Come un falco che vola alto nel cielo e guarda giù verso il mondo,
chi è nello stato di collera si crede sempre superiore a chiunque altro
e non può sopportare l’idea di essere inferiore ad alcuno.
Sminuisce e disprezza le altre persone ed esalta se stesso.
Non desidera imparare dagli altri e non è capace di riflettere su di sé.
Chi nasconde la propria vera intenzione è nel mondo di collera.

Avidità. Stupidità. Collera.
Per il Buddismo,
tre stati vitali che fanno la nostra
e l’altrui infelicità.
Tre veleni che sono parte della vita,
che possiamo imparare a riconoscere
e a contrastare.

&nbsp;

Il veleno della collera

di Maria Lucia De Luca

Guerra, carestia, epidemia: queste grandi calamità colpiscono le popolazioni quando, come scrive Nichiren Daishonin, «le persone voltano le spalle a ciò che è bene e seguono ciò che è male». Sono l’avidità, l’animalità e la collera - gli stati vitali da cui sorgono le illusioni e i desideri terreni - il motore primo di tali sciagure su vasta scala. Ma proprio la sofferenza causata dai tre veleni può diventare “legna da ardere” per ottenere il fuoco dell’Illuminazione: imparando a trasformare se stessi e aiutando gli altri a fare lo stesso. Questa è la sola strada per costruire una società pacifica

«Dobbiamo saper riconoscere in quale stato o condizione si trova il sé quando provoca guerre o distruzioni dell’ambiente, come anche quando opera per la pace e la fratellanza. Questo, credo, è il primo passo per estirpare le cause del male che comportano lo sprezzo della vita umana e la negazione del diritto di vivere di ogni persona». Partire da se stessi, dal cuore dell’essere umano. Queste parole di Daisaku Ikeda, tratte dal libro La vita mistero prezioso, risuonano quanto mai illuminanti e chiarificatrici della direzione verso cui indirizzare i propri sforzi all’indomani dell’immane attacco terroristico che l’11 settembre 2001 ha colpito gli Stati Uniti gettando l’intera umanità nel buio dell’angoscia e della confusione. La vita è potente, nel bene e nel male, nella costruzione e nella distruzione. Dipende da come la indirizziamo. «La forza vitale insita nella nostra vita – continua Ikeda – ci procura la volontà di vivere, i desideri istintivi e la capacità mentale di condurre un’esistenza umana. Impariamo ad amare, cerchiamo la conoscenza, siamo sopraffatti dalla passione. Oppure possiamo incamminarci nella direzione opposta, verso l’aggressività, la distruttività e la gelosia. In entrambi i casi c’è una forza vitale che agisce dentro di noi e che tesse l’ordito delle nostre vite».
Tutto dipende dall’atteggiamento individuale. Ricardo Diez Hochleitner, presidente del Club di Roma fondato da Aurelio Peccei, sostiene: «Noi diciamo che la Terra è malata, ma il vero problema è che sono malati gli esseri umani». La sfiducia delle proprie capacità di incidere sulla realtà, la sensazione di impotenza di fronte alle proprie sofferenze e a quelle della società sono atteggiamenti che portano a chiudersi, a diminuire sempre di più lo stato vitale, all’atrofizzazione della speranza. «Il danno maggiore della guerra – scrive Ikeda – consiste a mio parere nel fatto che distrugge il naturale desiderio dell’essere umano per la pace. Chiunque desidera vivere in pace la propria vita. Ma quando sopraggiunge la guerra, essa seppellisce il naturale impulso verso la pace nel fango del dubbio e della paura».

