Non è facile parlare di “pace”. E anche la “guerra”, insieme a tutti i suoi corollari, assume oggi valenze sempre più complesse e sconcertanti perché, per la prima volta nella storia recente, la sua logica prepotente si mostra senza veli in tutta la sua violenta oscenità. Le dinamiche geopolitiche che di settimana in settimana stanno ridisegnando spazi, confini, intenzioni ed equilibri rendono confuso e difficilmente decifrabile il quadro del mondo e ci impongono di rivolgere l’attenzione su altre “geografie”, più interne alle persone e alle società. Come questi visi dipinti, che esprimono esterrefatti sulla propria pelle i moti contrastanti dell’animo, ci ritroviamo a fare i conti con le nostre emozioni, convinzioni, paure, rilanci. Negli articoli che seguono cerchiamo di tracciare una strada, tenendo saldi e affermando con rinnovata chiarezza i punti di forza che ci ispira il Buddismo: il rispetto assoluto per la vita, la pratica del dialogo, la fiducia incondizionata nelle potenzialità degli esseri umani.



Apriamo con un’intervista a Riccardo Zucchi, rettore dell’Università di Pisa, ateneo che ha recentemente inserito nel suo Statuto il rifiuto di accettare qualsiasi progetto di ricerca legato agli armamenti. Segue una riflessione sulla dicotomia amico-nemico, di cui si alimenta la guerra, e sui possibili antidoti che il Buddismo offre per ribaltare una simile dialettica autoritaria. Abbiamo dato quindi spazio ad alcune testimonianze sul campo di chi, quotidianamente, si trova a confrontarsi con la sfida di creare la pace in contesti di guerra e conflitti. Presentiamo infine un articolo sulla visione umanistica di Daisaku Ikeda, che considera determinante e imprescindibile il ruolo delle persone comuni nella costruzione di una società pacifica, e una recensione del celebre romanzo Guerra e pace di Lev Tolstoj, molto caro ai nostri maestri. Lo speciale si conclude con una Dichiarazione del Comitato per le prospettive globali della Soka Gakkai Internazionale del 15 gennaio 2025 dal titolo: “Impedire l’uso delle armi nucleari come passo verso la pace mondiale”.

Essere guerra essere pace

L'Università di Pisa «non sostiene e non partecipa ad alcuna attività finalizzata alla produzione, allo sviluppo e al perfezionamento di armi e sistemi d’arma da guerra». Con questa recentissima modifica al proprio Statuto, l'ateneo si pone all’avanguardia nel panorama accademico italiano, ribadendo la propria missione educativa e culturale e promuovendo una ricerca e un’innovazione al servizio della società, rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente. Ne parliamo con il rettore Riccardo Zucchi.



Perché l’Università di Pisa, nonostante avesse la prassi consolidata di non accettare progetti di ricerca vòlti allo sviluppo di armamenti, proprio ora ha sancito nero su bianco il rifiuto alla collaborazione con ricerche in tale ambito?



È stata la conclusione di un processo cominciato l’anno scorso a seguito degli eventi tragici che tutti conosciamo: la guerra in Ucraina e poi l’attacco di Hamas a Israele, la reazione israeliana, la strage a Gaza. Abbiamo innanzitutto chiarito l’impegno per la pace del nostro ateneo, unendo la nostra voce alle molte che in tutto il mondo reclamavano il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi, un impegno verso una soluzione pacifica delle controversie; abbiamo aperto corridoi umanitari per studiosi e studenti palestinesi. Discutendo poi sui rapporti con le aziende implicate in qualche modo nello sviluppo di armamenti, abbiamo deciso di formalizzare la prassi di non accettare progetti di ricerca legati agli armamenti, inserendo questo principio nello Statuto dell’Università. Perché la prassi in quanto tale si può cambiare facilmente, mentre per modificare lo Statuto è richiesta una procedura complessa. Abbiamo preso questa decisione per dare un messaggio politico e soprattutto culturale, a nostro avviso particolarmente opportuno in questo tempo in cui la dignità della vita umana sembra messa a rischio, o quantomeno non sembra essere più riconosciuta come un valore fondante.



È una sorta di “dichiarazione di pace” in linea con l’articolo 11 della Costituzione, secondo cui l'Italia ripudia la guerra? Certamente. Ed è in linea con il vero spirito e la vera tradizione delle università, che nascono sulla base della fiducia nella ragione come strumento per analizzare e comprendere il mondo. E la ragione esiste incarnata nella persona umana. Fiducia nella ragione vuol dire quindi attribuire un valore assoluto alla persona umana in quanto tale.



Su alcuni giornali vi hanno accusato di “pacifismo ideologico” e di togliere opportunità professionali agli studenti, in un momento in cui le industrie belliche stanno rifiorendo e molte università hanno progetti di ricerca finanziati da tali aziende. Come hanno reagito gli studenti e le studentesse a questa vostra presa di posizione? Prima di tutto chiariamo cosa si intende per pacifismo ideologico. In genere il termine “ideologico” ha una connotazione negativa, ma se con l'espressione pacifismo ideologico si intende che identifichiamo la pace come una scelta di valore, allora non mi offendo ed è assolutamente vero! Riguardo alla perdita di opportunità è un problema che non si pone, perché già prima della modifica dello Statuto non accettavamo ricerche legate ad applicazioni militari. La reazione degli studenti è stata positiva, anche perché era una richiesta venuta da una larghissima maggioranza di loro. Credo che apprezzino il fatto che non solo siamo tra le poche università in Italia che adottano la parola “pace” nel proprio Statuto, ma siamo i primi ad aver inserito l’impegno a non fare ricerca legata ad applicazioni militari.



