).
Tutto ciò risuona con l'essenza del Buddismo, che ci incoraggia a credere nella nostra forza senza limiti, a vivere trasformando i veleni in medicine e a rialzarci ogni volta con incrollabile fiducia per quante volte abbiamo vacillato.
In fondo ogni problema può essere un grande masso sul quale inciampare per sprofondare nella terra o sopra il quale salire per guardare ancora più lontano (cfr. BS, 155, 16).
(Marina Marrazzi)

Resalio, la vita è capace

Sentiamo spesso dire che la storia è ciclica, che si ripete, che se guardassimo nel complesso la storia di una nazione, per esempio, noteremmo le stesse dinamiche riproporsi più e più volte.
Un professore mi disse di pensare agli Stati, o a ogni gruppo di cui analizziamo la storia, come a delle persone: ognuna con un carattere, aspirazioni, debolezze e ferite, ma anche punti di forza. Così che, se imparassimo a conoscerle nel profondo, potremmo anche prevederne gli eventi.
Nel tempo ho pensato più volte a questo parallelismo, ho provato a leggere la storia collettiva con la stessa cura con la quale ascolto i ricordi di una persona, con curiosità e pazienza, empatizzando con le sue difficoltà e gridando vittoria di fronte a grandi rivoluzioni o cambiamenti di emancipazione.
Mi sono stupita nel ritrovare nella mia stessa vita dei tratti della storia italiana, come delle ferite collettive irrisolte che si ripropongono, e ho notato che la tendenza a sorvolare i problemi sia tanto del singolo quanto del gruppo, così che, come per i traumi personali, anche per quelli collettivi non basta un trattato per cancellarli e non ripeterli mai più.
Se a livello personale conoscere il passato ci aiuta a decifrare meglio il presente, a capire il bisogno alla base di certi nostri comportamenti che instancabilmente ripetiamo, e ci restituisce la libertà di agire e non essere solo passivi di fronte alle nostre emozioni, così, su scala maggiore, uno studio non superficiale della storia ci mette in condizione di decifrare la nostra percezione del presente e di essere consapevoli di fronte a esso.
La storia quindi, invece di essere un gigante immutabile, è un flusso continuo, un dialogo costante tra passato, presente e futuro. A seconda della visione che ho del passato cambia il modo in cui mi rappresento nel presente e come mi proietto nel futuro. Questo rapporto che instauriamo con lo scorrere del tempo è quello che l'antropologo storico François Hartog chiama "regime storico": acutamente egli nota che la nostra può essere definita epoca del Presentismo: distaccato sia dal passato, al quale non ci rivolgiamo più come la storia maestra, sia dal futuro, verso il quale non siamo più proiettati con fiducia positivista, il nostro pare essere più un presente onnipresente. Un appiattimento che nega la complessità degli eventi rinunciando a una lettura proficua del passato e a una progettazione di un futuro desiderabile.
In questo contesto ci arriva l'Appello per la resilienza e la speranza di Ikeda e Pérez Esquivel (www.sgi-italia.org), nel quale si «promuove una coscienza collettiva a partire dalla memoria della storia universale per far sì che non si ripetano le stesse tragedie».L'invito è allo studio non superficiale della storia, all'interiorizzazione delle dinamiche collettive alla base degli eventi, per poter agire su di essi nel presente, e non essere destinati a ripeterli, come il karma personale di ognuno.
Siamo chiamati ad alzarci e scegliere consapevolmente la direzione che vogliamo seguire prendendo il testimone da chi ci ha preceduto. A riguardo Arnold J. Toynbee scrive: «Non siamo destinati a far ripetere la storia; è possibile imprimerle, attraverso i nostri sforzi e in relazione alla nostra situazione personale, una svolta nuova e senza precedenti» (BS, 164, 8).
Ci viene chiesto di leggere il presente con una lente non illusa, con la consapevolezza che anche le peggiori tragedie non sono casi unici ma hanno alla base tendenze comuni a ogni essere umano. Per questo il punto di partenza è essere consapevoli che se vogliamo un mondo senza armi nucleari dobbiamo lavorare sul nostro disarmo interiore. Che se vogliamo un mondo senza razzismo dobbiamo iniziare a conoscere la nostra paura e il nostro pregiudizio. Così avanti per ogni macro-tema, il punto di partenza siamo sempre noi.
Può sembrare un'impresa più grande di noi ma la cosa positiva è che non solo abbiamo tutti gli strumenti per poter trasformare questa oscurità fondamentale, ma siamo anche gli unici a poterlo fare. (Valeria Rotili)