Guerra, carestia, epidemia
Queste sono le tre grandi calamità che secondo il Buddismo colpiscono i popoli quando, come scrive Nichiren Daishonin nel suo trattato Rissho ankoku ron, «le persone voltano le spalle a ciò che è bene e seguono ciò che è male».
Tutte e tre causano morte, negano o distruggono la vita, perché la guerra porta morte (più di trenta conflitti in atto oggi nel pianeta), la carestia porta morte (nel mondo muoiono di fame ventiquattromila persone al giorno), l’epidemia porta morte (19 milioni di persone morte di AIDS dalla comparsa del virus alla fine del 1999).
Quali condizioni vitali arrivano a provocare tali stragi? Il Buddismo le definisce “tre veleni”, perché inquinano e corrodono gli esseri umani nel loro spirito più profondo. Corrodono e inquinano la loro umanità e hanno una radice comune, che è la causa fondamentale dell’infelicità: l’oscurità innata o ignoranza della Legge che permea e regola l’universo in ogni suo fenomeno o manifestazione. Sono l’avidità, l’animalità e la collera, i mali caratteristici della vita, le sorgenti delle illusioni e dei desideri terreni. La collera porta alla guerra, l’avidità alla carestia, l’animalità – o stupidità, nel senso di pura istintualità – all’epidemia.
«La nostra società – scrive Daisaku Ikeda ne I protagonisti del XXI secolo (Esperia, 1998, p. 129) – è piena di persone che si consumano nel mondo della collera, in balia di un’avidità sfrenata e dell’animalità, prendendosela con i più deboli e adulando i più forti. Queste tendenze negative hanno costruito una società che discrimina e ignora i diritti umani». Non solo: così come distruggono le relazioni umane individuali hanno un effetto deleterio sulle relazioni internazionali, tra un paese ed un altro.
I tre veleni sono stati d’animo legati alla sfera istintiva ed emozionale che nascono in relazione a specifici oggetti, fenomeni e situazioni, e ne vengono fortemente influenzati. I primi due sono addirittura considerati quasi subumani: l’avidità infatti è definita “mondo delle anime affamate” e l’animalità “mondo delle bestie”; la collera è invece rappresentata da esseri giganteschi, i mostruosi ashura, a indicare arroganza e volontà di prevaricazione.
Il Buddismo spiega che i tre veleni sono anche la sorgente delle malattie mentali, definite come l’azione dei “diavoli” interni, quelle tendenze interiori che provocano la disarmonia della mente. “Diavolo” viene usato come l’equivalente italiano del sanscrito mara, che letteralmente significa “ladro di vita” o “distruttore”, ed è la personificazione delle funzioni negative caratteristiche della vita. 
«Il veleno dell’avidità – scrive ancora Ikeda (I misteri di nascita e morte, Esperia, 1998, pp. 84-85) – provoca l’esplosione di innumerevoli desideri terreni e prosciuga così la nostra innata forza vitale. L’avidità dirige i cinque organi di senso alla ricerca di ricchezza, amore, cibo, fama, ozio e così via. Quando la nostra vita è dominata dall’avidità, tutta la nostra energia vitale è incanalata verso l’oggetto del nostro desiderio e noi ci indeboliamo, proprio come se venissimo dissanguati. La verde terra della nostra vita si trasforma nella terra desolata e riarsa del mondo di avidità. La collera disturba l’armoniosa relazione tra le profondità del nostro essere e la superficie della nostra mente, e questa disarmonia può assumere proporzioni colossali e distruggere alla fine la nostra stessa vita. […] La stupidità ci priva della nostra umanità lasciando attivi soltanto i nostri desideri istintivi, che non creano alcun impulso verso la crescita e il miglioramento. […] L’ozio indotto dalla stupidità è caratteristico del mondo di animalità».

