Persone dal carattere eccellente
«È attraverso l'uso di parole, dette e scritte, che il Budda salva gli esseri viventi» (Lettera a Renjo, RSND, 2, 7). Le parole salvano, le parole uccidono. Noi, per salvarci e per salvare gli altri, ci riferiamo alle parole dei maestri. Parole da leggere, imparare, sperimentare... parole con cui fare i conti. Quante vittime fanno le parole! Incitamento all'odio. Dicotomia tra bene e male. Discriminazione. Conflitto.
Sembrano argomenti che non ci riguardano, che si riferiscono a episodi lontani, a fatti di cronaca o di geopolitica. Che non hanno a che fare con il mondo della fede. Eppure il presidente Ikeda li riporta continuamente alla nostra attenzione, sottolineandoli nelle Proposte di pace e in tanti altri scritti. Come abbiamo voluto mettere in evidenza pubblicandone ampi brani nelle pagine che seguono.
Mi chiedo, ad esempio, quando sto per condividere sui social un video dal titolo "Fantastico! Guardate come Tizio ha asfaltato Caio", se "asfaltare", per quanto in quel contesto usata ironicamente, non sia una parola violenta che incita all'odio? E che ricorda in modo impressionante la volontà di annientare l'altro così stigmatizzata dal presidente Toda nella Dichiarazione contro le armi nucleari?
Rifletto se definire qualcuno "bravo" talvolta non risulti involontariamente discriminatorio nei confronti di qualcun altro? E che rispecchi l'atteggiamento, profondamente radicato nella nostra cultura, dell'eterna contrapposizione tra bene e male? Quello spirito di astrazione in cui cadiamo quando giudichiamo dall'alto persone e situazioni in base a schemi, senza entrare in relazione con i protagonisti.
Ecco il punto: entrare in relazione. Sapere che dall'altra parte c'è qualcuno, qualcuna. Perché è proprio quando si è privi di questa consapevolezza, o la si vuole cancellare, che pur con le migliori intenzioni il dialogo scade in un monologo, in una serie di affermazioni unilaterali che alla fine si possono trasformare in veri e propri atti di violenza.
Pensiamo ai processi di costruzione della pace. Richiedono sforzi continui di ascolto, di comprensione di punti di vista diversi, di riformulazione, di passi indietro. Eppure, come sottolinea Beatrice Fihn, premio Nobel per la pace in rappresentanza di ICAN di cui riportiamo una breve intervista nelle prossime pagine, negoziare è espressione di forza, saggezza, potere.
Ed entrare in relazione prima di tutto con se stessi. Per riconoscere l'umanità dell'altro. Scrive il nostro maestro: «È proprio la coscienza dell'"altro interiorizzato" che dà vita al dialogo. Un dialogo spirituale interiore è il requisito necessario per qualsiasi tentativo di dialogo esterno». Nei suoi incontri - racconta Tamotsu Nakajima a p. 6 - Sensei è talmente concentrato sull'altro da poter essere paragonato a una distesa d'acqua senza increspature che riflette perfettamente lo stato d'animo del suo interlocutore.
Potrei chiedermi se ho davvero compreso quella persona, e se mi sono fatta capire da lei. E continuare a chiedermelo. Forse sono stata superficiale, frettolosa... E potrei tornare sui miei passi. Ascoltare meglio. Spiegarmi meglio. Potrei slacciare tutti i bottoni di quella maglia abbottonata male e ricominciare da capo.
Cercando nel cuore un'intenzione più forte, un'apertura più ampia. Scegliendo nuove parole, espressioni più adatte.
In quello «strenuo sforzo per capire ed essere capiti» che richiede che ciascuno e ciascuna di noi «ritorni alla sorgente più profonda della propria umanità».
Dipende da me, non da chi mi sta di fronte.
Desidero diventare "l'amica nella stanza delle orchidee", quella persona dal carattere eccellente, che crede nel Buddismo, così che chi vi si intrattiene si risveglia a quell'insegnamento?
E qui "intrattenersi", spiega il presidente Ikeda, «significa entrare in contatto con le sue parole e il suo comportamento». (Maria Lucia De Luca)

Una comunicazione congelata
La frammentazione della società è inscindibilmente legata a un insuccesso della comunicazione, a un fallimento del linguaggio. [...] Gli aspetti negativi dell'era dell'informazione - parole che si svalutano e si degradano, perdendo il loro peso e la loro profondità originari, riducendosi a vuoti segni e cifre - contrastano ironicamente con la forte crescita del volume delle informazioni. Ciò inevitabilmente porta al decadimento della capacità di dialogare, caratteristica peculiare del nostro essere umani.
Nella sua valutazione globale della tecnologia dell'informazione, lo scienziato e saggista francese Albert Jacquard osserva: «La scienza dell'informazione [...] fornisce solo comunicazione inscatolata o congelata. È incapace di evocare gli scoppi di creatività che erompono naturalmente nel corso di un dialogo che comprende sia momenti di silenzio sia parole».
Simili interazioni possono essere solo inanimate e neutre, molto lontane dallo stupore rinnovatore, dalla risposta tangibile e dalla soddisfazione che derivano dallo sforzo di creare una comunicazione faccia a faccia, cuore a cuore.
In contrapposizione a questa tendenza vorrei sottolineare l'importanza per lo spirito umano dell'impegno per il dialogo che i membri della Soka Gakkai Internazionale si sono assunti su scala globale, in particolare attraverso gli zadankai, piccole riunioni a livello locale, il cuore delle nostre attività sin dall'inizio dell'organizzazione. Questi scambi interattivi, condotti ogni giorno in migliaia di luoghi, rispecchiano esattamente il concetto di Jacquard di «dialogo che comprende sia momenti di silenzio sia parole». Durante quelle riunioni sperimentiamo un senso di gioia e di realizzazione quando le nostre parole raggiungono il cuore di un altro, e ci sentiamo confusi e frustrati in caso contrario. In silenzio ci sforziamo con pazienza di cercare parole migliori e, quando alla fine esse vengono ascoltate e suscitano una reazione, siamo ricompensati con un senso di appagamento ancora più grande.[...]
L'impegno della SGI per lo sviluppo del dialogo può sembrare troppo graduale e poco appariscente. Ma siamo orgogliosi del fatto che, proprio per questa ragione, esso ha il potenziale di rivitalizzare la lingua svalutata e degradata che domina il mondo odierno.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2011 (BS, 146, 4-5)