Possiamo scegliere il futuro se abbiamo uno sguardo chiaro sul passato

Pietro Trabucchi 
Resisto dunque sono 
Corbaccio, 2006, pp. 200, 14 euro



Tra le tante cose che ho letto per preparare questo speciale, il libro dello psicologo Pietro Trabucchi è uno dei testi che mi ha più colpito per chiarezza, praticità e concretezza. 
Attraverso la sua esperienza di coach sportivo in discipline di resistenza, Trabucchi racconta storie di persone comuni - agricoltori, cuochi, capitani d'industria - che affrontano le più incredibili sfide sportive attraversando di corsa deserti o scalando le vette più elevate del pianeta. E utilizza tali imprese per spiegare come costruire un'attitudine alla resilienza, a reagire di fronte alle difficoltà non solo sportive, a cambiare la percezione della vita e degli eventi, a non arrendersi. 
Quello che conta, scrive, non è tanto cosa ci accade ma il significato che attribuiamo a tale accadimento: le persone non sono stressate dagli eventi in sé, ma dal modo in cui li interpretano. Alcune visioni del mondo, in gergo "valutazioni cognitive", ci rendono più vulnerabili. A volte generiamo modelli del mondo lontani dalla realtà con lo scopo di salvaguardare l'ego dal senso di fallimento, capaci di proteggerci dalla sofferenza emotiva ma del tutto disfunzionali ad affrontare la vita. Mentre altri modelli che ci costruiamo sono maggiormente funzionali: ci fanno diventare più resilienti, ci aiutano a raggiungere obiettivi sfidanti e ci rendono meno vulnerabili allo stress. 
L'autore invita a vivere gli accadimenti negativi e difficili come temporanei impedimenti e a non estendere un singolo evento a tutta la nostra vita (permanenza) o a tutto il nostro essere (pervasione). A sfruttare le avversità per ampliare le nostre potenzialità, le nostre capacità, la nostra affinità con la tenacia e l'impegno. 
Scrive il campione olimpico di sci di fondo Cristian Zorzi nella prefazione: «Dietro la vittoria di un giorno c'è sempre una storia cominciata anni prima che parla di difficoltà superate quotidianamente per rincorrere un sogno che si è fatto da piccoli. Come gli insuccessi, le delusioni, gli infortuni, gli errori nella preparazione, i risultati che non arrivano, il non credere più in se stessi [...]. A me lo sport ha insegnato a soffrire, a combattere, a non mollare. Questa capacità - che tutti sappiamo esistere, ma che non sappiamo come attivare - oggi ha un nome preciso. L'ho imparato da questo libro: si chiama resilienza psicologica. Ho trovato estremamente interessante l'idea che la resilienza si possa costruire, allenare. E soprattutto insegnarla alle nuove generazioni». 
(Maria Lucia De Luca)

Quando cambiamo la lettura del mondo

Sono basate su reti informali, radicate in una profonda fiducia tra persone unite dal desiderio comune di affrontare e sanare circostanze difficili. La resilienza può fiorire quando nasce dal basso, come parte integrante delle relazioni che mediano la vita quotidiana degli abitanti di una comunità

LA SFIDA DELLA CREAZIONE DI VALORE

Dalla Proposta di pace 2014 di Daisaku Ikeda

Il termine resilienza è stato usato in diversi campi per esprimere la capacità delle società di riprendersi da gravi scosse, come una distruzione ambientale o una crisi economica. Nel caso dei disastri naturali, migliorare la resilienza significa rafforzare le capacità sotto ogni aspetto: dall'impegno per evitare e mitigare il danno, alle disposizioni di aiuto verso le persone colpite, fino al supporto al processo, spesso lungo e laborioso, della ripresa. A questo fine sono senz'altro importanti le politiche delle istituzioni, come il rafforzamento della resistenza sismica delle strutture e il rinnovamento delle infrastrutture. Ma l'elemento umano costituisce un fattore critico.
Come hanno scritto gli autori americani Andrew Zolli e Ann Marie Healy, «nei nostri viaggi, laddove abbiamo trovato una forte resilienza sociale, abbiamo trovato anche forti comunità».
E sottolineano che «le comunità resilienti spesso sono basate [...] su reti informali, radicate in una profonda fiducia, per affrontare e sanare il disordine.
Gli sforzi intrapresi per imporre la resilienza dall'alto spesso falliscono, ma quando quegli stessi sforzi sono parte integrante delle relazioni che mediano la vita quotidiana delle persone, la resilienza può fiorire».[ref]Andrew Zolli e Ann Marie Healy, Resilience (Resilienza), Headline Publishing Group, Londra, 2012[/ref]
Dobbiamo riconoscere l'importanza di alimentare quotidianamente il "capitale sociale" di interconnessione e le reti tra le persone che vivono in una località. Più di qualunque altra cosa, contano la volontà stessa e la vitalità della popolazione che vive nella comunità.
[...] La resilienza non va intesa semplicemente come la nostra capacità di prepararci e reagire alle minacce, bensì come realizzazione di un futuro pieno di speranza, radicato nel desiderio naturale delle persone di lavorare insieme a obiettivi comuni e di percepire in maniera tangibile il progresso verso tali obiettivi.
La resilienza dovrebbe essere vista come un elemento integrante del progetto, condiviso dall'umanità, di creazione del futuro, progetto al quale chiunque in qualunque luogo può partecipare, e che gettabasi solide per una società globale sostenibile.
[...] Per me questa è la sfida della creazione di valore: il processo con cui ogni persona, nel proprio rispettivo ruolo e con le proprie capacità, si impegna a creare quel valore che sta solo a lei realizzare per apportare beneficio ai concittadini, alla società tutta e al futuro.
[...] In tal senso, il pieno significato della rivoluzione umana non si realizza se essa rimane confinata a un cambiamento nella vita interiore. Al contrario, il coraggio e la speranza che sorgono da questa intima trasformazione devono mettere le persone in grado di affrontare e superare persino le realtà più insolubili, in un processo di creazione di valore che alla fine trasforma la società intera. Il costante accumulo di cambiamenti a livello individuale e collettivo traccia, per il genere umano, il percorso verso il superamento dei problemi generali che deve fronteggiare.
[...] La sfida della creazione di valore consiste nel collegare i piani micro e macro, l'individuo e la società, in modo da rafforzare la trasformazione positiva a entrambi i livelli. (BS, 164, 7-8)

