BS 205 / FEBBRAIO 2021

I tesori del cuore

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I tesori del cuore

«Vivi in modo che tutte le persone di Kamakura lodino Nakatsukasa Saburo Saemon-no-jo per la devozione al suo signore, al Buddismo e per il suo rispetto e attenzione nei confronti degli altri. Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo, e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera, sforzati di accumulare i tesori del cuore». Questo brano fu inviato da Nichiren Daishonin al suo carissimo discepolo Shijo Kingo, il quale stava attraversando uno dei momenti peggiori della sua vita rischiando di perdere il suo feudo (tesori del forziere) e lo status di samurai e medico (tesori del corpo).
Anche per noi questo è un momento molto difficile, e a un primo sguardo può sembrare che i termini dell'attuale dibattito sul bene del paese vedano una contrapposizione tra chi considera prioritaria la questione economica (mettendo in un certo senso al primo posto i tesori del forziere) e chi si schiera per la salute (i tesori del corpo). Nelle prossime pagine riportiamo riflessioni, interviste e testimonianze che suggeriscono come ricomporre questo apparente contrasto mettendo alla base i tesori del cuore.

 

Per ristabilire l'ordine di priorità

Quando i tesori del cuore non sono il fondamento della nostra visione del mondo, arriviamo ad agire sulla spinta di una «patologica indifferenza nei confronti della vita», una regressione che sta distruggendo la nostra intima umanità. Dobbiamo scegliere: o ci lasciamo ottenebrare dall'ignoranza e ci abbandoniamo alla violenza e alla barbarie, o crediamo fino in fondo nella bontà degli esseri umani e la coltiviamo in noi e negli altri

Nel famosissimo brano citato in apertura (p. 17), il Daishonin esplicita inequivocabilmente l’ordine di priorità dei tre tipi di tesori e stabilisce un chiaro metro di valutazione che può essere molto utile nell’approcciarsi alla situazione odierna. In una Proposta di pace di alcuni anni fa (poco tempo dopo l’11 settembre) il presidente Ikeda riportava un pensiero del premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz, il quale evidenziava che così come l’alta tecnologia bellica moderna è progettata per eliminare il contatto fisico («lanciare bombe da 5.000 piedi di altitudine garantisce di non “sentire” ciò che si sta facendo»), l'attuale gestione economica ha un comportamento simile: «Dal proprio albergo di lusso si possono imporre senza alcuna sensibilità determinate politiche sulle quali invece si rifletterebbe due volte se si conoscessero le persone a cui si sta distruggendo la vita». Daisaku Ikeda definiva questi atteggiamenti il risultato di una «patologica indifferenza nei confronti della vita», sottolineando che «quando l’essere umano viene ritenuto insignificante diminuiscono i “tesori del cuore”, cioè la sensibilità nei confronti della vita degli altri, della morte, della sofferenza» (BS, 97, 42).

Pandemia, ultimo atto di un processo in corso
Una riflessione che ci riporta prepotentemente all’oggi, alla disumanità che come singole persone e società nel suo complesso abbiamo accumulato per distrazione o per abdicazione alla nostra natura più profonda. «Dove ci siamo smarriti, prima che il virus ci trovasse rivelando la nostra fragilità nascosta dietro la potenza del progresso, della scienza e della conoscenza? – scrive Ezio Mauro recensendo il saggio di Marco Revelli Umano, Inumano, Postumano (Einaudi) – [...] Come se la violenza nascosta nella crisi economica più lunga del secolo» avesse fatto saltare non solo le strutture basilari del nostro vivere insieme ma anche la coscienza dei capisaldi interiori della nostra umanità, «il senso del limite, il sentimento della responsabilità, liberando un nuovo senso comune che genera gli egoismi più radicali mentre ha già prodotto un contesto che li legittima [...]. Una regressione che sta distruggendo tutto ciò che custodivamo nella sfera protetta dell’umano.
Il virus è l’ultimo attore, per l’ultimo atto: attacca l’intera struttura di valori e di norme che ha retto la vita associata, azzerando le conquiste del nostro umanesimo. [...] Adesso si teorizza l’immunità di gregge (moriranno i più fragili ma ne usciremo più forti, con una spesa minore), in una replica stupefacente dell’eterno dilemma: o la borsa o la vita» (La Repubblica, 28 ottobre 2020).