Fermati, ascolta
Prima di capire, parliamo. Prima di pensare, digitiamo. Prima di guardare con gli occhi, scattiamo una foto. Nella saturazione di una comunicazione frenetica e autoreferenziale non ci sono più spazi bianchi. Non ci sono pause. Non c'è ascolto, se non quel tanto che basta a replicare ancora, a pestare rapidamente una tastiera o un display, ad accumulare una documentazione che sostituisce la fruizione diretta degli eventi, delle cose, degli altri.
Gli strumenti della comunicazione sono preponderanti, onnipresenti e il solo atto di usarli sembra assorbire e condizionare i contenuti, che viaggiano verso i loro destinatari attraverso una serie di filtri - la scrittura breve, la fretta, la mancanza di una buona riflessione, la distanza, l'esposizione mediatica, il narcisismo - che spesso ne alterano ingannevolmente il senso.
La persona, in prima persona, si sta facendo obsoleta e anche quando appare non è più lei e basta: è tutto quello che ha scritto, le foto che ha pubblicato, le parole seminate in giro, inviate di corsa, magari mentre faceva altro, forse al semaforo, per riempire anche quel tempo senza pensare troppo. Un individuo è accompagnato e presentato da tutte queste informazioni, che apparentemente dovrebbero svelarlo senza pietà e invece lo offuscano come una nuvola, lo travisano come un gioco di specchi, e lo separano dal resto.
E noi, come siamo fortunati. Noi che tutte le mattine ci sediamo davanti al Gohonzon e lo guardiamo dritto negli occhi, che sono i nostri occhi, e lo vediamo limpido e spiegato, lo osserviamo senza infingimenti, ci specchiamo senza compromessi, gli parliamo con il cuore.
E anche quando cerchiamo di costruirci degli alibi e di raccontare un'altra storia il gioco dura poco, e mentre il suono della nostra voce riempie l'aria, sempre più forte, non possiamo che ascoltare, non possiamo che ascoltarci, e poi tendere l'orecchio al mondo fuori e impegnarci a riprendere il filo di un'armonia che scorre sempre sicura sotto il caos e ha bisogno solo di essere riconosciuta. Di essere creduta. Di essere, anche lei, ascoltata: con le orecchie, con la testa, con il cuore. (Simona Caleo)

L'incitamento all'odio e la dicotomia tra bene e male
L'incitamento all'odio (hate speech) [parole e discorsi che hanno lo scopo di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo] sta diventando un serio problema sociale in molte nazioni. Anche quando non porta alla violenza diretta dei cosiddetti "crimini dell'odio", esso nasce dallo stesso istinto maligno di fare male ad altri e come tale è una violazione dei diritti umani che non può essere ignorata.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2015 (BS, 170,20)

La xenofobia e i discorsi di incitamento all'odio dividono il mondo nella dicotomia "noi e loro", che di fatto corrisponde a "buoni e cattivi".
Proposta di pace 2017 (BS, 182, 15)

Troppo spesso chi è convinto della propria bontà finisce per manifestare quelle stesse caratteristiche - disprezzo per l'umanità e i diritti umani, ad esempio - che trova così ripugnanti in coloro che etichetta come malvagi.
Proposta di pace 2014 (BS, 164, 20)

Per costruire società resistenti alla xenofobia e all'incitamento all'odio è necessario che le persone siano esposte a diverse prospettive o le richiamino alla mente, e a tal fine il dialogo può svolgere un ruolo essenziale.
Proposta di pace 2016 (BS, 176, 19)

Un'attenzione consapevole
Dire, scrivere (o omettere) parole è una responsabilità perché è una scelta che comporta conseguenze.
Si sa che l'uso di alcune precise espressioni è alla base di ogni propaganda politica che, per mettersi in buona luce, getta discredito sull'avversario (una tecnica che funziona dalle campagne elettorali alla manipolazione delle coscienze per giustificare una guerra). Ma, di fronte a questo, gli spiriti più critici hanno strumenti per non ritrovarsi, loro malgrado, a fare da cassa di risonanza a tali macchinazioni. Per esempio c'è il "giornalismo di pace", un modo di raccontare gli eventi del nostro mondo dando voce a tutte le parti in gioco e ai loro punti di vista, evitando di utilizzare etichette che stigmatizzano giusti e sbagliati, vincitori e vinti, vittime e carnefici. Come esiste una disciplina che studia la risoluzione nonviolenta dei conflitti, analizzando le tecniche per rendere il conflitto un momento creativo e potenzialmente benefico per tutti gli attori coinvolti. In larga misura questi studi riguardano la scelta responsabile di parole precise: quelle che uniscono e non dividono, che dicono di sé e non dell'altra parte, eccetera.
Scelte responsabili, appunto, che si basano su un'attenzione consapevole e sapiente che, mi dico, non affiniamo mai abbastanza. Un esempio per tutti, il "non a caso...": questo ammiccante modo di dire, apparentemente del tutto innocuo, nasconde un pensiero, la convinzione che quel qualcuno non poteva fare altro che comportarsi proprio in quel modo, dall'esito scontato. Insomma, senza quella attenzione ci lasciamo trascinare da correnti di parole, e dai modi consueti di usarle, non accorgendoci più né da dove arrivano né l'effetto che hanno.
Penso che questa allegra inconsapevolezza sia in qualche modo collegata alla velocità con la quale siamo indotti a macinare brevi messaggi e fulminee risposte, conseguenza diretta (e nascosta) della diffusa e penetrante logica del consumo e del profitto. Sarà successo anche a voi di rivedere in tv un'intervista, diciamo, di una quarantina d'anni fa. L'intervistatore poneva domande lunghe, elaborate, al suo intervistato il quale, dopo aver riflettuto qualche secondo, cominciava a rispondere potendosi addirittura permettere qua e là alcune brevi pause senza che l'intervista venisse tagliata o che il giornalista intervenisse a interrompere il suo ragionamento a gamba tesa. Come invece succede oggi con i programmi al servizio della pubblicità (guai "annoiare" il telespettatore, cambierebbe canale con perdita di audience=prezzo della reclame) dove, ben prima di aspettare la fine della risposta, si passa ad altro argomento per potere poi puntualmente dare spazio ai prodotti.
Chissà se quella che oggi viene considerata "comunicazione efficace", per spot e flash, non sia anche qualcosa di congeniale all'impero del profitto di cui siamo inconsapevoli fruitori e ripetitori? E se quella lentezza, quella "noia", aprisse invece lo spazio per un ragionamento e una riflessione nuova, meno pilotata, più libera? Qualcosa che, per parafrasare il presidente Ikeda qui sopra, "può esporci a diverse prospettive e richiamarle alla mente"? (Marina Marrazzi)

