Unicità di opposti: di fede e vita quotidiana.
Di assoluto e relativo.
Di realtà fondamentale e tutti i fenomeni.
Di Illuminazione e desideri terreni.
Di Budda e comune mortale.
Si tratta di uno dei gioielli teorici
su cui si fonda la filosofia buddista.

Nelle pagine che seguono una riflessione sui motivi per i quali religione e società non vivono su piani diversi. Perché nel Buddismo gli strumenti che servono a perfezionare
la propria vita interiore e raggiungere
una condizione di appagamento spirituale
sono esattamente gli stessi da utilizzare
per agire nell’ambiente sociale. E trasformarlo

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Felicità in questo mondo

di Gianna Mazzini e Serenella Mete
È importante essere felici per una promozione, per un amore grande o soffrire per una separazione o una delusione. Ma nel frattempo, dentro, proprio dentro, è possibile costruire una felicità che non sia influenzata da niente e da nessuno. In modo che, perfino negli abissi dell'angoscia o nei momenti di pazza felicità, al centro del nostro essere ci sia sempre un tesoro indistruttibile
Felicità: siamo sempre in ritardo, si dice. Oppure in anticipo. 
Come se ci fosse un vizio, un impedimento: io sarò felice il giorno che, io sarò felice se: e una serie infinita di cose. La felicità è un’idea di come si dovrebbe essere. Di come dovrebbe essere la vita. Una sorta di modellino prestampato che ha una forma e quasi mai la nostra. 
E poi, si dice, la felicità non dura. È un attimo e si tratta di essere capaci di coglierla per quello che dà. Passa, la felicità passa. 
E poi, si dice, felici si nasce: è questione di carattere, di disposizione d’animo. Ci sono quelli che nascono e gli va tutto bene dall’inizio, genitori speciali, case grandi, mille attenzioni. E ci sono quelli che fin dall’inizio devono lottare; e per quelli, no, la felicità è un miraggio. Un incidente, un equivoco. Ci vuole una vita senza problemi, mai il dolore di non essere capiti, capite, non sapere cos’è un’umiliazione, un difetto fisico o un disagio più profondo. Questa sì che assomiglia alla felicità. O forse no, neanche questa le somiglia, perché la felicità non è la mancanza di infelicità. E poi, si dice, la felicità non sta nella vita di tutti i giorni. È fatta di vincite e isole lontane, palme e noci di cocco. Non ha legame con le scrivanie, o le pile di piatti. È sospesa: gabbia d’oro nel trantran di tutti i giorni. 
La felicità vista così è un incrocio magico di me e il mondo, come una combinazione fortunata che, una volta ogni tanto, fa bingo. Non ha regole. Non c’è modo di chiamarla. Viene se le va. E, soprattutto, passa. 
La felicità passa. 
Dice Daisaku Ikeda: «La maggior parte della gente si illude che la felicità dipenda dalle circostanze. La felicità relativa dipende totalmente dalla relazione precaria che esiste tra una persona e il suo ambiente. Supponiamo che abbiate fame e che qualcuno vi offra un pasto splendido. La vostra fame è soddisfatta da qualcosa del vostro ambiente, in questo caso il pasto, e sentite un momentaneo senso di felicità relativa». Molte delle nostre felicità hanno quest’andamento: bisogno e soddisfacimento del bisogno. Desiderio e realizzazione del desiderio. E questa il Buddismo la chiama Yoku-raku, cioè «la gioia che deriva dalla realizzazione dei desideri e dai piaceri dei cinque sensi». 
Non è certo una cosa brutta. Non è certo brutto avere una lavoro pieno di valore, un amore che ti brilla gli occhi e un corpo sano. Non si tratta di negare il valore di yoku-raku, di sminuire cose tipo successo professionale, affetti e salute. Il Buddismo dice semplicemente che questo tipo di cose è felicità relativa, un tipo di felicità che dipende dalle cose esterne e quindi transitoria e mutevole. Fragile, insomma. 
E che ce n’è un’altra, stabile invece. Si chiama ho-raku, è la «gioia che deriva dalla Legge«. «Non c’è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo». La felicità assoluta è uno stato d’animo spettacolare eppure stabile. Una condizione che non dipende dai continui cambiamenti dell’ambiente, ma che scaturisce dalla stessa entità della Legge: è la gioia incommensurabile della vita dell’universo. 
È importante essere felici per una promozione, un amore grande o soffrire per una separazione o una delusione. Ma nel frattempo, dentro, proprio dentro, si tratta di costruire una felicità che non sia influenzata da niente e da nessuno. Che perfino negli abissi dell’angoscia o nei momenti di pazza felicità, al centro del nostro essere ci sia sempre questo tesoro indistruttibile.
Felicità 
Ho visto un film: il protagonista stava perdendo gradualmente e inesorabilmente l’udito. E si segnava tutti i suoni che conosceva per ricordarli quando non li avrebbe potuti sentire più. Nel quadernino scriveva: tuono durante un temporale, battito del cuore quando ti appoggi al petto di chi ami, miagolio di un gatto, la musica di Mozart. E tu che guardavi cominciavi ad allenare il tuo orecchio sano a riconoscere come belli tutti i suoni più ovvi. Rumore di macchine, squillo del telefono, caffè che sale, cigolio della porta, parole. A un certo punto della storia scoppiava un temporale: mi ricordo la gioia di quella scena. Lui che rideva sotto la pioggia e lei che lo accompagnava e sapeva tutto. Che gioia, tutti quei suoni. 
Sono uscita dal cinema con uno stato d’animo strano, sorpreso, tutta nuova. Con un’insolita gratitudine sorridevo agli ingorghi di Roma, al frastuono della città, per la prima volta così gioioso da sembrarmi un carnevale. Beh, la felicità assoluta di cui parla il Buddismo ha a che fare con questo. Con la capacità di sentire musica nei suoni più fastidiosi, di vedere la vita nelle scene più tristi, di sapere, dentro, dentro, nel profondo del cuore il senso delle cose. Un batticuore e una passione per la vita così com’è. 
A proposito dell’udito, il Sutra del Loto afferma: «Purificheranno le orecchie così da poter udire tutte le varietà delle parole e suoni dall’interno e all’esterno di migliaia di milioni di mondi, giù in basso fino all’inferno Avichi e su in alto fino alla sommità dell’Essere. Suoni di elefanti, di cavalli, di buoi, di carri; suoni di pianto, di lamento; suoni di conchiglie, di tamburi, di campane, di campanelli; suoni di risate, di discorsi, voci di uomini, voci di donne, voci di ragazzi, voci di ragazze; la voce della Legge, la voce che non è Legge...» e la lista continua lunga e piena di tutti i suoni di cui è capace la vita. Quanti suoni siamo capaci di sentire veramente? 
