Così inizia ogni storia importante, che allarga l'orizzonte delle cose note e possibili e crea nuove prospettive.
Quando, per inseguire un ideale o realizzare un'impresa mai vista, la strada non esiste e bisogna aprirla da sé.
«Kosen-rufu è aprire la strada laddove non ne esiste nessuna», scrive il nostro maestro Daisaku Ikeda.
«Devo rompere un muro, per tener fede alla promessa fatta al mio maestro» diceva a se stesso nel corso della sua lotta per la propagazione del Buddismo nei primi anni cinquanta in Giappone.
Passione, senso di responsabilità. Senso di sfida e urgenza di essere fedeli a se stessi. Capacità di rinnovarsi, coraggio di non arrendersi alle circostanze.
Aprire una strada dentro di sé e nelle situazioni concrete della vita sono due cose strettamente legate. Che iniziano dal Daimoku, dal mistico myo, "aprire": aprire la strada della Buddità dentro di noi e nell'intera società umana.

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Aprire la strada

Introduzione

Lo spunto di questo speciale è stata una riflessione sulla condizione delle persone che si ritrovano a praticare da sole, o per prime, lontane dall'organizzazione, dai compagni di fede. Quali sono le difficoltà che incontrano, quale spirito devono tirare fuori?
Abbiamo pensato a esperienze di chi vive in luoghi dove i membri della Soka Gakkai sono pochissimi, o in paesi dove è molto difficile o quasi impossibile praticare il Buddismo perché c'è una religione di stato e le altre sono vietate.
Abbiamo pensato ai nostri maestri, i fondatori che hanno costruito la Soka Gakkai dalle fondamenta, al loro comportamento rivoluzionario.
E ci siamo subito ricordati del brano del presidente Ikeda che Yoshitaka Oba, direttore generale della Soka Gakkai Internazionale, ha letto alla riunione europea di Roma il 22 ottobre scorso, rivolgendosi ai giovani: «Voi, che appartenete alla generazione che è diventata leader quando l'organizzazione era già strutturata, non avete vissuto sulla vostra pelle le difficoltà più dure. Non avete avuto l'esperienza di essere messi da parte e disprezzati, o di aver diffuso l'insegnamento buddista anche in mezzo alle prove più dure. Forse per questa ragione il punto debole è che mancate della forza dei pionieri di kosen-rufu. Molti di voi sono perspicaci e intelligenti, ma da un punto di vista più profondo mancate di fede e non avete fatto vostro il vero spirito di shakubuku. [...] Kosen-rufu è aprire una strada laddove non ne esiste nessuna. Affrontate le sfide, sforzatevi fino in fondo. Non dovete cercare la via più facile. Una grande realizzazione non potrà mai avverarsi con lo spirito di pensare solo a se stessi, di essere codardi, di ricorrere a mezze misure, di essere negligenti o falsi» (NR, 478).
Poi abbiamo ragionato del significato più generale di aprire nuove strade e di essere pionieri rispetto alla propria vita.
Aprire nuove strade nel mondo vuol dire per prima cosa aprirle dentro di sé. In questo momento di grande difficoltà è fondamentale rinnovare questo spirito, per vincere sia nella propria vita che nell'attività. È importante che noi membri della Soka Gakkai apriamo nuove strade, noi che abbiamo il Gohonzon; forse è proprio questo il senso di sentirsi tutti come Sensei, sentire la sua stessa passione, il suo stesso senso di responsabilità.
Sì, dobbiamo prenderci noi questa responsabilità di vincere, per il bene dell'umanità.
Per aprire nuove strade non ci dobbiamo arrendere alle circostanze.
Ci dobbiamo rinnovare, non pensare che facendo quello che abbiamo sempre fatto le cose vadano avanti comunque. Non possiamo rimanere attaccati alle nostre solite modalità.
È fondamentale quindi essere pioniere, pionieri innanzitutto rispetto a noi, rompendo il muro interiore per sprigionare la potenza della nostra vita, la potenza della nostra Buddità. Il Daimoku della fede risiede esattamente in questo spirito, di non essere mai uguali a prima.
E questo è anche il significato di myo, aprire. Aprire la strada.

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Con lo spirito dei pionieri

La storia della Soka Gakkai è la storia del legame che ha unito i tre pionieri, i presidenti fondatori

La storia della Soka Gakkai è la storia del legame che ha unito tre pionieri, i presidenti fondatori Tsunesaburo Makiguchi, Josei Toda e Daisaku Ikeda, nella realizzazione di un sogno comune.
Nelle pagine seguenti alcune loro testimonianze, intime e toccanti, che riguardano momenti cruciali dell'evoluzione del movimento di kosen-rufu nel mondo

Lo sviluppo della Soka Gakkai

1928: Tsunesaburo Makiguchi, filosofo e pedagogista giapponese, e Josei Toda, insegnante e suo discepolo, si convertono al Buddismo di Nichiren Daishonin ed entrano nella Nichiren Shoshu

18 novembre 1930: insieme fondano la Soka Kyoiku Gakkai, un'associazione di educatori che seguono la pedagogia di Makiguchi e abbracciano il Buddismo del Daishonin. Vi aderiscono nel tempo circa duemila persone e Makiguchi ne diventa il primo presidente.

28 giugno 1943: Makiguchi e Toda vengono arrestati per non essersi sottomessi all'ordine imperiale - accettato invece dalla Nichiren Shoshu - di esporre i talismani shintoisti accanto al proprio oggetto di culto. Makiguchi morirà in carcere il 18 novembre successivo.

3 luglio 1945: Toda esce dal carcere e poco dopo rifonda nuovamente l'organizzazione denominandola Soka Gakkai.
Ne diventerà il secondo presidente il 3 maggio 1951.

14 agosto 1947: Daisaku Ikeda partecipa al primo zadankai, dove incontra Toda. Tra i due nasce un forte legame. Dieci giorni dopo entra nella Soka Gakkai.

2 aprile 1958: Muore Toda. La Soka Gakkai conta più di 750 mila famiglie di aderenti.

3 maggio 1960: Ikeda diventa il terzo presidente della Soka Gakkai.

26 gennaio 1975: Viene fondata la Soka Gakkai Internazionale. Ne fanno parte cinquantuno paesi. Ikeda ne assume la presidenza.

24 aprile 1979: A causa di macchinazioni del clero della Nichiren Shoshu Ikeda è costretto
a dimettersi dalla presidenza della Soka Gakkai.

1991: La Soka Gakkai si stacca dalla Nichiren Shoshu.

Oggi: Grazie alla guida del presidente Ikeda la Soka Gakkai conta dodici milioni di aderenti ed è diffusa in 192 aree e nazioni del mondo.

TSUNESABURO MAKIGUCHI

1935 [...] Ma quando ho incontrato il Sutra del Loto sono rimasto attonito nello scoprire che in nessun modo contraddice i principi filosofici e scientifici che sono alla base della nostra vita quotidiana, mentre differisce radicalmente da tutte le pratiche religiose e morali che ho studiato fino a oggi. Mosso da questa scoperta ho sperimentato un gran numero di fenomeni inesplicabili nella mia vita quotidiana che sono in perfetto accordo con gli insegnamenti del Sutra del Loto. Quando infine ho deciso fermamente di adottare questa fede sono stato in grado di confermare, nella realtà della vita, la verità delle parole del Daishonin: «Se il cielo è sereno, la terra è illuminata. Similmente, se si conosce il Sutra del Loto si può comprendere il significato degli affari di questo mondo» (L'oggetto di culto per l'osservazione della mente, RSND, 1, 336). E a sessant'anni, con una gioia inesprimibile, ho completamente rinnovato le basi della vita che ho condotto finora. Il senso di inquietudine e l'impressione di brancolare nel buio si sono immediatamente dissipati; la mia tendenza vitale a rintanarmi nel pensiero teorico è scomparsa; il mio senso di scopo nella vita si è stabilmente espanso sia nelle opportunità che nelle ambizioni, e mi sono sentito libero da ogni paura. Sono stato pervaso dal preciso e irresistibile desiderio di realizzare la riforma dell'educazione nazionale nel più breve tempo umanamente possibile.