L'amicizia
Quale ancoraggio sociale possiamo usare per resistere alle forze xenofobe, che aggravano le divisioni all'interno della società [...]? Credo che la risposta si trovi in un forte legame fra le persone, in quel tipo di amicizia che ci fa percepire l'immagine concreta dell'altro nel nostro cuore.
[...] I legami di amicizia sono la base che consente di resistere alle correnti dell'incitamento all'odio quando aumentano le tensioni fra i paesi o si aggravano i conflitti fra diverse confessioni religiose. Se immaginiamo i volti dei nostri amici, decisi a non permettere che la società diventi un posto in cui non si sentano accolti, possiamo agire per trasformare il conflitto in coesistenza a partire dal nostro ambiente più prossimo.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2017 (BS, 182, 15)

La filosofa politica tedesca Hannah Arendt (1906-75) scrisse: «Per quanto siamo colpiti dalle cose del mondo, per quanto profondamente possano scuoterci e stimolarci, esse diventano umane per noi solo quando possiamo discuterne con i nostri compagni». La Arendt - esprimendo questo aspetto centrale del suo pensiero - prosegue chiarendo che la parola "compagni" vuole indicare una relazione di amicizia e non di fratellanza, e in particolare l'amicizia tra persone con diverse visioni della verità. È proprio grazie a simili differenze che il mondo si umanizza attraverso il dialogo, e la ricca varietà della vita umana risplende della sua magnificenza.
È questo tipo di amicizia, basata su uno scambio cuore a cuore, che previene l'ulteriore spaccatura delle società in cui la differenza troppo spesso funge da marcatore per l'esclusione. Dobbiamo impegnarci a sostenere questo tipo di amicizia, vero segno della nostra umanità, se vogliamo impedire che il senso di connessione empatica con gli altri venga spazzato via da una cultura della guerra, da un vortice di odio e di violenza.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2013 (BS, 158, 18)

E da lì ho ricominciato
Litigare, che cosa disdicevole, è stato l'insegnamento con cui sono cresciuta. In 23 anni di pratica buddista mi sono trovata a litigare con persone con cui facevo attività all'interno della nostra organizzazione per ben... due volte. Tante, poche? La cosa bella è che dopo ogni volta qualcosa nella mia vita ha preso a fluire, oltre ogni previsione. In fondo, fare onshitsu vuol dire mettere un muro tra me e un altro. E quale muro è più invalicabile di tenere per sé un giudizio non proprio benevolo nei confronti di qualcuno e lasciarlo lì per rimuginarci su? Con il risultato che quel qualcuno al prossimo incontro sarà ancora più lontano. E che né lui né io manifesteremo le virtù di un Budda.
Con questa convinzione mi sono decisa a parlare, a esprimere pareri in netto contrasto con chi avevo davanti. Sì, ma come? Maldestramente. Come con Anna Maria, con la quale a un certo punto decisi di non avere più nulla a che fare. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato un suo atto dimostrativo: all'orario pattuito non si fece trovare, per farmi vedere l'effetto che fa aspettare chi è sempre in ritardo, cioè io. Litigammo al telefono, me ne tornai a casa e derubricai come "ingestibile" quel rapporto con lei. Se anche ero ritardataria non lo ritenevo un problema insormontabile. Non ci pensai più per qualche settimana.
Mi tornò in mente il giorno dopo aver perso il lavoro perché non avevo accettato (o meglio, ci avevo ripensato in corsa) il corteggiamento subdolo del mio capo. Con il lavoro avrei presto perso anche la casa che pagavo con quegli unici proventi. Ero sola e disperata, e soprattutto mi vergognavo di aver dato così poco valore a me stessa, di aver fornito a quell'uomo l'arma per destabilizzarmi, ricattarmi e poi alla fine licenziarmi.
Mi chiesi: qual è l'azione più difficile da fare per uscire da questo pantano?
Così chiamai Anna Maria: «Sei libera, facciamo Daimoku insieme?». E da lì ho ricominciato.
Capì che stavo male, le raccontai che dovevo vendere la casa prima di non poter più pagare il mutuo e trovare al più presto un nuovo tetto sulla testa. Quella stessa mattina, dopo Gongyo, mi accompagnò dal proprietario del suo appartamento, che dopo pochi giorni mi propose una casa accogliente, in una zona centrale, a equo canone. Consentendomi di abitarla subito e di iniziare a pagare l'affitto dopo la vendita della mia.
E quando, ancora senza stipendio, avevo deciso di sospendere l'acquisto della cucina e di mangiare per un po' solo scatolette e insalata, fu sempre Anna Maria a propormi dei mobili che le aveva lasciato la zia. Quegli scaffali color nocciola sembravano fatti su misura per la mia cucina!
In seguito, sull'onda dell'autostima lentamente riacquistata, sono riuscita a vendere casa, a trovare un altro lavoro e nuovi amici.
Ora le nostre strade si sono geograficamente divise, ma se ripenso a quei giorni mi torna la voglia di credere alla mia e alla altrui Buddità. Che bello vivere così... (Monica Piccini)

La cristallizzazione delle differenze nel linguaggio
Le manifestazioni esteriori del bene e del male sono relative e mutevoli. Esse appaiono assolute e immutabili soltanto quando il cuore umano è prigioniero della malìa del linguaggio e dei concetti astratti. Nella misura in cui ci liberiamo da questa malìa, possiamo cominciare a renderci conto che il bene contiene in sé il male, e il male contiene in sé il bene. Per questo motivo, persino ciò che è percepito come male può essere trasformato in bene attraverso la nostra reazione e le nostre risposte. [...]
Non dobbiamo permettere a noi stessi di cadere prigionieri delle differenze che percepiamo. Dobbiamo restare padroni del linguaggio e assicurare che esso serva sempre gli interessi dell'umanità. Riesaminando gli incubi di questo secolo scopriremo che sono tutti emersi da un ambiente in cui il linguaggio era stato manipolato per concentrare le menti delle persone unicamente sulle loro differenze, convincendole che queste differenze erano assolute e immutabili, oscurando così l'umanità degli altri (i diversi) e legittimando l'uso della violenza contro di loro. [...]
La malìa distruttiva del linguaggio, il suo dominio sulle realtà umane, distorce i processi della vita interiore e spinge le persone a relegare in secondo piano la trasformazione interna, rendendole vulnerabili agli appelli sull'efficacia della forza esterna, ossia dell'uso della violenza.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2000 (Duemilauno, 80, 10)