Diversi studi evidenziano che tagliando anche solo il 10% delle spese militari globali si potrebbe realizzare uno degli obiettivi dell’Agenda 2030, come sconfiggere la povertà in tutto il mondo. Quali sono le ragioni per cui ciò non accade? Finanziare gli armamenti garantisce anche un ritorno economico? Ringrazio per la domanda perché mi dà modo di ribadire un messaggio: ci siamo assuefatti al dato che il nostro Stato, da lungo tempo, riserva all’università e alla ricerca finanziamenti che rappresentano una quota del PIL nettamente al di sotto della media europea e di molti paesi extra europei. Questa è la fonte principale dei problemi dell’università, nonché della fuga dei cervelli. Il finanziamento sproporzionato delle spese militari è una questione prima di tutto culturale, perché secondo una certa impostazione del mondo la forza militare è sinonimo di potenza e sicurezza. Potrebbe anche essere vero che esista un ritorno economico, ma credo che non ci possa essere un guadagno che giustifichi una vita spezzata qui, a Gaza o in Ruanda. Se diamo valore supremo alla vita umana lo facciamo a prescindere dagli aspetti economici. In ogni caso, se la nostra società fosse ben organizzata, rinunciando alle spese militari non avremmo neanche svantaggi dal punto di vista economico.



L’impegno per la pace è un aspetto centrale per il vostro ateneo. Quale ruolo possono svolgere le università nell’orientare verso la pace? Possono svolgere sia un ruolo specifico sia un ruolo culturale. Per ruolo specifico mi riferisco in particolare al primo corso di Scienze per la Pace attivato in Italia dall’Università di Pisa, che peraltro coordina la Rete italiana delle Università per la pace. Se vogliamo impegnarci per la pace e la risoluzione dei conflitti, infatti, oltre a un’imprescindibile scelta etica servono anche competenze tecniche: bisogna saper individuare i punti di contrasto, trovare il possibile compromesso, sapere come presentarsi alle parti in conflitto. Le università hanno anche un ruolo più generale di natura culturale. Spesso ci gloriamo dei progressi senza precedenti della nostra civiltà, ma se guardiamo alcuni dati, come il numero dei morti in guerra, il XX secolo è quello che ha visto di gran lunga più stragi rispetto al resto della storia dell’umanità. E non sembra che il XXI sia cominciato con un miglioramento.



Viene da chiedersi il perché. Le ragioni sono tante. Tra tutte ce n’è una che secondo me rappresenta la questione culturale e filosofica centrale del nostro tempo: la perdita di oggettività dei valori etici. Mi spiego meglio. Tutte le grandi civiltà, le religioni e filosofie che hanno permesso reali progressi all’umanità si basano su valori etici e morali fondamentali e oggettivi, che non sono messi in discussione. Alcune li associano a un Dio trascendente, altre a una divinità intesa in modo diverso, in ogni caso tutte danno un valore oggettivo all’etica, alla morale, e quindi anche alla pace e alla dignità umana. Una caratteristica della modernità, ritenuta da qualcuno una conseguenza dello sviluppo scientifico, è l’affermazione di una tesi di tipo riduzionista secondo la quale l'essere umano e il mondo non sono altro che un insieme di atomi e molecole. Seguendo questa tesi, dove si collocano i valori morali? Il bene e il male sono solo convenzioni? Credo che il vero problema culturale dei nostri tempi sia trovare nella concezione moderna del mondo basata sulla scienza un ruolo centrale per i valori etici, oggettivi e indiscutibili, che si basano sul rispetto della dignità umana. Questo è un tema che le università, in quanto “comunità di chi studia”, non possono non affrontare. Ci è richiesto di sviluppare un approccio olistico che vada al di là della settorialità delle competenze dei vari campi del sapere. Impegnarsi per arrivare a una visione completa della persona umana e del mondo: questa è la missione delle università. (Maria Lucia De Luca e Mirko Lugli)

Un impegno dichiarato

«Dobbiamo fare una breccia nel tipo di relazione amico-contro-nemico… A tutti noi oggi si richiede di prendere in considerazione le opinioni della controparte e di essere pronti a imparare da questa» (Daisaku Ikeda)



Le criticità della situazione mondiale sono un fardello pesante con cui convivere: come non sentire un senso di impotenza, tristezza, isolamento, paura? In uno scenario globale di tensioni e incertezza, uno dei pericoli maggiori è il diffondersi crescente di una cultura della guerra. Ad esempio nel dibattito pubblico, così come nel terreno di coltura e amplificazione dei social, si avverte la presenza sempre più pervasiva di paradigmi che caratterizzano le dicotomie di una logica bellicista. È questa, a mio parere, un’insidiosa seduzione che comporta il rischio di arrivare a considerare “normale” il ricorso alla guerra come mezzo per risolvere le crisi internazionali. In questa società sempre più complessa le dicotomie del tipo amico-nemico, bianco-nero, buono-cattivo possono anche apparire rassicuranti, nella loro logica semplificatrice che non prevede alcuna messa in discussione personale né l’attraversamento di conflitti, talvolta dolorosi, nelle relazioni. Nel vivere quotidiano si è schiavi di un pensiero binario ogni volta che si rifiuta il dialogo, il confronto, magari per la paura di un eventuale contrasto o perché si potrebbero mettere in discussione comode certezze. Oppure quando si erigono muri tra sé e gli altri, quando non si accetta o non si sopporta una o un gruppo di persone, quando ci si lascia intrappolare nei pregiudizi. E perfino quando ci si chiede se sia più importante pregare per la propria felicità o per quella degli altri, come se la prima escludesse la seconda e viceversa. La casistica è infinita, ma una cosa è certa: semplificazioni di questo tipo comportano rischi e pericoli legati alla rigidità dello schema binario del tipo “io sono nel giusto, tu nel torto” e così via. Lo stesso schema che regna in un mondo dominato dalla guerra, con la criminalizzazione del nemico, l’assuefazione alla violenza e all’autoritarismo.



