Quando pronunciamo o udiamo questa parola il cuore lascia cadere le difese e cominciamo a comunicare a un livello più profondo. GRAZIE contiene il rispetto per l'altra persona, nasce dal coraggio e dall'umiltà.
Possiede ottimismo. Possiede forza.
Quando non sappiamo dire GRAZIE la nostra crescita personale si ferma e vediamo solo le colpe degli altri.
Quando invece decidiamo di dirlo ritroviamo grandezza e dignità, in noi e in ogni altra persona.
GRAZIE è l'essenza della nonviolenza.

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Grazie

Il potere di una parola

Per creare valore con coraggio e libertà

Per creare valore con coraggio e libertà

di Marina Marrazzi

A volte sgorga spontaneo, quando nella fatica o nel disagio rispondiamo alla gentilezza di chi, vicino a noi, si accorge della situazione e ci viene incontro. Togliendoci un peso, offrendoci un appoggio, riconoscendo la nostra ragione di fronte a un'ingiustizia. Grazie, grazie davvero.
Ma un pensiero più profondo - quello che il Buddismo ci invita a cercare continuamente e con cui ci insegna a restare sempre più in contatto - dice che il motivo per dire grazie non è sempre così chiaro e immediato, e che però, proprio quando sembra non ci sia niente e nessuno da ringraziare, un grazie puro, detto con coraggio, avrà conseguenze positive a cascata. A partire dal noi verso il mondo fuori di noi.

Come scrive Ikeda nel saggio precedente, l'unico modo per affrontare costruttivamente i conflitti (per esempio fra genitori e figli), la violenza (quella domestica e quella sociale) e persino la guerra è partire da un cambiamento nostro, interno. Può essere una maggiore assunzione di responsabilità, una visione più profonda del nostro tipo di legame con l'ambiente, il riconoscimento di un nostro preconcetto che ci costa accettare. Sempre e comunque un cambiamento che affina il nostro sguardo e ci invita ad abbracciare piuttosto che a respingere. E che può prendere il via dalla parola grazie, o incrociarsi con essa e acquistare forza. Perché dire grazie fa cambiare. Noi per primi. Apre la porta. Toglie dall'isolamento. Fa uscire dal rancore. Dalla paura. Fa sorgere una nuova saldezza in noi e una nuova capacità di sentire gli altri.

Anche solo pensarlo fa cambiare condizione vitale.
Le prime quattro preghiere silenziose nel libretto di Gongyo contengono tutte l'espressione del sentimento della gratitudine: verso le funzioni protettrici della vita, verso il Gohonzon, Nichiren, verso i tre presidenti della Soka Gakkai, e precedono quella in cui preghiamo per manifestare la Buddità, trasformare il karma e realizzare i desideri. Leggere e rileggere quella parola "gratitudine" sentendola vera, sincera. Solo questo arriverà a modificare il nostro stato vitale.

Dire grazie non è solo ricambiare.
Come nel disarmo unilaterale: si può cominciare da sé a prescindere dalle mosse dell'"altro". In questo modo nasce un coraggio nuovo e la libertà di muoversi attivamente, di andare verso, di scegliere il meglio in modo autonomo.
È così che dire grazie diventa la chiave per aprire gli occhi sulla vita - davvero - sul fatto che nulla ci è dovuto, e che possiamo vivere attivamente e non subire le circostanze cominciando col salutare con gratitudine il momento che stiamo attraversando, sebbene a volte ci sembri incredibilmente difficile. Grazie.
Quando guariamo da una malattia. Quando superiamo una prova che ci ha messo in gioco. Quando semplicemente ci sentiamo bene. Quando il sole in primavera arriva ancora e ci scalda. Quando mangiamo qualcosa di buono se abbiamo fame. Nella fatica quando sentiamo che l'energia non è finita. Quando scopriamo di avere imparato da una difficoltà, e ci sentiamo migliori. Grazie anche quando non va, e capiamo cosa dobbiamo fare per cambiare. E anche quando non sappiamo da che parte cominciare, perché possiamo attingere alla parte più profonda di noi per guardarci dentro e ripartire. Grazie.