Comunità resilienti e sostenibili

Grazie all'esperienza dei piccoli comuni che hanno scelto di attivare un progetto SPRAR (Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati), nel corso degli anni si è assistito a una crescita culturale e sociale di differenti contesti cittadini, che attraverso l'accoglienza hanno fatto un'esperienza di mondo, di incontro e conoscenza, mettendosi in gioco di fronte a questa nuova opportunità educativa.
Infatti, per essere portatore di percorsi di reciproca inclusione, il progetto SPRAR promuove interventi di accoglienza che siano parte integrante dei territori su cui nascono e si sviluppano. Questo vuol dire che interagisce con i territori - intesi come l'insieme di comunità cittadine, di amministrazioni comunali, di servizi locali, di opportunità e risorse - operando dei cambiamenti di differente natura: culturale, sociale, politica, economica, organizzativa.
I locali contesti sociali, economici e politici che hanno attivato un progetto SPRAR hanno potuto beneficiare di un'evoluzione che li ha resi più solidi e strutturati. Si sono stretti nuovi patti sociali tra cittadini autoctoni e rifugiati che hanno saputo vedere nei luoghi dell'accoglienza terre in cui restare e a cui contribuire. Le comunità locali hanno saputo accogliere le sfide di una trasformazione inevitabile e sovente l'hanno fatto collaborando per la promozione del bene comune e nel raggiungimento di scopi condivisi, a vantaggio dell'intera comunità cittadina. È fiorito, dunque, tra tutti, vecchi e nuovi cittadini, un senso di appartenenza ai territori e alle comunità che comporta il superamento del percepirsi ed essere percepiti stranieri, e finalmente essere parte integrante e non più estranei. Dal punto di vista delle pratiche di accoglienza dei migranti, riconoscere qualcosa come comune consente di (ri)appropriarsene e, in ultima istanza, superare la rigida contrapposizione tra "ospitati" e "ospitanti". Difatti, parafrasando le parole di un operatore, per tale via è possibile trasformarsi da ospiti a membri attivi nella propria comunità di residenza, offrendo altresì a quest'ultima la possibilità di adottare uno sguardo divergente su se stessa.
Sono molti i possibili esempi di esperienze concrete che hanno puntato sulla sinergia tra la cittadinanza e i rifugiati per ridare vita alla città:
 - l'ambito ecologico/ambientale, con la ristrutturazione e la valorizzazione di aree in stato di abbandono e di degrado, nell'ottica di un loro riutilizzo da parte dell'intera collettività;
 - il coinvolgimento, diretto o indiretto, delle famiglie degli alunni, con la possibilità di mantenere aperte scuole destinate a chiudere o con l'accompagnamento a piedi dei bambini nel tragitto casa-scuola a cura dei rifugiati in accoglienza;
 - l'abitare condiviso, o co-housing, che permette di costituire dei gruppi di convivenza di anziani autoctoni con giovani rifugiati per un supporto reciproco nel rispondere a bisogni differenti; il "condominio sociale" o "portierato sociale" nel quale persone in situazione di difficoltà (autoctoni e stranieri), a fronte di una riduzione del canone di locazione, dedicano in maniera volontariaalcune ore per servizi al condominio e ai suoi abitanti, come la mediazione di conflitti, l'accompagnamento ai servizi sociali o sanitari nel caso di presenza di situazioni di fragilità, piccoli servizi in situazioni di difficoltà (commissioni esterne per chi è impossibilitato a muoversi o non autosufficiente, baby sitting di emergenza, custodia delle chiavi nei periodi di assenza, ecc.); l'animazione di spazi comuni;
 - la rivitalizzazione di spazi abbandonati, promuovendo la coltivazione di prodotti a chilometro zero e sostenendo, al contempo, le famiglie bisognose del territorio attraverso la creazione di "orti sociali", frutto del lavoro congiunto tra rifugiati e cittadini in condizioni vulnerabili.
Un'esperienza di accoglienza ha una ricaduta positiva quando è connaturata alla società in cui si esprime, quando la società non può più farne a meno o produce un cambiamento da cui non si può tornare indietro, come quando i ragazzi in accoglienza sono diventati una risorsa, umana ed economica, per il territorio.
In una visione più generale, ri-conoscere e prendersi cura di un bene comune - intendendo per bene comune un progetto, un servizio, un luogo, addirittura un problema da affrontare o un obiettivo che riguarda tutti e tutte - ha ricadute di rilievo di ordine personale e sociale, creando occasioni di incontro e di condivisione che si trasformano in "cantieri di socialità". Si tratta di momenti in cui beneficiari e resto della cittadinanza testano la capacità di stare insieme, all'interno di un percorso strutturato di apprendimento e di scambio.