E non si tratta di avere un udito finissimo, ma di utilizzarlo (anche fossimo completamente sordi) per sentire la vita. 
La vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto e la mente sono le porte che collegano il piccolo universo della nostra vita al grande universo. E il Buddismo dice che hanno molto a che fare con la felicità. Perché purificarli significa armonizzare la propria vita con quella dell’universo. E questo significa poter diventare indistruttibilmente felici. 
Pensiamo agli occhi. Afferma il sutra: «Questi uomini e donne devoti, con i puri occhi naturali che hanno ricevuto dai loro genitori alla nascita, vedranno tutto ciò che esiste all’interno e al di fuori delle migliaia di milioni di mondi: le montagne, le foreste, i fiumi e i mari, giù in basso fino all’inferno Avichi e su in alto fino alla sommità dell’Essere». Questo significa che i nostri occhi così come sono, anche quando totalmente privi della vista, hanno in realtà in sé la capacità di vedere la vita per com’è veramente. Cioè in tutta la sua magnificenza e il suo splendore di verde che pulsa, di nascita continua e continuo andare. Il beneficio dell’occhio è la capacità di distinguere il sentiero della felicità, per se stessi e per gli altri. Vuol dire cominciare a capire ciò che cerchiamo e ciò che gli altri cercano e quello che possiamo fare per aiutarli. «Non c’è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo» dice il Daishonin in Felicità in questo mondo. Perché è recitando Nam-myoho-renge-kyo che possiamo purificare gli occhi. 
Dice Daisaku Ikeda: «Il Buddismo non si discosta dalla realtà: non promette di eliminare le sofferenze o le menomazioni fisiche, ma ci dà la forza vitale per non soccombere davanti a esse. Che senso ha parlare di purificare l’occhio nel caso di persone prive della vista? In realtà avere una vista perfetta non significa essere in grado di percepire l’essenza delle cose, mentre credendo nella Legge mistica è possibile aprire l’occhio della mente». L’occhio della mente è quella capacità, tutta umana eppure divina, di cogliere il senso delle cose, di vedere i nessi, di capire il perché. E questa stessa visione vale per gli altri sensi: il tatto, l’odorato, il gusto. La mente. 
Riguardo all’odorato il sutra afferma: «Il sostenitore del Loto distinguendo il loro odore saprà tutto ciò». Dice ancora il presidente Ikeda: «Ogni persona ha una sua fragranza. Non c’entra niente il profumo o l’odore del corpo ma la fragranza del cuore, la fragranza della vita. Chi studia, chi si sforza e cerca di migliorare possiede la fragranza della tenacia, che è robusta, simile alla vegetazione fresca. Ma chi è indolente e apatico sembra emettere uno spiacevole odore di putrefazione. La differenza è impressionante». 
L’odorato, inteso così, ha a che fare con la capacità di annusare la vita. Di annusare la direzione della propria vita. Ognuno dei nostri sensi, ogni singolo brandello della nostra vita ha la possibilità di esistere pieno di senso o di svolgere più semplicemente una funzione. 
Aprendo i nostri sensi, purificandoli, costruiamo la capacità di capire la vita tutta: un esempio? Sentire la tendenza vitale delle persone che abbiamo intorno: individuare chi ha cattive intenzioni e proteggere le persone care. O capire al primo colpo come sta la persona che stiamo incontrando. Possiamo imparare a sottrarre quell’incontro (anche quelli in ascensore) alla casualità del momento e a farlo diventare una parte della nostra vita (e non quell’imbarazzo e il pensiero: quanti piani ci sono ancora per arrivare?). Questo normalmente ci riesce solo ogni tanto. Incontrare qualcuno e sentire una vicinanza profonda. Guardare gli occhi di qualcuno che non conosciamo e riconoscerci in quello sguardo. Eppure è possibile farlo sempre. «Non c’è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo» dice il Daishonin in Felicità in questo mondo. Perché è così che si purificano i sensi. 
Poi c’è la mente da purificare. Anche la mente è una porta sull’universo: magnifico sarebbe che ascoltando anche una sola frase potessimo comprendere un mare di princìpi. Bene. È così. Una mente purificata è così: capace di cogliere il senso di un discorso profondo da una frase. Perché c’è dentro di noi, profonda, la capacità di stabilire, con la vita dell’universo, un contatto vero. Limpido. 
È vero che spesso la vita assume quell’andamento distratto che assimila i suoni, si abitua ai colori e alle immagini più fantastiche, è vero cioè che la vita ci appare quasi sempre sottile, come quando guardando una cosa ci vediamo solo quella e non i mille fili che la legano a noi e il senso profondo del suo essere proprio lì. Ma prima o poi in ogni vita accade qualcosa che obbliga ad andare più in fondo.
In questo mondo 
È la paura di perdere per sempre qualcosa che ci fa diventare così improvvisamente attenti, attente, ai suoni? Rumore di macchine, squillo di telefono, caffè che sale, cigolìo della porta, parole. È la minaccia di non sentire più, che ci fa segnare sul quadernino i suoni da ricordare, suoni che diventeranno afntastici perché non li sentiremo più? Tuono durante un temporale, battito del cuore quando ti appoggi al petto di chi ami, miagolio di un gatto. 
E le immagini? Non c'’è immagine più struggente di quella che non rivedremo più. Può essere anche l'oggetto più bruttino che però in quel momento sa di vita. E così per gli odori, i sapori, i gesti. Ma la vita c’è sempre. Anche quando sembra che tutto fili senza scosse, terribilmente noiosamente uguale. Anche lì, se tendiamo le orecchie, possiamo gioire del miracolo: la vita c’è sempre. Anche ora che scrivo e sembra che non ci sia niente di speciale in quel che vedo, nei rumorini che sento. Ho bisogno di chiamarla, la vita, per sentire che c’è. La vita la chiamiamo così: Nam-myoho-renge-kyo. 
Si legge nello scritto L’entità della Legge mistica: «Il mistico principio della vera natura di tutti i fenomeni presenta due aspetti: un aspetto impuro e un aspetto puro. Quando opera l’aspetto impuro si ha l’illusione, quando opera l’aspetto puro si ha l’Illuminazione. Benché illusione e Illuminazione siano due fenomeni differenti, entrambi sono funzioni di un unico principio, cioè della natura essenziale dei fenomeni... Illuminazione è la percezione della vera natura dei fenomeni, illusione è l’oscurità o la sua ignoranza». È un equivoco sentire la vita spenta. E quando accade è perché oscilliamo tra l’insoddisfazione, che non ci fa riconoscere come reale ciò che lo è, cioè la Buddità in qualsiasi situazione, e l’atteggiamento passivo che ci fa riconoscere come reale ciò che non è: allora un ingorgo è solo un ingorgo, una malattia è solo una malattia, un urlo è solo un urlo. Non c’è niente sotto. E il Buddismo dice invece che dietro una miseria ci può essere mondo, dietro la tristezza un desiderio. C’è la vita com’è. 