Personalità autoritaria e pensiero dicotomico Un importante studio sulla “personalità autoritaria” di Theodor Adorno (1903-1969) e dei suoi collaboratori Else Frenkel-Brunswik (1908-1958), Daniel Levinson (1920-1994) e Nevitt Sanford (1909–1996), pubblicato nel 1950 negli Stati Uniti, evidenzia una connessione fra alcuni tratti della personalità, come una forte aggressività inespressa, e i pregiudizi manifesti. Le indagini socio-psicologiche di Adorno e colleghi, effettuate negli Stati Uniti tra il 1944 e il 1949, prendono in esame il pregiudizio antisemita e quello più ampio e generalizzato dell’etnocentrismo, che ha per oggetto i neri e le minoranze in genere. C’è anche un’interessante analisi sul successo ottenuto dalla propaganda di agitatori politici come il nazista Joseph Goebbels o l’americano Gerald K. Smith, fondatore negli anni ’40 dell'America First Party, partito di estrema destra nazionalista e antisemita. E la risposta, secondo Adorno, è che l’agitatore politico utilizza pregiudizi già esistenti nella società per acquisire consensi, formulare proclami e azioni. In generale, dunque, il pensiero della persona autoritaria tende a essere dicotomico e rigido, seguendo schemi del tipo “o con me o contro di me”, “quello che dico e penso è l'unica verità, il resto sono falsità o sciocchezze». Anche lo studioso di psicologia Atkushi Oshio, dell’università di Tokyo, ha analizzato l’intima relazione tra autoritarismo e il “pensare in bianco e nero”, giungendo alla conclusione che il pensiero binario è comune nelle persone narcisiste con bassa autostima e con un comportamento autoritario. Persone che non tollerano l’ambiguità, hanno bisogno di avere tutto sotto controllo e tendono a svalutare chi pensa diversamente. Infine, secondo lo psichiatra statunitense Aaron Temkin Beck (1921-2021) il pensiero dicotomico è una delle possibili distorsioni dell’idea che induce a valutazioni estreme (buono-cattivo, bianco-nero, tutto-niente, ecc.). Ragionare in bianco e nero porta a pensare che le cose possono essere solo giuste o sbagliate e si può essere solo a favore o contro. Ed è esattamente ciò che accade nello scenario infernale della guerra, distruttivo al punto da comportare l’annientamento del nemico e del più naturale desiderio degli esseri umani: la pace.



Io sono la pace Come disinnescare, dunque, semplificazioni dicotomiche del tipo “amico-nemico” che portano all’autoritarismo e alla violenza? In un clima sociale e politico che tende a normalizzare questa visione scelgo di procedere nella direzione opposta: non voglio assuefarmi, non intendo criminalizzare alcun “nemico”, né quello affermato dalla logica binaria della guerra, né chi dissente da tale logica. Temo infatti che questo pensiero dicotomico possa mettere in crisi valori come la democrazia, il pluralismo e tutto ciò che tende a restituire la complessità delle dinamiche sociali e politiche. In altre parole, nel mio mondo non può esistere solo l’opzione tra il bianco o il nero: scelgo di vivere a colori, meglio se vivaci. Scelgo di “essere la pace” quando adotto il dialogo come metodo per costruire relazioni. «Tutto ha inizio quando un solo essere umano parla con un altro; di solito si pensa al colloquio tra civiltà, ma il punto di partenza è il rapporto interpersonale. […] Dobbiamo fare una breccia nel tipo di relazione amico-contro-nemico e discutere in modo aperto e onesto sul terreno comune dell’umanità. A tutti noi oggi si richiede di prendere in considerazione le convinzioni della controparte e di essere pronti a imparare da questa» (D. Ikeda, M. Tehranian, Civiltà globale, Sperling&amp;Kupfer, 2004, pp. 14-15). Affermo la pace quando mi sforzo di percepire l’umanità nelle altre persone. Nella Proposta di pace 2009 (BS, 134) Daisaku Ikeda riporta il pensiero del filosofo francese Gabriel Marcel (1889-1973) secondo cui «si può fare la guerra solo se prima si nega il carattere umano dell'avversario e lo si riduce a un concetto astratto, come “il fascista”, “il comunista”, “il sionista”, “il fondamentalista islamico”. […] Senza questo tipo di riduzione sarebbe impossibile giustificare o trovare un senso nella partecipazione alla guerra». Sono la pace quando mi rifiuto di pensare in termini di “ragione-torto”, “io contro di te”, ma adotto uno schema di pensiero critico e flessibile. Incarno la pace quando scelgo di non essere dogmatica. «Ripensando ai miei sforzi per alimentare questo tipo di dialogo – scrive Ikeda – ho acquisito un rinnovato senso di quanto sia urgente il bisogno di reindirizzare le energie del dogmatismo e del fanatismo, causa di così tanti conflitti mortali, verso una prospettiva più umanistica, la cui vera essenza e pratica risiede in un dialogo personale cuore a cuore» (Proposta di pace 2005, BS, 110). Agisco per la pace quando unisco le persone. «Credo fermamente – scrive ancora Ikeda – che la base del dialogo di cui abbiamo bisogno nel ventunesimo secolo debba essere l'umanesimo, un umanesimo che vede il bene in tutto ciò che ci avvicina e ci unisce e il male in ciò che ci divide e ci separa gli uni dagli altri» (Ibidem). Ogni volta che mi sento impotente di fronte alla guerra rileggo questo pensiero di Ikeda, che rivela la sua profonda convinzione nella potenzialità infinita del cambiamento: «Io non credo nell’impotenza delle persone. La filosofia che ho abbracciato parla della dimensione fondamentale, inerente alla vita stessa, per cui ogni vita umana attinge all’illimitata forza vitale del cosmo. Pertanto, la stessa forza che muove l’universo esiste nella nostra vita. Ciascun individuo ha un immenso potenziale e un grande cambiamento nella dimensione interiore di un solo individuo ha il potere di toccare la vita degli altri e di trasformare la società. Ogni cosa parte da noi» (La speranza è una scelta, Esperia). (Silvia Sperandio)

Nella dicotomia amico/nemico scelgo di essere pace

«Per scrivere questo libro ho studiato un esercito di réclame, […] una quantità enorme di foto insopportabili, discorsi volgari e disumani, ipocrisie di ogni tipo. Mi ha turbato, mi ha fatto paura. Perché ho visto il modo in cui prolifera, cambia volto, cerca di rinascere e […] quanto ci ha educato: mi pare che di tutti i prodotti della cultura umana, la guerra sia il più resistente. Ci ha persino convinto di essere natura. La guerra è un’aggressione delle élite contro il popolo. In questo libro si parla […] dei messaggi inviati dai media e della platea che li riceve: una relazione sbilanciata, fatta di menzogne e tragedie, di strategie difensive e speranze di pace» (p. 5). Seguono più di 500 pagine di immagini e ricostruzioni che restituiscono l’ampiezza del “discorso di guerra” suddivise in 7 capitoli: dall’indifferenza dei media nei confronti dei conflitti, alle campagne di arruolamento, alle nuove forme che la guerra tenta di assumere nel nostro tempo. L’ultimo racconta della pace. Un «flebile racconto, isolato da sempre, oggi descritto come una velleità puerile e minoritario anche nella nostra tradizione iconografica. Per secoli la cultura e l’arte hanno cantato le vittorie militari, mentre i vincitori in battaglia dominavano la vita pubblica e oggi vivono tra strade e piazze dedicate a carnefici, sanguinari e tiranni. […] Eppure più le persone comuni hanno potuto prendere la parola, più è stata criticata la guerra. Questa è la storia» (p. 438). E a chiudere una considerazione sul metodo: «Nel discorso pacifista non viene mai meno la concezione positiva di una platea in ascolto, la possibilità di rivolgerle un messaggio privo di obliquità, consistente e rispettoso. Ciò che emerge è […] un costante tentativo di affrancarsi dalla condizione mediatica del potere, quella ex-cathedra e paternalista, visione deteriore della cittadinanza alla quale la predicazione della pace non si è mai accompagnata» (p. 513-4).