Gara di retorica in carcere: il dialogo possibile
Immaginate due gruppi contrapposti. Ciascuno con la sua tesi da difendere. Senza che però in atto vi sia un conflitto. Risulta strano concepirlo, eppure è possibile. È ciò che PerLaRe, l'associazione per la Retorica presieduta da Flavia Trupia, realizza nei contesti più svariati coinvolgendo specialisti della comunicazione provenienti da ambiti diversi, dal social media marketing al giornalismo, dalla filologia al teatro. Immaginate ora se a realizzare questi confronti dialettici, che richiedono tempo per essere preparati e che si fondano sull'uso sapiente della retorica, siano i detenuti.
Veicolare l'uso della parola «come strumento di comprensione di noi stessi e degli altri, di condivisione delle idee, di convivenza con la complessità e di persuasione dell'altro in modo pacifico» è possibile. Ed è possibile farlo anche nelle carceri. Per due edizioni consecutive un gruppo di detenuti di Regina Coeli si è sfidato su tematiche importanti, come l'uso delle armi e la post-verità. Dall'altra parte un gruppo di studenti universitari di Roma Tor Vergata. La giuria composta da esperti ha decretato in entrambe le occasioni la vittoria dei detenuti. Puro buonismo? No, tutt'altro. In un contesto di restrizione della libertà e di espiazione della pena, allenarsi al confronto pacifico ricercando le parole adatte per difendere la propria tesi senza ricorrere alla violenza verbale è quanto di più sorprendente possa accadere.
«Non è un talk-show - tiene a precisare Flavia Trupia - c'è un codice etico, un galateo». Lo stesso che si punterà a mantenere anche nella prossima edizione che si svolgerà, per la prima volta, a Napoli avendo per protagonisti i detenuti di Poggioreale e gli studenti dell'Università Federico II. Il tema verrà deciso in collaborazione con il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, escludendo quegli argomenti che in un contesto carcerario potrebbero favorire scissioni interne o successive ritorsioni.
PerLaRe ha come obiettivo il recupero della retorica. «La storia - si legge sul sito di quest'associazione - ci insegna che la retorica può essere un bieco mezzo propagandistico o uno strumento democratico per dare gambe e respiro a un'idea: ne facevano uso Joseph Goebbels, in modo spregevole, e Martin Luther King, in modo sublime». Del resto anche Nichiren Daishonin lo insegna: «Vi sono due modi in cui un uomo usa la sua voce: uno è quando parla ingannando gli altri, dicendo cose a cui lui stesso non crede. Questa è la voce "che si accorda con la mente altrui". L'altro è quando dice ciò che ha veramente in mente, in modo che il suo pensiero si esprima nella sua voce» (L'apertura degli occhi di immagini dipinte o di legno, RSND, 1, 75). (Maria Cristina Fraddosio)

La patologia dell'assenza dell'altro
La patologia del terrorismo indiscriminato risiede nel completo annullamento dell'individuo. Alla radice di questo fenomeno vi è l'assenza dell'"altro interiorizzato".
[...] Fa parte della natura degli esseri umani che il "sé" si sviluppi solo grazie alla consapevolezza degli altri. È grazie al loro sguardo che sviluppiamo l'individualità. Un'interazione spirituale intensa, che comprende anche il conflitto, è essenziale se vogliamo crescere, maturare e diventare veramente umani. Senza questo processo gli individui non possono sperare in alcun tipo di sviluppo che oltrepassi l'infantilismo egocentrico, una condizione diametralmente opposta a quella di cui parlava Karl Jaspers (1883-1969) a proposito dell'imparare a dialogare con gli altri: «Noi vogliamo accettare l'altro, cercare di vedere le cose dal punto di vista dell'altro... Per giungere alla verità, un oppositore è molto più importante di chi è d'accordo con noi». Il narcisismo egocentrico è la culla del rancore e della violenza.
Nell'oscurità in cui si trova immersa la nostra civiltà si percepisce una mancanza, perché nel paesaggio spirituale interiore le persone non riescono a riconoscere l'umanità dell'altro. In un clima simile è tutt'altro che facile avviare un dialogo dotato di senso perché è proprio la coscienza dell'"altro interiorizzato" che dà vita al dialogo. Un dialogo spirituale interiore è il requisito necessario per qualsiasi tentativo di dialogo esterno. Se questi tentativi non vengono preceduti e sostenuti dal dialogo interiore è probabile che ci si ritrovi a fare monologhi e affermazioni unilaterali. Nel suo stato più avanzato la patologia dell'assenza dell'altro non può che trasformare il linguaggio e il discorso in un'altra forma di violenza.
Daidaku Ikeda, Proposta di pace 2002 (BS, 93, 20)

Lo dicevo, ma non riuscivo a crederci
Le parole creano. Costruiscono ponti. Legano i miei occhi a quello che tu vedi. Dico cielo, terra, dico sole e in un attimo la mente plasma forme e colori di un paesaggio. Tutto quello che dico a una persona crea nella sua e nella mia mente qualcosa. Può essere una cicatrice, o un sorriso. Ma non dipende solo dalle parole che scelgo, se sono gentili o dure, se accarezzano o prendono a schiaffi. Quello che le parole trasmettono dipende da come ci relazioniamo a chi ci sta di fronte, da quello che pensiamo di lei o di lui, dai sentimenti che proviamo.
Un giorno mi accorsi che, pur trovandomi a spiegare spesso, come insegna il Buddismo, che chiunque è degno di rispetto perché è un Budda, io per prima non ero capace di crederlo fino in fondo, di guardare davvero chi avevo di fronte e vedere in lui o in lei la meraviglia della Legge mistica. Potevo affermarlo tante volte che quella persona è un Budda, ma dentro dentro io non gioivo della sua bellezza. E quindi non gioivo davvero.
E così ho iniziato. Ho iniziato a recitare tanto Daimoku con il desiderio di vedere gli altri così come sono, come li vede il Budda, nella loro essenza più profonda, nel loro splendore, nella sintonia perfetta della danza che la Legge mistica muove.
Ogni persona è così diventata una sfida per i miei occhi, che non sempre sono in grado di vedere la tua meraviglia. Quando penso di avere ragione e la ragione mi rende cieca. Quando il dolore mi inghiotte e credo che sia tu la causa, o quando ti incastro dentro il mio giudizio e non ti lascio scampo: non sei sincero, non hai coraggio o fede, mi offendi e sei dannoso... Ecco, lí la sfida comincia. E quando riesco, quando a vincere non è la mia visione limitata e parziale di te ma il mio sguardo illuminato che in te riconosce lo splendore della vita, della tua vita degna di rispetto e amore e reverenza e fiducia, il risultato più grande è che io sono libera. Ma davvero libera e forte e nulla di te mi fa del male, tutto è dono prezioso di cui ringrazio. Il risultato più grande è che ogni volta un pezzetto di felicità prende forma e colore e parole e diventa realtà.
Ricordo una giovane donna che mi diede dell'arrogante perché sembrava sapessi sempre tutto e nelle riunioni di studio citavo poco il presidente Ikeda. L'ho forse odiata per un attimo, per qualche giorno ho pensato che poverina, praticava da poco e forse non capiva... Poi ho fatto Daimoku, ho chiesto scusa dei miei pensieri, ho pregato per sentire la sua Buddità che proprio non scorgevo. L'ho invitata a studiare con me e per un lungo inverno abbiamo tenuto insieme le riunioni, ho amato la sua giovane irruenza, l'ho ringraziata di quella sfida, e sono riuscita a starle vicina quando in un momento di depressione ha cercato proprio me, le mie parole capaci di ricordarle la sua forza, la sua bellezza, perché la vedevano e la sapevano.
Ricordo mio figlio che a 17 anni non ha voluto più studiare. E io ero disperata. Sono arrivata a urlare, insultarlo, una volta ho pianto dicendogli che non poteva neppure immaginare quanto mi stesse ferendo. Poi, davanti al Gohonzon ho sentito che non dovevo preoccuparmi perché lui è un Budda, ha ascoltato il Daimoku nella mia pancia, ho visto quanto siamo fortunati a essere madre e figlio. Ho scelto di fidarmi delle sue decisioni e ho trovato le parole, poche, per dirgli vai, vola dove credi, io ti sostengo e sono con te. Dopo due mesi ha deciso di lavorare fino alla maggiore età, mettere da parte i soldi per pagarsi una scuola di danza in America e seguire il suo sogno. E cosi è stato. Ora ha 24 anni e lavora lì in una compagnia di danza classica. Dice che è un po' stanco di questa vita, e io un poco mi preoccupo, istintivamente. Poi recito davanti al Gohonzon e cerco di nuovo in me quella fiducia in lui e nelle sue possibilità per continuare a liberarmi e liberarlo dai miei giudizi e dalle mie paure.
Piccole grandi sfide che ogni giorno continuo a intraprendere col desiderio di vedere negli altri la bellezza che vede il presidente Ikeda, quella che Shakyamuni vedeva in tutte le persone a cui predice l'Illuminazione nel Sutra del Loto, quella che Toda vedeva in noi ricordandoci che proprio noi, coi nostri difetti, il nostro karma, la nostra umanità, siamo i Bodhisattva della Terra. (Manuela Vigorita)