Quando l'accoglienza diventa rinascita

Come è difficile a volte parlare di resilienza. Quando tutto sembra non combaciare con quello che hai sempre desiderato e sperato per la tua vita e quella di chi ti circonda.
Durante lo storico Corso giovani della Soka Gakkai europea, svoltosi in Giappone dal 28 novembre al 4 dicembre 2018, ho avuto la possibilità, insieme ai miei compagni di viaggio, di visitare alcuni Centri culturali del Tohoku, la regione dello tsunami del 2011.
Io sono stata a Fukushima, la città dove in seguito allo tsunami esplosero quattro reattori nucleari, un disastro della portata dello scoppio della centrale europea di Cernobyl.
Quando si incontrano persone che hanno vissuto simili catastrofi sembra difficile trovare un punto di contatto con la propria semplice quotidianità. Ma i membri del luogo, che ci aspettavano alla stazione sotto la pioggia, ci hanno accolto come amici fraterni che non vedevano da anni.
Un'esperienza cruciale è stata la visita al museo dedicato alla "ricostruzione" della zona, che basa la sua economia sull'agricoltura e che in seguito al disastro ha subìto gravissimi danni. Nel museo si respira un'atmosfera di grande dignità: sentire che si può sostenere una sofferenza come la perdita dei propri cari e della casa con tale nobiltà e forza è stato molto toccante.
E mi ha colpito tantissimo vedere cosa è effettivamente stato fatto per la ricostruzione. Un esempio: dal raffronto tra le mappe delle zone "rosse" toccate dalle scorie radioattive dal 2011 al 2018, si evince che la percentuale si è ridotta del 71%. Ho pensato a quanto la nostra società oggi abbia bisogno di credere che tutto si trasforma, che un paese non puòpermettersi di far vivere per decenni degli esseri umani con le conseguenze di un evento catastrofico, che la resilienza passa dalla convinzione lungimirante che l'umanità sia nata per vivere felicemente e dignitosamente.
Al Centro culturale di Fukushima abbiamo poi partecipato a una riunione con 650 membri giapponesi che ci hanno accolti con una cura, una gioia, un entusiasmo mai sentiti prima. Loro, che ai miei occhi sono eroi ed eroine che incarnano perfettamente il loto che emerge dalla melma di un disastro tristemente storico, chiedevano a noi un incoraggiamento e il racconto del nostro personale legame con il maestro Ikeda.
Non eravamo lì solo per ricevere ma anche per dare! È stato uno dei regali più preziosi che questi fratelli e sorelle giapponesi mi hanno donato con la loro vita.
(Elisa Menchicchi)

Tohoku: una ricostruzione da record

Come reagire in maniera concreta ai problemi che da anni imprigionano la capitale? Un gruppo di giovani dai 16 ai 22 anni ha risposto creando una realtà editoriale rivoluzionaria sostenuta da iniziative sociali, culturali e ricreative per ridare vita alla loro città (www.leggiscomodo.org)

Domenica 20 gennaio 2019 ore 16.30. È un pomeriggio buio e piovoso. L'appuntamento con un gruppetto di giovani della Soka Gakkai è presso lo spazio romano autogestito Spin Time Labs dove ha sede Scomodo, una rivista mensile realizzata da un gruppo di ragazzi e ragazze del liceo e dell'università che aspirano a «inaugurare un nuovo modello culturale su cui si possa fondare un modo di intendere la città che la renda diversa e più viva». Rivista di alto profilo sia nei contenuti che nella grafica, fonda il perseguimento di tale qualità su «un lungo processo collegiale basato sulla discussione e il libero scambio di idee».
In rappresentanza della redazione troviamo Emilio, di 17 anni, Giacomo e Laura di 16, Marta di 20 e Michele di 20. Per la Soka Gakkai partecipano Flavia di 18 anni, Arianna di 19, Lucrezia di 22 e Andrea di 25.