(Complete Works of Tsunesaburo Makiguchi, Daisan Bunmeisha, Vol 8, pp. 405-06).

13 ottobre 1944, ultima lettera dal carcere Sto leggendo Kant con attenzione. Ho sviluppato una teoria del valore, come tanti filosofi nel secolo scorso hanno tentato di fare senza riuscirci. In seguito ho potuto collegare tale teoria alla fede nel Sutra del Loto, e ora posso vedere la prova concreta di migliaia di persone che mettono in pratica tale fede. Devo riconoscere il mio stupore per questo risultato. È per questa ragione che sono sorti i tre ostacoli e i quattro demoni. Tutto ciò è in esatto accordo con gli insegnamenti del sutra.

(www.tmakiguchi.org).

JOSEI TODA

18 novembre 1945, prima commemorazione della morte di Makiguchi
Toda rimase solo nel salone. Nessuno aveva compreso le sue intenzioni e ancora una volta fu assalito da un profondo senso di solitudine. Uscì per recarsi alla stazione, accompagnato da pochi amici. Il sole era tramontato e la notte avanzava, profonda. Provava un senso di disgusto. Di tanto in tanto qualcuno dei suoi amici tentava di dire qualcosa, ma lui non rispondeva. [...]
Camminando, a un certo punto cominciò a declamare una delle sue poesie:

Ricevo ora l'ordine del Budda:
realizza il grande desiderio, la diffusione della Legge mistica,
tenendo alta la bandiera, mi alzo da solo,
gli amici sono pochi, molti i nemici.
Su chi posso contare, che combatta al mio fianco?
Su nessuno, solo sul mio cuore saldo.
Il vento soffia sul vasto campo di battaglia,
la mia vita soltanto posso offrire.
Non la risparmierò,
ma dove sono i giovani portabandiera?
Non riuscite a vedere la sommità del Fuji?
Presto, accorrete in gran numero.

Tratteneva a stento le lacrime, tremando per la forza di quel pensiero. All'improvviso gli sovvenne una cosa che aveva sentito dire tempo prima: «Il leone non cerca mai compagni».
Si rese conto che la solitudine che provava spesso negli ultimi tempi derivava da un qualche desiderio di avere un compagno. Era davvero così debole? Il leone non ne cerca, si disse. Se lo fa, non sarà più il re degli animali.
Il leone non conosce la solitudine. Non cerca compagni, sono gli altri a seguirlo. Kosen-rufu è un compito da leoni e se lui era davvero un leone non gli sarebbero mancati i seguaci. I compagni lo avrebbero seguito di loro iniziativa.
Il punto era dunque: sono veramente un leone? Un vero Bodhisattva della Terra? Devo diventare un leone, un leone!
Sentiva di aver compreso qualcosa e si rivolse di nuovo al gruppetto che era con lui: «Il prossimo anno, a novembre, terremo una solenne commemorazione per il nostro maestro. Statemi vicini per un anno ancora e riusciremo anche a organizzare una riunione generale della Gakkai».
Gli amici sentirono che c'era qualcosa di diverso in Toda quella sera e lo guardarono incuriositi. Egli rispose alle loro occhiate con un sorriso amichevole. [...]
Quella sera egli aveva pronunciato il primo appello per kosen-rufu. Era una data storica.
In quel momento nessuno riusciva a comprendere la sua determinazione straordinaria, ma negli anni seguenti essa avrebbe prodotto grandi risultati nella crescita della Soka Gakkai, visibile agli occhi del mondo.
L'aria del cielo autunnale era limpida e penetrante, proprio come le riflessioni di Toda. Le stelle brillavano, quasi applaudendo le future vittorie. Di tanto in tanto delle gelide folate scuotevano i rami degli alberi e le finestre, preannunciando l'inverno.
In un'occasione Schiller scrisse: «Colui che è forte quando rimane da solo è davvero un uomo coraggioso».

(La rivoluzione umana, vol. 1, pp. 128-130)

DAISAKU IKEDA

24 aprile 1979, Ikeda si dimette da presidente della Soka Gakkai
Il 24 aprile 1979 mi dimisi dalla carica di presidente della Soka Gakkai. Rincasando dopo i fatti di quell'infamante giornata in cui venni praticamente messo alla porta, mia moglie mi accolse con il suo consueto sorriso luminoso. Poi mi incoraggiò con calore pronunciando frasi come: «Ora puoi far visita ai membri nel mondo», «Alla fine sei libero» e «Ora puoi svolgere il tuo vero lavoro». Decisi che non importava cosa gli altri avrebbero potuto dire: io avrei vinto rimanendo fedele alle mie convinzioni. E così iniziai a lottare, solo, con in cuore progetti ancora più vasti per il nostro movimento. «Il leone non cerca compagni» soleva dirmi spesso Toda e io credevo fermamente che, sebbene in quel momento fossi solo, un giorno dei veri compagni si sarebbero nuovamente uniti a me, in maniera del tutto naturale e senza che dovessi dire nemmeno una parola. Ci avrebbe unito la non-dualità di maestro e discepolo e, su questa base, ci saremmo impegnati, saremmo andati avanti, avremmo continuato a vincere e niente avrebbe potuto fermarci. Stavo aspettando che quei compagni della nuova era comparissero.
Dopo la riunione nazionale a Hachioji il 3 maggio, che sanzionò formalmente le mie dimissioni, non tornai alla sede della Soka Gakkai a Shinanomachi ma mi diressi invece a Kanagawa. Dal centro culturale di Yokohama fissai il mare azzurro e cristallino che sembrava estendersi verso l'infinito. Decisi di aprirmi anch'io al mondo, non dovevo limitarmi alla minuscola nazione del Giappone. E lì rinnovai il mio impegno a portare avanti il mandato di Nichiren Daishonin: propagare la Legge mistica in tutto il pianeta. Fu sempre lì che, brandendo il mio pennello, scrissi in caratteri cinesi un'unica parola, "giustizia", e affidai al piccolo gruppo di discepoli al mio fianco il compito di tramandare alle future generazioni lo spirito con il quale l'avevo scritta.
Come vero discepolo di Toda, condividendo le sue convinzioni e la sua visione, avrei diffuso le onde di kosen-rufu nel mondo. Quella fu la mia importante decisione. Ero in salute, perciò mi accinsi con determinazione ad aprire una nuova strada, orgoglioso di stare in prima linea e di lottare al fianco di chi si impegnava per kosen-rufu.

Un maestro,
un discepolo
e kosen-rufu.

Scrissi queste parole il 3 maggio 1979 sulla copertina del manoscritto de La rivoluzione umana, riconfermando così il mio punto di partenza.

(cfr. NR 389, 352, 390, 459)

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I tre maestri, quelli che hanno aperto la strada

Uno scambio di riflessioni e opinioni maturate durante gli incontri che hanno preparato questo numero

Uno scambio di riflessioni e opinioni maturate durante gli incontri che hanno preparato questo numero

Daniela Emili
Pioniere è una parola che in me evoca libertà. Il pioniere ha deciso di percorrere un sentiero che ancora non c'è, esiste soltanto nella sua determinazione. È libero quindi di tracciarlo come meglio crede. Ultimamente mi sono trovata a dover risolvere un problema familiare e ho vinto proprio perché ho giocato un altro ruolo nella scena, ho inventato un copione diverso, ho cercato altri personaggi e nel momento cruciale, quando si è affacciata la paura, proprio dagli incoraggiamenti del presidente Ikeda ho attinto la forza e il coraggio per mettere in scena il personaggio giusto per quello spettacolo. Per me questo è "aprire" una nuova strada.