Giuseppe Mazza, Campagne di guerra. 150 anni di comunicazioni, pubblicità, propaganda, Prospero editore, Milano, 2023, pp. 532



Sul sito di Senzatomica un'intervista all'autore:



<a href="https://senzatomica.it/approfondimenti/intervista-giuseppe-mazza/">https://senzatomica.it/approfondimenti/intervista-giuseppe-mazza/</a>

Guerra parlata, dipinta, cantata…

Un nuovo modo di essere presente nei conflitti, di creare la pace, facendo tesoro della storia di ogni persona e sostenendo la vita negli aspetti più veri ed essenziali. Gloria Volpe ci racconta il suo impegno in Ecuador nei Corpi Civili di Pace.







Cosa sono i Corpi Civili di Pace e qual è stata la tua esperienza? Si tratta di un vero e proprio “esperimento governativo”, così è stato definito, che di triennio in triennio prevede l'impiego di 500 giovani civili per operare in zone di conflitto o post-conflitto sociopolitico e di emergenza ambientale. La prima esperienza sul campo è stata avviata nel 2017 e io ho fatto parte di questo primo grande gruppo. Eravamo circa 88 giovani, dai 18 ai 29 anni, impegnati come operatori di pace volontari in Italia, ma soprattutto all'estero. Ho vissuto un anno in Ecuador vicino alla frontiera con la Colombia, dove ero stata l’anno precedente a svolgere il servizio civile. Ho avuto quindi l'opportunità di vedere anche l'altro lato del conflitto e dare assistenza a tutti coloro che cercavano rifugio in un altro Paese dopo aver superato il confine spesso in modo illegale.



Qual è il vostro impegno sul campo? Prima di tutto farsi presenza, farsi corpo. Spesso nelle organizzazioni internazionali esiste una forte divisione tra chi accompagna e chi viene accompagnato, invece noi stiamo spalla a spalla. Le nostre attività sono variegate, ma sostanzialmente si tratta di dare sostegno umano alle persone, un impegno che spesso significa fare da ponte con le istituzioni, perché essere rifugiato può significare non avere riconosciuti diritti che esistono sulla carta ma poi nella realtà si scontrano con forti ostacoli a livello sociale e istituzionale. Nello specifico i Corpi Civili di Pace promuovono interventi, laboratori, percorsi di educazione alla pace. Si fa un lavoro nella società, nelle scuole, nelle organizzazioni internazionali, si diventa antenne nel territorio per tutto ciò che riguarda le violazioni dei diritti umani. Prima di tutto abbiamo ascoltato le loro storie, che può sembrare scontato, ma non lo è se quell'ascolto è privo di ogni tipo di giudizio. E alla fine del nostro percorso abbiamo voluto raccontare queste storie, perché ci siamo resi conto che spesso tali situazioni vengono ridotte a numeri, ma dietro ogni numero c'è un nome, una particolare esperienza, un'emozione. A livello pratico poi facevamo un po’ di tutto, anche regalare momenti di svago ai più piccoli portandoli una giornata al mare, e alle loro mamme scambiando due chiacchiere davanti a un caffè. Per riportare in Italia quello che abbiamo vissuto all’estero abbiamo creato un’associazione, Azione Comune di Pace, con l'obiettivo di promuovere l'esperienza dei Corpi Civili di Pace e farli conoscere, perché è una pagina bella della nostra politica e della nostra storia, e ci sono ancora tante persone che non conoscono questo modo di essere presenti nei conflitti.



Qual è l’aspetto più complesso che ti sei trovata ad affrontare come operatrice di pace? Una grande sfida è stata quella di essere fedele al principio di terzietà: guardare tutte le parti in causa dalla stessa distanza. Perché andando più vicino a una determinata situazione si nota che le differenze tra le definizioni di “vittima” e “carnefice” fanno fatica a essere distinte così nettamente. Mi spiego, abbiamo avuto l'opportunità di intervistare donne e uomini che sono stati coinvolti per tutta la vita nelle forze guerrigliere della Colombia, in particolare nelle FARC (le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia). Per me l'incontro con loro è stato rivelatorio. Alcune donne ci hanno raccontato che quando hanno deciso di abbracciare le armi erano ragazzine, bambine che avevano perso tutto e che per questo si sono trasformate da vittime in carnefici, infliggendo a loro volta violenze agli altri. Penso che sospendere il giudizio sia la cosa più difficile, ma anche la più importante, che ho acquisito da questa esperienza, insieme alla ricerca della coerenza. Ritengo che chiunque si dedichi a un lavoro di tipo sociale debba essere seriamente impegnato con se stesso nella ricerca della coerenza, perché nel nostro lessico usiamo parole giganti come “pace”, “ascolto attivo”, “ascolto dei bisogni”, “nonviolenza”… però di fatto siamo esseri umani. E dobbiamo renderci conto che non siamo migliori di altri, ma che ognuno ha i suoi lati oscuri da riconoscere. Questa è la mia sfida personale più grande, la ricerca di coerenza tra quello che dico e quello che faccio, che poi è stato uno degli aspetti più affascinanti che mi ha avvicinata al Buddismo, perché mi sono riconosciuta in questa ricerca di coerenza tra pensieri, parole e azioni.