Già, dire grazie non è solo ricambiare. O forse sì, ma in senso molto profondo. Un senso che riusciamo a cogliere quando usciamo dall'isolamento del nostro qui-e-ora e percepiamo con umiltà e gratitudine la profonda realtà della rete che ci collega a tutti gli esseri viventi, dell'origine dipendente (giapp. engi). Per questo quei tanti nostri grazie apparentemente a fondo perduto sono un richiamo che parla della cosa più vera che c'è, e cioè che noi siamo qui-e-ora grazie alla catena di persone e alla rete di esseri che ci hanno preceduto e di quelli che, anche se non incontreremo mai direttamente, stanno condividendo oggi con noi l'esperienza della vita su questo pianeta.
Così, dire grazie non è tanto un rispondere ma un affermare, dichiarare dove si è, riconoscere quanto si ha e decidere di creare valore insieme alle altre persone.

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Non è solo ricambiare

In prima persona

In prima persona

di Giulia Marea

Io con il Grazie ci ho curato le mie crisi di panico. Una cura vera. Riuscita. Risolutiva. Senza recidive.
Erano anni che soffrivo di ansie generiche: niente montagna perché gira la testa, niente aerei, gite in barca, nemmeno il bagno in mare dove non si tocca né il sole forte, un tempo tanto amato. Ero arrivata a somatizzare le mie paure in malattie incurabili immaginarie, che si alternavano ciclicamente.
Poi, sedici anni fa, ho iniziato a praticare. In poco tempo la situazione aveva cominciato a peggiorare: le ansie erano diventate palpabili, come se i miei mostri si fossero staccati da uno schermo per assumere forma tridimensionale, in un paesaggio terrificante dove ero immersa e dentro il quale dovevo sopravvivere. La mia realtà era diventata l'inferno. Ogni giorno per me era una scommessa di arrivare viva alla sera. Mi svegliavo e facevo Daimoku (tanto, più di un'ora ogni mattina) con il solo desiderio di riuscire a farcela, di ritornare a casa senza impazzire o schiantarmi da qualche parte. Questo era il mio unico grande sogno, una prospettiva che mi sembrava priva di ogni plausibilità. E così ogni giorno, per mesi. Mani che sudavano, gola che si stringeva, vespe che giravano dentro la testa facendo un rumore assordante, urla che potevano esplodere da un momento all'altro smascherando il putiferio che avevo dentro, magari mentre lavoravo, prendevo un panino al bar, camminavo per strada facendo finta di essere "normale".
Poi, un giorno, il culmine. Ricordo perfettamente la sequenza dei pensieri e delle immagini mentali come al rallentatore. Stavo tornando alla sede del mio lavoro dopo una pausa. A pochi passi dal cancello ho sentito che questa volta era fatta: mi stavo per disintegrare in un'infinità di tessere, come un mosaico che va in aria. In quell'attimo mi sono ripetuta, in un filo di lucidità: «Quando la malattia si manifesta, il cattivo karma sta per esaurirsi». Il ricordo di questa frase ha avuto il potere di frenare l'accelerata verso l'esplosione. Ho visto di fronte un'unica alternativa: vivere o morire. Come due fogli di carta da scegliere, uno bianco l'altro nero.
E ho scelto: voglio vivere. Così ho preso il foglio bianco e ho firmato, anche se non vedevo cosa. Firmavo in "bianco", decidendo che qualsiasi clausola avesse comportato, per quanto io non ne fossi stata capace, io volevo vivere. Volevo imparare di nuovo, ero disposta a tutto. Così ho cominciato a calmarmi, e mi sono vista davanti una saracinesca abbassata, che lasciava aperto uno spazio appena sufficiente per strisciare sotto e passare. Di là c'era la vita, e quella serranda si stava per abbassare definitivamente. Avevo un'ultima possibilità e così, commossa e tremante, sono strisciata sotto. Grazie. Baciando per terra, accarezzando la terra, sono passata di là.
Mentre come in un film vedevo tutto questo, stavo capendo il senso del mio dolore e il compito che mi aspettava. La vita mi stava per chiudere la porta in faccia perché io l'avevo snobbata per anni e anni (chissà da quando). Offesa, guardata con sufficienza, considerata mai abbastanza. Mai guardata per quello che era, ma coperta dalle mie immagini di me, e di quello che volevo e non volevo.
Tutto da imparare di nuovo. Grazie. Grazie al giornalaio che ora finalmente guardavo in faccia mentre mi porgeva il resto, a cui sorridevo e dicevo Grazie. Grazie a tutte le facce che incontravo, alle persone che mi telefonavano, al lavoro che mi trovavo a fare con più amore e diligenza. A poco a poco, giorno dopo giorno, il corpo cominciava a placarsi e imparare di nuovo a stare dentro la vita. Il mondo non era più un immenso sfondo da tappezzare con manifesti di me e della mia insofferenza, fino a coprire tutto ciò che è reale. Cominciavo a camminarci dentro, al reale, imperfetto ed enormemente più vasto di me, a guardarlo e dire Grazie.