Buddismo e società: Siamo molto felici di incontrarvi. L'idea coraggiosa di realizzare, in questo momento storico, un giornale cartaceo, e l'iniziativa che avete creato intorno ci incuriosiva, ci sembrava una sfida importante. E volendo poi parlare di resilienza abbiamo pensato a voi, al progetto di Scomodo, che è qualcosa di davvero resiliente.
Emilio: Anche per noi questo incontro è una bella occasione per ampliare sempre di più le nostre prospettive. Quando è stato letto il vostro invito, nella nostra riunione plenaria, ha riscosso un ottimo successo.
Andrea: Potremmo partire da un punto comune e riscoprirlo in base al proprio vissuto. C'è un motivo per cui voi, invece di fare altro, decidete di impegnarvi in questo progetto. C'è un senso di dedizione simile a quello che noi della Soka Gakkai mettiamo nell'attività che facciamo all'interno della nostra associazione buddista. Il punto comune può essere vivere con un senso di missione inteso come: sto facendo questa cosa perché ci credo, attraverso le mie azioni desidero realizzare un ideale. Che è una cosa rara, tra le nuove generazioni. Creare un momento di dialogo e di confronto è bello perché vedi che anche altre persone, in un'altra ottica, vivono con questo senso di dedizione. Vogliamo confrontarci su questo? Vogliamo ripartire dal concetto di resilienza?
Emilio: Noi è da due anni che, grazie alla resilienza e all'impegno, resistiamo e continuiamo a stampare Scomodocon sempre più voglia, pubblico e abbonati. Affrontando onori e oneri, legati ai costi di stampa e ai costi di gestione, alle difficoltà nel portare avanti tutte le altre iniziative reagendo di fronte a chi ci scoraggia, nel curare la partecipazione dei nostri membri e di ospiti esterni. Costi in termini di tempo, risorse e fatica.
Lucrezia: Io nella Soka Gakkai sono stata abituata a far parte di una comunità che agisce per portare avanti degli ideali. Sfogliando i vostri giornali ho visto proprio questo. E mi ha incoraggiato tanto. Credo che in questo momento ci sia la necessità di unirci e creare punti di amicizia come questo attraverso un dialogo sincero. Per capire insieme quali azioni compiere per portare il cambiamento. Mi piacerebbe sapere come e da cosa siete partiti.
Emilio: La nostra motivazione era intervenire nel concreto rispetto alle carenze che vedevamo in questa città. La mancanza di attività culturali, di sbocchi. La scarsa partecipazione, non solo nell'ambito più prettamente politico, civile, sociale, ma anche in quello ludico, artistico. Così dal desiderio comune di dare una svolta a questa società inerte, ad agosto del 2016 è nata l'idea di creare un giornale. Perché cartaceo? Perché attraverso la carta la nostra idea è trasmettere, in modo totalmente gratuito, valori, pensieri, informazione in maniera approfondita, lenta. E arrivare a tutti. Il giornale, che ha una tiratura di 7500 copie, viene distribuito in tutta Roma negli 80 "punti Scomodo", e ora anche fuori.
Inoltre Scomodo affianca all'attività prettamente editoriale iniziative come "Le notti scomode", eventi organizzati negli spazi abbandonati della città a seguito di un lavoro di riqualifica, e altre manifestazioni di autofinanziamento che collegano chi fa il giornale a chi lo legge e lo sostiene.
Buddismo e società: Nello speciale riportiamo un brano in cui si sottolinea che le comunità resilienti si basano su reti informali che si costruiscono dal basso. Anche voi siete nati dal basso.
Emilio: Sì sì, assolutamente. La spinta è venuta dal basso, tutto è partito da noi. Il progetto non è stato né imposto né consigliato. È stata una scelta spontanea, indipendente, all'inizio di una dozzina di persone che poi sono aumentate. Non c'è mai stato nessuno a capo di Scomodo, che ci indirizzasse o ci dicesse cosa fare, come dirlo, su quali canali andare. Siamo sempre noi, che da soli ci impegniamo ognuno con i suoi punti di forza. Chi è bravo in qualcosa se ne occupa. Ad esempio noi tre (Emilio, Laura e Giacomo) siamo nel gruppo di community care, che ha il compito di mantenere dei buoni rapporti all'interno della nostra community, il nostro pubblico, i nostri abbonati, e ognuno riesce a dare il meglio di sé.
L'impronta di Scomodoè quella di essere una realtà aperta. Quindi se io leggo un articolo e mi interessa posso scrivere alla redazione e anche partecipare attivamente alle riunioni e al progetto. In questo modo l'organico si è ampliato sempre di più. L'anno scorso abbiamo raggiunto il nostro picco di più di 100 persone attive nella realizzazione del progetto.
Arianna: Quando ho visto la vostra rivista, che non conoscevo, mi sono resa conto che voi, agendo nel concreto e mettendo in atto i vostri ideali, siete la manifestazione della speranza che il nostro maestro Ikeda nutre nei confronti dei giovani. Noi della Soka Gakkai ci sforziamo ogni giorno di portare i nostri ideali nel quotidiano per aprire il cuore delle persone, incoraggiandole a non restare passive ma ad agire per cambiare la situazione. Tutto sta nella determinazione, e voi dimostrate davvero una grande determinazione nel portare avanti questa bellissima iniziativa che penso arriverà al cuore di tantissime persone.
Andrea: Quando ci si dedica a un'attività basata su un ideale che si cerca di applicare nel quotidiano, succede che si fa anche una grande crescita personale. Per noi della Soka Gakkai la modalità più concreta di costruire delle relazioni armoniose è quella di organizzare incontri di dialogo, che si chiamano zadankai, dove le persone possono liberamente confrontarsi sui loro problemi di vita quotidiana e incoraggiarsi a vicenda. Sono riunioni aperte in cui sulla base della filosofia del Buddismo ci si confronta su come si sta agendo nel piccolo, nella propria quotidianità. In realtà organizzando queste riunioni si incontrano tantissime persone, si impara a fare cose mai fatte prima, c'è un grandissimo arricchimento personale. Sentite di essere cresciuti portando avanti le attività di Scomodo?
Marta: Al di là dell'ambito editoriale io penso che, come dice Andrea, in Scomodoci sia l'aspetto, oggi raro, di un gruppo di gente che lavora per un obiettivo comune. Già solo per questo vale la pena prendersi un impegno dedicandovi tempo ed energie. Molte persone, soprattutto all'inizio, si evolvono nel rapportarsi agli altri. E imparano anche cose pratiche. Per fare un esempio banale: a mettere a posto la sede. Io nella vita di tutti i giorni non maneggio calce e mattoni, non spalo i calcinacci. E nemmeno mi piace. E invece mi sono messa a farlo perché serve per l'obiettivo comune. Ed è stata un'esperienza che mi ha fatto crescere.
Buddismo e società: Anche noi, quando abbiamo avuto la prima sede della Soka Gakkai a Roma, abbiamo spalato calcinacci...
Emilio: È eccezionale avere ragazzi e ragazze che attraverso il giornale lavorano e imparano una vera e propria professione: giornalisti, fotografi, grafici, illustratori. Questa è proprio la crescita personale di cui parlavi: io dopo un anno di Scomodoposso aver imparato a spalare i calcinacci o a organizzare il lavoro di venti persone, a scrivere una mail, a utilizzare il computer per impaginare una locandina, a scrivere un articolo oppure a disegnare la copertina di un numero.
Michele: Il fatto di avere finalmente una sede è importantissimo per il nostro sviluppo. Vogliamo portare tantissime persone a lavorare e a formarsi in una sede di un giornale fatto dai giovani, nato dal nulla, che si è sempre sostenuto da solo. Siamo una realtà unica.
Marta: Per esempio ora io mi sto occupando di social. Sto collaborando con due persone di quasi quarant'anni che lo fanno proprio di mestiere. E che volontariamente, senza essere pagate, ci aiutano. Questa esperienza mi sta formando, sto imparando come funziona la comunicazione. Quindi acquisisco strumenti anche per un futuro lavorativo.
Buddismo e società: Giacomo, come mai ti sei avvicinato a Scomodo?
Giacomo: I primi numeri di Scomodoli hanno distribuiti nella mia scuola e il progetto mi è piaciuto un sacco. Poiché non amo molto studiare, invece di stare a casa a guardare il muro preferisco venire a Scomodoa levare i calcinacci. Sono contento se faccio una cosa che mi piace e che dà una mano anche agli altri. Per organizzare una "notte scomoda" ho passato una settimana a buttare via batterie delle macchine.
Buddismo e società: E tu Laura?
Laura: Penso che oltre a essere un progetto che ti mette in relazione con persone e realtà diverse, può farti sperimentare cose che altrove non puoi fare. Io peresempio ho scritto una volta un articolo. E non avrei mai pensato di farlo perché non mi interessa intraprendere questa professione. Ma è stata un'occasione in cui ho potuto provare una cosa che altrimenti non avrei fatto. Perché è molto difficile, anche a scuola, provare a fare qualcosa di diverso, a esplorare nuovi territori, ad andare oltre quello che ti impongono.
Flavia: Io mi sono presa un po' di tempo per sentire cosa avevate da dire, perché non conoscevo Scomodo. Mi piace molto, infatti vorrei portarlo nella mia scuola. Da poco ho studiato le rivoluzioni del '68 e ho fatto una ricerca sul giornale La zanzara (il periodico del liceo Parini di Milano che nel 1966 pubblicò un'inchiesta sull'educazione sessuale e i rapporti prematrimoniali che segnò simbolicamente l'inizio del movimento studentesco, ndr). Ho pensato: wow, hanno fatto questo tanti anni fa, con molte più difficoltà rispetto alle nostre, e mi sono chiesta: di tutti gli sforzi che hanno fatto loro, noi che cosa ne facciamo, concretamente? Onestamente siete ammirevoli. La nostra società è molto passiva per quanto riguarda la politica, le idee. E invece noi giovani abbiamo il compito di trasmettere alle persone più grandi quello che pensiamo. Voi avete un grande coraggio a scrivere su carta, e anche bene, quello che pensate. Perché affrontate temi difficili. Parlare di politica, di temi attuali, è una sfida.
Creare legami di amicizia, come stiamo facendo ora, è fondamentale perché penso che anche chi non fa parte di Scomodo, o di un'organizzazione come la nostra che si occupa di promuovere la pace e i diritti umani, sotto sotto vuole vivere bene, tutti vogliamo la pace, tutti vogliamo che si superino i conflitti sociali. Chi fa già parte di queste associazioni è un punto di speranza per tutti. Voi state tirando fuori la vostra voce, e in qualche modo date anche voce a chi vi legge.
Buddismo e società: il 6 giugno scorso è stato presentato a Roma l'Appello ai giovani del mondo per la resilienza e la speranza, di Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale, e Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace. Un appello che stiamo diffondendo e che desideriamo diventi una base di dialogo per creare iniziative insieme. Quindi vorrei consegnarvelo.
Andrea: Secondo me questo messaggio stimola chi si sta impegnando nel proprio piccolo a fare uno zoom all'indietro. Vorrei leggerne un brano: «Noi riteniamo che, per le società contemporanee e future, sarà estremamente importante che i giovani si uniscano e assumano l'impegno, insieme ai popoli, di difendere la dignità della vita, di combattere le ingiustizie, di condividere il cibo che nutre il corpo e lo spirito, e la libertà, per inaugurare una nuova alba di speranza».
Io immagino uno di noi o di voi che passa tanto tempo concentrato nell'organizzazione delle varie attività. Quando fa questo zoom all'indietro si accorge che sta facendo tutto questo per un obiettivo su larga scala e riacquista tanta energia, tanto coraggio.
Nella Soka Gakkai organizziamo questi incontri di dialogo perché riteniamo che dare alle persone uno strumento per intraprendere un percorso spirituale, per affrontare in totale autonomia le proprie tendenze negative, in realtà fornisce una solida base per il cambiamento strutturale che si vuole realizzare nella società. Perché se si realizza una società che strutturalmente è senza contraddizioni ma poi le persone si lasciano andare senza uno strumento per affrontare le loro tendenze, allora anche la società più perfetta potrà ricadere nei vecchi circoli viziosi. Dopo questa lunga premessa: come inserite quello che state facendo in una riflessione più ampia sulla società?
Emilio: Noi partiamo da quello che abbiamo, cioè il giornale. E quindi la motivazione è quella, come dicevo prima, di regalare informazione e cultura a tutti. Il nostro è un impegno su vari fronti sociali: sentendo il vuoto e il poco colore che c'era nella nostra società, abbiamo cercato di creare un cambiamento.
Lucrezia: Mi colpisce molto questo senso di comunità. Siamo abituati ad andare avanti da soli. A pensare alle nostre cose senza avere chiaro il senso di comunità che ci lega agli altri. La cosa che invece mi arriva oggi qui con voi è il fatto che ognuno di noi è diverso, ha una sua missione, come si dice nel Buddismo, ma possiamo dialogare, aiutarci e sostenerci mettendo in evidenza le peculiarità di ognuno e ognuna.
John Stuart Mills, che ho studiato l'anno scorso, diceva che per ridare vita e spessore alla società è importante concentrarsi e valorizzare le peculiarità di ogni soggetto.
Condividere una visione ampia e a lungo termine insieme agli altri è davvero importante.
Marta: Sì, partiamo davvero da basi comuni. C'è questo senso di collettività, di un obiettivo condiviso da raggiungere insieme. E poi anche voi avete spalato i calcinacci...
(A cura di Maria Lucia De Luca)
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L'avventura resiliente di Scomodo