«Non c’è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo» dice il Daishonin in Felicità in questo mondo. Provo a chiamare la vita da dentro di me. Risponde. Risponde sempre. E dà gioia. 
Gioia. E una forza immensa. E vitalità. 
Dice Daisaku Ikeda: «Una persona che sprizza salute e vitalità troverà delizioso anche un cibo semplice, mentre una persona oppressa dalle preoccupazioni non gusterà neanche il piatto più prelibato. Così chi ha purificato il senso della vista vedrà un gioioso tripudio di vita anche nella scena più banale, mentre chi ha purificato il senso dell’udito sentirà la musica di Mozart anche nel fastidioso pianto di un neonato». 
Provare gioia in ogni circostanza: questa è la felicità assoluta. 
Poi serve qualcos’altro: serve agire. 
Vedo un tripudio di vita in una scena banale, o addirittura triste. 
Sento nel frastuono di un ingorgo la musica di Mozart. E poi? 
Mi basta quella felicità? 
Mi basta. Perché quello stato d’animo non finisce lì. Diventa, anzi è già lucidità d’azione. È sapere cosa fare, è come quando la natura oscura di una cosa è meno visibile della sua natura illuminata. 
Dunque divento capace di dire: «In questa situazione cosa posso fare per cambiare?» e non «come sarebbe bello se». 
Cosa posso fare per cambiare? 
La vita è una lotta continua fra dinamismo e inerzia. Si tratta di far vivere il dinamismo. E di non avere paura di essere felici. Trasformare continuamente la propria vita senza inseguire gli effetti del nostro agire ma stando a cavallo delle cause. 
«Non c’è felicità più grande per gli esseri umani che recitare Nam-myoho-renge-kyo» dice il Daishonin in Felicità in questo mondo. 
Oggi piove. Sto soffrendo per una separazione lacerante. Recito Nam-myoho-renge-kyo, e proprio lì, in quella sofferenza (che non assomigliava affatto alla felicità) trovo la forza di cambiare qualcosa di più profondo. 
Decido di cambiare qualcosa di me. Decido di agire e so che ce la farò.
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Proprio qui dove mi trovo

di Giulio Mario Rampelli
La filosofia buddista considera le relazioni di causa ed effetto tra fenomeni reali quanto i fenomeni stessi. Per questo individua responsabilità precise anche per eventi considerati apparentemente casuali, come i disastri ambientali. 
Se la Buddità è il corpo, la sua ombra è la pace profonda e duratura che si riflette nei regni della società e della natura
Osservando attentamente il presente e il futuro del mondo percepiamo segnali preoccupanti. I cambiamenti del clima prodotti dall'inquinamento atmosferico producono catastrofi naturali quali la desertificazione o precipitazioni straordinarie che si risolvono in cicloni, inondazioni, gelo, siccità. Oltre un miliardo di esseri umani vivono sotto la soglia della sopravvivenza, e il divario nella distribuzione delle ricchezze supera di gran lunga quello del passato. Epidemie decimano le popolazioni del terzo mondo, mentre nell'Occidente industrializzato si diffondono malattie letali strettamente connesse agli alti livelli di inquinamento e di stress a cui i cittadini sono sottoposti, quali i tumori, l'infarto, i disturbi psichici. Le tecniche dell'ingegneria genetica, le colture e gli allevamenti intensivi di piante e animali indeboliscono le specie e le rendono vulnerabili a nuove infezioni. Eppure i progressi nel campo della scienza e della tecnologia, così come nel campo della giustizia, hanno raggiunto traguardi senza precedenti. Quali sono le responsabilità dell'umanità? Quali errori sono stati commessi? 
Il 16 luglio del 1260 un monaco giapponese, Nichiren Daishonin, inviò un trattato in caratteri cinesi a Hojo Tokiyori, la persona più influente del Giappone. Il suo titolo, Rissho ankoku ron, viene tradotto come "Assicurare la pace al paese attraverso la diffusione del Buddismo corretto". La tesi fondamentale di tale trattato è che la causa prima dei disastri ambientali e sociali che si manifestano in un paese è da ricercarsi nella religione abbracciata dal sovrano e dal suo popolo, e che la soluzione di tali imponenti problemi sia la ricerca e la diffusione di una visione religiosa e di una conseguente filosofia della vita corretta. La tesi apparentemente ardita che anima il Rissho ankoku ron si basa sulla visione unificante e unitaria propria della filosofia buddista.
Religione e società 
La religione influenza la società da molti punti di vista. In contesti sociali stabili, la religione tradizionale definisce i lineamenti e i confini dell'etica sulla quale molto spesso si basano leggi e ordinamento sociale, ha una forte influenza sulla cultura, sull'educazione, sui modi e i tempi dell'economia e della tecnologia. Essa definisce inoltre il rapporto degli individui con la verità, e questo ha spesso un'influenza diretta sui rapporti con società ed etnie differenti, fino a determinare in molti casi situazioni di conflitto che sfociano nella guerra. La religione definisce ciò che è sacro e ciò che non lo è, stabilendo gerarchie concettuali che sono all'origine dei giudizi di valore, portando talvolta a discriminazioni individuali, di genere, di razza, di cultura, di specie. Infine, la religione struttura lo spazio interiore dell'individuo indirizzando l'atteggiamento delle persone verso se stesse, verso gli altri e verso la natura, il loro modo di essere e di agire, i loro desideri e le loro aspirazioni, il loro modo di giudicare, il loro rapporto con la sofferenza. Occupandosi di aspetti fondanti della vita individuale e utilizzando la fede come metodo di conoscenza, la religione interagisce con i livelli più profondi della coscienza umana. 
La filosofia buddista non separa l'individuo dall'ambiente, lo spirito dalla materia, il piccolo dal grande. Essa considera la vita da un punto di vista ampio e omnicomprensivo, e tratta le relazioni tra fenomeni come reali almeno quanto, se non più, dei fenomeni stessi. Per questa ragione il Buddismo spinge l'analisi delle relazioni di causa ed effetto fino alle più estreme conseguenze, individuando responsabilità precise anche per fenomeni, considerati apparentemente casuali almeno fino a poche decine di anni fa, quali i disastri ambientali.