Paola Zivelli
Essere pionieri, secondo me, non vuol dire solo agire in luoghi sperduti geograficamente ma esserlo nella vita di tutti i giorni affrontando cambiamenti e sfide continue. Dobbiamo imparare sempre di più a cogliere i segnali e personalmente sto vivendo qualcosa che nasce dal profondo nei momenti più difficili. Pratichiamo per accettare i cambiamenti, per far crescere la potenza della vita e soprattutto la fede. Inventando con coraggio e determinazione il mio nuovo lavoro e sfidandomi da pioniera sto ricevendo in cambio risposte grandiose dalle persone.  Parlo con tutti del Buddismo di Nichiren e regalo Felicità in questo mondo anche e soprattutto alle persone che mi sembrano meno "pronte" o "aperte": le reazioni e i ringraziamenti sono straordinari.

Jacopo Minio Paluello
Per carattere faccio una fatica tremenda ad andare a letto la sera con qualcosa di stabile nella mia giornata. Per questa ragione i pensieri che precedono il sonno sono pieni di incertezze e tensioni per il giorno che verrà. È sempre come un "primo giorno". Perché è così difficile tenere una direzione? Perché è altrettanto difficile mantenere il Daimoku fermo nella propria vita? La mia risposta è che l'oscurità fondamentale, se non viene contrastata con la forza della fede, ha il potere di cancellare tutto il buono in un attimo. E questa fede sgorga limpida dal Daimoku, è parte di Nam-myoho-renge-kyo, lo precede e ne è diretta conseguenza nello spazio di un secondo. In quel secondo si fonde la persona con la Legge, in quell'attimo, come dice Sensei, ci si "appella alla verità". Lo sforzo di mettermi davanti al Gohonzon mattina e sera è l'azione di aprire sempre nuovi sentieri attraverso le foreste della mia oscurità, è un modo per allontanare i dubbi, per sostenere e far emergere sempre più la mia natura illuminata. È come se il veicolo e il carburante fossero la stessa cosa. Dentro myoho c'è il rinnovamento, la rivitalizzazione, la capacità di aprire nuove strade.

Carla Celani
Per me essere pioniere è sperimentare in prima persona nuove strade. Lo si è quando, invece di percorrere e ripercorrere vecchie "strade" comportamentali, già sperimentate, e che conducono alla stessa destinazione, si inverte la rotta, si intraprende un nuovo "camminamento". Si sperimentano la mente, il cuore e le parole verso modi di pensare ed essere inconsueti. Coloro che sono stati concretamente dei pionieri, passati alla storia per questo, lo erano sicuramente dentro di loro. Magari, hanno rifiutato una vita convenzionale per seguire i loro sogni. Forse oggi è rimasto poco da scoprire... qualche pianeta e la vita oltre la Terra... ma si può essere pionieri di se stessi. L'esperienza è "molto" personale ma proverò a raccontarla. L'ho rivissuta con la mamma di uno dei miei numerosi alunni.
Separata dal marito, perché quest'ultimo aveva scoperto un nuovo amore, inveiva contro di lui, sputando fuori a ogni parola rancore, che trasmetteva inevitabilmente ai figli con tutte le conseguenze, facili da immaginare, che si abbattevano sulla serenità dei ragazzi. Allora mi sono ricordata di avere vissuto molti anni prima un'esperienza simile e gliel'ho raccontata per incoraggiarla. Nel mio caso l'altra persona allora aspettava una bambina. Complicazione non indifferente. Una compagna di fede, alla quale va ancora oggi tutta la mia gratitudine, con una semplicità disarmante mi disse di recitare Daimoku affinché la gravidanza, il parto andassero bene. Con paura aprii la strada!  La paura di sperimentare sentimenti "non consoni alla situazione". Prima un Daimoku, poi due, poi ore intere. Se il parto andò bene non lo seppi mai, ma provai una gioia e un senso di leggerezza "inconsueti" per la situazione. Aprii il mio cuore e il primo grande beneficio che ne ricevetti fu verso di me, verso la mia vita. Questo ho regalato a quella mamma: una strada nuova da intravedere oltre il buio della rabbia.

Simona Vitale
Forse è questo essere pionieri: non fermarsi mai dal cercare, non dare nulla per scontato, alimentare la curiosità di vederci e vedere il mondo in modo nuovo ogni giorno.  Per me è difficile: la mia oscurità mi lascia spesso al palo. Mi fermo, sto in stallo un bel po' prima di decidere di fare il salto successivo... Mi affeziono ai miei vizi e alle mie virtù, allento con il Daimoku e tiro i remi in barca: lasciarmi andare mi fa sempre paura, anche ora che pratico da qualche anno. Eppure, arriva il momento della noia, mi stufo di questo latente senso di inadeguatezza, del brontolìo interiore che mi è proprio e lì il fatto di praticare fa la sua differenza: arriva la parola, lo sguardo, la possibilità di fare "clic", di rilanciare sul punto cruciale. Determinare di vivere la mia vita pienamente, imparare ad amarla, o meglio, tirare fuori da me l'amore per la vita, la dedizione alla vita, che c'è, ma è "appannato" dalla paura che mi fa il vivere. Nichiren Daishonin ci ha dotati dello strumento per "spannare" lo specchio, per vedere con chiarezza, e sperimentare, che quanto più diventiamo generosi e coraggiosi tanto più disperdiamo la paura e riceviamo doni a piene mani e inaspettati: sta a noi, sta a me, decidere di essere pioniera di me stessa, amare il "mio" territorio per quello che è: le distese sconfinate, le cime innevate, ma anche il buio di un bosco in una notte di tempesta, da cui stupirmi, come se fosse la prima volta, del sole che all'alba si affaccia tra i rami.

Simona Caleo
Cercando lo spunto per un lavoro sono andata a pescare dalla libreria un volume che sta lì da anni con tutta la sua polvere sopra. Il primo capitolo inizia con la citazione di una poesia di uno scrittore americano che non conoscevo, Delmore Schwartz. Mi colpisce, vado a vedere chi è e scopro che è noto soprattutto per essere l'autore di un racconto che avevo trovato citato poco tempo prima, in un altro testo ancora, ma senza il suo nome. "Nei sogni cominciano le responsabilità". Il titolo è già enorme. Mi è parso proprio il senso, lo spirito della nostra preghiera quando si lancia lontano, quando traccia sentieri nel niente o cerca di aprirsi un varco all'inferno. Perché noi sogniamo con il cuore tra le cose, siamo saggi trapezisti, in grado di tenere insieme la terra e l'aria. Il pioniere, mi suggerisce Schwartz senza saperlo, è quella persona speciale che sa guardare vicino e lontano, tracciare qui e ora l'arabesco di domani. Un sognatore responsabile, che fa il suo lavoro tutti i giorni e non solo in qualche momento particolare. È sempre così, mentre cerco qualcosa per gli altri arriva qualcosa per me, pioniera smarrita, seduta chissà dove su un sasso, lungo una strada che bisogna finire di disegnare. E penso a tutti quelli che adesso si trovano chissà dove, come me, e mi viene voglia di dirgli di non smettere di sognare e di ricominciare a camminare, senza paura.

Debora Petrocelli
Per me pioniere è "essere se stessi in pieno", non essere come ci hanno etichettati gli altri (e intendo quelle etichette subdole, date il più delle volte dalle persone a noi più care, intendo il "come pensiamo di essere"). Quindi ne consegue: aprire la strada verso il proprio centro, verso la necessità di "essere" sé.  Finché sono spinta da questa "necessità" non ho timore. Ho paura per altri versi: paura di sperimentare, paura del nuovo, del lasciare andare il vecchio ecc., ma queste paure si superano.
Se non c'è questa necessità ho paura, perché non esisto, un contenitore vuoto che agisce per automatismi. Ho letto recentemente un saggio di Ikeda (credo in La rivoluzione della leadership) in cui parla delle potenzialità non come cose che abbiamo da sviluppare, ma come cose che abbiamo già pronte e che non abbiamo ancora utilizzato. Sarà questo essere pionieri? Colui/colei che agisce i talenti inespressi?

