<h3>Esporsi all’arte, conoscerla e amarla ci fa riscoprire la nostra comune umanità superando barriere di odio e incomprensione.</h3>
<h3>L’arte è speranza di rinascita. È la risposta costruttiva alla guerra e alla distruzione, come si racconta in queste immagini e nelle testimonianze e riflessioni delle pagine seguenti.</h3>
<h3>È la modalità fondamentale attraverso la quale gli esseri umani scoprono i legami con i propri simili, con la natura e con l’universo.</h3>
<h3>Coltivare l’arte è il modo più sicuro di costruire la pace.</h3>

Arte e Pace

Sembrava di essere nel ventre di una balena di ferro. Odore militare, scarni seggiolini laterali, vuoto al centro. Eravamo una trentina tra giornalisti accreditati e soldati Onu e stavamo sorvolando l’Adriatico diretti a Sarajevo su un velivolo militare dell’Unprofor (United Nations Protection Force, una forza di intervento dell’Onu). Era l’aprile del 1994 e i bombardamenti, quel giorno, erano temporaneamente sospesi. Portavo i 30 kg di cibo consentiti da distribuire e avevo elaborato un progetto di “rigenerazione umana” che nasceva dalle opere degli artisti bosniaci del gruppo Trio Sarajevo. Bojan, Dada e Leila avevano stampato cartoline da divulgare clandestinamente tra giornalisti e volontari affinché la loro voce arrivasse sino a noi.
Avevo 33 anni e quando seppi della resistenza culturale della città assediata decisi di partire, di rischiare, di dare un sostegno pratico agli artisti, di contribuire con un’azione concreta, in prima persona, alla costruzione della pace. Nonostante il genocidio, la vita irrompeva rigogliosa sottotraccia. Volevo conoscere da vicino quella che la televisione descriveva esclusivamente come macelleria a cielo aperto senza speranza. Così mi feci accreditare dal giornale per il quale scrivevo allora, Il Giorno, e partii.
Pensando alla Biblioteca di Sarajevo in fiamme, con le pagine dei libri che volavano infuocate nella notte, intuii che l’antidoto all’odio e alla distruzione dei corpi fosse la cultura. E non sbagliavo, nonostante tutto. I sarajevesi, magrissimi e scavati come sculture di Alberto Giacometti – che camminavano rasenti il muro o correvano per uscire dalla visuale dei cecchini – si ritrovavano nei sotterranei e nelle cantine per continuare a dare un senso alla vita. Lo facevano attraverso la poesia, il teatro, le mostre, la musica, e quasi sempre al buio o con le candele. Morivano i corpi ma non la creatività e lo humor. Le armi della poesia si rivelarono indistruttibili. Susan Sontag passò mesi con loro, lavorando alla pièce Aspettando Godot e scrivendo straordinari reportage. Altri intellettuali giunsero nel cuore a pezzi dell’Europa e lo raccontarono mangiando quel poco che arrivava. Enver Hadžiomerspahić, una singolare figura di Sarajevo, raccolse una straordinaria collezione di arte contemporanea chiedendo agli autori più importanti al mondo una donazione per costruire “Ars Aevi”, il museo contro la guerra che ancora oggi, nonostante il progetto donato da Renzo Piano, non ha una sede definitiva. La città, diventata un immenso cimitero, resisteva con le unghie spezzate e respirava attraverso l’arte per non impazzire.
L’immersione nella guerra e nella profonda umanità degli abitanti mi ha cambiata per sempre. Al ritorno dal secondo viaggio incontrai il Buddismo di Nichiren Daishonin. Un artista, Giampaolo Kohlër, mi parlò del Daimoku, della rivoluzione umana e della felicità che scaturisce dalla pratica. Io, che da ragazzina avevo letto avidamente Siddharta di Hermann Hesse, per la prima volta ritrovai tutti i princìpi, le azioni e le intenzioni che avevano animato i miei pensieri sino ad allora. Mi si apriva un universo colmo di energia, vitalità e possibilità. In un momento seppi di non essere sola e capii che avrei potuto trasformare la mia vita, soggetta a tanta incompletezza, in una grande opera d’arte. Compresi che la guerra inizia nel mio cuore e lì termina quando questo si illumina.