È il linguaggio che ci rende umani
Ritengo che la propensione alla logica e alla discussione sia una delle prove della nostra umanità. In altre parole, solo quando siamo immersi in un oceano di linguaggio diventiamo veramente umani. Nel Fedone Platone associa acutamente l'odio per il linguaggio (mislogos) con l'odio per le persone (misanthropos). Abbandonare il dialogo significa abbandonare l'essere umano: se abbandoniamo la nostra umanità cessiamo di essere gli agenti della storia, rimettendo questo compito autorevole a qualcosa che appartiene a un ordine inferiore, una sorta di "bestialità". [...] Il dialogo - una relazione tra individui caratterizzata dall'apertura e dal rispetto reciproco - avrà la sua massima utilità se le persone condivideranno una comune visione libera dalle illusioni.
Daisaku Ikeda, Sette sentieri per l'armonia globale (BS, 90, 55)

C'è voluto coraggio
Da quando ho iniziato a praticare il Buddismo non raramente mi è capitato di leggere testi sull'importanza di instaurare un dialogo. Un principio a me molto caro e un cardine primo del Buddismo afferma che la nostra voce "svolge il lavoro del Budda". Solo nel tempo mi sono resa conto che io a questo non ci ho quasi mai creduto.
All'età di tredici anni ho vissuto un periodo di profonda sofferenza per diverse situazioni familiari che mi hanno spinta a non manifestare più in là di un certo limite le mie emozioni e i miei sentimenti. L'essermi privata di questa libertà, a mio avviso fondamentale, mi ha portata a soffrire di un disturbo ossessivo compulsivo, trasformato solo due anni dopo grazie al Buddismo. Forse ora tutto questo potrebbe non sembrare collegato in alcun modo al tema del dialogo e del coraggio necessario a instaurarne uno, ma il punto è che, in una situazione di totale chiusura con me stessa, di totale privazione della mia umanità, la pratica buddista è riuscita a farmi manifestare quel coraggio e quella determinazione per ricominciare a proferire parola, per ricominciare a rispettare me stessa, i miei sentimenti e la mia stessa sofferenza, iniziando proprio dal ridarle voce, dal lasciare che si esprimesse.
Non è sempre semplice, nelle diverse situazioni che si affrontano nella vita, riuscire a tirare fuori il coraggio necessario per instaurare un dialogo, ma ciò che a mio avviso è ancora più difficile è riuscire a instaurare questo dialogo con se stessi, riuscire a credere profondamente che la nostra voce svolge il lavoro del Budda perché siamo Budda perfettamente dotati.
L'anno scorso ho vissuto un periodo di profonda depressione e il mio "mutismo" si è presentato di nuovo, portandomi all'isolamento più totale. Anche questa volta c'eravamo solo io e la mia oscurità.
Dopo mesi di chiusura e sofferenza ho capito che non avrei potuto continuare così. Stavo ledendo la mia vita, non ne sentivo il valore, ma in una piccola parte del mio cuore c'era ancora quella luce di speranza e forza che mi faceva desiderare di tornare a vivere.
Ho deciso allora di ricominciare a praticare con forza, e di iniziare questo secondo anno di università con una determinazione tale da parlare a tutti gli studenti del mio corso di laurea della pratica che mi ha salvato la vita, o meglio, che mi ha permesso di riconoscerla.
Improvvisamente il mio silenzio, la mia depressione, la mia oscurità sono svaniti. Avevo deciso di ascoltarmi, di dialogare non più con la mia oscurità ma con la mia Buddità, e di esprimerla per far sì che quanti più giovani possibili fossero in grado di realizzare la felicità assoluta.
Dall'inizio dell'anno accademico un mio amico ha ricevuto il Gohonzon, molti ragazzi della mia facoltà stanno venendo agli zadankai e moltissime persone del mio corso hanno conosciuto la pratica buddista. L'obiettivo non è né raggiunto né terminato, ma mi impegnerò assiduamente, ogni giorno, per incarnare le vesti "della buona cittadina", per portare avanti la mia missione nel luogo in cui mi trovo, per instaurare dialoghi coraggiosi non dando spazio alla mia oscurità ma continuando a dar voce alla mia Buddità. (Lucrezia Petrucci)