Lodovico Prola
Direi che il senso della nostra ricerca su cosa voglia dire essere pionieri è bello che pronto nella guida di Sensei di questa mattina (21 dicembre), che vi riporto: «Il Buddismo afferma che tutto è in una condizione di impermanenza. La questione cruciale è se accettare passivi il cambiamento ed esserne spazzati via oppure prendere l'iniziativa, creando cambiamenti positivi. Mentre un atteggiamento conservatore può essere assimilato all'inverno, alla notte e alla morte, lo spirito pionieristico e il tentativo di realizzare i propri ideali evocano l'immagine della primavera, della mattina e della nascita».

Roberto Carvelli
Per me pioniere significa pensare di essere non solo il primo ma il solo. E intendo non separato dagli altri o migliore. Ma diverso sì. Come sono io. Quindi essere pioniere vuol dire non accettare che qualcuno mi voglia diverso da come sono ma solo al meglio di me come posso essere. Pioniere vuol dire che anche se so che qualcuno mi ostacolerà io tornerò al Gohonzon e lì non sarò solo. Lì sarò veramente io, al meglio di come posso essere. Ecco, per me pioniere vuol dire tornare sempre al Gohonzon non ogni tanto ma costantemente. Vuol dire avere fede che le cose cambieranno così. Anche con gli altri. E che è inutile prendersela con qualcuno, criticare qualcuno. Dire non ce la fa, non cambierà. Ricordarsi sempre che c'è solo un'azione che può cambiare le cose ed è recitare. Eppure capita che ci si senta soli. Anche nell'attività, anche nel condividere la fede. Che qualcuno ci trasmetta la strada per la fede come un percorso obbligato: il suo. Non è così. È come con il navigatore satellitare, tutti lo programmiamo per arrivare al punto x - quello della felicità assoluta - ma il punto di partenza è diverso per ognuno. Di conseguenza le strade per arrivarci saranno diverse per ognuno. Ecco, essere pioniere per me significa ricordarmi la mia strada davanti al Gohonzon. E, aggiungo, ricordarmi di ricordarmi che tutte le volte che non ho preso la strada mia non sono andato dove dovevo (e volevo) andare io. Essere pionieri è per me in ultimo andare al Gohonzon per ricordarmi che tutte le strade sono uniche e speciali e che per essere felici dobbiamo prendere la nostra e impegnarci instancabilmente affinché gli altri facciano lo stesso. Non cercare di convincerli a "venire con noi da qualche parte" ma solo "con noi al Gohonzon", al Gosho, alle riunioni. Solo così saremo felici, insieme ma unici.

Monica Berardi
Un'interessante definizione di pioniere viene da questa citazione di Bruce Barton: «Mai nulla di splendido è stato realizzato se non da chi ha osato credere che dentro di sé ci fosse qualcosa di più grande delle circostanze». Mi piace credere che pioniere sia colui che si "compromette" nella vita spinto dal costante desiderio di continuare a imparare, di viaggiare senza arrivare. In questo la fede gioca un ruolo centrale. Il pioniere non ha solo coraggio, ma ha sempre qualcosa in cui crede fortemente! Mi sono sempre riconosciuta una spiccata attitudine alla ricerca e alla conoscenza del nuovo, ma per anni ho lavorato affinché cambiasse il mio modo di sperimentare e di mettermi in gioco. Con il tempo e attraverso gli errori commessi e pagati, l'incoscienza e l'autolesionismo, vecchi motori del mio spirito guerriero, hanno lasciato spazio a una modalità diversa di esplorare nuove strade. Oggi più centrata e consolidata, mi sento autenticamente orientata ad andare verso l'altro, senza più il bisogno di anteporre il vecchio desiderio di sfida e di riscatto, che poco e niente aveva a che fare con un reale interesse a mettermi in gioco e a crescere. La fede che da qualche anno si sta consolidando con il Buddismo di Nichiren Daishonin mi consegna ogni giorno una dose di forza, di fiducia e di apertura necessarie per mantenere la mia strada.

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Io, pioniere che son io

Il primo passo è cruciale per trasformare la realtà e far cambiare direzione alle cose

Il primo passo è cruciale per trasformare la realtà e far cambiare direzione alle cose

di Maria Lucia De Luca

Il Sutra del Loto apre la strada all'ottenimento della Buddità per tutti gli esseri di tutti i mondi e di tutti i tempi. Questa scoperta di Nichiren Daishonin - la sua azione coraggiosa di proclamarla a gran voce e la sua passione di condividerla anche a costo della vita - segna il punto di svolta nella storia dell'umanità. La fisica e la matematica definiscono eventi di questo tipo come "punti di discontinuità", che generano nuovi corsi e nuove direzioni.
Un esempio temporalmente più vicino. Un fatidico giorno - il 1 dicembre del 1955 - Rosa Parks prese un autobus per tornare a casa dal lavoro. Era seduta nella sezione riservata alle persone di colore, quando l'autista le ordinò di cedere il posto a un bianco. Ci si poteva solo aspettare che obbedisse, dal momento che era un'afroamericana e che quelle erano le leggi. Tutti lo avevano fatto fino ad allora, compresa lei. Ma quel giorno era differente. Era stufa di essere discriminata e disse no. Quell'unica parola ebbe un effetto dirompente sul movimento americano per i diritti civili e portò allo smantellamento della discriminazione istituzionalizzata negli Stati Uniti.
La vita è fatta di passi, e il primo è cruciale. È quell'azione coraggiosa che apre la strada a tutto quello che c'è dopo. La distanza tra zero e uno - scrive Daisaku Ikeda - è molto più grande di quella tra uno e cento, e nel Gosho si legge: «Anche un viaggio di mille miglia inizia da un primo passo» (cfr. BS, 121).
Riguardo in particolare alla strada per l'ottenimento della Buddità, vorrei qui accennare al concetto buddista di vera causa e vero effetto, un principio che mette in relazione la figura di Shakyamuni, che espose il Sutra del Loto, e quella di Nichiren Daishonin, che ha reso tale insegnamento lo strumento per l'Illuminazione universale. Il Daishonin è il Budda e il maestro della vera causa perché è stato lui a rivelare la "causa" della Buddità, quell'insegnamento originale o seme della Buddità che aveva portato Shakyamuni a manifestare - attraverso le sue caratteristiche straordinarie - la meraviglia dell'Illuminazione ("vero effetto"), ma che Shakyamuni stesso non aveva mai rivelato.
La cosa fondamentale, qui, è che sono Budda entrambi. Nella vera causa, il primo passo - la preghiera di Nam-myoho-renge-kyo al Gohonzon - è contenuto il vero effetto, la meta, la Buddità. E senza la vera causa non esiste il vero effetto.
Il presidente Ikeda, nella Saggezza del Sutra del Loto, cita questi versi del poeta uruguayano Eduardo Galeano:

L'utopia si trova all'orizzonte.
Quando mi avvicino di due passi, arretra di due passi.
Se avanzo di dieci passi, rapida scivola dieci passi più avanti.
Per quanto innanzi io mi spinga non potrò mai raggiungerla.
Che scopo ha dunque l'utopia?
Quello di indurci ad avanzare.