Il lavoro di curatrice, docente e critica, mi ha permesso incontri straordinari. Ha generato in me la convinzione che la trasversalità dell’arte possa trasformare ogni crisi in occasione, l’orrore in capolavoro, la prigionia mentale in libertà. E, per questo, la cultura è invisa ai sistemi totalitari e tecnocratici che sono sempre più spesso mascherati. Come sosteneva l’artista tedesco Joseph Beuys, l’arte deve essere alla base di ogni processo umano, come il saper far di conto.
Tra gli incontri memorabili che ho avuto c’è la poetessa rock Patti Smith, fortemente spirituale e trasgressiva, e Kim Phùc, la bambina vietnamita che, nel 1972, è immortalata nella foto storica, del futuro Premio Pulitzer Nick Ut, mentre scappa nuda durante il bombardamento al napalm. Kim, nonostante le atroci sofferenze, la fragilità alla quale è soggetta e i sessanta interventi chirurgici subiti, svolge la funzione del Budda. Attraverso l’amore per la vita e per tutti gli esseri è emblema vivente e vulcanico di pace e felicità.
E poi c’è Mario Merz, che realizzò innumerevoli igloo di vetro, di pietra e di legno che rappresentano il calore, la precarietà, il dramma esistenziale e il rifugio, miraggio oggi di milioni di migranti. Riguardo alla "semisfera" [vedi p. 14] ha affermato: «È un canone musicale, pittorico e fisiologico», mentre i numeri della progressione di Fibonacci sempre presenti indicano il processo di crescita della vita, lo sviluppo della spirale, della chiocciola, delle galassie.
Nel 2010, con la crisi della Grecia e l’imposizione della Troika, telefonai a Jannis Kounellis per chiedergli come si sentisse di fronte alla sofferenza del suo popolo. E gli posi la domanda se fosse stato possibile uscire dalla miseria e dalla violenza imperanti. Lui rispose a voce bassa: «Sì, forse. Ma solo ascoltando il respiro dell’altro, sentendone il calore e la vita». La frase mi folgorò.
Qual è dunque la funzione dell’arte oggi? Finire nei musei, nelle case di pochi fortunati o sostare nei depositi dell’alta finanza? In una società perlopiù depressa, predatoria e ridondante di messaggi trash, che tende alla semplificazione e all’analfabetismo spirituale e culturale, la funzione fondamentale dell’arte è risvegliare le coscienze al valore e alla dignità della vita. «Una società che dà valore alla cultura è necessariamente una società che dà valore alla felicità delle persone» ha affermato Daisaku Ikeda.
L’arte cambia il punto vista ordinario, trasforma il piccolo io e tende a creare un salutare disagio dal quale sorge la spinta al cambiamento.
Oppenheimer, l’ultimo film di Christopher Nolan, è un’opera impareggiabile e al contempo un atto politico. È un’azione concreta, potente; un flash che obbliga il pubblico a spalancare gli occhi sulla realtà. Il regista racconta, nel suo stile visionario, la storia del “padre della bomba atomica” Robert Oppenheimer, mostrando visceralmente due lati del suo animo: l’irrefrenabile faustiana passione per la ricerca scientifica e la deflagrazione della sua anima per aver realizzato l’arma che ha ucciso centinaia di migliaia di vite a Hiroshima e Nagasaki. È puntualissimo Nolan nel mostrare l’inferno che l’uso della bomba potrebbe ancora generare nel tragico frangente geopolitico che attraversiamo. Nessuno può uscire indenne dal cinema perché, se è vero che l’arte non può cambiare il mondo, è pur vero che può cambiare le coscienze.