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Il pensiero che cura

In prima persona

In prima persona

di Lea Moreno

A volte le parole sono dure come la grandine. Arrivano improvvise. Ti nascondi ma eccole là che picchiettano sui vetri della tua coscienza, ti sembra quasi che li faranno in pezzi, quei vetri, e che ti raggiungeranno ovunque. Come quella frase di Nichiren che più di venti anni fa piombò in mezzo alle mie convinzioni facendole in pezzi: «L'inferno dimora nel cuore di una persona che disprezza suo padre e non si prende cura di sua madre».1 Me l'aveva letta un'amica, le avevo detto, sai, mio padre beve e quando beve diventa un altro e, io non lo so, ma mi fa schifo, quando mi viene vicino e mi tocca, mi fa orrore. Li hai mai visti gli occhi di un uomo che beve?? No?!? Ecco se tu li vedessi, se tu li conoscessi come li conosco io, proveresti lo stesso sentimento. Questo le avevo detto. Lei mi aveva guardata e con un mezzo sorriso mi aveva buttato in mezzo alla grandine. Non sapevo dove ripararmi, forse non volevo ripararmi visto che ero io ad aver scelto di essere buddista, ad aver scelto di fare della mia vita un mezzo per scoprire la mia umanità e la felicità che questo sentimento, forte e delicato allo stesso tempo, può dare.
A quelle parole che mi sembravano dure e fredde ne seguirono altre. Mentre cercavo di non farmi sommergere dall'amarezza e dalla solitudine di avere un genitore alcolista, di avere una madre che urlava soltanto e che non mi aveva mai veramente vista, che non si era mai accorta di me, mentre a mia volta ero chiusa, crudele e cattiva con loro contribuendo a creare un circolo infernale senza via d'uscita, continuavo a leggere il Gosho. E a cercare risposte nelle parole di quell'uomo giapponese, Daisaku Ikeda, che aveva più o meno l'età di mio padre ma che a differenza di lui sembrava parlare proprio a me, vedere proprio me e mi arrivava dritto dentro l'anima. Leggevo quelle frasi e quando la rabbia mi assaliva, quando dopo certe notti, dopo certi sogni, quando avrei solo voluto vederli soffrire, chiedere perdono in ginocchio, ecco che sentivo di nuovo la grandine sulla mia pelle, sugli occhi, sulle mani. Che male, che dolore. Che sofferenza pensare forse non ho proprio ragione, forse il mio cuore si sta seccando, forse tutta questa rabbia è sbagliata, forse quella strada lì, quella del rancore, dell'odio, non è la strada giusta, forse così non guarirò mai. Continuavo a leggere. Continuavo a parlare del Buddismo. Li andavo a trovare, me n'ero andata di casa giovanissima, iniziarono a praticare, e tra alti e bassi, proprio quando tutto sembrava essere entrato in una nuova fase, mio padre si ammalò. Fu una malattia devastante e molto dolorosa: morì mentre recitavo Daimoku nel suo orecchio, accompagnandolo con il suono della mistica Legge che si riverberava in ogni fibra del suo essere in questo viaggio così difficile e spaventoso. Sentii di esserci riuscita perché negli otto anni precedenti a quel momento avevo fatto di tutto per ripulirmi del rancore verso di lui.
Credevo di esserci riuscita. Eppure non era finita.