«Kosen-rufu - scrive - potrebbe essere un'utopia, in realtà è un ideale verso il quale ci sforziamo di avanzare. Kosen-rufu e l'ottenimento della Buddità sono come i due movimenti di rivoluzione e rotazione della terra.
Questa meravigliosa poesia spiega lo spirito del Buddismo della vera causa. Potremmo parafrasarla in questa maniera: mirando al lontano vero effetto, avanziamo sempre. Partiamo sempre. Sempre pieni di speranza. Sempre guardando al futuro. [...] Il vero effetto è un ideale, la vera causa una realtà» (Esperia, vol. 4, pp. 35-36).
Il vero effetto è un ideale, la vera causa una realtà. Questa affermazione mi ha folgorato.
Noi agiamo nella realtà, ed è di quella che ci dobbiamo preoccupare. Se voglio mirare al vero effetto, o semplicemente essere coerente con me stessa, in questo momento quale causa metto? Quale azione faccio? In che direzione spingo la mia esistenza?
Nel libro Dear Mrs. Parks: A Dialogue with Today's Youth, Rosa Parks racconta: «Non avevo la minima consapevolezza che si stesse facendo la storia. Ero semplicemente stanca di piegarmi. In qualche modo, sentivo che tener testa a quell'autista di autobus fosse giusto. Non pensavo alle conseguenze. Sapevo che all'arrivo della polizia potevo essere malmenata, picchiata o linciata. Ma scelsi di non muovermi, perché ero nel giusto» (Lee &amp; Low Books, New York, 1996, p. 42).
«Rosa Parks - scrive Ikeda - trovò il coraggio di ribellarsi perché era convinta di essere nel giusto. Non stava cercando di passare alla storia o di mettersi in mostra, né si stava preoccupando di quello che pensavano gli altri. Fece quello che fece perché credeva che fosse la cosa giusta da fare. Questo è coraggio. Il coraggio sta sempre nel fare ciò che è giusto, coincide con la giustizia. Esso nasce dal desiderio di fare ciò che va fatto, di costruire una società giusta e di essere un buon essere umano» (I protagonisti del XXI secolo, Esperia, vol. 2, p. 79).
Nichiren Daishonin era il Budda originale, e certamente era in grado di prevedere l'effetto che avrebbero generato le sue azioni. Rosa Parks non aveva nessuna garanzia delle conseguenze di quella sua azione. E forse non ci pensava neanche. Ma non poté fare altrimenti. Quella era l'urgenza, la cosa da fare in quel momento. Non c'era altra scelta che passare di là.
Anche noi, quando sviluppiamo questo tipo di sincerità con noi stessi grazie alla fede e alla preghiera al Gohonzon, grazie al desiderio di mettere in pratica l'insegnamento dei nostri maestri, siamo quasi "costretti" a "passare di là". A tirar fuori il coraggio per fare l'azione più coerente e corretta, e spesso la più difficile, che la nostra saggezza ci dice. Senza pensare alle conseguenze.
«Per far sì che una società che sta colando a picco verso l'oscurità si diriga verso un mondo illuminato, l'unica strada è che ognuno di noi dimostri di essere riuscito a vincere manifestando la natura di Budda nelle proprie azioni» (MDG, 2, 156).
Il coraggio, ci dice Sensei, è la forza della vittoria. Ci vuole coraggio per desiderare di essere felici, il coraggio di sconfiggere la nostra oscurità interiore che ci dice che è impossibile. Ed è da questo coraggio che nasce la speranza di riuscirci.
«La vita - continua Ikeda - è una lotta infinita con se stessi. Si tratta di una battaglia tra l'avanzare e il retrocedere, tra la felicità e la tristezza. Gli individui di notevole fama non sono diventati "grandi" dall'oggi al domani. Essi sono stati fermi nel superare le proprie debolezze, nello sconfiggere la mancanza di amore per se stessi e di motivazione finché sono diventati dei veri vincitori nella vita. Uno dei motivi per cui i buddisti recitano Nam-myoho-renge-kyo ogni giorno è che con questa azione ripetuta sviluppano ritmo e forte volontà: da qui la capacità di affrontare qualsiasi problema con serietà e determinazione di vincere. [...]
Il Daimoku è una formidabile sorgente di coraggio. È la scintilla che mette in moto il motore del coraggio. L'azione stessa di recitare Daimoku è un atto che richiede coraggio. Il coraggio è la forza di vivere la nostra vita nel modo corretto, di percorrere la strada giusta» (In cammino con i giovani, pp. 72-75).
Ma è l'azione che mette in pratica il coraggio, che mette in pratica la fede. Che dimostra, prima di tutto a noi stessi e poi anche agli altri, se veramente abbiamo coraggio, se veramente abbiamo fede. È un po' un cane che si morde la coda: ci vuole coraggio per agire, ma se non agiamo come verifichiamo la nostra fede, il nostro coraggio?
Alcune piccole esperienze personali. Ventun anni fa, una sera, ho buttato il mio pacchetto di sigarette in un cassonetto. Erano anni che volevo smettere di fumare, diminuivo molto il numero di sigarette ma ogni scusa era buona per tornare a fumarne più di un pacchetto. Sentivo che fumare era un'azione in contraddizione con la mia pratica, con la mia voglia di vivere, di fare progetti... era una morte lenta, in linea con la mia esperienza familiare. Ma non riuscivo a smettere. Finché un giorno... un gesto... un attimo... e da lì, timidamente, grazie al Daimoku, mi sono aperta la strada. È passata un'ora, un giorno, un anno, ventun anni. Ho tenuto fede a quel gesto, a quella promessa.
L'altro giorno ho incontrato una mia amica che avevo introdotto al Buddismo, e qualche anno fa aveva ricevuto il Gohonzon. Non la vedevo da tempo, c'era sempre qualcos'altro di apparentemente più importante. Alla fine mi sono imposta di andare da lei, ho blindato a fatica quella domenica pomeriggio. L'ho trovata un po' depressa, debole fisicamente, che quasi non praticava più. Abbiamo parlato di tante cose, ho cercato di incoraggiarla a praticare di più, a partecipare nuovamente agli zadankai, allo studio... Sono andata via un po' triste, mi sembrava di non aver sortito alcun effetto. Ma... non avevo alcuna voglia di pensare di aver perso, di aver buttato via quel pomeriggio. Ho continuato a recitare Daimoku per lei, ho continuato ad "aprire la strada". Il giorno dopo mi ha chiamato per ringraziarmi, allegra e piena di vita, aveva ricominciato a recitare.
Ieri ho fatto nuovamente shakubuku a mia figlia. Ogni volta che parliamo di cose serie si mette a piangere perché la porto a ragionare di aspetti di sé che la fanno soffrire, e io spesso, per quieto vivere, evito di farlo. Ma ieri sentivo che proprio dovevo, anzi glielo dovevo. Tra una lacrima e l'altra abbiamo parlato dei suoi problemi, delle sue paure. L'ho incoraggiata a fare tutta una serie di azioni, oggi a scuola. A vincere la paura, grazie al Daimoku. Ieri sera ha praticato dieci minuti. Stamattina cinque, prima di uscire. E io ora sono qui, mentre scrivo, a lottare per mantenere il cuore fermo (ogni tanto controllo il cellulare per vedere se chiama), ad aprire la strada alla sua, e alla mia, vittoria.
È l'azione che apre la strada, è l'azione coraggiosa che crea il tempo in cui accade qualcosa. Devo crederci, e continuare a crederci. [A distanza di una settimana, mia figlia sta continuando a praticare].

Le azioni sono figlie
della determinazione.
È il coraggio
a generare il futuro.
Siate colonne portanti
di quest'era, formulando
ora più che mai
il grande voto
della vittoria
di maestro e discepolo.

Sono alcuni versi del presidente Ikeda rivolti ai giovani.
Come questi, recentissimi:

Giovani Bodhisattva della Terra,
raccogliete nuova energia
per far avanzare kosen-rufu,
e con coraggio assumetevi l'onere
di questi tempi difficili. 

Siate colonne portanti... assumetevi l'onere di questi tempi difficili...
Bisogna creare il tempo, non aspettarlo. Creare il tempo nel proprio cuore, cercare in sé la passione del maestro, agire il tempo di kosen-rufu: «Io, Nichiren, consapevole dell'epoca in cui viviamo, desidero adesso propagare ampiamente questa dottrina» (WND, 2, 988).
Propagare ampiamente, propagare uno a uno. Questa è l'azione più coraggiosa, e quella più nobile ed efficace. Penso che sia urgente, immediata, inevitabile. L'unica strada da percorrere, l'unico tempo da creare. Per sé e per gli altri.