[DI MANUELA GANDINI]
Manuela Gandini è critica d’arte, curatrice di mostre nazionali e internazionali, scrittrice e docente alla Naba di Milano. Scrive per La Stampa e Machina

La vitalità della cultura come antitodo all'odio e alla distruzione

Vivere in mezzo all’arte è stata una delle grandi fortune della mia vita, grazie a un padre collezionista che in piccolo ho cercato di emulare nei miei viaggi in Medio Oriente comprando oggetti di artigianato. Incontrare Daisaku Ikeda mi ha poi spronato nell’indirizzare i miei studi nel campo dell’arte e della cultura. Così, quando nel 1996 mio padre Ludovico Corrao creava a Gibellina, in Sicilia, la Fondazione Orestiadi e il Museo delle Trame mediterranee, ho potuto donare i miei piccoli acquisti e contribuire a organizzare dialoghi tra gli intellettuali del Mediterraneo e incontri di poesia.
La Fondazione nacque per portare avanti sotto il segno della cultura e dell’arte la rinascita del Belìce e in particolare di Gibellina, distrutta dal terremoto del 1968. All’epoca, lo sconforto per la perdita dei propri beni, dei cari, e il magro reddito della campagna spingeva molti a emigrare. Tuttavia un gruppo di cittadini desiderava ricostruire lì la vita e le case, e il neoeletto sindaco Corrao si rivolse agli artisti siciliani che avevano fatto fortuna al nord e ad altri spiriti sensibili per sostenere l’appello volto a sollecitare l’intervento del governo. Per il sindaco l’arte e la cultura avrebbero risvegliato quella passione necessaria per ricominciare una nuova vita.
Finita la ricostruzione, segnata da speculazioni che videro alternarsi altri governi, apparve evidente che la nuova città aveva perduto il legame con la sua antica storia di contadini e braccianti, e con esso anche la memoria culturale di un’area ricca di tradizioni. I cittadini rielessero Corrao, con la speranza che insieme agli artisti si potessero dare soluzioni creative e nuova linfa vitale.
La città sorge all’ingresso della valle del Belìce, e per valorizzarne la rinascita Pietro Consagra realizzò la Stella, una grande arcata in acciaio per segnarne l’accesso. Per Gibellina Ludovico Quaroni disegnò la cupola della Chiesa madre, rotonda, come richiamo alle cupole delle sinagoghe e delle moschee mediterranee [vedi foto a p. 17]. Franco Purini e Laura Thermes inventarono il “sistema delle piazze”, creando punti di incontro per colmare lo spettrale ampio spazio rettangolare tra due complessi abitativi contrapposti. Le opere di artisti come Andrea Cascella, Fausto Melotti e Mimmo Rotella illeggiadrivano gli angoli delle strade principali per creare nuove confluenze. Grazie alle donazioni di artisti e collezionisti nasceva il museo civico negli spazi annessi alle scuole, dove altri artisti tra cui Mario Schifano e Toti Scialoja realizzarono laboratori di pittura con i bambini durante la loro residenza estiva. Per non dimenticare il passato, Nanda Vigo fece trasportare alcuni antichi reperti ritrovati tra le rovine della vecchia città nelle nuove piazze. Il sindaco poi, volendo evitare che le misere macerie svanissero consunte dal tempo, chiese ad Alberto Burri una soluzione e l’artista propose il Grande Cretto per coprire con un sudario di cemento bianco il corpo inerme della vecchia Gibellina. La ricostruzione e gli innesti dell’arte contemporanea crearono dissidi, ma le polemiche non fermarono le invenzioni né la passione di sindaco, artisti e artigiani.
Per celebrare la rinascita si ripristinarono le feste popolari, coinvolgendo Emilio Isgrò che scrisse La Gibella del martirio e poi una nuova versione siciliana dell'Orestea, la trilogia di Eschilo. Per la rappresentazione si chiese ad Arnaldo Pomodoro e a Gianni Versace di realizzare scene e costumi in collaborazione con gli artigiani locali. Agli spettacoli i gibellinesi partecipavano come pubblico, ma soprattutto come comparse, artigiani e ristoratori, affascinati da quell’inusuale esperienza. Pomodoro regalò poi le casseforme per le scenografie delle opere teatrali, aratri, obelischi, armature dei soldati e altri oggetti di scena per esporli in città e nel museo.
Questi spettacoli diedero avvio al Festival delle Orestiadi, con lo scopo di mantenere vivo il dialogo tra le due sponde del Mediterraneo. Per dare maggiore concretezza al rapporto storico della Sicilia con la cultura della regione, la Fondazione Orestiadi in seguito ha arricchito le attività del Festival con concerti e letture di poesie e ha istituito il Museo delle Trame mediterranee. Questo raccoglie la collezione di Corrao e mette in dialogo i reperti archeologici degli antichi popoli che abitarono l’isola, dagli Elimi ai Romani. Insieme ai reperti sono esposti mobili dipinti, ceramiche e altri manufatti dell’arte e dell’artigianato moderno e contemporaneo: attraverso i segni, le scritture e i colori si può leggere l’interconnessione tra le varie forme di arte e le culture del Mediterraneo. Simboli e segni comuni ricordano la storia dei legami che uniscono la composita umanità dell’area.
Per far conoscere questo importante patrimonio alle nuove generazioni si realizzano diverse attività di intrattenimento educativo con le scuole e con i centri di accoglienza per i minori immigrati non accompagnati. Al progetto collabora anche mia sorella Antonella, che ha rilanciato la collaborazione tra artigiani e artisti riproducendo per il grande pubblico piccoli e grandi ricordi degli oggetti esposti nel museo.
Oggi il dialogo tra gli artisti continua. A uno dei tanti incontri anche Daisaku Ikeda ha dato un prezioso contributo dedicando un poema ai poeti del Mediterraneo:

«Oh poeti!
Dalla riva del Mediterraneo
sul canto infinito del mare,
mandate nel mondo, vi chiedo,
le splendide note della civiltà
che voi cantate! 
[…] Poeti!
Nel vostro abbraccio
ecco le stelle nel cielo sorridono,
tra loro i fiori della civiltà
annuiscon sulla terra
e tutto quanto è umanità si abbraccia».[ref] D. Ikeda, “Omaggio”, in Duemilauno, n. 82, settembre-ottobre 2000, p. 47. [/ref]

[DI FRANCESCA CORRAO]
Francesca Corrao è ordinaria di cultura araba alla Luiss di Roma. È presidente del Comitato scientifico della fondazione Orestiadidi Gibellina
(ha collaborato Antonella Corrao)