I tre regni dell'esistenza 
Nel Rissho ankoku ron è spiegato come l'aderire a una religione non adatta all'epoca da parte di un sovrano o del suo popolo porti al manifestarsi delle tre calamità: l'alto prezzo del grano, la guerra e la pestilenza. Le tre calamità riflettono la disarmonia dei rapporti tra individuo e natura, tra individuo e individuo e dell'essere umano con se stesso. 
La profonda relazione esistente tra essere umano, società e natura è descritta nell'ambito della teoria di ichinen sanzen, i tremila regni in un singolo istante di vita, messa a punto da T'ien-T'ai in base al testo del Sutra del Loto. Tale teoria descrive l'unica realtà del singolo istante presente, come dotato di tremila condizioni vitali. Il numero tremila è ottenuto considerando: a) i dieci mondi1, le possibili condizioni vitali che si manifestano istante dopo istante, b) il mutuo possesso dei dieci mondi, principio che stabilisce che ciascuno dei dieci mondi contiene potenzialmente tutti gli altri, c) i dieci fattori2, i quali descrivono le dinamiche della vita e il funzionamento del karma, e d) i tre regni dell'esistenza. Questi ultimi rappresentano le tre dimensioni in cui la vita si manifesta nella sua singolarità e unicità, e sono rispettivamente: il regno delle cinque componenti3, o regno dell'individuo; il regno degli esseri viventi, o regno della società; il regno dell'ambiente. 
La visione unificante insita nella teoria di ichinen sanzen afferma che la realtà della vita, rappresentata dal singolo istante il quale contiene in sé il potenziale del mondo di Buddità, permea e influenza non solo l'esistenza individuale, ma anche l'ambiente sociale e naturale in cui la vita si manifesta. Se, ad esempio, un individuo manifesta prevalentemente nella sua vita il mondo di collera, le sue relazioni sociali saranno analogamente orientate, così come il suo rapporto con l'ambiente naturale, come se entrambi questi regni fossero lo specchio della condizione interiore dell'individuo stesso. Ciò è ben descritto dalla metafora, ripresa da Nichiren in un suo scritto, secondo cui «se ci inchiniamo davanti a uno specchio, l'immagine riflessa in esso si inchinerà di fronte a noi».
I tre veleni e le tre calamità 
Lo stesso ragionamento si può applicare alla società. La nostra epoca, detta Mappo, è caratterizzata dal prevalere nella società - considerata come il complesso del popolo e delle sue leggi - dei tre mondi di Avidità, Animalità e Collera, detti anche i tre veleni. Il mondo di Avidità è descritto come desiderio insaziabile, ad esempio il consumismo sfrenato. L'Animalità è descritta come l'abbandono alle proprie pulsioni e la contemporanea incapacità di valutare le conseguenze del proprio agire. La Collera è l'impulso a voler prevalere sugli altri, o anche la sete di potere. 
Quando i tre veleni si manifestano su larga scala nei tre regni dell'esistenza, divengono la causa diretta delle tre calamità sopra descritte. L'Avidità causa una disarmonia fra esseri umani e ambiente naturale, si traduce in uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali che, alla lunga, provoca insufficienza di cibo, carestie, o l'«alto prezzo del grano». L'Animalità rende gli individui meno attenti agli effetti delle proprie azioni, causando uno squilibrio dell'individuo con se stesso che diviene causa di malattie o "pestilenze". La Collera è caratterizzata dall'egoismo e dall'arroganza, genera un distacco e un disinteresse fra popoli e culture portando a considerare benevolmente l'uso della violenza, fino a provocare una grave disarmonia fra esseri umani che è causa di guerre e conflitti.
La diffusione del Nembutsu 
Nel Rissho ankoku ron viene individuata, come principale causa della disastrosa situazione del Giappone, l'insegnamento di una particolare scuola devozionale del Buddismo, molto diffusa all'epoca anche fra gli uomini di governo, detta scuola della Pura Terra (Jodo). Essa poggiava sull'assunto della infinita compassione del Budda Amida della terra d'Occidente, che avrebbe salvato ogni essere indipendentemente dalle sue azioni e dal suo karma in risposta all'invocazione del suo nome. Tale invocazione, la pratica fondamentale della Pura Terra, assume il nome di Nembutsu. 
Rispetto al patrimonio etico del Buddismo, tale scuola riduce l'importanza della responsabilità individuale nel determinare il proprio destino attraverso i tre atti di pensieri, parole e azioni, o dottrina del karma, e toglie l'attenzione, almeno nelle sue interpretazioni popolari, sull'importanza del presente o di questa vita, in favore di un paradiso dopo la morte. Sul terreno della deresponsabilizzazione e del disinteresse si impiantano e crescono rigogliosamente i tre veleni di Avidità, Animalità e Collera. 
Nel Rissho ankoku ron il Daishonin procede a confutare le credenze di tale scuola alle radici, mostrando come essa sia frutto di un'interpretazione arbitraria e contraddittoria delle scritture mahayana. Le scritture buddiste sono un oceano di insegnamenti apparentemente disomogenei, metafore, parabole, infiniti Budda e bodhisattva, in cui è assai difficile orientarsi. In seguito allo studio approfondito dei sutra e abbracciando la classificazione di T'ien-T'ai, Nichiren Daishonin comprese profondamente che l'essenza dell'insegnamento di Shakyamuni era contenuta nel Sutra del Loto.
L'essenza della filosofia della vita 
Al di là del significato letterale del Sutra del Loto, si può identificare in esso un nucleo essenziale, il cui valore universale non risente del tempo e delle circostanze. 
Ogni essere umano è potenzialmente un Budda. La natura di Budda è l'elemento fondante della vita di ognuno, così come della vita animale, vegetale e anche degli esseri inanimati, in pratica dell'intero universo. Questa è l'essenza del Sutra del Loto esposta nella sua forma teorica. Si parla di teoria fintantoché non viene spiegato il mezzo con il quale far sì che la Buddità insita nella vita possa passare dallo stato potenziale al manifestarsi in tutto il suo splendore. Questo è il cuore del Buddismo. Negli altri sutra esistono sempre determinate categorie di persone che non riescono a ottenere la Buddità. Le persone dei due veicoli, Studio e Illuminazione parziale, ad esempio, sono esclusi a causa del loro egoismo e della loro arroganza. Solo il Sutra del Loto, grazie al principio del mutuo possesso che chiarisce la presenza della Buddità in tutti i mondi compresi i due veicoli, apre la via dell'Illuminazione a tutti gli esseri. Comprese le donne, rappresentate dalla figlia del Re Drago, e comprese le creature del mondo di Inferno, rappresentate nel sutra dal perfido Devadatta, il cugino di Shakyamuni che tramò nell'ombra per prendere il suo posto nella comunità buddista e che nel capitolo Devadatta del Sutra del Loto riceve la predizione della sua Illuminazione. 