La fase finale per l’umanità
In questo triste panorama può essere illuminante rileggere, attraverso le parole di Daisaku Ikeda, l’analisi dell’evoluzione della civiltà umana fatta più di un secolo fa da Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore della Soka Gakkai. «Makiguchi afferma che ogni membro della specie umana dovrebbe dedicare la vita al mondo intero e creare una società globale di cittadini del mondo che considerino il pianeta Terra come la propria casa. Ne La geografia della vita umana Makiguchi suddivide lo sviluppo dell'umanità in quattro fasi: la prima guidata dalla competizione militare, la seconda dalla competizione politica, la terza dalla competizione economica. E presagisce che l'era della competizione economica avrebbe portato l'umanità a vedere ogni cosa nell'ottica dell'interesse personale. Tuttavia sostiene che questa non avrebbe potuto rappresentare la fase finale per l'umanità. Dunque, cosa avrebbe fatto seguito alla competizione economica? Secondo Makiguchi la quarta fase sarebbe stata l'era della competizione umanitaria, nella quale il mondo sarebbe stato guidato da uno spirito umanistico. Quindi non la forza militare, l'autorità politica o il potere finanziario, ma il modo in cui si può rafforzare e sviluppare il proprio carattere di esseri umani» (Daisaku Ikeda, “Il Buddismo è una religione aperta a tutte le persone”, 17a riunione generale Sgi, ottobre 1993).

Il comportamento da essere umano
Per far sbocciare l’umanità di cui parla Makiguchi occorre credere fino in fondo nella bontà dell’essere umano e coltivarla in se stessi e negli altri. I tesori del cuore infatti si esprimono attraverso qualità umane, così come il Buddismo si trasmette attraverso le persone. Per questo, sempre ne I tre tipi di tesori, Nichiren sottolinea che «il vero scopo dell’avvento nel mondo del Budda Shakyamuni sta nel suo comportamento da essere umano». Ed esorta il suo discepolo – e anche noi – a vivere «in modo che le persone di Kamakura ti lodino [...] per il rispetto e la considerazione per gli altri», sottolineando l’imprescindibilità delle nostre connessioni con gli altri esseri umani e ogni forma di vita. Nella Proposta di pace citata all’inizio scrive ancora il presidente Ikeda: «Quando Ortega y Gasset afferma: “Io sono me stesso più il mio ambiente; se io non lo salvo, non posso salvare me stesso”, sta dando voce a un imperativo che tutti dovremmo considerare, e cioè che non c’è “sé” senza “l’altro”, non c’è umanità senza natura» (BS, 97, 44). Dovremmo riconoscere le connessioni con le altre specie viventi, l’habitat e le generazioni future, sviluppando quel «grande cuore che abbraccia la terra, il mare, il cielo e l'universo» (NR, 685). Una riflessione in sintonia con quanto detto da Papa Francesco nel suo discorso di Capodanno: «Quest'anno, mentre speriamo in una rinascita e in nuove cure, non tralasciamo la cura. Perché, oltre al vaccino per il corpo, serve il vaccino per il cuore: questa è la cura». Sarà un buon anno se educheremo «il cuore alla cura, [...] ad avere care le persone e le cose». Tutto «comincia dal prenderci cura degli altri, del mondo, del creato».

Bisogna scegliere
Per concludere il lunghissimo capitolo de Il mondo del Gosho dedicato ai tesori del cuore e intitolato "La pratica di rispettare gli altri", il presidente Ikeda scrive: «L’umanità si trova di fronte a un bivio. Come affermava Gandhi, da una parte c’è la violenza della “legge della giungla”, dall’altra la nonviolenza della “legge dell’umanità”. Bisogna scegliere. O crediamo che la natura di Budda esista in ogni persona e costruiamo una civiltà della nonviolenza, oppure lasciamo che l’oscurità e l’ignoranza nostra e altrui ci ottenebrino e scegliamo la violenza della barbarie. Tutta l’umanità si trova di fronte a questo bivio. Io sono convinto che la strada per contribuire alla pace su scala mondiale sia seguire il Buddismo del "comportamento da essere umano"» (MDG, 574).