La rinascita di Gibellina nel segno dell'arte

Ho avuto il privilegio di nascere e crescere con la musica e l’arte. I miei genitori erano musicisti e concertisti. Nonostante il mio talento mi hanno però distolta dall’intraprendere la carriera musicale da professionista, preoccupati dal sacrificio che avrebbe comportato. Così ho “ripiegato” sugli studi di Storia dell’arte.
Mentre ancora frequentavo l’università ho iniziato a collaborare con una piccola, ma raffinata galleria. Ero molto appassionata ma lontana e culturalmente “refrattaria” alle pur indispensabili dinamiche del mercato, a causa di un’educazione che considerava il denaro un elemento marginale e di stretta necessità, di certo non una finalità. Non a caso, avrei capito dopo, la storia della mia famiglia era stata segnata da una serie di “perdite” in campo economico accadute nel corso di alcune generazioni.
Avevo quindi molta difficoltà ad affrontare l’aspetto commerciale e le vendite. Mi sentivo fuori luogo e inadeguata.
In quel momento molto difficile una mia amica mi ha introdotto al Buddismo. La musica, nella sua più alta accezione, è simbolo di armonia. Dopo i primi 10 minuti di Daimoku mi sono sentita a casa e non ho più smesso.
Praticavo moltissimo e facevo molta attività, e ho deciso di sfidare l’impossibile. Così due anni dopo ho potuto aprire una mia piccola galleria, dando inizio a un’avventura proseguita fino a oggi. Ero da sola, senza supporti di alcun tipo, tantomeno economici. Tutto dipendeva dai risultati del mio lavoro e dalle vendite… Molti alti e bassi con suspense all’ultimo respiro, affitto e utenze da pagare tutti i mesi...
In quei giorni è stato folgorante un passo de La rivoluzione umana nel quale il presidente Ikeda descrive la situazione di Toda quando la sua azienda era fallita: «Adesso iniziava [Toda] a rendersi conto dei suoi errori: si era preoccupato dei problemi economici ancor prima della rivoluzione religiosa, che è il punto di partenza di tutte le attività umane. Gli apparve improvvisamente chiaro che anche le azioni in campo economico dipendevano largamente dal suo senso di missione e il senso di missione dipendeva unicamente dalla fede» (RU, 6, 23).
Ho cambiato immediatamente atteggiamento e ho determinato di creare valore attraverso il mio lavoro convinta che l’arte, come afferma Sensei, nasca dalla profonda spiritualità e dia espressione a princìpi universali. Così mi sono concentrata nel realizzare progetti che mettessero in evidenza il ruolo dell’arte e della cultura come valori fondanti di una società e che potessero ispirare a riflettere sui grandi temi dell’esistenza, spostando il punto di vista.
Spesso, secondo la mia esperienza, gli artisti colgono elementi di verità universali. In questo senso credo che Sensei abbia voluto citare Auguste Rodin quando affermava che «i veri artisti sono i più religiosi fra tutti gli uomini».
Le mostre che ho realizzato sono state occasioni anche per diffondere il pensiero del nostro maestro e del Buddismo, citando nei testi dei cataloghi brani de La nuova rivoluzione umana e del Gosho che spesso sintetizzavano magistralmente il senso e il tema della mostra. Nel 2017 ho ricevuto una lettera dal Met (Metropolitan Museum of Art di New York) che mi chiedeva di inviare tutti i cataloghi per inserirli nella loro biblioteca.
Da quando ho iniziato sono passati oltre 30 anni: ho affrontato enormi difficoltà, in un mondo sempre più influenzato dai tre veleni, in cui un settore che dovrebbe privilegiare i valori culturali è sempre più dominato dal mercato, da avidità e sete di potere.
Ma i benefici sono stati altrettanto enormi e sorprendenti, a dispetto degli attacchi e degli ostacoli. Ho realizzato mostre museali e attraverso l’approfondimento dello spirito dell’offerta non mi sono mai più trovata in situazioni precarie. La mia attività professionale è cresciuta da tutti i punti di vista, anche nei periodi “storicamente” più difficili.
Nel 2020 ho ottenuto una grande vittoria, decidendo che la pandemia non avrebbe costituito alcun impedimento. Ho cambiato sede trovando un nuovo spazio meraviglioso, più grande e in una posizione migliore.
L’ultima mostra, dal titolo “Fare uno: dalla parola al segno, un dialogo possibile”, voleva anche sottolineare – in un momento di grande attenzione per i temi di genere – l’importanza di un confronto e quindi di un possibile dialogo tra i due universi maschile e femminile.
Una frase di Nichiren Daishonin, divenuta poi l’esergo del catalogo, è stata uno dei motivi ispiratori: «La parola “uno” nella frase che riguarda “un colore” o “una fragranza” non va interpretata come “uno” in contrasto a “due” o “tre”. Piuttosto intende che “uno” si riferisce alla Via di mezzo, o natura essenziale dei fenomeni» (La tradizione orale che riguarda l’Illuminazione delle piante, RSND, 2, 403).