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Il coraggio della vera causa

Ogni beneficio comincia così, perché è così che ha inizio ogni esperienza di trasformazione davanti al Gohonzon

Ogni beneficio comincia così, perché è così che ha inizio ogni esperienza di trasformazione davanti al Gohonzon

di Marina Marrazzi

Realizzare un ideale, un grande obiettivo, ha a che fare con lo spirito pionieristico, se pioniere è chi scopre nuove possibilità, nuovi percorsi e spazi in terre sconosciute.
Perché l'ideale, per sua natura, si trova oltre ogni esperienza già fatta, al di là di ogni strada già percorsa.
E così noi siamo pioniere, pionieri, ogni volta che decidiamo di realizzare un grande obiettivo attraverso la pratica, ogni volta che sappiamo dove vogliamo arrivare ma non come arrivarci. La strada non c'è, non riusciamo neppure a immaginare come sia fatta. Ogni beneficio comincia così.
Perché così comincia ogni esperienza davanti al Gohonzon. «Con l'ardente desiderio di vedere il Budda, non risparmiano le loro vite» è scritto nel Sutra del Loto. Desiderare di vedere il Budda senza esitare anche a costo della vita significa lasciare la strada del karma (dei pensieri, dei dubbi, degli attaccamenti, delle emozioni, della paura), cioè la strada conosciuta, e avere il coraggio di recitare Daimoku senza riserve, come Sessen-Doji che offrì il suo corpo in pasto a un demone pur di conoscere la parte di un insegnamento buddista.
Con lo spirito di chi ricerca, disporsi a imboccare strade sconosciute dentro di sé, per ritrovare in sé quel tesoro incontaminato della vita.
Infatti, la strada che porta alla Buddità, che mi conduce un Daimoku dopo l'altro verso un'altra condizione vitale che mi fa percepire il mondo coi sensi illuminati e agire in ogni momento con il coraggio e la forza della compassione, è sempre nuova. L'esperienza di ieri, quel senso di gioia, di chiarezza, di vittoria che avevo conquistato davanti al Gohonzon, oggi mentre faccio Daimoku è di nuovo dietro un muro, dietro un vetro su cui rimbalzano pensieri ed emozioni: le minuzie delle cose da fare, l'amarezza per le cose non fatte, le paure che sfioro e alle quali volto le spalle, che mi suggeriscono che non ce la farò, che mai cambierà. Strade note, fatte e rifatte, niente di nuovo. E a nulla serve sforzarmi di ricordare e cercare di fare esattamente "come avevo fatto l'altra volta".
Ancora oggi, per ritrovare quella stessa condizione vitale devo aprire una strada nuova dentro di me (questo è esattamente uno dei significati di myo: aprire).
Ripartire da ora, da qui, rinunciando agli appigli dei pensieri ma con l'unica fede nella certezza della meta, e ogni Daimoku è un passo e un mattone di strada.
La meta è la Buddità che posso far emergere e percepire in me. La meta è anche il mio obiettivo, che resta irraggiungibile solo se visto con gli occhiali del karma.
Certa della prima per fede ed esperienza, cammino verso la seconda passo dopo passo, leggera e forte in proporzione allo stato vitale che sono riuscita a conquistare davanti al Gohonzon. Consapevole che lo spazio che mi ha sempre separato dal mio ideale, da quel mio cambiamento e nuova prospettiva di vita, si nutre di sfiducia e di ignoranza.
Così procedo per passione e necessità, con la forza di usare l'imprevisto, lungo questa strada mai percorsa, fatta di occhi che si aprono su nuove parti di me, di riconciliazioni interiori, di nuove sfide.
Disposta a cambiare lungo la strada per riconoscere qualcosa, a rideterminare, a non desistere.

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Se la strada è tutta da inventare

La causa e l'effetto, credere e sperimentare, sono presenti in un'unica azione e sono simultanei

di Jacopo Minio Paluello

In una spiegazione del presidente Ikeda leggiamo che il Daimoku della pratica consiste «nella battaglia che ha luogo nel nostro cuore per contrastare la nostra condizione interiore illusa, od oscurità [...] una battaglia [...] per aprire un varco nell'oscurità che avvolge la natura di Budda e per far emergere la condizione vitale di Buddità grazie al potere della fede» (D. Ikeda, spiegazione del Gosho Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, BS, 119, 15-16).
Ma come è possibile che ci siano due nature o due tendenze così diverse, quasi antitetiche, come la Buddità e l'oscurità fondamentale? Noi occidentali facciamo una gran fatica a comprendere quanto nella vita cose apparentemente opposte facciano parte della stessa realtà. In oriente, e nel Buddismo in particolare, il concetto di non dualità, di "due ma non due" (funi in giapponese), è invece molto presente in ogni momento della vita, nella filosofia e nella religione.
Come praticanti sperimentiamo questo concetto tutti i giorni nella recitazione di Nam-myoho-renge-kyo, che riassume in una sola azione due modi di aprire la nostra vita apparentemente in contrasto tra loro: quello di credere (Daimoku della fede) e quello di sperimentare (Daimoku della pratica). La causa (sconfiggere l'oscurità) e l'effetto (far emergere la Buddità) sono presenti in un'unica azione e sono simultanei.
Lo stesso rapporto che c'è tra fede e pratica lo ritroviamo nei due elementi che compongono la parola myoho, che identifica la Legge mistica. Già parlare di una legge che si definisce mistica sembrerebbe un controsenso: come è possibile che una cosa che dovrebbe essere certa, riconoscibile, concreta, una legge appunto, sia anche qualcosa di inesprimibile, di trascendente come l'attributo mistico fa intendere?
Eppure la complessità della vita si compone sia di una parte (myo) che esprime l'aspetto mistico e intangibile, il mondo di Buddità, la natura dell'Illuminazione, la realtà fondamentale, la morte (nella sua caratteristica di ineffabilità), e al contempo di un'altra parte (ho) che rappresenta il mondo fenomenico, la Legge, la vita e le sue manifestazioni, l'oscurità e l'illusione. Nelle nostre giornate e nel nostro Daimoku esistono contemporaneamente sia la "realtà fondamentale" che la realtà quotidiana, sia la causa che l'effetto, la fede e la pratica, l'oscurità e la Buddità, i tremila regni e il singolo istante di vita, myo e ho, la semina e il raccolto, vincere (Buddità) e perdere (oscurità), la Legge (Nam-myoho-renge-kyo) e la persona (che recita la Legge).

Per finire un po' di giapponese: shobutsu-funi vuol dire "non dualità degli esseri viventi e dei Budda", esho-funi vuol dire "non dualità della vita e del suo ambiente", zen'aku-funi vuol dire "non dualità di bene e male".meigo-funi vuol dire "non dualità di illusione e Illuminazione", ninpo-ikka significa "unità di Persona e Legge", shikishin-funi vuol dire "non dualità di corpo e mente"... insomma, dobbiamo rassegnarci all'idea che la nostra mente e il nostro cuore, concetti apparentemente così lontani, siano in realtà la stessa cosa. Tanto che in giapponese il singolo ideogramma kokoro o shin sta a significare sia mente che cuore.

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Due facce della stessa medaglia

Amicizia vera, fede sincera nel Gohonzon, appassionata unità con il maestro: così è partita in alcuni paesi dell'alto Lazio questa contagiosa avventura

Amicizia vera, fede sincera nel Gohonzon, appassionata unità con il maestro: così è partita in alcuni paesi dell'alto Lazio questa contagiosa avventura

a cura di Alessandra Fornasiero

Una costellazione di paesi intorno al lago di Bolsena: Marta, Capodimonte, Valentano, Acquapendente, Tuscania, Montefiascone... Così comincia kosen-rufu nella Tuscia (alto Lazio), un'avventura che vede come pionieri alcuni adulti che negli anni '90 iniziano a fare shakubuku a dei giovani, che a loro volta prendono l'iniziativa...