 

La suprema condotta umana

Sensibilità e attenzione nei confronti degli altri, rispetto e cura dei legami umani: ma i tesori del cuore non riguardano solo le relazioni. Possono accumularsi sfidando le difficoltà con fede autentica e trasformando il veleno in medicina, un modo di affrontare i problemi che ci permette di sviluppare la capacità di aiutare molte persone a diventare felici

«Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo, e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera, sforzati di accumulare i tesori del cuore» (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 755). Pare esserci quasi un’urgenza. «Affrettati» sembra voler dire il Daishonin al suo discepolo in pericolo, «accumula i tesori del cuore» perché questa è la via più diretta e sicura per ottenere la vittoria. Ma che cosa sono esattamente questi tesori? Nichiren sta indicando a Shijo Kingo «la suprema condotta umana – come spiega Daisaku Ikeda in una lezione su questo scritto – quel comportamento umanistico che riflette lo stato vitale di Buddità dimostrando rispetto per tutte le persone» (BS, 140, 42). Si riferisce alla sensibilità e all’attenzione nei confronti degli altri, al rispetto e alla cura dei legami tra gli esseri umani. Questi tesori del cuore hanno alcune caratteristiche essenziali che li differenziano dagli altri due: sono indistruttibili e sono garanzia di vittoria nella vita. Inoltre, chi possiede i tesori del cuore può godere pienamente dei tesori del forziere e di quelli del corpo utilizzandoli per creare valore, per sostenere la vita. I tesori del cuore, tuttavia, non riguardano solo il mondo delle relazioni. Questo è il punto assolutamente rivoluzionario del messaggio del Daishonin. Egli sta indicando un cambiamento profondo nel modo di affrontare l’esistenza. Il comportamento a cui allude, infatti, «riguarda anche ogni sforzo di crescita personale di creazione di felicità per se stessi e per gli altri» (Ibidem). Possiamo accumularli «sfidando le difficoltà con fede autentica nella Legge mistica e trasformando il veleno in medicina. Questi tesori non svaniranno mai» (Daisaku Ikeda, NR, 618). «Nella vita – spiega ancora Ikeda – ciò che conta è il modo in cui reagiamo agli imprevisti. La vita è un processo costituito da sfide e risposte. Dal punto di vista del Buddismo, dovremmo rispondere alle avversità raccogliendo i poteri della fede e della pratica, facendo emergere così i poteri del Budda e della Legge. Questo modo di affrontare i problemi ci permette di accumulare illimitati e indistruttibili “tesori del cuore” e sviluppare la capacità di aiutare molte persone a diventare felici» (BS, 181, 53). Il sentiero corretto della pratica buddista consiste nel compiere continui sforzi per migliorare il proprio carattere e sviluppare la propria autentica umanità. In altre parole, «accumulare i tesori del cuore» significa portare avanti con costanza e diligenza la propria rivoluzione umana. Attraverso questo impegno costante manifestiamo lo splendore della natura di Budda in tutti gli aspetti della nostra esistenza, dal modo in cui concepiamo la vita a quello in cui affrontiamo la morte e, naturalmente, nelle relazioni con gli altri. Alla luce della nostra natura illuminata agiamo con la consapevolezza che «la vita in ogni singolo istante permea l’intero regno dei fenomeni e si manifesta in ognuno di essi» (Il conseguimento della Buddità in questa esistenza, RSND, 1, 3). Senza questa consapevolezza «anche eseguire diecimila pratiche e diecimila buone azioni sarà inutile come se un povero stesse giorno e notte a contare le ricchezze del suo vicino, senza guadagnare nemmeno mezzo centesimo» (Ibidem). Una persona che attraverso la fede affronta le avversità e migliora se stessa manifesta il suo massimo splendore, la sua natura di Budda, stabilendo così relazioni meravigliose con le altre persone e sostenendo sempre la vita. Non si trova affatto su un gradino più alto da cui dispensa la sua magnanimità, ma agisce in una dimensione dove non c’è separazione, non ci sono più io e gli altri, il fuori e il dentro, l’individuo e l’ambiente: sperimenta e alimenta quel grande io (o grande cuore) che abbraccia tutte le cose che la circondano. In definitiva, come spiega ancora il presidente Ikeda, «i tesori del cuore, se a un certo livello indicano una grande ricchezza interiore, a un livello più profondo denotano la fede e lo splendore della natura di Budda “lucidata” attraverso la fede» (BS, 141, 45).