[ERICA RAVENNA]
Erica Ravenna è gallerista e curatrice di mostre

Se l'arte nasce da una profonda spiritualità

È notte e in casa tutti dormono. Solo la luce del monitor del mio computer è ancora accesa. Mi alzo dalla sedia e vado alla libreria alle mie spalle. Prendo il volume del Sutra del Loto. Lo guardo di tre quarti con complicità, come se tutto quello che scriverò tra pochi istanti fosse già stato scritto ma non so ancora come. E non da qualcun altro, in chissà quale lontano passato, ma da una versione di me stesso del futuro che per il momento non conosco, ma che mi sembra esistere da sempre. 
Sono in piedi nella penombra, immobile, con lo sguardo fisso al pavimento e penso all'etimologia della parola sutra... in sanscrito significa “cucito tra” o più semplicemente "filo". Poi penso al loto, al suo essere simultaneamente sia fiore che frutto. Unisco i due concetti e derivo che il libro “Sutra del Loto”, che ho ancora tra le mani, rappresenti il modo di unire e cucire, attraverso un filo, due tempi diversi in una concatenazione non lineare di causa ed effetto assolutamente inedita, oltre la convenzionale concezione classica di spazio e tempo. 
Resto in silenzio e viaggio con la mente a un pomeriggio del 2003: sono all'Accademia di Belle Arti di Brera e in cattedra c'è Jole De Sanna [studiosa e critica d’arte, n.d.r.] che parla del Caravaggio, o meglio della sua Cena in Emmaus del 1606, o meglio di un pezzo di pane, magistralmente dipinto dall'artista, che Gesù sta benedicendo, manifestando così ai discepoli la sua vera identità dopo essere risorto. Jole De Sanna: «Vedete quel pezzo di pane, osservate come i contrasti di luci e ombre ne disegnino la superficie... ecco ora guardate questi diari di Galileo Galilei sulle fasi lunari del 1609, pensate a come, tramite l'osservazione al cannocchiale della luna colpita dalla luce del sole, lo scienziato abbia saputo rappresentarla per la prima volta così realisticamente nella sua variabilità temporale. Riguardate quel pezzo di pane ora, cosa vedete? Quel pezzo di pane non è solo un pezzo di pane, è anche un pezzo di luna vista nel futuro, che però è anche un pezzo del corpo di Cristo di 2000 anni fa, che è anche un pezzo del nostro corpo che mangiamo quel pane proprio adesso». 
Rimetto il libro al suo posto e vado al Gohonzon, lo apro ed inizio a interrogarlo con occhi diversi, tutti quei segni tracciati a china nera sono molto di più di quello che sembrano; come nel caso della pittura, le informazioni fissate sulla pergamena sono tutte lì sovrapposte e simultanee in attesa che un osservatore le estragga e le trasformi. Come un dispositivo iper-tecnologico le opere d'arte, così come l'oggetto di culto, permettono l'accesso a un database sconfinato. Come se tutte le informazioni in esse contenute fossero sospese in una nuvola di probabilità in attesa che qualcuno elabori una domanda e le faccia saltare su un'altra orbita, su un altro supporto. 
Penso a come la scrittura e il linguaggio che ho di fronte, attraverso la recitazione, diventino parola, suono, respiro, e infine rivoluzione umana. Penso ai tremila regni in un istante di vita, al concetto di origine dipendente, al principio di indeterminazione di Heisenberg[ref]Secondo questo principio non è possibile misurare contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella elementare, perché effettuando la misura lo stato della particella si modifica. Quindi, come spiegato nella nota successiva, a livello subatomico nessun fenomeno può prescindere da chi lo osserva.[/ref] secondo cui è impossibile conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone. Poi riaffiora il ricordo confuso di una telefonata, letta su chissà quale libro, avvenuta all’università di Princeton nel 1940 tra due fisici teorici leggendari, John Archibald Wheeler e Richard Feynman: «Ciao Richard sono John, ho finalmente capito perché gli elettroni sono tutti uguali». «Perché?». «Perché sono tutti lo stesso elettrone che viaggia liberamente nel futuro e nel passato e interagisce con se stesso!». 
Allora chiudo lentamente le due ante del mio butsudan e cerco di ricordare perché, in questo flusso di pensieri sgangherati, Wheeler mi sembri tanto importante! Mi alzo in piedi e mi teletrasporto al Centre de Physique Théorique di Luminy, è il 2010 e sto parlando con Carlo Rovelli (un caro amico nonché professore di fisica) che mi domanda: «Hai mai sentito parlare della teoria dell'Universo partecipativo di John Wheeler?[ref]Secondo il fisico statunitense, poiché la teoria dei quanti demolisce il punto di vista della fisica classica secondo cui si può osservare un oggetto senza essere coinvolti nel processo, occorre di fatto sostituire il termine “osservatore” con “partecipatore”. Questo perché al livello delle particelle elementari lo strumento di misura, e cioè l’osservatore, influenza l’oggetto misurato e ne perturba le caratteristiche. [/ref]». Io: «No!». «Vedi Luca, questa teoria è rivoluzionaria e ci suggerisce che nell'universo tutto accade perché l'universo stesso si auto-osserva! È dall'ignoranza delle parti dell'universo che interagiscono tra di loro, spinte dalla necessità di condividere l'informazione mancante, che nascono lo spazio e il tempo. Non esistono a priori come se un dio le avesse create, emergono. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi». 
Ecco, ci siamo, ritorno al monitor ancora immacolato del mio computer, il cerchio si è appena chiuso penso, riesco a vedere la coda del serpente. 