La ragione dell'esistenza del Sutra del Loto sta in questa sua essenza, la quale è indipendente dalla forma con cui venne predicato. Dal punto di vista della forma esistono infatti differenti Sutra del Loto. Come descrive il sutra, in epoche assai remote furono predicate forme del Sutra del Loto straordinariamente lunghe, formate da milioni di parole o caratteri. Ma anche forme assai brevi, come il Sutra del Loto in ventiquattro caratteri del bodhisattva Fukyo, che si inchinava di fronte a ogni essere umano per rispetto alla sua Buddità innata. Il Sutra del Loto del Medio giorno della Legge è considerato il Maka shikan, l'opera di T'ien-T'ai contenente il profondo insegnamento di ichinen sanzen. In Mappo, l'Ultimo giorno della Legge in cui la grande pura Legge è stata perduta e gli esseri umani sono in preda ai tre veleni e in balia del caos, il Sutra del Loto che condensa in sé l'essenza teorica dell'insegnamento e il mezzo per risvegliare la Buddità di tutti gli esseri è Nam-myoho-renge-kyo, così come lo ha espresso Nichiren Daishonin nel Gohonzon, l'oggetto di culto che rappresenta la Cerimonia nell'aria descritta dal Sutra del Loto «così come la stampa rappresenta la matrice». 
Il Daishonin afferma che la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo di fronte al Gohonzon è la causa fondamentale per risvegliare la Buddità dal profondo dell'esistenza e manifestarne gli immensi benefici nella propria vita, un evento descritto nel Sutra del Loto attraverso la metafora di una gigantesca Torre preziosa ornata di numerosi gioielli che emerge dalla terra.
Implicazioni della filosofia della vita 
Riconoscere la Buddità nella vita in ogni sua manifestazione, compreso il regno non vivente, traccia un'etica con profonde implicazioni in ogni campo dell'agire umano. 
La prima implicazione è che ogni manifestazione della vita è degna del massimo rispetto, ha un valore inestimabile, deve essere protetta e sostenuta a ogni costo. Nello scritto Lettera a Myomitsu Shonin (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 7, p. 178) si legge: «Quando il Budda apparve in questo mondo fece della compassione per gli esseri viventi il proprio fondamento. E come espressione di compassione per gli esseri viventi, il primo precetto è non togliere la vita e provvedere al sostentamento degli esseri viventi». La natura stessa non è quindi vista come un insieme di risorse da sfruttare a proprio piacimento, ma come una manifestazione della Legge che deve essere protetta e sostenuta. 
La seconda implicazione riguarda noi stessi. Se crediamo nel fatto di essere potenzialmente dei Budda abbiamo il compito di adoperarci attivamente e con tutti noi stessi per manifestare la Buddità nella nostra vita. Questo è il compito che ci aspetta. In altre parole dobbiamo migliorare costantemente noi stessi sull'unico terreno reale, l'istante presente che viviamo, utilizzando gli strumenti a nostra disposizione, la pratica buddista, per cambiare profondamente il karma creato dal nostro ripetuto dimorare nei tre veleni. Tale è l'obiettivo della pratica buddista nel regno delle cinque componenti: l'Illuminazione individuale. 
La terza implicazione riguarda gli altri, la società, l'ambiente. Non è sufficiente infatti rispettare e sostenere la vita per come essa si manifesta. Se crediamo nella potenziale Buddità che permea ogni cosa dobbiamo adoperarci per mettere ogni forma di vita in grado di manifestarla.
Pace nei tre regni 
Partendo dal Rissho ankoku ron, il Buddismo di Nichiren Daishonin chiarisce la via per portare la pace in tutti e tre i regni dell'esistenza. Tale via inizia con un singolo individuo che abbraccia la Legge mistica, la mette in pratica nella sua vita e fa emergere dal profondo la natura di Budda nell'unica realtà dell'istante presente. La dimensione dell'istante vitale, in base al principio di ichinen sanzen, non si limita alla realtà individuale, ma comprende anche l'ambiente sociale e naturale dell'individuo stesso. 
In base alle implicazioni della filosofia della vita, un individuo risvegliato dall'emergere della Buddità sentirà l'impellenza di accompagnare chi gli sta accanto a sperimentare la condizione vitale del Budda. Questo tipo di pratica, la pratica per gli altri, è chiamata shakubuku. Essa si fonda sui due pilastri costituiti dalla saggezza di vedere la Buddità negli altri e dalla compassione di volerla risvegliare. Man mano che sempre più individui abbracciano la Legge mistica, l'influenza della Buddità sulla società e sulla natura aumenta. La manifestazione della Buddità a livello dei regni della società e della natura è chiamata kosen-rufu. Nel Rissho ankoku ron si legge: «Perciò si affretti a cambiare le sue convinzioni e abbracci il vero veicolo, l'unica buona dottrina del Sutra del Loto. Se farà così il triplice mondo diverrà la terra del Budda, e come potrà mai declinare la terra del Budda? Tutte le regioni nelle dieci direzioni diverranno terre preziose e come potrebbe una terra preziosa venir distrutta? In un paese che non conosce declino, in una terra che non conosce distruzione, il suo corpo troverà pace e sicurezza e la sua mente sarà calma e indisturbata».
La pace attraverso il dialogo 
Il procedere di kosen-rufu avviene attraverso il dialogo. Il Rissho ankoku ron è scritto nella forma di un dialogo fra un viaggiatore e il suo ospite. Nel corso del trattato il viaggiatore interroga l'ospite sui motivi dei mali della società. L'ospite spiega il suo punto di vista mettendo in dubbio molte delle credenze del viaggiatore, il quale reagisce anche con impeto collerico. Tuttavia, durante tutto il dialogo, l'ospite non perde mai la calma e articola il suo pensiero attraverso un ragionamento lineare, portando numerosi esempi tratti dai diversi sutra buddisti. Alla fine il viaggiatore comprende il valore dell'insegnamento dell'ospite e cambia idea. L'ospite allora esprime la sua gioia con le seguenti parole: «Come dice il proverbio la colomba è mutata in falco, il passero in mollusco. Com'è gratificante! Ti sei trasformato stando in contatto con me, e come il rovo che cresce nel campo di canapa hai imparato a stare dritto!». 