 

Il vero valore dei tesori del cuore: la salute della mente e dello spirito

«Il Giappone del dopoguerra diede la massima priorità alla crescita economica, riversando le proprie energie nell’acquisizione dei “tesori del forziere”; essersi posti come obiettivo principale la ricerca del profitto accelerò la creazione di una società spersonalizzata, caratterizzata da una rigida regolamentazione. A sua volta questo produsse un grandissimo stress sugli individui e portò alla distruzione ambientale e alla diffusione delle malattie legate all’inquinamento.
Ma giunse il momento in cui i giapponesi si resero conto di aver posto troppa enfasi sui “tesori del forziere” e iniziarono a spostare la loro attenzione verso i “tesori del corpo”. Questo si riflesse nelle preoccupazioni per preservare e promuovere la salute.
Anche la più grande ricchezza non è inesauribile e può essere perduta del tutto in un solo momento, per esempio in caso di calamità. Se godiamo di salute, tuttavia, possiamo sempre ricominciare, lavorando per acquisire nuova ricchezza. Ecco perché il nostro corpo e la nostra salute sono più importanti della ricchezza. È il motivo per cui il Daishonin scriveva: “Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo”. Ma anche i “tesori del corpo” svaniscono gradualmente, perché invecchiamo o perché ci ammaliamo. Non sono eterni.
Inoltre, pur avendo un corpo forte e sano, se la nostra mente è inquinata dalle insicurezze e dalle paure, o dall’invidia e dalla malizia, la nostra vita sarà molto infelice. [...] Il Mahatma Gandhi osservò con saggezza: “La felicità è in gran parte una condizione mentale”. Ma la civiltà moderna ha poca considerazione per il cuore e per la mente e finora è avanzata concentrandosi esclusivamente sull’acquisizione dei “tesori del forziere” e dei “tesori del corpo”. [...] Sebbene le cure mediche siano avanzate, le persone rimangono ansiose per la loro salute e si sentono sempre più alienate, frustrate e apatiche. È il risultato di aver fallito nel comprendere il vero valore dei “tesori del cuore”: la salute della mente e dello spirito.
I “tesori del cuore” sono la fonte della speranza, del coraggio, dell’entusiasmo e della volontà di vivere, [...] e vengono acquisiti dedicandosi alla felicità degli altri. Mentre le persone accumulano questi “tesori del cuore” apprendono quanto sia preziosa la vita, trascendono i limiti dell’ego e sono in grado di dedicarsi al nobile scopo della felicità degli altri. Nell’acquisire questa salute spirituale, inoltre, possono ottenere qualcosa che contribuirà al potere di recupero del corpo e alla capacità di rafforzare la salute.
In realtà, non siamo completamente sani se non lo siamo anche spiritualmente. Penso che sia importante diffondere ampiamente questa verità nella società» (NRU, 22, 259-261).

L'economia civile: come creare mercati di qualità sociale

Reciprocità, gratuità, fraternità: la qualità dei rapporti umani diviene, all'interno di questa economia "del futuro" ma dalle radici lontane, il perno centrale. La domanda di beni relazionali è sempre più strategica, in un mercato guidato da una logica collaborativa e cooperativa

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Appassionato di economia, imprese emergenti e cooperazione, esperto di innovazione sociale e responsabilità sociale condivisa, Luca Raffaele è direttore generale di NeXt, presidente di Gioosto e coordinatore dell’Obiettivo 12, "Consumo e produzione responsabili", all’interno dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). In questa intervista, oltre a illustrare i capisaldi dell’economia civile, racconta con entusiasmo le tante trasformazioni e rivoluzioni che questo approccio dal basso sta già realizzando.

Sinteticamente potremmo dire che l’economia civile propone un “umanesimo del mercato”, poiché l’attenzione alla persona non è rimandata alla sfera privata né a qualche forma di filantropia pubblica che si limita a curare le disfunzioni del mercato. Ci può spiegare meglio questo punto così fondamentale?