[DI LUCA POZZI]
Luca Pozzi è artista visivo e mediatore interdisciplinare

È il nostro sguardo che cuce il mondo

Tra i fondatori del movimento dell’Arte Povera in Italia negli anni Sessanta, Michelangelo Pistoletto è un artista plurale, instancabile, un moltiplicatore che diffonde il fluido dell’arte in ogni ambito del vivere comune perché, per lui, l’arte è dispositivo di rigenerazione sociale. «La figura dell’artista – afferma – è il risultato dell’intersecarsi di diversi insiemi, dove l’impegno sociale è presente tanto quanto la consapevolezza di produrre arte come grande forma di libertà. Quella di cambiare le cose è dunque per me, come artista, una “commissione” che viene da un’umanità incappata in una crisi profonda, che chiede soccorso».
Nel 1961 inventa i Quadri specchianti mentre nel 1967 inaugura lo “Zoo”, aprendo il proprio studio a poeti performer, filmaker, musicisti. È il primo artista vivente a esporre in ogni settore del Louvre di Parigi e Abu Dhabi. Nel 1992 fonda Cittadellarte, a Biella, in un ex lanificio in riva al torrente Cervo radunando a sé una comunità aperta, interdisciplinare, che si relaziona con le imprese, le università e varie realtà territoriali e globali. La struttura della “cittadella dell’arte” è un organismo cellulare suddiviso in diversi nuclei, gli “Uffizi”. Questi sono uffici autonomi e si occupano di Arte, Educazione, Ecologia, Economia, Politica, Spiritualità, Produzione, Lavoro, Comunicazione, Architettura e Nutrimento. Qui nasce il concetto di Terzo Paradiso e dei suoi ambasciatori/ambasciatrici che ne veicolano il messaggio al mondo, impegnandosi a «contribuire a produrre e ispirare una trasformazione in senso responsabile della società attraverso idee e progetti creativi» (www.terzoparadiso.it). Pistoletto è autore di numerosi saggi, l’ultimo dei quali La formula della creazione (Cittadellarte Edizioni).
Dall’alto dei suoi novant’anni, appena compiuti, ha occhi che sprizzano intelligenza, entusiasmo e sense of humor. Ci incontriamo a Biella dove, in qualità di ambasciatrice del Terzo Paradiso, negli anni ho trascorso parecchio tempo. Il tema della nostra conversazione è l’arte, la società, l’animo umano. Prima di iniziare l’intervista cito un passo di una lezione dell’ex responsabile della Soka Gakkai europea Eiichi Yamazaki del 1991: «Lo specchio è un’immagine che viene usata spesso nel Buddismo e può essere considerata da due punti di vista: il primo riguarda noi stessi e il Gohonzon, l’altro noi e gli altri, noi e il nostro ambiente. Rispetto al primo punto di vista, negli scritti di Nichiren Daishonin si legge: “La Legge buddista è un chiaro specchio in cui si riflette la vita”. Vi sono due tipi di specchio: quello che usiamo ogni giorno ci serve per vedere e migliorare il nostro aspetto fisico, mentre il secondo è il Sutra del Loto che riflette il nostro cuore e tutte le cause karmiche presenti nella vita, dal passato al futuro» (NR, 98).

Michelangelo, vorrei partire proprio dallo specchio...
Nel 2013 io e Maria, mia moglie, siamo stati in Giappone quando ho ricevuto il Premio Imperiale per l’Arte [l’equivalente del Premio Nobel, n.d.r.] e durante la settimana dei festeggiamenti siamo andati a visitare i vecchi templi a Kyoto. In alcuni c’era una sorta di altare con sopra un tondo di metallo opaco, che fungeva da specchio: al posto dell’icona sacra al centro ci sei tu, riflesso.
Per quanto concerne il mio lavoro, i Quadri specchianti divengono opera d’arte attraverso la mia “messa a punto” [l’artista riporta su grandi lastre di metallo riflettente un’immagine fotografica a grandezza naturale, n.d.r.], rispecchiando quello che hanno di fronte. Una rappresentazione illimitata di tutto ciò che esiste.