Desideri e illusioni
I tre veleni, insieme all’arroganza, al dubbio e alle opinioni distorte costituiscono i sei desideri terreni fondamentali, da cui si originano quelli derivati. L’avidità, ad esempio, genera avarizia, autoindulgenza, senso di colpa, disonestà e adulazione; la collera provoca risentimento, odio, irritazione, invidia, gelosia e l’impulso a fare del male agli altri esseri viventi.
Desiderio e illusione nel lessico buddista sono quasi sinonimi, nel senso che i tre veleni generano i desideri, che a loro volta generano le illusioni. Le illusioni impediscono di percepire la realtà per quello che veramente è e quindi creano sofferenza. «L’illusione sulla vera natura della vita – scrive Ikeda (ibidem, p. 86) – ha il devastante potere di precipitare la nostra vita nella totale oscurità, privandoci della luce della compassione e della saggezza. È la più significativa e conduce all’autodistruzione. […] Si manifesta con l’impulso a uccidere e a distruggere, o col desiderio ancora più selvaggio di sacrificare gli altri provando persino piacere nel farlo».
Viene in mente la sequenza di foto pubblicata nei giorni scorsi su un quotidiano italiano, dove si vedono alcune inquadrature di Manhattan riprese dal ponte di Brooklyn. In meno di due ore i simboli della città e forse dell’Occidente, le Torri gemelle alte centodieci piani, non ci sono più. Seimila morti. Così è “scomparsa” Hiroshima, in pochi minuti. Così in poche ore l’anno scorso sono morti tutti i pesci e tutte le piante del Danubio. Così in dieci anni (meno di un attimo, su una scala temporale di civiltà) sono stati uccisi sei milioni di ebrei.
Viene in mente anche Nikken, attuale patriarca della Nichiren Shoshu, che in pochi giorni ha distrutto lo Sho Hondo, l’Alto santuario voluto da Nichiren per custodire il Dai-Gohonzon e costruito in sette anni grazie al sostegno e al contributo di nove milioni di membri della Soka Gakkai.
I tre veleni compaiono insieme. Sono i canali tramite i quali si manifesta la meschinità dell’individuo. L’avidità è perenne insoddisfazione, rende schiavi dei desideri e degli attaccamenti, legandoci a lungo nel tempo a stati d’animo negativi come il rancore. Rende invidiosi e gelosi, impedendo la trasformazione individuale. Per ottenere l’oggetto del proprio desiderio spinge ad architettare piani per distruggere gli altri, progettare vendette, calcolare rivalse, tutte espressioni del mondo di collera. Un tumulto di sentimenti che sfocia in esplosioni verbali o fisiche che ci fanno sentire grandi e potenti, nelle quali il più delle volte manifestiamo tutta la nostra stupidità istintiva. Scrive Nichiren ne Il vero oggetto di culto: «A volte sul viso di una persona appare l’avidità, a volte la follia e a volte la perversità. […] La cupidigia è quello [il mondo] di avidità, la pazzia è quello di animalità, la perversità è quello di collera…».

Tre veleni e tre sentieri
Nella lettera Il primo ascolto degli insegnamenti del veicolo supremo il Daishonin afferma: «Quando esaminiamo la causa delle sofferenze sia fisiche che mentali, vediamo che scaturiscono dai tre veleni di avidità, collera e stupidità. Questi desideri terreni e le sofferenze che producono sono connesse al karma che incatena le persone al regno della sofferenza» (citata in Il nuovo rinascimento, n. 240, p. 2).
Desideri, karma e sofferenza sono definiti tre sentieri perché ciascuno conduce all’altro. I tre veleni ispirano azioni che creano karma negativo, che si manifesta nell’essere umano come sofferenza. La sofferenza a sua volta esalta i desideri terreni che a loro volta generano ulteriori azioni sconsiderate, che creano nuovo karma negativo, sofferenza… Una catena di cause che impedisce di ottenere l’Illuminazione.
Come rompere questo cerchio di negatività? Nichiren spiega che coloro che «hanno fede unicamente nel Sutra del Loto e recitano Nam-myoho-renge-kyo trasformeranno i tre sentieri dei desideri terreni, karma e sofferenza nelle tre virtù del corpo del Dharma, saggezza ed emancipazione» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 9, p. 10).