È un punto importantissimo. L’economia civile è un modello non alternativo alle economie tradizionali, ma si pone come l’Economia, nel senso che o l’economia è civile o non è economia.
Si tratta di un modello differente da tutti quelli che ci sono stati. Qui i tre attori (organizzazioni del mondo non profit, il mercato e lo Stato) devono saper convivere non solo in base al principio dello scambio equivalente (la premessa di un modello efficiente che in questo momento non ci rappresenta) e neanche in base al principio della redistribuzione della ricchezza, ma fondandosi sull’idea che ci sia una fratellanza e una reciprocità fra i soggetti che li compongono, i quali devono cooperare tra loro. Questa è la sostanza dell’economia civile: direi che serve un nuovo umanesimo, una nuova idea di mercato. Si fanno due grandi errori riguardo all’economia civile: pensare che sia un’“altra economia”, e che oltre all’economia tradizionale ci siano oasi felici dove si collabora e si è tutti amici; oppure che per realizzare un tipo di economia sostenibile, in questo caso civile, non ci sia bisogno del mercato. E invece il mercato è fondamentale. Certo dovrebbe essere un mercato di qualità sociale, dove la relazionalità, alla base del principio della reciprocità e della fratellanza, ha il primato. Questo è un aspetto che deve essere tenuto ben presente quando parliamo di economia civile.

In un articolo lei ha scritto che la realizzazione di una nuova economia non può essere affidata solamente a esperti e intellettuali, ma che occorrono «storie e volti che da semplici comparse diventino protagonisti dell’attualità, modelli che possano essere promossi e resi replicabili in altri territori». A che punto siamo?

Cominciamo con il dire che l’economia civile è un’economia che parte dal basso, che ripensando i modelli di consumo, di produzione e di risparmio riesce a creare grandi rivoluzioni. Insieme a una spinta che viene dall’alto, da parte di esperti e tecnici che propongono soluzioni, serve l’azione correttiva della società civile, di tutte quelle persone che contribuiscono con i loro saperi, attitudini e cultura a determinare il cambiamento non soltanto in seno alle proposte dei tecnici ma anche attraverso piccoli momenti di rivoluzione quotidiana.
Inoltre non dobbiamo far riferimento solo ai grandi miti, personaggi che hanno incarnato i princìpi dell’economia civile perché particolarmente illuminati o capaci di vedere prima di altri cosa andava fatto. Ognuno di noi può avere un modello replicabile.
Una figura come Adriano Olivetti ha prodotto una grande rivoluzione trasformando l’economia civile in pratica quotidiana nel vissuto della sua azienda, ma noi possiamo rendere attuali tutti i modelli di produzione che mettono al centro le persone, l’ambiente, le relazioni, oltre ovviamente alla sostenibilità economica, e individuare i mille Olivetti presenti intorno a noi, donne e uomini che hanno operato grandi rivoluzioni all’interno delle loro organizzazioni, facendoli conoscere di più.
Capire quali sono i punti di forza e le aree di miglioramento di questi modelli di allora e di oggi è uno dei passi fondamentali per rendere concreta e applicabile l’economia civile. Non dobbiamo avere paura di indagare le problematicità dei diversi modelli esistenti, che sono tantissimi ma purtroppo scollegati. Dobbiamo semplicemente fare in modo che parlino tra loro e soprattutto alle persone, facendo capire che si può prendere spunto dall’esperienza di un imprenditore, di un’amministrazione pubblica, di un insegnante o di un'organizzazione del terzo settore. Altrimenti c’è il rischio che pensando all’economia civile ci si riferisca solo ai grandi intellettuali del settecento come Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Giacinto Dragonetti e altri, considerandoli come stimoli di un tempo ormai andato.

All’interno di NeXt c’è un’attenzione diretta agli effetti delle azioni a livello individuale. Non si tratta soltanto, come si diceva, di un pensiero bello ma distante, ma di un pensiero bello che cerca di essere anche utile, che verifica se le azioni portano un benessere oppure no...