L'interessamento dell'ospite per i mali della società è profondo, ma egli, pur avvertendo l'urgenza di dover intervenire su vasta scala, si impegna nel dialogo con una singola persona fino a diradare ogni dubbio, usando sempre parole e modi gentili. In questo atteggiamento si rivela la natura assolutamente nonviolenta del Buddismo, che considera ogni persona un interlocutore a cui dare la massima fiducia e con il quale ragionare insieme. Pur ritenendo la necessità di coinvolgere quanta più gente possibile nella realizzazione di un grandioso progetto per una società pacifica, il Buddismo non parla mai a generiche masse, ma cresce e si sviluppa in seguito al dialogo con un singolo individuo. 
La forza del Buddismo coincide con la forza che ciascuna persona trova in sé per trasformare la propria vita a partire dalla fede nella propria e nell'altrui Buddità. L'emergere della Buddità è come il corpo, la cui ombra è la pace profonda e duratura nei regni della società e della natura.
NOTE 
1) Dieci mondi: Inferno, Avidità, Animalità o Stupidità, Collera, Umanità o Tranquillità, Estasi o Felicità temporanea, Studio, Illuminazione parziale, Bodhisattva e Buddità. 
2) Dieci fattori: Aspetto, Natura, Entità, Potere, Influenza, Causa interna, Causa esterna, Effetto latente, Effetto manifesto, Coerenza dall'inizio alla fine. 
3) Cinque componenti: Forma, Percezione, Volontà, Azione, Coscienza. Assieme formano un individuo con le sue caratteristiche fisiche e psichiche.
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Il corpo e l'ombra

di Maria Lucia De Luca
La compassione del bodhisattva è lo sforzo coraggioso di valorizzare ogni persona. Togliere sofferenza e dare gioia: questa attitudine nei confronti del dolore e della felicità altrui deriva dalla propria decisione di superare le illusioni e procura la gioia più profonda: perché la compassione è l’agire del Budda
«Se non fossero Bodhisattva della Terra, non potrebbero recitare il Daimoku» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 233). 
Questa dichiarazione di Nichiren Daishonin identifica i seguaci della sua scuola con i bodhisattva, le figure ideali dell’altruismo in senso buddista. Come si manifesta concretamente questo altruismo? Un esempio spiega qual è il modo migliore di aiutare una persona che ha fame: non regalandole del cibo ma insegnandole a pescare. Così chi fa parte della Soka Gakkai e segue il Buddismo di Nichiren Daishonin esercita il proprio altruismo innanzitutto trasmettendo agli altri lo strumento che gli permette di trasformare la propria vita, cioè la pratica buddista, e sostenendo fino in fondo i suoi compagni di fede. Attraverso la trasformazione della propria vita, poi, vincendo sui propri limiti e divenendo un campione di dialogo, espande la sua influenza nella società al fine di renderla armoniosa e pacifica. 
Dice a tale proposito Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale, nel messaggio di auguri per il 2001: «Il Daishonin scrive: “Un alberello sotto un grande albero o l’erba vicino a un grande fiume non ricevono direttamente la pioggia o l’acqua, tuttavia prosperano attingendo la rugiada dall’albero grande o attirando l’umidità del fiume:” (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 171). In questo passo il Daishonin insegna che la presenza di persone che praticano la Legge mistica può arricchire immensamente le vite di coloro che li circondano, trascendendo le differenze religiose, e può portare beneficio alla terra in cui abitano, guidando tutti verso la felicità, la pace e la prosperità. Così come un grande albero o un possente fiume nutrono la vita intorno a loro». 
Tutto ciò è vero fin dagli albori del Buddismo, come narra il seguente brano: «95. Indi, quel saggio che aveva afferrato il principio della causalità ed era ben radicato nel sistema dell’impersonalità si alzò e, pieno di compassione, contemplò il mondo con lo sguardo di un Buddha ai fini della sua quiete interiore. 
96. Vedendo che il mondo si perdeva dietro alle false opinioni e agli sforzi vani e che le sue passioni erano grossolane, e vedendo inoltre che la Legge della Liberazione era estremamente sottile, decise di rimanere immobile [cioè di non divulgare la Legge]. 
97. Poi, ricordandosi della sua precedente promessa, si risolvette di predicare la somma pace» (Asvagosha, Le gesta del Buddha). 
Il Budda Shakyamuni concretizza e manifesta la sua Illuminazione con un atto di compassione, rendendo chiaro subito che l’altruismo non è un aspetto accessorio, ma è nello stesso tempo il mezzo e il fine del Buddismo. E utilizzerà poi, nel corso della sua predicazione, gli innumerevoli “abili mezzi” (upaya in sanscrito, hoben in giapponese) per arrivare al cuore di ogni essere umano. «Questo è il mio pensiero costante – afferma il Sutra del Loto – come posso far sì che tutti gli esseri viventi accedano alla via suprema e acquisiscano rapidamente il corpo di Budda?» (Il Sutra del Loto, Esperia, 1998, p. 305). 
E sempre nel Sutra del Loto Shakyamuni illustra lo scopo del suo avvento, ovvero la sua missione (“l’unica grande ragione”): risvegliare la saggezza del Budda in tutte le persone, rivelare questa saggezza, fare in modo che tutti gli esseri la conoscano e ne siano consapevoli. I quattro ideogrammi cinesi utilizzati per esprimere questo concetto hanno rispettivamente il significato di aprire, indicare, illuminare ed entrare. In altre parole: tutti i Budda appaiono in questo mondo per insegnare agli esseri umani che la natura o saggezza di Budda esiste in ognuno. E per insegnare che tale saggezza può raggiungere le profondità di tutti i fenomeni dell’universo e operare in armonia con essi. 
«Se la compassione di Nichiren è veramente grande – afferma Nichiren Daishonin nello scritto Ripagare i debiti di gratitudine – Nam-myoho-renge-kyo si propagherà per diecimila anni e più, per tutta l’eternità. I suoi benefici disperderanno la cecità di tutto il genere umano e sbarreranno il sentiero dell’inferno dell’incessante sofferenza». 
Per il fondatore della nostra scuola buddista, propagare il corretto insegnamento per l’epoca attuale fu un atto di estremo coraggio, basato su un’immensa compassione per l’intera umanità: «Ma se io pronuncio anche una sola parola riguardo a questo – afferma ne L’apertura degli occhi – allora genitori, fratelli e maestri mi criticheranno senz’altro e le autorità prenderanno provvedimenti contro di me. D’altronde sono pienamente consapevole che se non parlo apertamente manco di compassione. Ho deciso quale strada devo prendere alla luce del Sutra del Loto e del Sutra del Nirvana. Se rimango in silenzio posso evitare l’offesa in questa vita, ma nella prossima cadrò sicuramente nell’inferno della sofferenza incessante. Se parlo sono pienamente consapevole che dovrò lottare contro i tre ostacoli e i quattro demoni. Ma fra queste due strade è sicuramente la seconda quella da scegliere».