Arricchire il cuore
Un famoso scritto del Daishonin, il Gosho di Capodanno, riporta la frase: «La sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, la fortuna viene dal cuore e ci fa onore» (ibidem, vol. 4, p. 272). In una recente lezione su questo brano Mitsuhiro Kaneda, presidente dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, ha ricordato che è molto difficile mettere in pratica nella propria vita tali parole. I tre veleni si manifestano attraverso azioni compiute con il pensiero, le parole, i gesti: per questo «la sfortuna», cioè il cattivo karma e la sofferenza conseguente, «viene dalla bocca». Allo stesso modo, anche «la fortuna» si costruisce attraverso azioni altruistiche, le attività del bodhisattva.
Recitando Nam-myoho-renge-kyo possiamo scoprire a quale dei tre veleni è ascrivibile la sofferenza che stiamo sperimentando. E questo è già un grande passo avanti, perché così non ne siamo più ciecamente schiavi. Ma per eliminarli è necessario “arricchire il cuore”, vivere a contatto delle altre persone, condividerne le sofferenze, sostenerne la trasformazione. «Se il nostro cuore è povero – afferma Kaneda – i tre veleni si manifestano subito».
Vita, cuore, spirito: sono termini che ricorrono più e più volte all’interno della Proposta di pace che Ikeda ha inviato all’ONU il 26 gennaio 2001 (Buddismo e società, n. 87). Arricchire il cuore significa reagire a tragedie come quella americana, prodotto per antonomasia dei tre veleni, andando al nucleo delle questioni che l’hanno generata, continuando a dare un senso fondamentale all’educazione alla pace attraverso scambi interculturali, interreligiosi, o anche semplicemente interpersonali, a partire dalla nostra famiglia e dai vicini di casa. Sforzandosi di non alimentare, ma anzi di controllare e di trasformare quei sentimenti di rivalsa e di vendetta che ci fanno dividere il mondo in buoni e cattivi e che nascono anch’essi dai tre veleni. «Solo chi si sforza costantemente di rafforzare la propria mente – scrive Ikeda nella Proposta – chi conserva una coscienza vigile e pura, chi si innalza in un volo continuo sarà in grado di entrare in contatto con la calamita della vera realtà. È questo il concetto della padronanza di sé che Shakyamuni spiegò incessantemente».
Padronanza di sé, Illuminazione, felicità. Sembrano stati d’animo incomprensibili e irraggiungibili per chi è schiavo dei ciechi impulsi egocentrici dei tre veleni. Ma Nichiren scrive: «Questo è l’insegnamento più importante. È l’insegnamento che i desideri terreni sono Illuminazione» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 145).
Se i desideri terreni sono Illuminazione lo sono quindi anche i tre veleni, dove il termine “sono” corrisponde al giapponese soku, trasformare. È la sofferenza causata dai tre veleni che ci spinge ad abbracciare il Buddismo. È questa sofferenza la “legna da ardere” per ottenere il fuoco dell’Illuminazione. Alla luce del Buddismo del Daishonin, che insegna a cambiare se stessi aiutando gli altri a fare lo stesso costruendo così una società pacifica, possiamo trasformare i tre veleni, caratteristica dell’oscurità innata, nelle tre virtù di Illuminazione, saggezza e compassione, caratteristiche della Buddità innata. L’avidità si trasforma in Illuminazione, la stupidità in saggezza, la collera in compassione.

La trasformazione di Ashoka
C’è una figura, nella storia del Buddismo, che si staglia come grande esempio di trasformazione. È il re indiano Ashoka, crudele tiranno imperialista vissuto in India nel III secolo a.C. Grazie alla sua politica fortemente espansionista conquistò in breve tempo molti Stati vicini facendo strage delle popolazioni. L’impresa più nota è la conquista del regno di Kalinga, dove morirono centomila soldati, furono catturati 150.000 prigionieri e le perdite tra i civili furono ancora più ingenti. Ashoka si era convertito al Buddismo due anni prima, ma solo vedendo la sofferenza della popolazione conquistata si rese conto della sua crudeltà e decise di cambiare.
In uno dei suoi Editti su pietra fece scrivere: «È una questione di profondo dolore e rimpianto».
«Di fronte a questo quadro infernale – scrive Ikeda (DuemilaUno, n. 66, p. 6) – il re Ashoka deve aver provato il tormento di un rimorso insopportabile. Si sarà posto tante domande […] Che cosa rappresenta la guerra, con il suo potere devastante e distruttivo? Perché gli esseri umani si uccidono gli uni con gli altri? […] Il cambiamento rivoluzionario che si operò nel cuore di Ashoka trasformò il battito dei tamburi di guerra in una sinfonia dell’umanesimo basata sul Dharma. […]
Il grande re diede inizio a un esperimento senza precedenti, basato su una filosofia tutta nuova, una visione completamente originale. Concentrò la sua politica sul benessere dei cittadini e in tal modo cercò di vivere considerando la vita il valore supremo, superiore a ogni altra cosa. Fece erigere ospedali non solo per gli esseri umani ma anche per gli animali, promosse la coltivazione delle erbe officinali e ordinò che fossero piantati alberi ai bordi delle strade, preservando e proteggendo l’ambiente naturale; fece scavare pozzi e costruire ostelli per i viaggiatori. Creò un ministero degli Affari delle donne [...] Pur essendo un devoto seguace del Buddismo non negò mai, bensì rispettò in ogni momento, i valori spirituali di tutte le religioni […] Estese gli scambi commerciali all’attuale Grecia e al Medio Oriente. Contemporaneamente ridusse le disparità economiche applicando l’etica economica dell’equa distribuzione […] Favorì gli scambi culturali con gli altri paesi e attuò una politica di diplomazia pacifica inviando suoi emissari in Siria, Egitto e Macedonia [...] Si dice che in ognuno di quei paesi gli emissari riuscissero a superare le differenze linguistiche e di costume con i loro comportamenti e atteggiamenti compassionevoli. Uno studioso ha definito le loro attività “i corpi di pace dell’antichità”».
Stiamo parlando di un personaggio storico, realmente esistito, non di un re delle favole.
Questa è la trasformazione di un essere umano. Una possibilità che ha anche ciascuno di noi.