Il dialogo, la capacità di usare le parole
L'"arma" più grande di chi aspira a creare la pace è il dialogo, il rifiuto di abbandonare la capacità di usare il linguaggio, capacità che ci rende umani. Il dialogo e la comunicazione - qualsiasi sia il loro effetto immediato - sono di per sé un atto di fede nella nostra umanità. È a questa fede che dobbiamo incessantemente lavorare, per rafforzarla e riconfermarla.
Lo strenuo sforzo per capire ed essere capiti richiede che ciascuno di noi ritorni alla sorgente più profonda della propria umanità, al di là delle differenze di storia, cultura o credo.
Perché è proprio lì - e nelle semplici aspirazioni della vita quotidiana - che troveremo le risposte alle sfide, apparentemente impossibili, che abbiamo davanti.
Daisaku Ikeda, Linguaggio, simbolo di umanità (BS, 97, 15)

Lettere in azione
Sentiamo parole in continuazione, e crediamo di farle nostre; ma il punto è che spesso non le ascoltiamo. Perché quello del sentire è un atto involontario, una sensazione, mentre ascoltare implica la volontà di udire qualcosa e quindi di comprenderla. Solo quando le interiorizziamo possiamo agire in coerenza con parole che altrimenti rimarrebbero solo suoni che si disperdono nell'aria pronti a diventare nulla.
Così ho fatto un esperimento: scelta una parola la cui applicazione per me rappresentasse una sfida, l'ho scomposta in modo tale che ogni lettera richiamasse un'altra parola che ne completasse il significato, come in un viaggio da vivere a tappe, la cui meta è l'intera parola.
La mia meta è la parola DISARMO, un disarmo che parta da me. Immagino di trovarmi di fronte a una persona con la quale ho avuto un forte scontro e desidero "disarmarmi" nei suoi confronti.
Mi metto alla prova: ho capito profondamente questa parola? Ecco le tappe del mio viaggio.
D Dialogo. Il presidente Ikeda sottolinea come la capacità di dialogare sia ciò che ci rende umani, poiché senza un vero scambio non vi è umanità.
I Insieme. Per poter "essere" insieme è necessario instaurare prima un dialogo con noi stessi per poi aprirci a un'altra persona.
S Società. Nel momento in cui comprendiamo che il disarmo nei confronti di quella persona non riguarda solo noi ma crea un'onda virtuosa nell'ambiente circostante, iniziamo ad aprirci all'intera società.
A Amicizia. Il nostro maestro ci incoraggia a coltivare preziosi legami di amicizia. Sfidiamoci nel diventare persone degne della fiducia degli altri, così che ogni relazione si possa basare su un rispetto che trascende ogni incomprensione.
R Rispetto. Rispettosa compassione per l'altro, sforzandosi di comprendere il suo punto di vista e cercando di non confondere la questione contingente che ha provocato lo scontro con il suo valore come persona.
M Male. Si, perché nel male c'è anche il bene. Liberarci dalla visione di una netta dicotomia tra bene e male e accogliere la realtà che quando il cielo dipinto da un forte temporale è nero, esattamente lì emergerà il raggio luminoso della vittoria.
O Originalità. Cercare nuove strade, sviluppare una profonda pazienza che ci permetta di trovare soluzioni inaspettate cambiando prospettiva, certi che anche quando tutto sembra immobile la vita continua a correre.
Queste sono le tappe del mio viaggio, ma ognuno sa qual è la sua parola da comprendere e da applicare, e dunque la meta da raggiungere.
Ogni lettera per me è stata importante. Altrimenti la meta sarebbe stata "disarm" o "disrmo", e sia la mia comprensione che l'applicazione sarebbero state incomplete. Ogni parola quando diventa azione racchiude mille sfaccettature di sforzo, di coraggio, di gioia, di tristezza e malinconia. L'importante è non svuotare le parole ma cercare di entrarci dentro per poterle vivere con concretezza. (Rossella Maci)

Ogni volta una chiave diversa
Per molto tempo non mi sono sentito integrato da nessuna parte. Non avevo fiducia in me stesso e non rivelavo i miei pensieri per paura di essere giudicato. Niente ha cambiato la mia vita come iniziare a vivere in mezzo alle persone comunicando con loro. Ho conosciuto il Buddismo e da allora ho allargato a dismisura il mio orizzonte visivo, ho messo a fuoco il mio carattere e la mia identità.
Ho scoperto che la comunicazione è una porta che si apre con una chiave che cambia continuamente. La serratura non è mai la stessa perché ognuno di noi è diverso. È unico.
Eppure, nel caos di eventi che viviamo ogni giorno, ci perdiamo a tal punto da non riuscire più a sentire nemmeno i nostri pensieri.
Dimentichiamo che ciò che abbiamo nel cuore, quello che siamo, come lo siamo, rappresenta la forza comunicativa più potente e speciale, in grado di elevare e rafforzare la nostra umanità e di sospingere la società nella direzione della pace.
Nel Diario giovanile Sensei scrive: «Il grande universo possiede i dieci mondi. Anche la mia vita contiene i dieci mondi. E quindi non c'è nulla al mondo di cui aver paura» (Diario Giovanile 9/12/1952, Esperia, 2011, p. 195).
La grande scienziata Rita Levi-Montalcini, durante un colloquio con alcune giovani ricercatrici, concluse così: «La vita non finisce con la morte, quello che resta di te è quello che trasmetti alle altre persone. L'immortalità non è il tuo corpo, che un giorno morirà. La cosa importante è il messaggio che lasci agli altri, questa è l'immortalità». (Lorenzo Di Nardi)

Per il bene servono parole
La giustizia non può funzionare senza essere capita. La giustizia consiste di spiegazioni. È la necessità di comprendere le persone malvagie e il male stesso, di spiegare perché esistono.
Spiegazioni e comprensione sono rese possibili dal potere delle parole, senza le quali la giustizia e il bene sono impossibili. [...]
Non dobbiamo tacere. Se permettiamo che il bene sia messo a tacere, facciamo il gioco del male. Se siamo davvero l'homo loquens - un essere umano reso tale dalla sua capacità discorsiva - non dobbiamo rinunciare allo sforzo di dialogare, indipendentemente dalla gravità della situazione.
Continuiamo ad aprire spiragli nel velo dell'oscurità, sempre con una prospettiva a lungo termine, andando oltre le emozioni suscitate dalle difficoltà del momento. Dobbiamo fare appello a tutta la nostra forza spirituale per continuare a dialogare.
Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2003 (BS, 97, 38)