Nato a Monza nel 1942, Umberto Galimberti ha insegnato in varie scuole di ordine e grado fino a ricoprire dal 1999 la cattedra di Filosofia della storia e Psicologia dinamica all'Università Ca' Foscari di Venezia. Tra i suoi libri, quasi uno all'anno dal 2000, affronta il tema delle nuove generazioni in L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (2007), Giovane, hai paura? (2014) e La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo (2018), raccolta di lettere che il filosofo riceve per la rubrica che tiene ogni sabato su "D", inserto di Repubblica. «Dopo aver letto queste lettere - scrive - dico agli adulti: imparate dai giovani, scoprite e apprezzate le parole che hanno dentro, e la forza che li anima nonostante tutto». E, come un insegnante burbero e lungimirante, risponde parlando di amore («unico antidoto alla razionalità sempre più totalizzante della tecnica e del mercato»), di sogni e utopie («l'unico dovere etico a cui richiamerei i giovani è quello di non rinunciarvi»), di futuro («su di voi ricade la possibilità, e in qualche modo anche l'opportunità, di inventare un altro mondo»), di formazione («i giovani che insistono nella loro formazione, e non si lasciano scoraggiare dalla massa dei coetanei che con la scusa della crisi non si impegnano, vincono») e di valori («non siete nati in un prato verde dove tutti i fiori possono fiorire, ma in una cultura che ha misconosciuto il primato della comunità rispetto ai singoli individui e spezzato il vincolo di continuità tra le generazioni»).
Con un'informazione ai neo naviganti: «Sembra che la vita preferisca chi ha incontrato se stesso a chi ha evitato di farlo per vivere al sicuro in una casa protetta».