&nbsp;

I tre veleni

La collera tra noi

Palloni gonfiati

di Marina Marrazzi

Spesso si pensa che di fronte alla violenza non sia possibile utilizzare nessun’altra arma se non ancora violenza, perchéritenuta la sola altrettanto efficace. Secondo il Buddismo questa è una pericolosa illusione. C’è un altro modo, che sta nella forza di cambiare registro e sfidare le tendenze distruttive con la potenza della vita. Un salto difficile, che richiede fiducia nella natura “illuminata” degli esseri umani contro ogni evidenza, e la forza di contrastare forze negative e inerziali. Ma questa è l’unica strada per far vincere la vita 

Cinismo, fatalismo. Terrore, impotenza. Rivalsa, vendetta. Di fronte alla collera organizzata, di fronte alla guerra, emergono dentro di noi sentimenti molto diversi, che di solito si modulano in funzione della nostra condizione vitale e di quanto sentiamo vicina la violenza che impazza. Certo, il male fa parte della natura umana, ma quando ci travolge come un fiume in piena ci ritroviamo a cercare spiegazioni, e soprattutto un modo per arginarlo, combatterlo, reagire.
Spesso si pensa che di fronte alla violenza non sia possibile utilizzare nessun’altra arma se non di nuovo ancora violenza, perché ritenuta la sola altrettanto efficace. Secondo il Buddismo questa è una pericolosa illusione.
C’è un altro modo che viene indicato dal Buddismo da millenni, e che sta nella forza di cambiare registro e sfidare le tendenze distruttive – la paura, la rassegnazione, l’impotenza, la vendetta, l’odio – con la potenza della vita.
Questo salto è difficilissimo. Richiede di avere fiducia nella natura “illuminata” degli esseri umani contro ogni evidenza, di affrontare in prima persona i dubbi, di contrastare montagne di forze negative e inerziali. Richiede il coraggio di sfidare la propria paura, di mettersi in discussione e abbandonare piccole certezze, a cominciare da quelle che ci mettono al riparo da autocritiche, e che ci fanno sentire in modo inossidabile dalla parte della ragione. Abbracciare altri punti di vista.
«Per liberare l’umanità moderna da maledizioni come il razzismo o la cosiddetta pulizia etnica dobbiamo renderci conto che il male fa parte degli esseri umani» scrive Daisaku Ikeda1. E spiega altrove: «Le manifestazioni esteriori del bene e del male sono relative e mutevoli. Esse appaiono assolute e immutabili soltanto quando il cuore umano è prigioniero della malia del linguaggio e dei concetti astratti. Nel momento in cui ci si riesce a liberare da questa malia si può cominciare a rendersi conto che il bene contiene in sé il male e il male contiene in sé il bene. Per questo motivo, persino ciò che è percepito come male può essere trasformato in bene attraverso la nostra reazione e le nostre risposte»2.
È quello che Nichiren Daishonin afferma quando dice che per ottenere l’Illuminazione bisogna allearsi con i “demoni”. Si può intendere così: smetterla di segnare confini netti tra luce e ombra, preoccupandosi soltanto che il male non intacchi il bene, ma alzare lo sguardo, capire, trasformare. Investire energie per trascendere le separazioni e non per rafforzarle. Trasportare le divisioni e gli scontri fuori dalla «malia del linguaggio e dei concetti astratti», come la chiama Ikeda. Talmente fuori dalla logica oppositiva da non fermarsi alla contrapposizione, ma da mettersi in gioco e lottare per trascenderla e farne ricchezza.