Di nuovo la grandine. «Una persona che abbraccia il Sutra del Loto ripaga il debito di gratitudine verso il proprio padre e la propria madre. Anche se nel suo cuore può non capirlo, attraverso il potere di questo sutra sta ripagando il suo debito verso di loro».2 Perché Nichiren scriveva questo? Che debito ho io verso di loro? mi chiedevo. Perché scriveva: «Anche se i genitori sono dei malfattori, se il figlio è virtuoso le colpe dei genitori saranno perdonate»?3 Perché? Non lo capivo, non lo sentivo, ma continuavo a recitare Nam-myoho-renge-kyo, a incoraggiare gli amici a fare la stessa cosa. Continuavo, continuavo. E alla fine, eccolo il mostro che per tutta la vita aveva premuto alle porte della mia coscienza e che fino a quel momento ero riuscita a tenere lontano. Quel mostro urlante, strisciante, che voleva farmi implodere, che voleva distruggermi, annientarmi. Qualcosa di così profondo che mi pareva una seconda pelle, un'altra me. Una me senza via d'uscita. Dopo diciassette anni di pratica e milioni di Daimoku un'ennesima terapia si rivelò quella giusta, finalmente ricordai. Ricordai le notti iniziate quando avevo due anni, mio padre che mi stringeva e mi faceva, oddio, no, non è possibile, mi faceva proprio questo, proprio questo no. Ricordai le notti in cui veniva nel mio letto e io mi rintanavo in un buco lontano, dove lui non poteva arrivare, dove potevo essere solo io con il mio dito in bocca a cui mi aggrappavo come a un salvagente, che non mi facesse affogare, che non mi facesse svegliare, non mi volevo svegliare, non volevo, non volevo. Ricordai la mia angoscia, la mia solitudine, la mia totale, assoluta mancanza di prospettive, il mio mondo che da dentro senza che nessuno se ne accorgesse era andato miseramente in pezzi. Ricordai tutto questo. Fu come entrare in una stanza, quella stessa stanza che conoscevo così bene, in cui avevo passato tanti anni, da una porta di cui neanche sospettavo l'esistenza. Una porta apparsa improvvisamente e che poi, a ben pensarci, no, era sempre stata lì. E da quella porta, da quella nuova prospettiva ora rivedevo tutto, sentivo nuovamente tutto, potevo ricostruire tutto. Recitavo Daimoku e il dolore mi affogava, uscendo dagli occhi, dalla bocca, come una marea. Piangevo e piangevo ancora davanti al Gohonzon, era terribile, che mi hai fatto? Che mi hai fatto? Come hai potuto farlo a me, la tua bambina, tua figlia, quella piccola bambina con gli occhi verdi e i capelli scuri che trotterellava tutta allegra per casa fino a che non sei arrivato tu con le tue ali da predatore, i tuoi artigli di bestia, le tue parole di giuda? E tu, madre, come hai potuto lasciare che tutto questo accadesse?
Leggevo la frase del Gosho di Capodanno e mi veniva da vomitare. Ma come faccio, come faccio mi dicevo, a provare gratitudine? Come faccio a non disprezzarlo? Come faccio a curarmi di lei? Non avrà mai fine il dolore, allora? Come faccio? L'oscurità cercava di inghiottirmi l'anima, l'oscurità che aborre la luce, come dice il presidente Ikeda, l'oscurità che trova mille modi per fagocitarti, e che è così ben preparata, astuta e intelligente che riesce a trovare proprio le leve giuste, proprio quelle che ti portano lontano, lontano dove luce non c'è, dove non vedi la buca che si apre sotto i tuoi piedi, la buca dentro la quale finisci senza neanche accorgertene. Mentre tutto questo cercava di accadere, il Daimoku, il mio amore per le altre persone, il desiderio che anche chi sembrava non avere possibilità ne avesse almeno una, lavorava, funzionava. Parlavo con le persone e le spingevo a fare proprio quello che stavo facendo