A proposito di parole giganti e di come sono vissute, cosa pensano i rifugiati della pace? È vista come un’utopia o un obiettivo da perseguire? La categoria che noi chiamiamo rifugiati è costituita da tanti individui distinti, con caratteristiche personali e culturali proprie, e ognuno di loro vede la pace in modo molto diverso. Tantissime persone erano arrabbiate e non disposte a perdonare, quindi non erano disponibili ad alcun processo di pace. Altre, che avevano fatto un lavoro su se stesse, perché avevano possibilità sociali ed economiche migliori, dicevano: «Io non perdonerò ma sono d'accordo con il processo di pace perché è più importante di quello che ho vissuto su di me», facendo un’astrazione importante. Altri ancora pensavano che la pace non sarebbe mai potuta accadere, che la pace “non è per quel Paese, non è per quel popolo”. Questo forse è stato l’aspetto più frustrante. È successa però una cosa sorprendente. Per una ricerca accademica abbiamo fatto alcune interviste strutturate con questionari di ricerca, chiedendo alle persone quale fosse il sentimento che in quel momento era predominante in loro. Su 175 intervistati più del 70% ha risposto: la speranza. È stato incredibile. Pensare a quante volte noi siamo a terra e perdiamo la speranza nelle nostre piccole cose, mentre invece per quelle persone, in situazioni così grandi e difficili da trasformare, il sentimento più forte era proprio la speranza, mi ha fatto sentire piccola. Mi ha preoccupato vedere recentemente un video in cui i bambini di Gaza dicevano che avevano perso la speranza. E se un bambino, che ha il futuro davanti a sé, perde la speranza, una dimensione temporale non del qui e ora ma del domani, si tratta di una realtà su cui dovremmo interrogarci tutti.



Quale valore ha aggiunto il Buddismo alla tua attività per gli altri? Quando ancora non conoscevo il Buddismo avevo fatto una promessa a me stessa: avrei fatto della pace e dell’esperienza dei Corpi Civili di Pace la mia missione. Praticando il Buddismo poi ho capito che questo mio desiderio era proprio kosen-rufu, poter portare valore alla società e alla comunità in senso globale. E questa continua a essere la mia bussola. Anche ora che ho iniziato un dottorato di ricerca su questi temi, per me una difficile sfida, pensare che con questo percorso posso portare alla società un ulteriore contributo per la pace mi dà tantissima forza. Penso che sia importantissimo raccontare chi siamo e quello che facciamo, perché così possiamo trasmettere un grande coraggio. Grazie al Buddismo ho capito che ho una responsabilità in questo e voglio prendermela, cercando di rimanere sempre con una postura aderente al cuore e mai all’ego. (Rossella Maci)

Per proteggere la speranza

Buddista, militare, di ritorno da una recente missione in Libano per conto dell'UNIFIL (la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite), si è trovato per la prima volta in un vero teatro di guerra. Dentro il disastro e la distruzione dei giorni più duri dell'attacco israeliano contro il gruppo armato libanese Hezbollah, ci racconta una grande esperienza di fede e di profonda umanità.



Sei militare e sei buddista. Come riesci a conciliare le due anime? Mi parlarono della pratica un anno e mezzo dopo essere partito per la prima volta come elicotterista. Ovviamente nacque in me una contraddizione, ma nel romanzo La rivoluzione umana lessi la storia di Satoru Izumi, un pioniere della Soka Gakkai giapponese, che dovendo partire per la guerra determinò, e fu in grado, di non impugnare mai un'arma contro nessuno. Capii che avrei voluto fare come lui, cioè creare un mondo di pace comunque e sempre intorno a me, ovunque e chiunque fossi stato. Anche perché parlare di pace in mezzo ai militari penso sia una cosa molto utile.



Come militare hai fatto molte esperienze sul campo. Tutte missioni di pace? Nel ‘92 sarei dovuto andare in Somalia, ma non era una missione di pace e alla fine non partii. Nel 2005 fui chiamato per una missione in Afghanistan, non come elicotterista ma perché conoscendo l’inglese sarei dovuto andare in giro con le truppe afgane; una cosa molto operativa, e pericolosissima, tanto che chi stava davanti a me aveva rifiutato. Così insieme a mia moglie ci mettemmo davanti al Gohonzon a recitare Daimoku fortemente. Sarei dovuto partire quattro mesi dopo e invece fui mandato negli Emirati Arabi a fare l'addetto al controllo passaporti delle truppe italiane che passavano di lì per andare in Afghanistan e in Iraq. Insomma, stavo in borghese a fare accoglienza a questi ragazzi, senza armi e senza divisa. Invece quest'ultima volta in Libano è stato ben diverso, perché lì ho visto l'orrore della guerra, cosa che non mi era mai capitata.



Dunque la guerra l’hai vista e vissuta, a differenza della maggior parte di noi. Cosa ci puoi dire? Sentendo le bombe che ti cadono vicino, i carri armati che sparano, la vita ti cambia. Incredibilmente non avevo la minima paura (e non c’è altra spiegazione se non il Daimoku); la mia preoccupazione, il mio dolore, era vedere il disastro che c'era intorno. E tuttora me lo porto dentro. All'inizio si tende a giudicare: come si può lanciare bombe sui civili? Sparare col cannone e continuare a farlo sapendo che si uccidono bambini e si distruggono le vite delle persone? Nasceva in me il giudizio, e anche una buona dose di odio. Davanti al Gohonzon ho cominciato a praticare con questa rabbia, ma a un certo punto ho percepito di non essere diverso da quel pilota, perché stavo giudicando nella stessa maniera. E lì è scattato qualcosa: anche quel pilota o quel carrista, che fosse hezbollah, israeliano, ucraino o russo, in quel momento stava vivendo il dramma della follia della guerra. E allora ho capito che se ero lì forse un senso c'era, c'era qualcosa che potevo fare. Così ho incominciato a stare più vicino ai colleghi e a creare legami sempre più profondi con le persone di lì. Piano piano, parlando con loro per far capire che non c’è solo bianco o nero, la ragione o il torto, si creano legami incredibili.