Parole
Ascolto alla radio in un giorno qualunque la rassegna stampa dei quotidiani italiani. Come tante perle di intelligenza analitica, le valutazioni dei commentatori sugli accadimenti in politica, italiana e internazionale, si susseguono: fredde, puntuali, argute, che leggono dietro le righe delle intenzioni proclamate. Che smascherano gli interessi economici delle grandi potenze dietro la violenza nelle strade, gli spudorati giochi di potere delle multinazionali dietro la pubblicità dei prodotti di largo consumo, la pigrizia mortifera e assassina dei politici che calcolano il da farsi solo in funzione del proprio interesse di parte. Amare analisi, alcune intelligenti, in generale importanti e utili per capire cosa sta succedendo nel mondo. Analisi a doppio taglio, però. Perché il linguaggio che ammalia nella sua astrazione, come dice Ikeda, strega e convince, lascia appagata la ragione ma assolutamente disseccata la speranza. Quando sull’autobus o in ufficio o con gli amici la sera giochiamo al rialzo elencando a noi e agli altri tutto quello che non va, perché tutto è sempre peggio, perché l’animo umano è perverso e si assiste ogni ora di più alla manifestazione delle sue nefandezze, costruiamo con le parole la nostra prigione di cinismo. Da cui uscire diventa a ogni parola più difficile.
Rinunciare alla malia del linguaggio non vuole dire rinunciare all’analisi dei fatti, allo studio della realtà per quanto cruda e ostile si presenti. Vuole però dire non farsi prendere dalla sua forza distruttiva. Come fa notare Johan Galtung, esperto di risoluzione nonviolenta dei conflitti, nell’educazione alla pace ci sono due aspetti importanti: uno è saper riconoscere le radici della violenza, l’altro è sviluppare metodi per superarla. Entrambi sono essenziali: studiare solo la pace ci farebbe idealisti ma impotenti, studiare solamente la violenza ci influenzerebbe in modo eccessivamente realista e cinico.3
Inoltre, secondo Ikeda il linguaggio può rappresentare una vera insidia perché «distorce i processi della vita interiore e spinge le persone a relegare in secondo piano la trasformazione interiore, rendendole sensibili ai richiami della forza esterna: l’uso della violenza»4.

Guardare
«Se ci si limita a individuare le cause primarie del male in fattori esterni si arriva alla tragedia e al massacro. Trascendere il male interiore è il nostro compito più urgente per il XXI secolo e anche lo scopo essenziale di tutti i movimenti di riforma. Questo è ciò che noi della Soka Gakkai Internazionale intendiamo quando parliamo di rivoluzione umana»5. Trascendere il male interiore attraverso la rivoluzione umana: un’investimento coraggioso che richiede inventiva, pazienza, intelligenza della testa e del corpo e amore per la vita. Sembra la strada più lunga per arrivare alla convivenza pacifica e costruttiva fra i popoli, ma se questo è il vero desiderio che anima noi, noi che decidiamo su piccola scala e anche chi decide su scala più vasta, diventa una strada percorribile. Anzi è la sola strada.
Anche Johan Galtung, parlando dall’esterno della sfera buddista, così si esprime a proposito del ruolo che ha ogni singola persona: «La politica della pace è una politica gentile, che dipende in larga misura dalle decisioni concrete prese dalle élite ma anche, e in misura crescente, dalla gente che porta avanti le proprie politiche di pace: al microlivello dell’interiorità individuale e della famiglia (dove c’è sempre molto da fare), al livello intermedio della società e al macrolivello dei conflitti tra le società e tra le regioni. A tutti questi livelli c’è spazio per la politica intesa come condotta pacifica verso la pace»6.
Ancora Ikeda, nella Proposta di pace presentata all’ONU l’anno scorso, sottolinea che «instaurare relazioni personali basate sulla fiducia e sul rispetto significa precisamente mettere in pratica la cultura della pace. […] La Soka Gakkai si è sempre adoperata per favorire l’empowerment della gente, tra la gente e per la gente, un processo definito rivoluzione umana. La sua essenza è liberare pienamente l’illimitato potenziale innato in ogni essere umano sulla base della comprensione buddista che la nostra felicità è inestricabilmente legata alla felicità degli altri»7.