anch'io: passare attraverso la sofferenza, viverla fino in fondo, non averne paura. E intanto leggevo: «Il secondo debito di gratitudine è quello per il padre e la madre: per nascere nei sei sentieri è indispensabile avere dei genitori. Se uno nasce in una famiglia di assassini, di ladri, di gente che viola le regole di condotta o di gente che offende la Legge, benché egli non commetta tali colpe partecipa del loro karma. Quanto ai miei genitori in questa esistenza, dandomi la vita mi hanno fatto diventare un credente nel Sutra del Loto. Perciò devo ai miei attuali genitori una gratitudine ancora più grande che se fossi nato nella famiglia di Bonten, Taishaku, dei quattro grandi re celesti o di un re che gira la ruota e avessi ereditato il triplice mondo o i quattro continenti e fossi venerato dalle quattro categorie di credenti nei mondi umani e celesti».4
Leggevo questa frase e non riuscivo a crederla possibile. Andavo davanti al Gohonzon ogni momento, ogni momento dentro di me recitavo, finché un giorno improvviso eccolo. L'amore per lui, la bestia, il cattivo. L'amore per lui al di là di tutto. La forza del legame che ci unisce e ci unirà sempre.
Anche se continuavo a pensare io non ho avuto un padre. Poi una mattina, mentre recitavo Daimoku, ho sentito risuonare tutte le parole e la forza che mi ha dato il mio maestro, Daisaku Ikeda, in questi anni. L'ho avuta una guida, eccome. E ho potuto lasciare che entrasse così dentro di me proprio a causa dell'assenza dell'altro, o meglio della sua presenza malata. E non ho avuto una madre. Ma poi no, eccola lì. L'ho rivista giovane e bionda e bella e piena di speranza. Ho ripensato alle torte che ci preparava. Ho ripensato ai maglioni che ci faceva. Ai suoi pranzi, alle sue cene. Alle sue risate. A quel suo trovare anche nelle situazioni più disperate qualcosa per cui sorridere. A quella notte quando in preda a un incubo mi aveva stretta tra le sue braccia. A quella volta quando a Parigi, dove ero scappata, mi mandò dei soldi. Al suo profumo, alle sue mani, a quanto l'amavo, profondamente, di un amore senza limiti, a tutta la sofferenza che ha passato, per la morte di mio fratello, per aver trascorso l'esistenza senza avere nessuno accanto. O meglio avendo accanto un uomo che non l'ha mai voluta capire, amare, aiutare. A tutti gli anni in cui ha praticato e ha continuato a farlo. A tutte le persone che ha incoraggiato. A tutte le persone che, per quello che lei è, né più né meno, la amano, e sono davvero tanti. Ho pensato a lei adesso. Ha i capelli bianchi e non ci vede quasi più, ma è sempre lei. Piena di forza e di coraggio, e di qualità che prima del Daimoku, prima di fare del Gohonzon il centro della sua vita, erano tutte contro di lei. Eccola lì, è ancora viva. Ho la fortuna di poterci parlare, di poterla chiamare se ne ho voglia, di andarla a trovare, di prenderle la mano, e quanto la capisco, adesso. E allora, in quei momenti, silenziosamente, a lei che mi ha dato la vita, a lei che ha nutrito la mia esistenza, a lei che mi ha permesso di incontrare il Gohonzon, faccio una promessa. Perché adesso ho davvero capito che «il Sutra del Loto è il sutra della vera riconoscenza che permette di ripagare il debito di gratitudine nei confronti di mia madre»5 e che a questo, al Sutra del Loto, grazie a lei, grazie a lui, continuerò a dedicare la mia vita.