È proprio questa la chiave: far capire che con i nostri gesti possiamo portare un cambiamento. I piccoli gesti quotidiani hanno importanza. Per me uno dei significati più importanti del Buddismo è che non si crede tanto nei grandi gesti rivoluzionari quanto nei piccoli istanti di cambiamento quotidiano, di sé o di sé con gli altri: questo abbiamo cercato di applicarlo anche in economia.
Il modello c’è. Si può chiamare economia civile, economia solidale, del bene comune, economia del noi, economia della felicità... l’importante è che al centro ci siano persone, ambiente e lavoro. Ci deve essere anche un rapporto con tutti e tre gli organi di cui si parlava all’inizio (Stato, organizzazioni/persone e mercato).
La nostra sfida è diffondere l’idea che investire in economia civile paga non solo perché è una scelta etica ma anche perché è conveniente. Se un imprenditore che abita nel nostro quartiere ha un impatto positivo per le persone che mette a lavorare, per il tessuto sociale che aggrega, per le ricadute ambientali, è un vantaggio per tutti. Inoltre, poiché investire in persone e ambiente ha un costo maggiore, abbiamo istituito i cosiddetti cash mob: al giorno e all’orario stabilito si va in gruppo ad acquistare i prodotti di un particolare esercente (libreria, negozio di abbigliamento, o altro) che rispondono a certi requisiti. Questi gesti hanno avuto un effetto incredibile sia sugli acquirenti, che si sono coordinati, hanno capito che la loro azione non era isolata ma poteva avere un impatto; sia sull’imprenditore, che avendo investito un costo extra ha avuto un riscontro in un mercato che lo riconosceva e lo premiava. Lo stesso vale per un bar che elimina le slot machine, dove l'esercente perde soldi ma viene premiato dalle persone che frequentano molto di più il suo esercizio, o per una banca che decide di non investire in armamenti, azzardo o settori controversi.

Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore della Soka Gakkai, parlava di competizione umanitaria, da sostituire alla competizione economica. Sembra riecheggiare la vostra idea di sostituire la competizione con la “coopetizione”.

Il competere, essere sul mercato ed essere sostenibile dal punto di vista economico, non è sbagliato di per sé. Non dobbiamo avere paura di questo. L’importante è stare sul mercato con una logica collaborativa e cooperativa, che permette di essere anche più "coopetitivi" perché, per esempio,collaborando e creando reti sul territorio si riescono ad avviare processi innovativi più duraturi e stabili, o perché si anticipa quello che sarà un contesto normativo sempre più stringente sugli aspetti sociali e ambientali, e potrei elencare tanti altri motivi. Ma questo non vuol dire che alla responsabilità socio-ambientale non debba affiancarsi una corretta sostenibilità economica, perché in tal caso, se non ho saputo fare bene i conti e non riesco a pagare gli stipendi a fine mese, sarei io il primo tra gli "incivili".
È quindi l'idea di competizione che deve essere ripensata, e non vedere gli altri come soggetti da calpestare o da mettere dietro perché ci possono rubare la clientela. Siamo tutti potenziali partner, la domanda è così ampia che se ci mettiamo insieme possiamo tutti essere appagati e supporter l’uno dell’altro.

Alla luce dei princìpi fondanti dell’economia civile – reciprocità, gratuità, fraternità – la relazione tra le persone, tra chi assiste e chi è assistito, cambia completamente. Un’idea molto vicina al Buddismo, secondo il quale nulla esiste di per sé ma solo grazie a una relazione. Nichiren Daishonin, il fondatore della nostra scuola buddista, diceva: «Se si accende un fuoco per gli altri, si illuminerà anche la propria strada». Può farci degli esempi di applicazione di questa visione?

Intellettuali come Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti, Alessandra Smerilli hanno trattato in modo approfondito questo tema. Dobbiamo abbandonare l’idea che una persona bisognosa necessiti di un obolo. Tutto il contrario, le occorrono persone che la aiutino a rialzarsi e a gestire la propria vita e il proprio bisogno in modo autonomo, sapendo ovviamente che può collaborare con altri perché le difficoltà possono sembrare insormontabili. Uscire dagli schemi dell’assistenzialismo è allabase dell’economia civile e di tutti i modelli economici che tentano di operare un cambio di paradigma. Questo non esclude il dono, il terzo principio dell’economia civile; ma la gratuità non deve confondersi con l’altruismo o con la filantropia. La gratuità porta in qualche modo a mettersi accanto a una persona senza cercare di usarla a proprio vantaggio. Sempre in una logica di reciproco scambio.
Sia come individui sia come organizzazioni dovremmo sempre pensare a come creare valore condiviso con chi è allo stesso livello, né sotto né sopra di noi.

Un argomento toccato più volte in questa intervista è quello dei beni relazionali. La domanda di beni relazionali diventa sempre più strategica rispetto a quella di beni privati o di beni pubblici, poiché le relazioni di qualità sono la chiave del successo nei luoghi di lavoro e favoriscono la creazione di fiducia e di capitale sociale. Arrivando a dire che la vera determinante del benessere è legata alla produzione e al consumo di beni relazionali come l’amicizia, l’amore, la fiducia, l’impegno civile. Molto rivoluzionario. Ma come fare a operare concretamente questo cambiamento di paradigma così radicale?