Francesco Moschini (33 anni)
Io ho iniziato a praticare il Buddismo otto anni fa. Grazie al sostegno degli adulti. Sono stati Secondo e Tiziana a fare shakubuku a noi giovani. Se loro non avessero aperto la strada, io non sarei qui. Sono venuto a Capodimonte e ho portato il primo Gohonzon, avevo venticinque anni, volevo fare tante cose ma non sapevo come. C'erano periodi che sembrava che non cambiasse niente. Mi sono sforzato da morire. Prima da queste parti c'era molta droga tra i giovani, alcool, incidenti d'auto... A un certo punto abbiamo cominciato a prendere l'iniziativa. Si recitavano due, tre ore di Daimoku insieme e poi si andava a fare shakubuku ai nostri coetanei nei pub, nelle discoteche. A volte ti venivano incontro dicendo: «Ti vedo più solare!». Sembrava che non aspettassero altro. Non bisogna avere paura. Nello shakubuku bisogna partire dalla relazione di amicizia, questo è il punto, sentire davvero il valore della persona che hai di fronte, darle fiducia... tutto parte dal sentimento di amicizia, bisogna capire bene che cos'è, l'amicizia.

Keidi Tamo (26 anni)
Nel 2003 sono arrivato dall'Albania e ho conosciuto Francesco che mi ha portato a una recitazione e poi a una riunione. Io e Roberto [che racconta la sua esperienza a seguire, n.d.r.] stavamo sempre insieme, con Francesco e Secondo. Nel frattempo avevo incontrato qualcuno che mi aveva proposto di lavorare con la cocaina. Era una prospettiva allettante, un sacco di soldi. Avevo già preparato tutto per partire per Milano, da dove avrei raggiunto la Svizzera. Ma in quel periodo avevo iniziato a recitare Daimoku già da qualche mese. E così è accaduto che alla stazione Termini il treno è arrivato ma io non sono salito... evidentemente la mia vita aveva già cambiato binario!! Oggi ho un contratto a tempo indeterminato.
Poi ci siamo tutti innamorati del presidente Ikeda, e abbiamo iniziato a costruire una vita sana. Più non realizzavo, più facevo shakubuku. Non avevo lavoro, non avevo neppure da mangiare, andavo a dormire senza cena, ma con fiducia. Abbracciavo il Gosho, nel senso che lo tenevo stretto a me, perché non riuscivo neanche a leggere. Facevo shakubuku a tanti ragazzi musicisti. Da agosto a febbraio ho fatto solo questo, soprattutto a Bassano in Teverina, dove allora non c'era nessun praticante.
Nel frattempo mi era stato offerto un lavoro in prova presso un'azienda manifatturiera. Visto che sono albanese, avevano messo in giro delle calunnie sul mio conto. Così, con Roberto (che già lavorava presso la stessa ditta), abbiamo iniziato a svegliarci alle quattro e mezza ogni mattina per fare un'ora di Daimoku prima di andare a lavorare. Nel giro di un mese questa situazione si è trasformata in beneficio perché il principale a mia insaputa mi teneva d'occhio e alla fine, su centinaia di operai, è andato a dire a Roberto: «Ma quel ragazzo è bravissimo!!».

Roberto Giovannini (28 anni)
Adesso Keidi fa kosen-rufu pure in Albania: manda a Tirana le guide di Sensei tradotte, e così anche lì possono fare meglio shakubuku.
Anche io a un certo momento ero stato calunniato, mi avevano accusato di aver rubato, ma ora c'è una grandissima fiducia in entrambi.
Grazie a Sensei che ci insegna a dare il cento per cento nel lavoro, abbiamo dimostrato una grandissima capacità. Insieme abbiamo affrontato tutte le difficoltà, ogni mattina alle quattro e mezza recitando Daimoku insieme, senza lamentarci, senza reagire o aggredire nessuno, e così abbiamo ribaltato la situazione.
Io ho iniziato nel 2005. Nel 2006 ho ricevuto il Gohonzon. Il mio desiderio era di poter uscire dal circolo vizioso delle droghe. Io stesso spacciavo, ero un portabandiera... credevo di star bene così, avevo soldi, le ragazze mi ronzavano intorno. Ma quando tornavo a casa facevo i conti con quello che ero veramente, mi sentivo piccolo come una formica, sentivo un senso di vuoto terribile. Se dovevo dialogare con gli adulti mi sentivo sprofondare, non sapevo mai cosa dire, conoscevo solo argomenti che riguardavano la droga.
Un giorno Vittorio, un signore di Valentano, mi ha fatto shakubuku (avevo ventun anni). La situazione a casa era un dramma, dopo la morte di mio padre non si parlava e non si sorrideva più. Ho iniziato a scrivere i miei obiettivi, per prima cosa mandare Daimoku agli altri, soprattutto a mia madre. Ho sentito subito che lo stato vitale cambiava, pregavo e mi sentivo felice. E non per la droga. Un'esplosione! Aprivo bocca alle riunioni e gli altri mi ascoltavano, mi consideravano, mi ammiravano, io che ero il figlio-di-mignotta del paese... Ora invece in quelle riunioni mi stavano a sentire! La mia gioia era a mille, e quando rientravo a casa quello stato vitale tremendo che trovavo non mi trascinava giù, ero io che riuscivo a cambiare lo stato vitale a casa! Ho iniziato a fare shakubuku con entusiasmo. Quel carisma che prima mettevo per lo spaccio ora lo usavo per lo shakubuku. A Valentano è stata un'esplosione. Non era tanto la conoscenza che potevo trasmettere, ma lo stato vitale.
Così ho abbandonato la droga con gioia, perché non mi serviva più. Casa mia si è riempita di amici che praticavano. Mia madre ha visto il cambiamento. Per esempio, quando ho raccontato a casa l'esperienza delle calunnie sul lavoro, i miei hanno reagito istintivamente, insultando i calunniatori, ma io dicevo: ma no, dai, recitiamo insieme Nam-myoho-renge-kyo! Così i miei due fratelli, mia mamma e mia zia hanno iniziato a praticare. Dopo un anno e mezzo aveva cominciato tutta la famiglia: tra zie, cugini e amici, otto Gohonzon!!

Daniele Pacchiarelli (28 anni)
È Roberto che mi ha fatto shakubuku. Abbiamo fatto lo stesso percorso. Usavo le droghe per insicurezza, pensavo che mi aiutassero a tirare fuori me stesso. Alla fine stavo malissimo, non potevo neppure entrare al bar, non riuscivo più a parlare con nessuno. Sentivo il giudizio, il disprezzo della gente. Andavamo al bar di Vittorio, lui invece ci parlava di Buddismo.
All'inizio io non ci credevo, mi sembrava una cosa assurda, pensavo che Roberto fosse stato plagiato e che dovesse andare dallo psicologo. Ma un giorno a Civitavecchia, mentre stavo a una lezione all'università, ero terrorizzato alla sola idea di dover dire una parola, mi coprivo dietro allo studente che sedeva davanti a me, ho sentito una tale sofferenza che tornando a casa ho pensato: «Così non voglio più vivere».
Ho iniziato a recitare tutti i giorni Nam-myoho-renge-kyo. Il primo effetto è stato che ho cominciato a fare amicizia. In sei mesi di università non ero riuscito a conoscere un'anima e ora, improvvisamente, avevo il mio gruppetto di amici... Sono entrato nel gruppo di Civitavecchia, dove facevo protezione, ma quando tornavo a Valentano la mia famiglia non sapeva niente. A quel punto ho sentito di essere a un bivio. O ricevevo il Gohonzon o smettevo di praticare. Ma i miei non volevano. Una mattina ne ho parlato con Secondo e lui mi ha detto: «Il Gohonzon è per essere felice». Quel giorno era il compleanno di mio nonno, c'era tutta la famiglia riunita a pranzo. Sono arrivato e ho fatto shakubuku a tutti. Loro erano tutti contrari, avevano paura delle sette. Questa è la realtà di un paese di milleottocento abitanti. Pensa che mia nonna non ha mai visto neppure il mare! Avevano paura. Tu gli dici Nam-myoho-renge-kyo... ma che cos'è, magia?? Poco dopo sono diventato responsabile del gruppo, a Marta. E ho trasformato il veleno in medicina.
Pensa che recentemente il parroco durante la messa ha lodato la Soka Gakkai, questa è stata la più grande vittoria! Ha detto che non è normale che dei ragazzi cambino vita così, spontaneamente... E anche il sindaco, ci ha dato lo spazio per le giornate di Daimoku senza dover pagare. Mentre solo qualche tempo fa il parroco di un altro paese aveva addirittura allertato la popolazione di guardarsi da noi...
Ora è tutto cambiato, perché hanno visto le nostre vite cambiare. I ragazzi che iniziano non avranno tutti i problemi che abbiamo avuto noi. In un piccolo paese ci si conosce, le persone ti osservano, vedono che al bar non ci vai più per bere, avvertono che il tuo stato vitale è cambiato. Prima stavamo sotto un treno, ora non abbiamo più bisogno di droghe e questo è sotto gli occhi di tutti. L'unità e il dialogo tra noi sono stati fondamentali. Soprattutto i legami di amicizia che abbiamo stretto tra di noi...