La comunicazione del dolore
In un momento in cui ho deciso di esporre una forte e dolorosa esperienza personale in un libro, mi è contemporaneamente nato il desiderio di affrontare il delicato tema della "comunicazione del dolore". Relativamente a questa personalissima, fondamentale espressione, la nostra società sembra attraversare numerose contraddizioni e paradossi: dall'ostentazione morbosa che se ne fa in programmi televisivi e siti specializzati, alla sua paradossale comunicazione su Facebook, per passare alla sua negazione generalizzata nel privato, negli ambienti di lavoro, come se il dolore fosse una vergogna, qualcosa da nascondere, celare, rimuovere, infausto portatore di sventura e "sfiga", come se il dolore non potesse attrarre altro che dolore.
La cultura in alcuni suoi esponenti significativi non esita a esporsi in prima persona, perché la condivisione del dolore, per raccontare se stessi e anche incoraggiare gli altri, appare un'esigenza di enorme e attualissima portata. Basti considerare il clamore e il calore suscitati dall'ultima confessione di Nanni Moretti al Festival di Roma circa un nuovo tumore e la sua lotta, il nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby (Nessuno può volare, Feltrinelli) che racconta senza remore la sclerosi del figlio al fine di creare rete, il successo del nostro Antonello Dose (La rivoluzione del coniglio, Mondadori), coraggioso e aperto sulla sua sieropositività e sulle sue connessioni con il personale senso di missione.
Se ho avuto il quasi irrefrenabile impulso a scrivere questo articolo è perché si incrociano nel mio cuore due motivi: uno generale di lode ai nostri zadankai, perché spesso sottovalutiamo per stanchezza o abitudine che potente funzione svolgano nel creare una società consapevole, solidale, anche nella specifica comunicazione della trasformazione della sofferenza, esercizio che, se adoperato con coscienza, cercando ogni volta la giusta misura che non scada nell'ostentazione, nell'abbattersi senza riflettere sugli altri o nel forzato silenzio, crea un potente antidoto alla società cinica che tanto dolore e abuso ha creato, a dispetto della compassione che tanto vorremmo vedere diffusa attorno a noi.
Il secondo motivo è strettamente personale, e riguarda il mio ultimo libro dedicato al bipolarismo di mia madre, alla sua scelta suicida e alla mia esperienza buddista di elaborazione della sua vita, alle tecniche di "guarigione" utilizzate e alla mia esperienza di apertura come artista a 360 gradi derivatane. Oggi in realtà mi crea ansia e paura affrontare tutto questo in pubblico, ma il bodhisattva interno sa come questa storia, oltre a costituire un potente mezzo di trasformazione ed esorcismo personale, potrà anche diventare offerta e toccare molti cuori, proprio per il silenzio e la vergogna che, purtroppo, ancora queste tematiche ricoprono, al punto che a volte le persone esitano anche a cercare le giuste cure, quando io con la mia esperienza vorrei incoraggiare a farlo. (Roberta Calandra)

Un alfabeto per riconoscere le proprie emozioni
«La felicità non risulta dall'eliminare o prendere le distanze dai desideri o dagli impulsi che danno origine alla sofferenza»: questa è la frase che mi ripeto quando guardo i miei alunni che si azzuffano per un gioco. E infatti i bambini, che sempre stanno lì a insegnarci qualcosa di noi, non prendono mai le distanze, sono coinvolti e partecipi, sempre dentro le cose. La mia retorica adulta osserva impotente la contesa violenta su un oggetto: il desiderio che non lascia scampo.
La fisicità è nell'immediata azione/reazione della contesa. Il corpo che re-agisce senza passare per la logica del pensiero e del linguaggio ci fa paura: ci ricorda quanto recentemente noi umani abbiamo abbracciato l'uso del linguaggio e sviluppato i centri neocorticali. Abbiamo paura del corpo nel suo linguaggio primitivo e ancestrale e invece è proprio lì che nasce la soluzione.
Ciò che proviamo attraversa il nostro respiro, i nostri muscoli, la nostra pelle.
Saper ascoltare il corpo nel momento di crisi, di difficoltà, di disagio, è la medicina che può curare, l'espediente che ci riporta alla presenza qui e ora.
Fornire a quella fisicità le parole giuste: un alfabeto per riconoscere le proprie emozioni.
Cos'è la tristezza, quando mi capita di averla... Ascoltarci, darci le parole come percorso di autenticità.
La verità la cogliamo mettendoci in ascolto, prima di tutto di noi stessi: così ai bambini, nel pieno dell'emozione, insegniamo a fermarsi, a respirare, a sentire come sta il loro cuore, la tensione delle braccia, delle gambe.
Perché «la vita in ogni istante abbraccia il corpo e la mente» (Il conseguimento della Buddità, RSND, 1, 3). E la mutua inclusione del singolo istante con tutti i fenomeni ci consente di sciogliere i nodi partendo proprio dai fenomeni: il vedere, il sentire, il percepire.
Riportare a consapevolezza il corpo trascina cuore e mente. Regala alla vita una nuova possibilità. Così i bambini riescono a ripristinare uno sguardo di fiducia e a "illuminare il proprio angolo di mondo" (cfr. BS, 182, 11). Gli occhi si aprono in un sorriso che sembra il sole dopo il temporale: questa velocità con cui i ragazzini sanno trasformare il disagio è un motore di speranza anche per noi adulti. (Giovanna Gobattoni)

Nella stanza delle orchidee
«Adesso ho avuto il privilegio di entrare nella stanza delle orchidee e di ascoltare la fragranza delle vostre parole»
(Nichiren Daishonin, Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1, 7).

«Vi siete intrattenuto con un amico nella stanza delle orchidee e vi siete raddrizzato come l'artemisia che cresce fra la canapa».
Nichiren Daishonin, (RSND, 1, 24)

Per "stanza delle orchidee" si intende una stanza colma di orchidee dal dolce profumo. Proprio come chi soggiorna in un ambiente del genere si impregna gradualmente della fragranza delle orchidee, coloro che si "intrattengono" con persone dal carattere eccellente, che credono nell'insegnamento corretto del Buddismo, alla fine si risveglieranno a loro volta alla validità di quell'insegnamento. "Intrattenersi" qui significa entrare concretamente in contatto con le loro parole e il loro comportamento. Nel Buddismo il termine "sutra" (giapp. kyo) significa "scrittura" o "insegnamento". In senso più ampio indica ciò che esprime la vita di tutti gli esseri viventi, cioè le nostre parole e le nostre azioni. Ognuno di noi "sta recitando" il suo sutra attraverso le sue parole e azioni.
Daisaku Ikeda, La saggezza per creare la pace e la felicità (BS, 184, 38)