Coloro che guardano il quadro diventano a loro volta opera live in transito. È dunque il doppio della realtà fisica?
Dire che è il doppio può fare pensare che le parti siano equivalenti, mentre da un lato abbiamo la realtà fisica e dall’altro la virtualità. L’immagine fotografica che io fisso intrappola per sempre l’istante che sta passando. È la memoria di quel momento che rimane imperitura, che continua a vivere con le persone che verranno in seguito e che si specchieranno nell’opera.

In questo modo si stabilisce una dialettica tra permanenza e impermanenza…
La memoria diventa elemento strategico fondamentale. Nel Buddismo si parla di “specchio” come mezzo per riflettere la vita interiore, nella mia visione questa interiorità vale nella misura in cui la nostra stessa essenza è di per sé elemento comprensivo di tutto l’universo. Noi ne siamo un particolare, una sua parte infinitesimale. Io do una interpretazione di natura scientifica a quello che il Buddismo ha sempre intuito: è ciò che faccio con la Formula della Creazione.
Cominciamo a parlare della tua intuizione più nota, il Terzo Paradiso, resa graficamente con un simbolo che ha fatto il giro del mondo. Di che cosa si tratta?
Il Terzo Paradiso è la fusione fra il primo e il secondo paradiso. Il primo è quello in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è quello artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, fino alle dimensioni globali raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. È fatto di bisogni, prodotti, comodità e piaceri artificiali e di ogni altro genere di artificio. Il Terzo Paradiso è la terza fase dell’umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura.
Dobbiamo prendere consapevolezza di questa responsabilità ed evolverci verso un mondo il più equilibrato possibile, perché ci riguarda in modo prepotentemente vicino.
Il simbolo del Terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico dell’infinito, è composto da tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano natura e artificio, ma anche tutte le altre diversità e antinomie. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità.

In questo senso esiste un rapporto tra il Terzo Paradiso e la Formula della Creazione che hai citato prima.
Infatti. Si parte dal disegno di una linea che incrociandosi due volte forma tre cerchi. I due cerchi esterni rappresentano la dualità, gli elementi opposti che, unendosi nel cerchio centrale, danno vita a qualcosa di nuovo. È l’avvenimento della creazione, che nasce dalla connessione tra la creazione naturale, che sta all’origine del nostro universo e della vita, e la creazione artificiale che ha origine nella mente umana; 1 e 1 ha come risultante il numero 3 poiché da due unità ha sempre origine un terzo elemento.
Sono arrivato a elaborare tutto questo attraverso il quadro specchiante, perché lo specchio può raccogliere l’immagine di tutto ciò che esiste, non ha volume e non ha immagine propria. Per questo può includere ciò che ha di fronte. Ho posto lo specchio davanti a se stesso e gli ho chiesto: «Ma se tu dovessi farti il ritratto cosa faresti?». L’ho diviso a metà. Dividendolo e avvicinando le due metà si è moltiplicato esponenzialmente.

Secondo la visione buddista, noi e l’ambiente siamo inseparabili. Il concetto giapponese di esho-funi sta a significare che il contesto nel quale viviamo, le persone che incontriamo, ci fanno da specchio.
È vero. Tutto quello che sta davanti a noi reagisce, così come noi reagiamo a nostra volta. Riceviamo impulsi visivi, tattili, olfattivi, di tutti i sensi. Il pensiero di una persona si riflette nel pensiero dell’altra. Io, in una fase più matura, ho frantumato lo specchio, che è uno solo. Spaccandolo con il martello, in varie performance, ho creato un’enormità di frammenti. Ogni frammento è un individuo della società che a sua volta rispecchia la persona che gli sta vicina o lontana. Tutti si specchiano tra di loro. L’opera non si distrugge ma si moltiplica.

Tornando al Terzo Paradiso, si può dire che trascenda il conflitto tra artificio e natura?
In origine, paradiso era il “giardino protetto” [dall’antico persiano pairidaeza, n.d.r.]: un cerchio di pietre che forma un muro tondo per difendere la vegetazione dal vento arido del deserto. Quindi, già in questa prima accezione, si intende un’invenzione fatta dalla mente umana che ha permesso alla natura di esistere laddove essa non è in grado di prodursi, perché nel deserto non germoglia nulla. L’essere umano ha compiuto un atto artificiale usando quel pensiero capace di immaginare qualcosa che non c’è. Il giardino artificiale si impone alla natura. È stato dunque considerato in qualche maniera miracoloso.