Note

1) Gosho di Capodanno, SND, 4, 271.
2) GZ, 1528.
3) Lettera a Konichi-bo, SND, 6, 71.
4) I quattro debiti di gratitudine, SND, 7, 134-135.
5) Il sutra della vera riconoscenza, SND, 8, 110.

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L'inferno è nel cuore di chi disprezza suo padre...

In prima persona

In prima persona

di Emanuela Bergonzoni

La mia prima grande fortuna è stata incontrare il Gohonzon nel momento peggiore della mia vita.
La seconda riconoscere nella persona di Daisaku Ikeda il mio maestro.
L'insegnamento più importante appreso fino ad ora: ripagare i debiti di gratitudine verso i genitori.
L'occasione: avevo ventun'anni quando mio padre improvvisamente, in un momento di follia, uccise mia madre manifestando così la sua malattia mentale: schizofrenia paranoide.
Non è facile mai per nessuno affrontare grossi ostacoli, a maggior ragione quando si è giovani come è successo a me, cioè quando non si può fare affidamento su nessuna certezza e su nessuna persona, ma ora posso dire di essere stata privilegiata: quando si affrontano grandi difficoltà a vent'anni e si ha la fortuna di recitare Nam-myoho-renge-kyo si ha l'occasione di vivere meglio per il resto della vita. «Costruire la struttura della propria vita durante la gioventù - scrive Ikeda - e poi lottare per completarla è il modo sicuro di vivere. Spero perciò che tutti voi vi sforziate nella fede, recitiate Daimoku con impegno e facciate del Buddismo - la suprema filosofia della vita - la base della vostra esistenza» (La nuova rivoluzione umana, vol. 9, p. 81).

Non è facile raccontare un'evoluzione così lunga, comunque il punto di partenza è sempre quello: cercare di non vedere il problema al di fuori della nostra vita, per quanto sia difficile la situazione.
Tutto ciò in cui avevo creduto fino a quel momento - la mia famiglia - era crollato, il boato era stato così forte e assordante che aveva spazzato via ogni sentimento. È atroce non provare né gioia né dolore, né rabbia né rancore, sentivo che il mio cuore era sospeso in non si sa quale dimensione, distaccato da tutto e da tutti, la sfiducia incombeva su ogni aspetto della mia vita, mi muovevo come un automa per cercare di far fronte alle situazioni contingenti: gli avvocati, l'azienda di famiglia, i soldi per vivere, le visite a mio padre in carcere prima e nel manicomio criminale poi, pagare le bollette, occuparmi di mio fratello minorenne... era veramente troppo per una ragazza di soli ventun'anni. Che colpa ne avevo io. Andavo avanti aspettando il crollo definitivo, percorrendo un tunnel buio e senza fine.
Ora ripenso a quali incredibili cause positive devo aver posto in passato per aver ricevuto shakubuku proprio in quel momento: venire a scoprire dell'esistenza del karma è stata una folgorazione, era un concetto così assurdo che doveva essere vero, e comunque non avevo nulla da perdere. La prima esperienza è stata percepire una flebile luce in fondo a quel tunnel, che mi ha permesso di ricevere il Gohonzon e di ricominciare a vivere.