Buongiorno professore, si ricorda della nostra intervista a proposito dei giovani e della resilienza? 
Non li sopporto io i giovani, non li posso più vedere questi nullafacenti... Lei ride ma io piango. Resilienza poi è una parola che non uso mai, non voglio sentirla neanche. Che vuol dire: coraggio, aver voglia di fare? Perché dobbiamo usare queste parole che nessuno capisce?

Condivisibile. Infatti, come lei scriveva, «da qualche anno si parla di "resilienza", una volta si chiamava "forza d'animo", Platone l'aveva ribattezzata tymoidés, sentimento, cuore, saggezza emotiva». Per lei cos'è?
Sì appunto, va benissimo forza d'animo. Per Platone era il coraggio, che è la stessa cosa. Perché introduciamo parole tecniche nel tentativo di diventare scientifici?

Nel suo libro La parola ai giovani parla di nichilismo attivo. Che nesso c'è tra questo e la forza d'animo?
Per generazione del "nichilismo attivo" intendo quelle persone che non negano di essere in un'età nichilista. Come quella contemporanea, in cui il futuro appare come una minaccia o, perlomeno per i giovani, imprevedibile.
E quando il futuro è imprevedibile, agisce come funzione demotivante. Perché devo lavorare? Perché devo studiare? Perché devo impegnarmi? Fino a chiedersi: «Perché devo vivere?».
I nichilisti attivi prendono atto di questa realtà, a differenza di quelli che la rimuovono e pensano che il futuro porti rimedio a tutti i mali. Partendo dalla situazione attuale, i ragazzi e le ragazze con cui dialogo nel libro hanno una grande forza ironica (l'autoironia è la precondizione della tolleranza. È importante che ognuno tratti le proprie idee come idee possibili e non come dei dogmi) che muove dalla consapevolezza che il futuro è, per ragioni biologiche, comunque loro. E perciò si danno da fare. Si muovono con una grande attenzione ai dati di realtà, in relazione ai quali misurano i loro sogni.

Chi sono questi giovani nichilisti attivi?
Per me sono il dieci per cento dei ragazzi e delle ragazze di oggi. Sono quelli che s'impegnano, non rinunciano, non si rassegnano. In una parola, che hanno forza d'animo. Mi raccomando scriva il dieci per cento, perché il novanta per cento è già perso nella violenza delle curve degli stadi o di alcune manifestazioni di piazza.

In concreto cosa sentono, come vivono? 
La gran parte vive all'estero, perché in Italia non ci si può esprimere e tanto meno realizzare. Purtroppo le cose sono così, lo sappiamo benissimo. Poi non si fidano dei loro insegnanti e dei loro genitori. Alla mia richiesta «perché le domande le fate a me e non a loro?» rispondono «perché sappiamo già cosa ci possono dire». Gli adulti si devono rendere conto che sono degli estranei per i loro figli che vivono sui social, rispetto ai quali i primi non hanno la più pallida idea di come funzionino. A differenza dei vecchi, infatti, che danno consigli sulla base della loro esperienza (che è poi il modo più subdolo per far passare il concetto che la vita che loro hanno vissuto è la migliore possibile e quindi non vale la pena cambiarla), i giovani hanno la vita davanti e non devono consegnarla a un'esperienza altrui, perché l'unica esperienza che insegna è la propria.

Perché di lei invece si fidano?
Perché hanno capito che non voglio trasmettere loro la mia esperienza ma li posso ascoltare. Quanti sono gli adulti che li ascoltano? Gli adulti o predicano ai giovani o predicano sui giovani, ma non prestano loro attenzione.