Io e gli altri 
Secondo il Buddismo ogni forma di vita è inseparabilmente legata a tutti gli altri fenomeni dell’universo, poiché la realtà fondamentale che li sostiene è una cosa sola con la vita cosmica. «Sono convinto – scrive Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale – che l’Illuminazione di Shakyamuni sia stata in un certo senso un grido di meraviglia di fronte a quella misteriosa entità che chiamiamo vita, con la sua miriade di manifestazioni che si collegano e dipendono l’una dall’altra attraverso gli anelli di causa ed effetto» (La vita del Buddha, p. 66). 
Una parabola buddista rende efficacemente il concetto di questa interdipendenza con una metafora visiva. Sospesa sopra la reggia del dio Indra, simbolo delle forze naturali che nutrono e proteggono la vita, vi è una rete e a ognuno dei suoi nodi è legato un gioiello. Ogni gioiello riflette in sé l’immagine di tutti gli altri, rendendo la rete meravigliosamente luminosa. Tutto ciò sta a indicare come i singoli fenomeni esprimano il meglio di sé proprio attraverso la relazione reciproca. 
Di conseguenza, nel tentativo di cogliere una visione globale e completa della realtà della vita, che è un altro modo per dire Illuminazione, si deve per prima cosa comprendere che non si può vivere separati dagli altri esseri viventi e che bisogna quindi sentire e condividere le sofferenze altrui. E potremmo anche affermare che lo stato di estrema felicità che si prova quando si “tocca” la propria Buddità dovrebbe avere come conseguenza l’immensa gratitudine verso tutto ciò che ci circonda. «Il nostro desiderio è condividere questo beneficio ugualmente con tutte le persone; e noi, insieme a loro, otterremo la Buddità» è la determinazione del Budda, espressa nel settimo capitolo del Sutra del Loto.
Una qualità innata 
Ciò che spinge una persona a divenire un bodhisattva, l’essere che dedica la vita non al mero superamento dei propri problemi ma allo sradicamento di tutta la sofferenza, senza distinguere tra se stesso e gli altri, viene definito bodhicitta, un termine sanscrito che indica il pensiero (citta), o spirito, o cuore dell’Illuminazione (bodhi), o cuore del Budda. È l’aspirazione altruistica a ottenere l’Illuminazione per il bene di tutti gli esseri viventi. È il sentirsi in sintonia con l’infinito, con l’essenza della vita, e comportarsi di conseguenza. «Anche quando ho fatto qualcosa per amore degli altri – scrive Santideva, saggio e poeta indiano (VIII secolo d. C.) – non sorge stupore o presunzione, è come se avessi nutrito me stesso; non desidero nulla in cambio» (Bodhicaryavatara, “Guida al modo di vivere del bodhisattva”). La spontaneità e la naturalezza del risveglio del bodhicitta sono rappresentate poeticamente nella letteratura buddista come lo sbocciare del loto nel cuore. «Quando tutti gli esseri viventi non saranno più ammalati – dice il bodhisattva Vimalakirti, simbolo del laico buddista, nel sutra omonimo – anch’io non sarò più ammalato. [...] Egli si ammala quando essi si ammalano e guarisce quando essi guariscono. Tu mi chiedi, Manjusri, donde venga la mia malattia; la malattia del bodhisattva viene dalla sua grande compassione».
Dedicherò la mia vita agli altri 
Come fare allora a manifestare questa sensibilità, quel sentire altruistico e unitario che esiste nella nostra vita ma che difficilmente riusciamo a percepire? 
Secondo il Buddismo di Nichiren Daishonin, recitare Nam-myoho-renge-kyo attiva la nostra natura di Budda. Ed è proprio la natura di Budda che ci spinge ad agire da bodhisattva, partendo da una decisione: dedicare la propria vita agli altri. «Non accetterò la salvezza finché l’ultima particella di polvere non avrà conseguito prima di me la condizione di Budda» è l’assoluta risoluzione del bodhisattva Avalokitesvara, Kannon in giapponese, una delle più popolari personificazioni della compassione buddista. È chiamato “colui che percepisce i suoni del mondo”, perché sente la sofferenza di tutta l’umanità e, come viene descritto nel capitolo omonimo del Sutra del Loto (il venticinquesimo), può assumere trentatré forme diverse al fine di salvare ogni singolo individuo, tanto che nella tradizione cinese a volte è raffigurato come una donna. 
La decisione di dedicarsi agli altri corrisponde al primo dei dieci stadi che devono essere percorsi dal bodhisattva per ottenere l’Illuminazione, ossia per fondersi con la Legge della vita diventando una “nuvola di Dharma”. Gli stadi successivi al primo consistono in innumerevoli pratiche atte a superare l’odio, l’egoismo, l’errore, a manifestare la saggezza, la compassione, ecc., ossia per sviluppare tutti gli aspetti di un carattere altruistico e benevolente. Il fatto che venga prima la decisione e poi le qualità altruistiche vuole sottolineare che non si deve aspettare di “sentire” l’altruismo per diventare altruisti, ma è necessario prima di tutto decidere di esercitare la compassione e utilizzare la pratica buddista per sostenere la determinazione presa, attraverso l’autoperfezionamento. Questo è quello che venne definito da Josei Toda, secondo presidente della Soka Gakkai, “rivoluzione umana”. 
Praticare la compassione allarga i confini del proprio sé. Aprendosi con sincerità alla vita degli altri, ci si libera dei confini angusti dell’ego individuale e si allarga la propria vita alle gioie e ai dolori altrui. L’estensione logica di ciò è l’identificazione del proprio sé con tutti gli esseri e quindi con l’eterna natura di Budda. In altre parole, la pratica della compassione conduce all’Illuminazione gli altri ma anche se stessi. Perciò la motivazione a sviluppare tale virtù è intimamente legata al desiderio, comune a tutto il genere umano, di una vita veramente ricca. La pratica della compassione porta beneficio agli altri, naturalmente, ma anche a se stessi, consentendo di realizzare il proprio ideale di essere umano. 
«Il Buddismo afferma che sia il bene che il male sono potenzialità esistenti in ogni persona – scrive Daisaku Ikeda – la compassione è quello sforzo coraggioso di cercare il buono in ogni persona, chiunque essa sia e comunque si comporti. Questo implica un costante lavoro e l’impegno a coltivare sempre le qualità positive proprie e altrui. Un tale impegno richiede coraggio: troppe volte la compassione, proprio a causa di una mancanza di coraggio, rimane solo un sentimento».