Quante volte sono caduta e quante volte mi sono rialzata, recitando Daimoku con l'obiettivo di essere felice a prescindere da quello che mi era capitato, in ventidue anni di pratica centinaia di volte. Ho capito infine che il mio limite è quello di essere dominata dalla paura indipendentemente da quel trauma, anzi è proprio per questa causa primaria negativa che si è manifestato quell'effetto indesiderato. Fortunatamente ho cominciato a credere anche di possedere la causa primaria positiva assoluta, la Buddità, e a far leva su di essa per poter cambiare.
L'essenza del Buddismo è non smettere mai di praticare, è andare fino in fondo qualsiasi cosa accada e voler vedere la fine, volerci credere a tutti i costi, non smettere di desiderare che anche per noi è possibile essere felici.
Ore di Daimoku, valanghe di shakubuku, quintali di attività: non mi sono fatta mancare niente nel tentativo di mettere in pratica il Gosho. Quanti dubbi, quanti errori, quanto dolore, ma non mi sono arresa grazie alla pratica corretta e alle guide del presidente Ikeda.
Oggi nei confronti di mio padre sento un'infinita compassione, provo un'immensa pietà se penso alla sua vita immersa nel mondo d'Inferno, pervasa dall'odio, dalle manie di persecuzione e senza amore. Fermo restando il naturale dolore per la mancanza di mia madre, provo una grande serenità se penso che la sua morte è servita a farmi iniziare a praticare, questa causa ha generato un'onda di felicità inarrestabile, ho parlato della pratica a centinaia di persone, ho sempre cercato di aiutare i miei compagni di fede in difficoltà e di essere un esempio positivo nella società, tutto questo in nome suo, e sono sicura che la sua vita sta manifestando gli effetti di una retribuzione karmica alleggerita.
Ho pensato a lungo a quello che era determinante trasmettervi dal punto di vista della fede e alla fine sono giunta alla conclusione che era importante comunicarvi il mio "pensiero felice", ovvero le sensazioni che sono emerse davanti al Gohonzon in questi ultimi anni e che sono il risultato del mio cammino di fede relativamente al principio della gratitudine, alla relazione con mio padre e alla morte di mia madre. Da quando questo pensiero è diventato il mio pensiero costante (mai ji sa ze nen, come recitiamo in Gongyo) un grosso peso si è sollevato dal mio cuore. Quello che provo ora è la vivida sensazione di aver partecipato alla Cerimonia nell'aria sul Picco dell'aquila, mi sento "felice e a mio agio", mi trovo in mezzo a miriadi di Bodhisattva della Terra e giuro di propagare il Sutra del Loto e per questo faccio voto di assumermi il "karma appropriato" di avere un padre che uccide la madre; ma non è tutto, al mio fianco due bodhisattva decidono di essere rispettivamente mio padre e mia madre in questa vita e di aiutarmi a portare a termine il mio compito. Questo è il motivo per cui oggi provo un'infinita gratitudine, nella medesima misura, nei confronti dei miei genitori, e ora posso solo ripagare questo debito con l'ottenimento della Buddità per poterli riscattare.
«Devo riuscire a cambiare radicalmente il karma della mia famiglia. Credo sinceramente che questa sia la mia missione» scrive Ikeda nel Diario giovanile. Con le parole del maestro nel cuore vado avanti.
Nel frattempo ho trovato anche la forza di realizzarmi come persona, ora sono moglie, madre e come artista ho sempre trovato il modo di realizzarmi anche economicamente e soprattutto ho creato buone relazioni sia con i compagni di fede che con l'ambiente.
In questo momento sono convinta che se anche ne avessi la possibilità non cambierei la mia vita con quella di nessun altro e posso senza ombra di dubbio pronunciare le parole: non esiste nulla di più meraviglioso del Gohonzon.

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Dedicata alla divisione giovani