Secondo te questo tipo di legami può avere un'influenza sulla follia della guerra? Sì, senza dubbio. Parlando per esempio con Ali e Rasha, due libanesi che erano filo hezbollah e consideravano Israele il nemico numero uno, a forza di dialogare alla fine siamo arrivati a dire che la guerra è una follia. E quando l'ultimo giorno ci siamo salutati, Rasha mi ha regalato una candela da portare a mia moglie, lei che non aveva letteralmente più niente, dicendomi che di tutta questa tragedia quello che le rimaneva nel cuore erano i nostri dialoghi. Ho incontrato anche libanesi filo-israeliani di religione cristiana che all’inizio dicevano che Israele faceva bene ad agire così. Poi vedendo che proprio in quanto cristiani le loro case venivano distrutte, saccheggiate e deturpate dagli israeliani, si sono resi conto della follia della guerra e che non c'è il giusto da una parte e lo sbagliato dall’altra, c'è solo odio, assurdità.



Costruire la pace lì, costruire la pace qui: c’è differenza? Forse in Libano era più facile: lì cadono le bombe e tu non hai altra chance che andare davanti al Gohonzon. Riuscivo magari a fare mezz'ora al giorno perché poi dovevo correre nel bunker, ma quella mezz'ora la facevo come se fosse l’ultimo mio Daimoku. Qui è più difficile ritrovare la stessa energia: noi usciamo di casa e viviamo un’apparente tranquillità, un’apparente pace, ma ogni cosa parte da ora, da noi qui, da come guidiamo la macchina, da come ci comportiamo in famiglia…



Come fate a sopportare tutto il dolore che vedete, vivete? Sentite la necessità di una “strategia di sopravvivenza emotiva” come un medico che per operare deve sviluppare un certo grado di distacco? Io tutte le mattine mi sveglio alle 05:30 per fare un’ora di Daimoku. Tutti sanno che pratico, sono sempre me stesso, non posso fingere o mettermi una maschera. Anche all'estero, questa volta in Libano, sono sempre io con la mia sensibilità, assorbendo il dolore di chi mi sta intorno, e forse questa è la cosa più bella perché poi riesco a parlare davvero con chi è disperato, perché sento il suo dolore sulla mia pelle. Ci siamo trovati con un gruppetto di colleghi a dover sentire veramente il dolore che c'era, altrimenti come avremmo potuto aiutare? Il Gohonzon ti dà la forza di non essere schiacciato, sopraffatto da questo dolore, che diventa un'altra cosa, un nuovo punto di partenza, diventa empatia.



Hai mai perso la fiducia di fronte agli orrori di cui sei stato testimone o, tornando qui, vedendo l’accelerazione della sopraffazione nel mondo? Non è facile. In Libano la prima cosa che mi veniva in mente era frenare il giudizio. Anche qui la lotta che cerco di fare di più è evitare di giudicare.



A prescindere dal fatto di non voler guardare il mondo come un agone tra cattivi e buoni, recentemente assistiamo a dinamiche negli equilibri globali che richiedono una nuova chiarezza di giudizio, interpretazione, comprensione. Condivido pienamente. a livello politico si parla di guerre giuste e di guerre necessarie per giustificare altri interessi, ma i politici sono un'espressione della società, nostro. Più riusciamo a dialogare tra noi e con le persone comuni, più persone comuni cominciano a ragionare così, più ci sarà una speranza di cambiamento e questa speranza crescerà.



Questo è molto in linea con il cuore di questo speciale e si lega bene all'ultima domanda. In un’occasione hai detto: «È sicuramente possibile cambiare il mondo in guerra, per farlo basta essere profondamente felici e poi aprirsi totalmente al cuore degli altri». Ce la spieghi? Una volta Sensei disse che dovremmo recitare un Daimoku disperato, come quando non hai altre chance e decidi veramente. Recitando un Daimoku così viene naturale essere un ricettore: apri veramente la tua vita, nel bene e nel male, e arrivi a sentire sofferenze incredibili. Ma solo così puoi arrivare al cuore di chi soffre, e vedendo i suoi occhi che cambiano provi qualcosa di impagabile. Mi emoziono a dirtelo. È un tesoro. (Marina Marrazzi)

Sotto le bombe, incredibili legami umani

Un libro che sa raccontare come pochi il morire, l'innamoramento, ma soprattutto la pace, dove il quotidiano è vita interessante e degnissima di essere narrata