Una compassione attiva 
La compassione è l’agire del Budda. Non può esaurirsi semplicemente in un sentimento passivo, ma deve esprimersi attivamente nella vita quotidiana. È l’ardore interiore di una persona che si manifesta nelle sue azioni, è la realizzazione degli ideali, la lotta per un mondo migliore. «Un giorno di pratica in questo mondo terreno produce benefici di gran lunga superiori a quelli causati da cento anni di pratica in paradiso» afferma Nichiren Daishonin in Ripagare i debiti di gratitudine, sottolineando come il Buddismo riveli la sua incredibile energia nella vita e nella società. 
«Le qualità che caratterizzano un bodhisattva – scrive Daisaku Ikeda nella Proposta di pace del 1998 – possono essere descritte da varie prospettive, ma qui vorrei menzionarne una di particolare rilievo per i diritti umani. Il bodhisattva fa voto di salvare gli altri e agisce sempre in base a tale promessa, che è una libera e spontanea espressione di altruismo. Tale voto non è una semplice decisione o un desiderio, bensì un chiaro impegno al quale il bodhisattva dedica tutto se stesso. Il bodhisattva rifiuta di essere dissuaso o scoraggiato dalle difficoltà che si oppongono alla sua sfida. Il Sutra del Loto parla del bianco e puro fiore di loto che sboccia nelle acque fangose: un’analogia che illustra l’ottenimento di uno stato vitale puro e forte nel mezzo delle realtà, a volte degradanti, della società umana. Così facendo il bodhisattva non cerca mai di fuggire dalla realtà, né lascia la gente soffrire senza salvarla, ma si tuffa nelle acque agitate della vita per aiutare ogni persona che affoga nella sofferenza a salire sul grande vascello della felicità» (DuemilaUno, n. 69). 
L’azione salvifica del bodhisattva si esprime nell’aiutare gli altri a risvegliare la propria Buddità. Cosa che corrisponde alla diffusione della Legge, del Dharma, del messaggio del Budda. Per fare questo ha bisogno di “abili mezzi” che sono gli 84.000 insegnamenti di Shakyamuni, le miriadi di forme in cui il Buddismo si è diffuso nel mondo nel corso del tempo, i diversi metodi di propagazione, e in senso più ampio qualsiasi azione compiuta per il bene degli altri. Sta a ognuno risvegliare la saggezza del Budda (prajna) nella propria vita e attraverso essa comprendere qual è il modo migliore per aiutare quella particolare persona in quel particolare momento. Quella del bodhisattva non è una compassione cieca, uniforme, uguale per tutti, guidata da una qualche astratta ideologia del bene, ma è l’azione basata sulla propria natura illuminata. «Sarò il protettore dell’indifeso – scrive Santideva – la guida dei dispersi, una barca, una diga, un ponte per chi cerca di raggiungere l’altra riva; una lampada per chi ha bisogno di una lampada, un letto per chi ha bisogno di un letto, uno schiavo per chi ha bisogno di schiavi... Oggi io chiamo il mondo allo stato di Illuminazione, e nel contempo della felicità».
I bodhisattva del terzo millennio 
E chi sono allora i bodhisattva del terzo millennio? Quali caratteristiche devono sviluppare? Nel Sutra del Loto sono descritti coloro ai quali Shakyamuni affida il compito di diffondere il suo insegnamento nella nostra epoca:
Con salda forza di volontà e 
concentrazione 
ricercano la saggezza con 
costanza e diligenza, 
espongono varie dottrine 
meravigliose 
e le loro menti sono libere 
dalla paura. 
[…] 
Abili nel rispondere a 
difficili domande, 
le loro menti non conoscono 
la paura. 
Hanno coltivato con assiduità 
la perseveranza, 
sono fieri di dignità e di virtù 
(Il Sutra del Loto, Esperia, 1998)
Questi sono i Bodhisattva della Terra, liberi dalla paura e abili nel dialogare: due requisiti fondamentali per operare nel mondo in quest’epoca. Nell’odierna civiltà globale non si può vivere chiusi nel proprio piccolo mondo, temendo il confronto e il cambiamento. Anzi, per dirla con le parole di Ikeda, sono proprio la paura e il pregiudizio a costruire barriere di esclusione e discriminazione sotto forma di confini nazionali o in base alla razza, alla religione, al genere, alla classe sociale, alla condizione economica, o semplicemente alle preferenze personali. «Questo atteggiamento riflette una pigrizia mentale che impedisce di coltivare la comprensione e la fiducia reciproca, e di sviluppare la costanza e la determinazione necessarie per impegnarsi nel dialogo. La storia insegna che solo un passo separa la pigrizia mentale dalla violenza. Quando loda la totale assenza di paura dei Bodhisattva della Terra, quindi, il sutra intende lodare la loro capacità di impegnarsi nel superare ogni barriera discriminante, coinvolgendosi nel dialogo senza esitare» (DuemilaUno, n. 75). 
Sviluppare una mente (o un cuore, nel Buddismo sono sinonimi) aperta e solidale, una saggezza che aiuti a percepire e a praticare nel mondo reale il principio dell’origine dipendente, cioè il fatto che tutti i fenomeni e gli esseri viventi sono tra loro collegati: questo è l’allenamento di un bodhisattva del terzo millennio. Ciò gli permetterà di avere il coraggio di non temere né di negare la differenza, cercando di rispettare e capire le diverse persone e culture e di crescere grazie all’incontro con esse, allargando il proprio cuore al di là del proprio ambiente abituale, fino a raggiungere anche chi soffre in situazioni e luoghi lontani. Diventando così un autentico cittadino del mondo. 
«Introducendo il concetto del bodhisattva – sostiene Ikeda sempre nella Proposta di pace del 1998 – intendo sottolineare che i diritti umani diverranno veramente universali e unitari soltanto quando supereranno la separazione fondamentale dell’esistenza, quella tra l’“io” e gli altri. E questo può accadere soltanto se si osserva il diritto/dovere di comportarsi umanamente non in risposta a imposizioni esterne ma secondo l’azione spontanea che nasce dal forte desiderio naturale di aiutare quelli tra i nostri simili che vedono minacciata la possibilità di vivere in maniera umana. 
[…] Sono convinto che se riusciremo a coltivare nella profondità di ciascun individuo quel tipo di altruismo, attivo e indipendente, esemplificato dal voto del bodhisattva, potremo gettare le basi di un’etica della responsabilità e dell’impegno, sulla quale può fiorire un’autentica cultura dei diritti umani. Perché è la motivazione interiore che spinge la gente a combattere contro le minacce alla dignità umana: questo è il miglior supporto e il fondamentale sostegno ai diritti umani».
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Felicità in questo mondo

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