Differenze 
Non è uno slogan pacificante e superficiale: l’idea che siamo legati a tutti gli uomini e le donne della Terra, ma anche agli animali e alle piante, è una delle conseguenze del principio buddista della “produzione condizionata”, o fondamentale interdipendenza delle cose, per cui nulla può esistere indipendentemente dal resto o nascere per virtù propria. Come il benessere del corpo non può prescindere dalla salute di tutte le sue parti, così non c’è realizzazione personale che prescinda da quella delle altre persone. Non c’è giustizia se l’“ingiusto” viene eliminato con la pena di morte, con il terrore, o con la guerra. Non c’è serenità né prosperità se per vivere in tranquillità dobbiamo chiudere gli occhi sulla disperazione di chi vive a qualche passo da noi, in un altro continente.
«Non dobbiamo permettere a noi stessi di cadere prigionieri delle differenze che percepiamo – esorta Ikeda. […] Se andiamo a riesaminare gli incubi di questo secolo – le purghe, l’Olocausto, la pulizia etnica – scopriremo che sono tutti emersi da un ambiente in cui il linguaggio era stato manipolato per concentrare le menti delle persone unicamente sulle loro differenze. Convincendole che queste differenze erano assolute e immutabili, l’umanità degli altri è stata oscurata e la violenza contro essi legittimata»8.
Il sogno di far nascere una cultura della pace duratura non è un’utopia irraggiungibile: dipende da quanto si riesce a superare l’attaccamento alla differenza. Sulla capacità di riconoscere che tutti gli individui sono preziosi si fonda del resto il successo della democrazia. «Tutto dipende da questo: democrazia, in altre parole, significa aver fiducia negli esseri umani in quanto nobili entità eterne, e non considerarli come mezzi per raggiungere qualche scopo»9.

 Pace
La pace non viene da sé. Così come non viene da sé la serenità interiore, la compiutezza dell’essere. Né la pace è una condizione che si ottiene una volta per tutte. Piuttosto, si tratta di un equilibrio instabile e dinamico all’interno del quale non ci si può adagiare, non si può credere di avere acquisito diritti definitivi, non si può sperare di smettere di cercare. E dove non esistono confini al di là dei quali termina la giurisdizione della nostra responsabilità. Perché oltre alla “pace negativa”, ovvero astenersi dalla violenza, c’è una “pace positiva”, che consiste nello sviluppare la compassione verso ogni essere, ovunque10.
Una qualità non ovvia, che bisogna desiderare, far crescere, rafforzare e radicare dentro di noi. La tendenza verso la violenza è invece molto più ovvia, anche se esistono alcune differenze che ci distinguono. A questo proposito ancora Galtung fa notare che «i pensatori delle culture bellicose tendono a pensare in termini di istinti umani di dominio e conflitto. […] Essendo per lo più maschi, questi pensatori farebbero bene a iniziare i loro studi dalla riflessione che almeno il novantacinque-novantotto per cento della violenza strutturale viene commessa dagli uomini. In altre parole, forse sono le inclinazioni maschili e non quelle umane in genere a non poter essere vinte»11.
Anche Daisaku Ikeda riconosce un primato maschile in fatto di collera e aggressività: «La qualità culturale della società nel suo complesso influenza il modo in cui i quattro stati [inferno, animalità, avidità, collera] si manifestano. Per esempio, certe idee preconcette sulla mascolinità portano la società e le famiglie a educare i maschi a un atteggiamento forte e positivo. Questo spesso significa che lo stato vitale della collera è più manifesto negli uomini che nelle donne. […] In termini estremi, la guerra può essere descritta come la condizione nella quale lo stato vitale della nazione manipola la società e le informazioni in modo da evocare direttamente l’aspetto vitale della collera nella società. In queste circostanze, nel nome degli interessi dello Stato, la popolazione approva la violenza e condanna tutti i tentativi di arginare la collera come effeminati»12.