Ci si può innamorare del personaggio di un romanzo? A me successe con Nataša Rostova, la contessina di cui s’innamorano anche i due alter ego di Tolstoj in Guerra e pace: Andrej e Pierre. Tenni vicino al letto per mesi i quattro volumi dell’edizione Garzanti del romanzo, imbevendomi di quella storia sera dopo sera. Nel Giappone degli anni Cinquanta poteva accadere al giovane Daisaku Ikeda che il suo maestro gli chiedesse all’improvviso, mentre si spostavano in treno: «Cosa stai leggendo oggi di Tolstoj?».<a id="c288e1e0-cb98-4d82-957c-496d89a866b5-link" href="#c288e1e0-cb98-4d82-957c-496d89a866b5">1</a> Daisaku amava gli scritti di quel russo e li sfogliava “avidamente”, come ricorda più volte:<a id="123bd07f-ae54-42d2-8034-1ca8ca98a5cc-link" href="#123bd07f-ae54-42d2-8034-1ca8ca98a5cc">2</a> un modo meraviglioso di impiegare il “mondo di avidità”. Durante il conflitto russo-giapponese del 1904-1905, un Tolstoj settantaseienne definì la guerra un «assassinio», le armi «strumenti del delitto» e le installazioni militari «basi d’appoggio per l’opera omicida»<a id="1776ffce-eb9a-41ae-a954-0f034e711d66-link" href="#1776ffce-eb9a-41ae-a954-0f034e711d66">3</a>: gli ci volle molto coraggio per lanciarsi con le parole contro la compatta propaganda violenta del proprio paese. Ma se è bello per noi leggere queste sue affermazioni, meraviglioso è nutrirsi per mesi della loro incarnazione in un racconto di 1817 pagine. Ikeda Sensei parla anche del rapporto tra Tolstoj e Gandhi come di un legame maestro-discepolo, citando il loro prezioso carteggio iniziato ai tempi delle prime lotte gandhiane in Sudafrica.<a id="0fe671d0-b8b5-4ad2-bc3d-380cef029535-link" href="#0fe671d0-b8b5-4ad2-bc3d-380cef029535">4</a> E che una linfa vitale scorra tra Gandhi, King (che fu a sua volta ispirato da quest’ultimo) e il “Budda Soka Gakkai” è ampiamente testimoniato da discepoli diretti del maestro indiano e di quello afroamericano.<a id="6cc87741-adfa-475d-9740-150f8ff84123-link" href="#6cc87741-adfa-475d-9740-150f8ff84123">5</a> Siamo più uniti a Guerra e pace di quanto forse pensiamo. Tolstoj sa raccontare come pochi il morire, come quando Andrej sta finendo a causa della guerra e Nataša è con lui sul pavimento scosso dai topi – i due non si vedono da anni, lei ha rotto il fidanzamento, non ha saputo aspettarlo, e ora lo assiste con amore e soggezione – e lui perde gradualmente contatto con le emozioni, cose di questo mondo. Il romanziere sa raccontare come pochi anche l’innamoramento, come quando Pierre si sentirà dire da Nataša che «può sperare», e ogni cosa sul suo cammino verso casa diventa luce, ogni persona diventa bella e simpatica. Ma uno dei più grandi meriti di questo libro è saper raccontare la pace. Nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, il vecchio narratore Homer – sfogliando lento un librone nella biblioteca frequentata dagli angeli inquieti – pensa: «Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un epos di pace […] Cosa c’è nella pace che, alla lunga, non entusiasma e che non si presta al racconto?». E in effetti è un luogo comune che, di solito, quando finiscono i guai finisce anche il romanzo, il dramma, il film. Tolstoj invece riesce a farci entrare per molte pagine in quel posto dove “vissero felici e contenti”: tutto è finito e le coppie (quelle sopravvissute) vivono insieme, vita quotidiana, anche con battibecchi e piccole incomprensioni – pure coi migliori amici non ci si capisce mai del tutto – ma vita interessante, degnissima di essere narrata. Fino a quel passo incredibile in cui Pierre torna da un viaggio di lavoro e con Nataša si ritrovano in camera, parlano in modo convulso, si guardano felici, e lei chiede una cosa e lui ne risponde un’altra che non c’entra niente. E Tolstoj commenta che proprio questo dimostra che si stavano capendo benissimo! Cosa c’è nella pace che in genere non entusiasma? C’è che, a differenza dei contesti di pericolo costante, non costringe a vivere nel presente. Tende a farci adagiare nella fantasticheria, a farci rifugiare nel passato e nel futuro, come se ci fosse il tempo per perdere tempo a farlo. Ma non abbiamo bisogno di rischiare di morire per imparare a vivere. Il Sutra del Loto di Shakyamuni, quello di Nichiren, quello di Ikeda… ci dicono che nel quotidiano c’è la più grande avventura; che possiamo arrivare a guardare fuori da una finestra quotidiana e respirare profondamente per quello che vediamo, con lo stesso stupore e la stessa gioia di quelli che avremmo se fosse appena finita la guerra, se fossimo appena guariti da un tumore. Pierre e Nataša, alla fine del romanzo, sembrano aver imparato a gioire della normalità, di quella “originalità nella ripetizione” in cui il filosofo danese Søren Kierkegaard faceva consistere la serietà nel senso più bello della parola, il fiorire del grande io. Quel che non entusiasma nella pace, quel che fa desiderare la guerra, è l’aridità e l’accidia di un io che non riconosce la propria sorgente, che non sa ricreare costantemente il mondo. La “rivoluzione umana”, il romanzo che ognuna e ognuno di noi può scrivere, può sfociare finalmente in un epos di pace. Dove il gioioso conflitto interno manterrà il male nello stato di mera potenzialità, come – ricordando un’immagine cara a Sensei – il cigno che scivola regale sul lago perché le sue zampe si muovono vigorose e incessanti sott’acqua. La pace è infatti in lotta: lo dice bene anche Fabrizio De André quando descrive (in Korakhané) come i rom vengano coinvolti, loro malgrado, nell’ennesima guerra: «Finché un uomo t’incontra e non si riconosce/ e ogni terra si accende e si arrende la pace». (Donato Ferdori)







 







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Guerra e pace, il romanzo Sullo sfondo della crisi europea degli inizi dell’Ottocento, in particolare la Campagna di Russia di Napoleone Bonaparte, si intrecciano le vicende dei membri di due famiglie dell’alta nobiltà russa, i Bolkonskij e i Rostov, fra i quali emergono le figure di Nataša Rostova, Andrej Bolkonskij e Pierre Bezuchov. Tolstoj accompagna i tre protagonisti, simboli dell’armonia del mondo, attraverso balli, battaglie, matrimoni, morti, partecipando direttamente alle loro inquietudini e dando voce ai moti interiori del cuore. «È fondamentale in Guerra e pace – scrive Leone Ginzburg nella prefazione – la differenza fra personaggi storici e personaggi umani. I personaggi umani – si tratti di Nataša, di Pierre, del principe Andrej, o anche dei più insignificanti – amano, soffrono, sbagliano, si ricredono, cioè in una parola, vivono; mentre gli altri sono condannati a recitare una parte che non è scritta da loro, anche se tutti s’immaginano di improvvisarla. Guerra è il mondo storico, pace il mondo umano. Il mondo umano interessa e attrae particolarmente Tolstoj soprattutto perché egli è convinto che ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro uomo». Lev Tolstoj, Guerra e pace, Einaudi, 2019, 2 volumi, pp. 1574
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La pace che entusiasma

Il Preambolo alla Costituzione dell’UNESCO dichiara: «Poiché le guerre hanno origine nelle menti degli esseri umani, è nelle menti degli esseri umani che le parole in difesa della pace devono essere costruite»



A partire dall’insegnamento del Daishonin, in particolare dal trattato Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese, Daisaku Ikeda ha sempre sostenuto la necessità di promuovere un movimento della gente comune per invertire l’attuale tendenza mondiale verso la crescente militarizzazione, l’utilizzo dei conflitti armati al posto delle diplomazie e per allentare le pericolose tensioni internazionali. Nell’ottica di una pace globale è imprescindibile e determinante il ruolo delle persone comuni.