È un punto importante, perché quella dei beni relazionali, insieme al principio della reciprocità, è la chiave di volta per cambiare il paradigma. Le risposte possono essere diverse perché il tema è molto vasto. Non c’è un’unica via. La reciprocità è il punto di partenza, poi c'è fraternità, gratuità, felicità pubblica, tutto quanto possa rendere quello scambio personale significativo, reciproco. Mentre nei vecchi modelli dell’economia mainstream il fine dello scambio è l’efficienza e la redistribuzione, il fine ultimo nell’economia civile è che attraverso i beni relazionali si metta al centro un tipo di fraternità che molto spesso viene cancellata da altri generi di miti, e quello dell’efficienza è uno tra questi. Per concretizzare tutte queste belle parole dovremmo realizzare mercati di qualità sociale dove gli aspetti di relazionalità e di reciprocità abbiano il primato.

Un’ultima domanda: riguardo a una problematica fondamentale come quella delle difficoltà di interazione tra generazioni, cosa si può fare per arrivare a collaborare?

Non esiste una risposta semplice. Innanzitutto ci dovrebbe essere un impegno da parte dei giovani, che se non acquisiscono un luogo di rappresentanza vera debbono prenderselo, anche in modo forte. Un’organizzazione di giovani che riescono a fare rete all’interno di un’azienda fa capire che non si tratta dell’istanza di un singolo in qualche modo leso, ma quella di più soggetti che vogliono essere parte attiva, protagonisti, che non devono essere penalizzati perché sono giovani, che non stanno rubando il lavoro a nessuno ma che anzi potrebbero migliorare quello di tutti.
Il dubbio è se dall’altra parte le persone meno giovani debbano sforzarsi, per esempio, di fissare per iscritto quote per i giovani all’interno dei loro organismi. Un'operazione di per sé insufficiente se non c’è una reale consapevolezza. Dovremmo stimolare un lavoro di aggiornamento, di formazione, calcando la mano sul fatto che è vantaggioso e conveniente, per le persone e per le organizzazioni, includere i giovani. Inoltre si tratta di una scelta etica che è giusto compiere. Ma i giovani devono fare la loro parte. La spinta e la voglia di cambiare le cose devono essere dirompenti.
Del resto, i soggetti che non cambiano in questa direzione sono destinati a fallire. I dati, gli studi, i progetti lo dimostrano: tutte le realtà che non vorranno adeguarsi coinvolgendo le donne, i giovani, o facendo inclusione sociale vera e non in chiave assistenziale, saranno fuori da qualsiasi processo. È questa la grande speranza. Possiamo anticipare quello che sarà obbligatorio domani, e per fortuna domani è già vicino.

Nessuno in strada

Il 10 dicembre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, è stato presentato il progetto “Nessuno in strada – Circoli rifugio”, realizzato dall'Arci e finanziato con i fondi 8x1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. L’iniziativa coinvolge 12 regioni italiane, 13 città, 16 circoli e una media di 4/6 persone per ogni territorio coinvolto. Qualche giorno dopo abbiamo intervistato Valentina Itri, la responsabile del progetto

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Come nasce l’idea?

Nei primi mesi del 2020, poco dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria, abbiamo verificato che parte della popolazione aveva difficoltà ad accedere ai servizi di base. Avevamo riscontro dai nostri circoli di nuove forme di povertà.
Si sono così sviluppate in modo autonomo delle esperienze di mutuo soccorso e abbiamo cercato di creare una rete. Il pensiero di aver costruito qualcosa rispondendo a un bisogno reale ci ha motivato e ha fatto sì che presentassimo questo progetto alla Soka Gakkai.

L’iniziativa si inserisce all’interno di un percorso di accoglienza già avviato. Può dirci di più?

Sì, si collega con tutte le esperienze di mutuo soccorso dei circoli. In particolar modo, con la pandemia, è stata creata una rete di solidarietà con gli enti locali: dalla distribuzione delle derrate alimentari all’assistenza agli anziani. C’erano già circoli che avevano attivato esperienze di accoglienza rispondendo ai bisogni specifici del territorio, come il circolo di Pistoia, Arci Pietralata di Roma, il circolo Porco Rosso di Palermo e il circolo di Bologna, che dava accoglienza soprattutto a donne. Lo facevano per pochi giorni, senza alcun finanziamento, come espressione di solidarietà locale.