All'opposto della gratitudine, lamentarsi è un'offesa alla vita

All'opposto della gratitudine, lamentarsi è un'offesa alla vita

di Lodovico Prola

Uno dei benefici più preziosi che ho ottenuto dalla pratica buddista è la consapevolezza di vivere in un sistema che definirei "di reciprocità". Intendo dire che una delle scoperte che più mi hanno cambiato la vita, fino a dirigere anche le azioni più banali della mia esistenza quotidiana, è la consapevolezza che il mio modo di pensare, il mio atteggiamento, per non parlare delle mie azioni nei confronti di tutto ciò che mi circonda, implicano una risposta dall'ambiente dello stesso segno.
Se rispetto la vita e la sostengo, ho cura del mio ambiente, ho un atteggiamento altruista verso chi mi circonda, la vita, l'ambiente e le persone accanto a me rispetteranno e sosterranno la mia vita. Qualcuno penserà che ho scoperto l'acqua calda, ma il principio non è affatto banale, ed è assai difficile da mettere in pratica. Si possono fare interessanti esperimenti nella nostra vita quotidiana per accorgersi che occorre continuamente cambiare il nostro naturale approccio a tutto quello che ci circonda. Credo che l'enunciazione più chiara e sintetica di questo profondo principio sia quella formulata da Nichiren Daishonin: «È come il caso in cui ci si inchini rispettosamente davanti a uno specchio: l'immagine nello specchio allo stesso modo si inchina rispettosamente davanti a noi» (La raccolta degli insegnamenti orali, vedi questo giornale, p. 55).
Se volessimo approfondire le basi teoriche di questo processo troveremmo il suo fondamento nei principi buddisti di "origine dipendente" e di "unità dell'individuo e dell'ambiente", o il meno noto principio di "inerenza e pervasione".
Ma la cosa che più conta è che il modo più bello, significativo e profondo per "inchinarsi" di fronte allo specchio della vita è quello di provare gratitudine. Per la vita, le persone, la natura e le circostanze. Anche la gratitudine è un processo bidirezionale. Siamo immersi in una rete, in una sorta di relazione simbiotica con tutto ciò che ci circonda. Di conseguenza il mio atteggiamento di gratitudine non è racchiuso nel mio io, ma implica un rapporto di reciprocità con il mondo esterno, che mi risponderà sulla stessa lunghezza d'onda. La gratitudine, in quanto espressione della fede di una persona, attiva una risposta positiva dall'ambiente. Scrive Nichiren: «La fragranza interna otterrà protezione esterna» (SND, 4,172). È un circolo virtuoso: la fede si esprime con gratitudine, la gratitudine dona benefici che alimentano la fede e la gratitudine.
Più ancora che l'ingratitudine, l'atteggiamento con il segno diametralmente opposto alla gratitudine è la lamentela. Non riuscire a cogliere alcun elemento positivo da una situazione apparentemente difficile, non apprezzare chi ci circonda, non riuscire a trarre insegnamento dalle relazioni che ci fanno soffrire, in una parola lamentarsi, fa uscire dall'ambito della fede, dal circolo virtuoso appena descritto. Se la gratitudine è l'espressione della fede e pone una causa positiva nella nostra vita, la lamentela è una forma di offesa alla vita, con tutto ciò che ne consegue.
Scriveva a proposito della gratitudine Satoru Izumi: «Un giorno un uomo mi disse: "La mia malattia è migliorata notevolmente, ma non sono ancora completamente guarito". Gli risposi: "La parola ma si usa quando ci si lamenta. Se non smetti di lamentarti, non potrai ricevere alcun beneficio. Se lodi qualcuno o lo ringrazi e poi aggiungi un ma, non è più un ringraziamento. [...] Visto che sei molto migliorato, dovresti ringraziare il Gohonzon per questo. Poi, dato che non sei ancora completamente guarito, prega per una guarigione perfetta. Non confondere le due cose"». (La fede e la vita quotidiana, Esperia, pp. 60-61). E ancora: «L'uso della congiunzione ma spesso nega l'affermazione precedente. Anche le parole di ringraziamento divengono parole di lamentela con l'uso del termine ma. Le nostre lamentele sono manifestazioni di ingratitudine e perciò, per quanto riguarda la fede, sono considerate come una forma di offesa» (citato in Duemilauno, n. 42, p. 57).
Essere grati, cioè manifestare comunque gratitudine, è un esercizio di fede: non dipende da ciò che ci succede, per cui sono grato solo se mi capita qualcosa di buono o di piacevole. Posso essere grato a qualcuno che mi fa arrabbiare, perché ad esempio mi mostra quanto è ancora instabile il mio carattere, o a chi mi fa soffrire, perché mi indica il karma che devo cambiare. Posso essere grato a quel problema che mi è capitato perché mi ha permesso di tirar fuori nuove capacità, oppure perché mi ha fatto praticare con maggiore forza. Essere grati talvolta viene naturale, ma più spesso è un impegno, una disciplina, più che un dono di natura.
«Guardare gli eventi e le situazioni in una luce positiva è importante. La forza, la saggezza e la gioia che accompagnano un simile atteggiamento portano alla felicità. Guardare le cose con ottimismo o benevolenza non significa essere stupidamente ingenui e permettere agli altri di approfittare della nostra buona disposizione d'animo. Significa avere la saggezza e l'intuizione di muovere le cose in una direzione positiva, considerandone l'aspetto migliore pur rimanendo concentrati sulla realtà». (D. Ikeda, Giorno per giorno, 27 gennaio)

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