C'è qualcuno di quelli che le hanno scritto che le è rimasto più impresso?
Tanti, tutti. Per esempio la ragazza di terza media, che quando arriva in classe il rappresentante del Provveditorato e dice: «Sono italiani solo quelli che hanno mamma e papà italiani», pensa: «Oddio, allora qui si parla di me» avendo lei il papà inglese. E poi mi scrive: «Anche la mia vicina di banco però ha la madre algerina e il papà tunisino. Allora facciamo così: io sono straniera con la s minuscola e lei con la S maiuscola». Questo vuol dire forza d'animo, ironia, non prendere sul serio le parole degli adulti!

Lei scrive che è la forza d'animo a farci fare scelte che coincidono con noi stessi evitandoci gli "altrove" della vita che spesso imbocchiamo perché altri ce lo chiedono. Come si fa a metter fine alla guerra tra noi e noi stessi? 
Questo non è un problema solo dei giovani, è una questione anche degli adulti. In ogni caso bisogna rinunciare alla categoria cristiana di perfezione. Perché perfectum significa "finito", ossia che non c'è più niente da fare. Invece nella vita bisogna essere rotondi. Vale a dire accettare anche la nostra Ombra che è quella che se qualcuno ce la tocca diciamo che siamo stati punti sul vivo. Il vivo è la parte negativa che noi stessi non vogliamo assumere come componente della nostra personalità. Personalmente io l'accetto su tutta la linea. Ne sono diventato amico. Anzi me ne compiaccio. Quando qualcuno mi fa un'osservazione negativa io gli rispondo: «Ebbene sì, io sono anche questo. E allora?». Non me la nascondo l'Ombra, la faccio vedere a tutti. Soprattutto nella forma dell'ira (il riferimento è anche al tono indignato della nostra conversazione, n.d.r.).

Un insegnamento utile a tutti, in effetti.
Sì, ma forse il giovane lo possiamo esonerare perché ha un altro lavoro da fare che l'adulto ha già fatto: la costruzione dell'Io, struttura psichica fondante. Non possiamo costruire un Io se non in presenza di grandi ideali. Infatti i giovani hanno sempre un'idea di assoluto, di perfezione. Ed è giusto che a quell'età sia così perché devono costruire un Io solido. Non possono contaminarlo subito con la propria parte negativa. Costruire l'identità è un lavoro impegnativo che si fa nell'adolescenza e nella prima giovinezza e l'Io per solidificarsi non può incominciare il lavoro d'interazione con l'Ombra, cosa che può anzi deve fare quando l'Io è già costruito. Ma non prima...

Come si costruisce l'Io?
Elaborando ciò che ci accade nella vita attraverso l'esperienza. Oggi purtroppo con la comunicazione informatica si reagisce emotivamente alle informazioni e agli stimoli del mondo e non si elabora più niente. Quando costruisci il tuo Io allo stesso tempo conosci te stesso, la tua vocazione, il motivo per cui sei nato, qual è la tua capacità, quello che i Greci chiamavano il tuo daimon. E se lo realizzi raggiungi l'eudaimonia, la buona riuscita del tuo "demone". In una parola: la felicità.

Quali sono gli ostacoli a questa realizzazione?
Tutto il mondo è un ostacolo, perché nell'età della tecnica non siamo chiamati a realizzare noi stessi bensì gli obiettivi dell'apparato di appartenenza. Vale a dire che se, per esempio, lavoro in banca, non sono un bravo funzionario se non vendo i derivati imbrogliando le vecchiette. Il valore del denaro oggi è assunto a unico generatore simbolico di tutti i valori: la cultura è apprezzata se vende, il mondo delle relazioni è coltivato solo se garantisce un qualche vantaggio economico o di prestigio. Al contrario penso che lo scopo della vita sia la vita stessa, e non la vita in funzione degli scopi da raggiungere, inganni tipici di chi ha già smarrito il piacere della vita. Non accelerate il tempo, cari giovani, non ammazzatelo. È il dono che la vita ci offre per assaporare l'esistenza.

Parlando ai giovani scrive: «In ogni caso non scoraggiatevi perché il futuro, se non altro per ragioni biologiche, è vostro». 
Sì, io credo molto nella biologia. Sono anche convinto che la paura che abbiamo degli immigrati è perché sospettiamo che siano biologicamente più forti di noi. Noi non ce la faremmo a resistere tre anni per attraversare il deserto o due a prendere botte nelle prigioni libiche, a salire su una barca senza la certezza di non affondare. Abbiamo paura della loro biologia, che è più forte.

Temiamo anche la biologia dei giovani?
In generale non li amiamo tanto. Gli operatori del mercato, che li conoscono meglio dei loro genitori, cosa comprano dei giovani? Bellezza e forza che sono le cose che i ragazzi hanno da vendere. Inoltre hanno il massimo della potenza sessuale, ma il nostro sistema non gli consente di mettere al mondo un figlio a 15 anni. Devono aspettare 35-40 anni con conseguente calo demografico. Senza contare che posseggono il massimo della potenza ideativa. A 13 anni Mozart suonava davanti a preti e principi, a 21 Leopardi scriveva L'infinito, a 24 Einstein ha scoperto la sua formula. Quelli che hanno inventato Google e Facebook l'hanno fatto dai 20 ai 30 anni in un garage.
Mentre in Italia ai giovani facciamo fare le fotocopie o il lavoro in affitto.
(Monica Piccini)
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Non consegnate la vita a un'esperienza altrui

Non significa solo saper superare le difficoltà: la resilienza è l’abilità di utilizzare gli eventi avversi per scoprire in sé potenzialità nuove e inesplorate.

Invincibili (la forza della resilienza)

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