Anche nella tua Venere degli stracci c’è una forma di dualità…
La figura della Venere è la sintesi della migliore aspirazione riposta nel sentimento più sublime. È l’attrazione, la fenomenologia emotiva che passa dalla fisicità al pensiero, che prosegue nella dimensione culturale. Stranamente, senza che io l’abbia mai né pensato né detto, la Venere sta diventando un’icona. Viene riconosciuta come qualcosa di insito in noi. Io qui la metto insieme al suo contrario, gli stracci. Unisco positivo e negativo. Gli stracci sono il disfacimento, messo accanto alla conservazione del pensiero. La persona che ha bruciato la Venere a Napoli [a luglio scorso l'ultima versione dell’installazione è stata distrutta dal fuoco in un atto vandalico, n.d.r] ha proseguito l’azione di disfacimento, provocata anche dalla difficoltà nel nostro tempo di connettere pacificamente Venere e gli stracci.

In quest’epoca di forti migrazioni, il Mare Nostrum è luogo di tragedia e di salvezza. Già dall’inizio degli anni 2000 realizzi il Tavolo del Mediterraneo e Love Difference, utilizzati anche nei summit internazionali per portare un messaggio trasformativo.
Il tavolo che rappresenta il mare è lo specchio della società che lo circonda [vedi la foto in copertina]. Le sedie sono state donate dai diversi Paesi, non ce n’è una uguale all’altra, e rappresentano le culture e peculiarità di ciascuno. Come scrivo nel Manifesto Love Difference: «Il movimento unisce l'universalità dell'arte all'idea di transnazionalità politica e focalizza la sua attività nell'area mediterranea in quanto in essa si rispecchiano i problemi della società globale. Da una parte la differenza tra etnie, religioni e culture è, oggi, causa di terribili conflitti; dall'altra vi è una drammatica situazione prodotta dalla supremazia dei poteri che producono l'uniformità e il livellamento delle differenze. Uniformità e differenza sono i due termini antagonisti che rappresentano la massima tensione conflittuale nell'attuale realtà planetaria. Una politica che porti ad “amare le differenze” è vitale per lo sviluppo di nuove prospettive nell'intera compagine sociale».

E così nasce il concetto da te ripetutamente espresso di Pace Preventiva?
In una situazione potenzialmente conflittuale, invece di dare spazio al fenomeno reattivo del confronto violento, ci fermiamo e creiamo una zona di rispetto, una zona intermedia che ha un valore nei confronti sia dell’uno sia dell’altro. Rispetto vuol dire connettere in maniera proporzionale, equilibrata e armonica due elementi. Se ti rispetto ti offro la possibilità di rispettarmi. La zona di rispetto è paragonabile al vuoto che c’è tra i due cerchi esterni del simbolo del Terzo Paradiso, l’area della consapevolezza, perché nel rispetto c’è la consapevolezza dell’uso dello strumento di creazione.
Tutto questo lo dovremmo imparare a scuola. La pace va fatta prima che avvenga l’immediata reazione della forza e del potere, che fa leva su quella rapacità primordiale ancora insita nell’umano usata per dominare e sottomettere.

Ma l’umano è anche altro…
Io ho fatto l’Autoritratto di stelle. Secondo la scienza possiamo immaginare che le galassie siano dentro alla dimensione del nostro corpo, perché nel nostro corpo c’è la materia di cui sono fatte. Questa è la condizione che consente a noi esseri umani di essere sublimi. È l’universo che parla di se stesso e si riconosce attraverso di noi. Con l’autoritratto di stelle noi lo rispecchiamo.

[box] 2 giugno 2017. Nella piazza di Skenderija, a Sarajevo, 500 giovani si distribuiscono lungo i cerchi del simbolo del Terzo Paradiso. La performance segue la partecipatissima lectio magistralis di Michelangelo Pistoletto. Gli studenti e le studentesse vengono da Tuzla, Srebrenica, Mostar, Banja Luka, città ferite nel profondo. Organizzato da due ambasciatrici del Terzo Paradiso – Manuela Gandini e Amela Zec Filìpovic – l'happening prevede che i ragazzi ascoltino in silenzio Imagine di John Lennon meditando sulla pace. Poi, tutti in piedi, al ritmo di una musica rap bosniaca ballano e, a un segnale convenuto, corrono al centro dei cerchi per tre volte. Alla fine si prendono per mano in silenzio, si girano verso l’esterno e si incamminano nel mondo.[/box]

[INTERVISTA DI MANUELA GANDINI]

Siamo fatti di universo e ne siamo responsabili

L’arte è speranza di rinascita. È la risposta costruttiva alla guerra e alla distruzione, la modalità fondamentale attraverso la quale gli esseri umani scoprono i legami con i propri simili, con la natura e con l’universo. Coltivare l’arte è il modo più sicuro di costruire la pace.

Arte e pace

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