I legami umani
Le parole sono potenti, eppure la prima parola è il silenzio. Perché consente l'ascolto, requisito essenziale per un vero dialogo.
Esserci senza pensieri prefatti e discorsi prestampati. Essere lì, presenti.
«Quando ci concentriamo davvero sui singoli individui possiamo vedere come ogni persona manifesti aspetti unici dell'universo delle possibilità umane e lo faccia in maniera inestimabile e insostituibile» (BS, 97, 15). Il mio maestro dice questo. Lo dice riferendosi al dialogo interreligioso, ma possiamo dire che vale anche per quello "intrareligioso". Quello cioè fra noi, suoi discepoli e discepole. Perché può accadere che anche i nostri rapporti siano segnati da incomprensioni e sfiducia. Che non dovrebbero risolversi nel tagliar netto, isolare o dividerci in buoni e cattivi. Il fatto è che, quando ci accade, non ce ne accorgiamo.
Può capitare di decidere, in buona fede, che la realtà sia solo quella che vediamo noi.
Che vale un solo punto di vista. Che si racconta in un solo modo. Addirittura con le stesse parole, le stesse frasi. E chi non le usa è da guardare con sospetto. La struttura sempre quella. Nessuna deroga. E allora mandiamo avanti gli slogan invece di quello che dovrebbero esprimere, le regole invece che il senso delle regole, le direttive invece che le motivazioni.
Le parole, lo sappiamo, non sono mai solo parole, sono il modo di comunicare un'intenzione. Hanno un tono, un sentimento dentro, qualcosa che le rende musica, che a volte sarà una nenia lamentosa, altre volte un coro che sposta le montagne. Magari nella stessa giornata usiamo l'una e l'altra. E abbiamo il potere di risvegliare, in chi ci è di fronte, la nenia o il coro.
Se penso alla mia esperienza, so che sono stata capace di cambiare il mio punto di vista, magari scorretto, quando ho sentito il cuore di chi mi stava di fronte.
D'altronde questo è nel DNA del nostro insegnamento, che dice l'importanza delle relazioni umane.
Nella Saggezza del Sutra del Loto si legge: «Ecco perché la Soka Gakkai è così forte. La sua forza non sta nella struttura organizzativa, ma nei legami umani sui quali è basata» (3, 275). Dovremmo ricordarcelo sempre e disinnescare il pilota automatico che a volte guida i nostri discorsi.
C'è una frase di Gosho che lo esprime bene. Si riferisce a quell'istante in cui Nichiren Daishonin sta per essere decapitato a Tatsunokuchi. E lo accompagna Shijo Kingo.
«Più e più volte ripenso a quel momento indimenticabile, quando stavo per essere decapitato e tu mi accompagnasti tenendo le redini del mio cavallo e versando lacrime di dolore. Né potrò mai dimenticarlo in ogni vita futura. Se tu dovessi cadere nell'inferno per qualche grave colpa, anche se Shakyamuni mi invitasse a diventare un Budda io rifiuterei: preferirei venire all'inferno con te. Perché se cadiamo nell'inferno insieme troveremo là il Budda Shakyamuni e il Sutra del Loto» (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 754).
Ecco la meraviglia: la relazione umana prima di ogni altra cosa. (Gianna Mazzini)

Il destino dell'umanità
Com'è amaro il destino dell'essere umano! Schiacciato dalle difficoltà, cerca un modo per sopravvivere. Ferito e tradito, si chiude in se stesso e trema nel suo egoismo. Gli altri troppo spesso sono un pericolo, o un ostacolo, o un mezzo. Ottiene conquiste effimere a chissà quale costo. Restano la sofferenza, subìta e arrecata, e la solitudine, più profonde di prima. E un'illusione sempre più grande che si accumula e alimenta la sua storia.
Così, nel silenzio generale e colpevole, neanche ci accorgiamo che, ad esempio, a pochi chilometri da noi si perpetuano in Libia barbarie indicibili di cui, come italiani ed europei, siamo i primi responsabili.
Abbiamo una missione in questo mondo, ed è molto urgente. Il Buddismo esiste per debellare l'ingiustizia e il male di vivere. Le armi nucleari, la povertà, la guerra, i soprusi della finanza: sono drammi a cui porre fine. Il Buddismo offre la chiave: la trasformazione di se stessi, per trasformare la realtà. Non è possibile compiere l'una se ci dimentichiamo dell'altra.
Ogni momento partiamo da ciò che abbiamo vicino, e avanziamo. Nel caos dell'oscurità che domina l'essere umano e il mondo si scorgono occhi vivaci e sorrisi incoraggianti. Noi non siamo vittime del nostro destino. Siamo artefici della rivoluzione umana.
Qual è la dimensione reale dell'essere umano? Può essere l'inferno, può essere la felicità o la tranquillità o la collera. La vita abbraccia tutto e si manifesta in modo coerente a come viviamo.
Qual è la più grande speranza dell'essere umano? La pace. Nessuno escluso, felici e a nostro agio: siamo nati per questo. È questo il vero destino dell'essere umano.
Siamo tutti insieme qui adesso. Ognuno ha la sua condizione vitale, tantissimi stanno soffrendo e alimentano l'illusione fondamentale che causa ogni sofferenza: non credere nello splendore della vita. Nel Buddismo della Soka Gakkai, la fede è l'atto di estrema fiducia nel potere della vita, che sconfigge l'oscurità più impenetrabile. Per riuscirci, dobbiamo fare appello a ogni oncia del nostro essere. La vittoria ci apre alla gioia eterna della vita.
Lottiamo dentro di noi e aiutiamo gli altri a lottare. La pratica buddista dello shakubuku sconfigge la negatività insita nella vita. È in questa lotta continua che noi stessi sperimentiamo una felicità sempre più grande, istantanea. Nel mezzo della tempesta facciamo emergere il sole dai nostri cuori.
Una persona, poi altre persone, poi innumerevoli persone si sono unite per trasformare il destino dell'umanità. Questa è la Soka Gakkai. Daisaku Ikeda aveva 19 anni quando ha incontrato Toda e ha vissuto al suo fianco per dieci anni. Oggi ne ha 90 e sta dedicando la vita alla stessa causa, seguendo il suo maestro ogni giorno più fedelmente, come Toda aveva fatto con il suo. Non ci hanno offerto l'esempio di come si faccia il maestro, ma di come si vive da discepolo. Adesso tocca a noi.
Quale sarà il finale dell'epopea della vita umana? Tutto si decide ora. Con il potere delle parole risvegliamo una persona dopo l'altra alla gioia della vita, con gentilezza e fiducia. Apriamo nuove stanze delle orchidee, accendiamo la luce della Legge mistica nelle case, creiamo zadankai dove ognuno si senta accolto con calore e viva attivamente per la felicità di tutti. Trasformiamo il mondo in una terra di pace. (Mirko Lugli)

Il potere delle parole

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