Agire nel proprio ambiente L’intuizione di Ikeda è che sia necessario risvegliare l’energia di tutte le persone che desiderano fortemente la pace affinché si impegnino nel proprio ambiente più prossimo, in modo da formare tanti piccoli segmenti di ambienti virtuosi, “pacificati”, che si colleghino tra loro, fino a raggiungere ogni angolo della Terra. La forza rivoluzionaria di questa idea sta nel generare un cambiamento globale attraverso la ricostruzione del tessuto relazionale della società civile per opera degli stessi abitanti. La tendenza distruttiva alla guerra deve essere affrontata a partire da un’azione quotidiana rivolta ai propri “vicini di vita”, con i quali adottare mezzi pacifici di fronte a divergenze o contrasti e creare legami di amicizia. «La politica di pace è una politica gentile – scrive Johan Galtung in Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000) – che dipende in larga misura dalle decisioni concrete prese dalle élite ma anche, e in misura crescente, dalla gente che porta avanti le proprie politiche di pace: al microlivello dell’interiorità individuale e della famiglia (dove c’è sempre molto da fare); al livello intermedio della società; al macrolivello dei conflitti fra le società e le regioni. A tutti questi livelli c’è spazio per la politica intesa come condotta politica verso la pace».



Imparare il riconoscimento dell’“altro” Noi umani siamo animali “culturali” e il nostro comportamento è largamente determinato da valori, norme e istituzioni, dalla cultura in senso lato, sedimentata nel subconscio collettivo. Possiamo imparare a essere violenti oppure possiamo imparare altri metodi di relazione e di risoluzione dei conflitti. Non mancano gli esempi, gli stimoli e gli strumenti per fare ciò, principalmente l’uso del dialogo che presuppone il riconoscimento “dell’altro” come punto d’origine per avere consapevolezza della propria umanità. Nel pensiero buddista l’io non può essere concepito e definito senza la relazione con l’altro da sé. «È riconoscendo ciò che è esterno e diverso da noi, percependo la resistenza che offre, che siamo ispirati a esercitare l’autocontrollo che permette alla nostra umanità di realizzarsi» (Proposta di pace 2004, BS, 103). Nonostante le straordinarie conquiste avvenute nel corso dell’evoluzione della nostra specie, ancora si concepisce “conveniente” l’uso della guerra. Ma l’odierna potenza di armi e tecnologie collaterali dovrebbe far comprendere a ogni individuo pensante la pericolosità dei conflitti armati che in un mondo globalizzato si ripercuotono su tutti e su larga scala, anche su coloro che non ne sono coinvolti direttamente.



Coltivare l’istinto pacifista Perché sono ancora in atto allora i meccanismi che determinano la guerra? Così come l’essere umano ha dovuto imparare a controllare il fuoco per poterlo utilizzare e per proteggersi dai suoi effetti distruttivi, allo stesso modo oggi è cruciale che gli umani imparino velocemente a controllare gli impulsi distruttivi e predatori nei confronti di altri esseri umani e della natura per proteggersi dagli effetti degenerativi che ne scaturirebbero. Questo dovrebbe essere il ruolo fondamentale dell’educazione, che spesso però risulta inadeguata a promuovere un’intelligente educazione alla pace. È necessaria una autoeducazione permanente, quella che noi chiamiamo rivoluzione umana, per vincere l’ignoranza fondamentale sulla natura profonda della vita e sulle relazioni che intercorrono tra tutti i fenomeni. Occorre una rivoluzione che manifesti il potenziale del bene e della creatività inerenti a ciascuno/a, le vere risorse per debellare l’uso incontrollato dell’aggressività e degli altri impulsi distruttivi, coltivando un sano “istinto alla pace”. Il Buddismo non rifiuta le tendenze negative nella natura umana, ma pone l’accento sulla loro pericolosità, sia per se stessi sia per gli altri, quando assumono il connotato di veri e propri “veleni” che inquinano le facoltà di ragionamento e di saggezza. Prive di una filosofia di vita onnicomprensiva che guardi anche all’interiorità, le persone hanno difficoltà a controllarle e a trasformarle in energia positiva. Sono identificati come “veleni” la collera, la stupidità e l’avidità, che nelle loro forme dirompenti in seno alla collettività portano rispettivamente alla guerra, alla perdita generale della salute fisica e mentale e alle crisi economiche.



«Tutto inizia dalle persone» Con questa affermazione Ikeda getta luce sulla risorsa fondamentale per cambiare le cose: «Tutto inizia dalle persone. Se le persone non si sforzano di cambiare, non ci possono essere felicità personale, prosperità sociale e pace mondiale. La rivoluzione umana è di per sé la forza trainante che apre le porte a un nuovo secolo di umanità». Parlando poi del ruolo della Soka Gakkai nella società afferma: «La missione fondamentale di una religione, in un momento di grandi cambiamenti e turbolenze, è quella di fornire a ciascun individuo una fonte di vitalità interiore e risvegliare in ogni persona la capacità di contribuire a riportare la società su un percorso stabile, solido e positivo» (NRU, 22, 282-283).



Il potere spirituale di ogni individuo Nella Soka Gakkai ogni individuo è qualificato per svolgere questa azione di pace con le persone intorno, nella famiglia, nel condominio, nel posto di lavoro o di socialità e nella comunità buddista locale. È qui che insieme agli altri praticanti ci si può allenare a creare un modello di relazioni armoniose, facendo esperienza della più ricca interazione possibile con gli altri, per farne un modello da estendere all’esterno. Nella Soka Gakkai non si è meri ingranaggi di un’organizzazione che proclama la pace in teoria, si è parte integrante di «un’organizzazione umanistica basata sull’unità nella diversità che si sforza di permettere a ciascun individuo di realizzare il suo pieno potenziale e la propria personalità» (Ibidem, 284). Per quanto questi possano sembrare piccoli passi nella direzione della convivenza pacifica, rappresentano un progresso incalcolabile nella grandiosa impresa di ridefinire il corso e la direzione della civiltà. (Marta Bonomo)

La sfida rivoluzionaria della gente comune

Impedire l’uso delle armi nucleari come passo verso la pace mondiale

Uno speciale che cerca di affrontare le mutevoli dinamiche geopolitiche attuali riaffermando con chiarezza i punti di forza su cui fa leva il Buddismo: il rispetto per la vita, la pratica del dialogo, la fiducia nel potenziale illimitato degli esseri umani.

Essere guerra essere pace

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