Che tipo di programma è previsto per le persone accolte?

La rete Arci ha una lunga esperienza: conosciamo bene i processi di ingresso nel sistema di accoglienza e sappiamo che devono essere funzionali all’uscita, cioè a un reinserimento nella società. Il circolo rifugio risponde a un’emergenza. Noi la pensiamo come un’accoglienza ponte, che vada a coprire un periodo preciso: da quando la persona si trova per strada fino a quando viene inserita in un sistema pubblico. Siamo dei ferventi sostenitori del sistema pubblico di accoglienza, però vogliamo fare la nostra parte.

A chi si rivolge “Nessuno in strada – Circoli rifugio”?

Non c’è un profilo definito, l’unico requisito è quello di trovarsi senza casa e risponde ai bisogni del territorio. Ora ci stiamo preoccupando soprattutto di curare le relazioni tra la persona che deve essere accolta e la famiglia o i soci che devono accogliere. C'è una domanda molto alta.

Che numeri prevedete?

Prevediamo l’accoglienza di 5 persone a circolo per un massimo di 6 mesi. Quasi sicuramente saranno di più, perché si tratta di un’accoglienza di breve periodo. Il progetto prevede 60 persone accolte in questo anno. I circoli coinvolti sono quelli di Torino, Ventimiglia, Bergamo, Bologna, Perugia, Terni, Pistoia, Padova, Pescara, Roma, Napoli, Potenza e Palermo. Le persone verranno accolte sia in famiglia sia in appartamenti, talvolta già a disposizione dei circoli ma nella maggior parte dei casi presi ad hoc per questo progetto.

In base a quale criterio sono state scelte le città?

Abbiamo cercato di coinvolgere le città metropolitane e le realtà investite significativamente dal fenomeno dei “senzatetto” o da situazioni particolari come Ventimiglia, dove abbiamo attivato il circolo Scuola di pace che si rivolge soprattutto a migranti in transito. Daremo loro un tetto affinché portino a compimento il loro progetto.

Pensate di estenderlo su tutta la rete nazionale?

C’è un grande entusiasmo: abbiamo regioni in cui si sono attivati più circoli, nonostante il finanziamento fosse solo uno, e questo è stato molto positivo, perché ci ha dato la misura del desiderio di partecipare.

Chi sono attualmente gli ospiti?

Il progetto è appena partito. Al momento abbiamo tre persone in accoglienza a Roma, una italiana e due di origine straniera. Tre a Padova, una famiglia a Pistoia ed è in arrivo una famiglia a Palermo. Tutti gli altri circoli stanno lavorando alla selezione.
Conosciamo i rischi dell’accoglienza e vogliamo scongiurarli. Abbiamo organizzato due appuntamenti formativi con tutti gli operatori.
La prima procedura di selezione sarà conclusa a gennaio. Le persone accolte entreranno anche nella vita vera e propria dei circoli con progetti di promozione culturale, sociale e di mutualismo. La nostra idea è che anche quando l’accoglienza finirà il circolo possa rimanere un luogo dove poter tornare.


UNA TESTIMONIANZA SUL CAMPO


Simona Tocci, responsabile del circolo Arci Pietralata di Roma, racconta: «Il nostro circolo ha storicamente una forte vocazione sociale e per questa iniziativa c'è stata una buona risposta da parte del territorio, che include tutta la zona della Tiburtina. Fino a oggi sono state accolte due persone in nuclei familiari già impegnati nel sociale che hanno messo a disposizione una stanza della loro abitazione. Si vive, si mangia insieme, c’è uno scambio culturale importante. È un'esperienza di arricchimento reciproco di grande interesse, per cui si è pensato di chiedere a entrambe le parti di scrivere un diario. Non è importante per noi sapere come queste persone si siano ritrovate nella condizione presente, il nostro è un progetto aperto: in molti casi si tratta di persone che hanno perso il lavoro e non riescono a ritrovarlo. Anche se il tempo a disposizione non è tanto, chi viene accolto inizia un percorso per uscire dalla situazione in cui si trova. Si tenta un riscatto sociale: questo è il nostro sogno e speriamo di riuscirci».

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