 Aprire
Come donne, come uomini, abbiamo di fronte compiti diversi, diverse tendenze da contrastare e qualità sommerse da scoprire e sviluppare. Però, la fatica di far emergere la Buddità per far vincere la compassione, contrastando gli stati vitali che vorrebbero uccidere la speranza, tenerci al caldo dei piccoli piaceri, farci credere che la vittoria equivalga a imporre il nostro punto di vista, è grande per tutti. Shakyamuni espose il Sutra del Loto a coronamento di una vita di profonde lotte, e la Torre preziosa, la conferma visibile della sua Illuminazione, apparve in risposta ai suoi sforzi di propagare la Legge mistica.
Ikeda, commentando il passo del sutra che descrive l’emergere della Torre preziosa spiega che «essa appare quando agiamo per kosen rufu. Non si tratta di idealismo ma di un combattimento con la realtà, un serio impegno per superare grandi difficoltà. […] Anche Nichiren Daishonin eresse la Torre preziosa del Gohonzon nel pieno di grandi difficoltà. Da questo punto di vista non è una coincidenza che il capitolo L’apparizione della Torre preziosa esponga le sei azioni difficili e le nove azioni facili per spiegare la difficoltà di propagare la Legge mistica nell’Ultimo giorno»13.
Questo è il coraggio del Budda: diffondere l’idea che la vita di ogni essere umano è anche la vita di un Budda. Non in teoria, non come una bella favola che magari fosse vera, ma come un’azione forte e difficile, per la quale devono essere messe in campo tutte le energie, comprese le capacità che ancora non si crede di possedere. Azioni al cui confronto, dice il sutra, scagliare una galassia attraverso l’universo o attraversare una prateria in fiamme con una balla di fieno sulle spalle senza bruciarsi diventano “azioni facili”.
Per questo motivo il pacifismo non è una posizione ingenua, una passeggiata per i boschi ignara dei pericoli reali, o una rinuncia al confronto con chi usa mezzi violenti. Richiede di investire energie in soluzioni mai praticate prima, e queste energie devono essere impiegate con perseveranza, forza, intelligenza, anche quando sembra inutile e la scelta violenta appare il “male minore”. Perché «il mondo di Budda si trova nella determinazione di lottare sempre con fede avanzando dallo stato di sofferenza allo stato di Buddità, e poi procedendo dallo stato di Buddità alla trasformazione della realtà»14.

 NOTE

1) Galtung-Ikeda, Scegliere la pace, Esperia, p. 91
2) D. Ikeda, Proposta di pace 2000 in DuemilaUno n. 80, p. 10
3) Galtung-Ikeda, Scegliere la pace, Esperia, p. 106
4) D. Ikeda, Proposta di pace 2000 in DuemilaUno n. 80, p. 11
5) Galtung-Ikeda, Scegliere la pace, Esperia, p. 106
6) J. Galtung, La pace con mezzi pacifici, Esperia, p. 1
7) D. Ikeda, Proposta di pace 2000 in DuemilaUno n. 80, p. 15
8) Ibidem, p. 10
9) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, pp. 120-1
10) J. Galtung, Buddhismo. Una via per la pace, p. 25
11) Galtung-Ikeda, Scegliere la pace, Esperia, p. 102
12) Ibidem, p. 105
13) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, pp. 121-2
14) Ibidem, vol. 1, p. 136

&nbsp;

Il veleno della collera

Contenuto riservato agli abbonati