Francesco Moschini
A Capodimonte all'inizio ero solo io a praticare. Mi ricordo che mia madre mi camuffava il butsudan, faceva finta che fosse un presepe. E gli amici mi prendevano in giro, mi dicevano di lasciar perdere 'sta cosa. C'era tanto pregiudizio. Poco a poco i nostri paesi sono cambiati, abbiamo influenzato l'ambiente, kosen-rufu non è un'utopia. Quasi tutti da queste parti, in un modo o nell'altro, sono entrati in contatto con la pratica buddista e anche se non continuano a praticare, comunque adesso la rispettano.
Tutte le amicizie che avevo allora si basavano sull'attaccamento. Mi colpiva tanto come si erano messi a praticare uniti Roberto e Daniele. Sensei dice sempre che non c'è Soka Gakkai senza amicizia, invece la mentalità del paese è che se tu ti apri è perché sei debole, c'è questa cultura, i padri non abbracciano mai i figli...
La loro amicizia mi colpiva, la fede ti permette di creare legami molto profondi... il giorno che Roberto mi ha detto: «Ma tu sei amico mio quanto Daniele» mi sono commosso. Questa è la Soka Gakkai! Un Daimoku sincero fatto con tutto il cuore per un'altra persona è la tua fortuna. Ci teniamo tantissimo all'unità tra di noi, non è importante il proprio punto di vista, ma essere uniti su un obiettivo comune. In quest'ultimo periodo non riuscivo più a vedermi con Roberto, lui adesso è dirigente d'azienda, è responsabile di tante persone al lavoro, non sapevo come fare, non volevo farlo sentire pressato. Sapevo che loro due stavano continuando a recitare insieme la mattina alle quattro e mezza, e così ho deciso di raggiungerli da Viterbo... quel giorno stesso quattro giovani uomini che stavamo seguendo insieme hanno deciso di ricevere il Gohonzon!!
Di settimana in settimana condividiamo i nostri obiettivi, tra giovani uomini, e tutti pratichiamo per questi scopi. Vogliamo creare legami così forti che ti devi emozionare di più quando realizza l'altro di quando realizzi tu stesso! Il nostro obiettivo è che in ogni paese della Tuscia almeno un giovane uomo riceva il Gohonzon e faccia attività soka-han.
Quando qualcuno di noi ha un problema, si recita tutti insieme finché non è risolto. Amicizia e attività non sono separate, l'attività non è diversa dalla vita. Io provo molta gioia facendo attività, dentro c'è sempre questa forza, se non provo gioia significa che non sto facendo come dice Sensei. Il legame con il maestro è fondamentale, allora non ti basi più sulle capacità personali, ma attingi alla Legge mistica. Capisci che hai le stesse potenzialità del maestro e le puoi utilizzare. Questa è la Soka Gakkai dei giovani.
La mia determinazione è di approfondire sempre di più la fede in modo da utilizzare ogni istante della mia vita per kosen-rufu. Non smettere mai di credere, questa è la differenza con Sensei: lui non smette mai di credere, in ogni istante. Io penso che in questa epoca così difficile o sei veramente sincero, o non ce la fai...
Desidero vedere una Soka Gakkai dove i giovani travolgano di entusiasmo la nazione, come un fiume di kosen-rufu in piena, e gli adulti che, come argini, proteggano e direzionino il flusso del cambiamento. Ho scritto questa poesia a Sensei, il primo gennaio, mentre andavo al kaikan per leggere il Gosho di Capodanno:

Nell'aria
vive in eterno
il vento di pace
nato dal ventaglio
che da giovane
spiegavi danzando.

Grazie

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Una miscela esplosiva

In prima persona

In prima persona

Voglio scrivere di noi... per ringraziare e ringraziarci l'un l'altro della fortuna di essere pionieri. Uso il noi perché il distintivo dei pionieri è l'unità. D'acciaio. Quella di una famiglia di credenti ai tempi del Daishonin. Siamo tutti Nanjo Tokimitsu, i fratelli Ikegami, la monaca Sennichi. In un altro tempo e in un altro luogo: oggi, in un paese a maggioranza islamica. Non possono esserci disarmonie, noia, personalismi, capricci. Non ci sono alternative. In caso contrario si soccombe, e si soccombe tutti... quella piccola preziosa luce di kosen-rufu nascente perirebbe. Noi ne siamo i custodi. E come fedeli guardie reali dobbiamo essere forti e coraggiosi. Tutte le attività, organizzate e svolte con seria considerazione della cultura prevalente nel paese, sono impregnate di questa consapevolezza e di questo scopo: diventare persone sempre più forti e sempre più coraggiose. I legami tra di noi sono dolcissimi, profondi, protettivi. Si cresce sotto la guida di Nichiren Daishonin e di Daisaku Ikeda. Al dire il vero di loro non si sa tantissimo... niente riviste, niente libri, discontinue le riunioni di studio. Ma il legame con Sensei è forte, proprio di cuore! Per fortuna arrivano i suoi video mensili dal Giappone e ci si vede per ascoltare i racconti dei compagni di fede di ritorno dagli eventi internazionali. Al rientro infatti gli altri amici quasi li pressano per incontrarli al più presto e farsi raccontare tutti i particolari.
Ho sperimentato il piacere di abitare in una casa molto grande in un quartiere multiculturale e ben collegato della città principale e questo mi ha dato l'onore e l'incommensurabile beneficio di ospitare tante delle nostre riunioni. Quanta partecipazione e quanta emozione a ogni riunione e soprattutto quanta gioia. Al mio arrivo, tre anni fa grazie a un lavoro all'estero inseguito per quasi dieci anni e finalmente conquistato, mi ritrovo a praticare in solitudine. Tutto di un botto non c'era più alcun vicino di casa dal quale andare a recitare tutti i giorni! Ogni tanto partecipo a una riunione di discussione, poi il silenzio per settimane. I membri non avevano molta voglia di organizzare le riunioni, scoraggiati dal contesto. Io però volevo ricreare il mio mondo. Così ho iniziato a invitare le persone a casa mia e gli incontri sono divenuti sempre più regolari e frequentati e anche altri hanno aperto la propria casa.
Costante, quasi da tenere a bada, il desiderio di poter fare di più di quello che le circostanze consentono, ma quanta emozione quando una combinazione di sforzi, caparbietà e buona fortuna consente davvero l'accadere di un fatto nuovo!
La scelta del tempo è il Gosho di riferimento per tutti.
Fare shakubuku è sconsigliato e comunque molto difficile... ma non impossibile. Così stiamo crescendo. E la notizia che la nostra piccola comunità ha un nuovo membro rimbalza gioiosamente veloce. Sappiamo che lei o lui sarà un membro attivo. Che darà un contributo importante alla storia di kosen-rufu nel paese.
Personalmente ho potuto comprendere alcuni passaggi della storia di kosen-rufu nell'epoca di Mappo. Per esempio, il perché Nichiren Daishonin ha consegnato prima gli omamori ai discepoli per la loro personale protezione e dopo ha iscritto il Dai Gohonzon, vessillo della propagazione, quando il tempo era arrivato...
Epilogo. La crisi del debito impatta la mia vita. Torno a vivere in Italia, nella mia città natale, dove avevo iniziato a praticare con il sostegno di una organizzazione già solida. Ora trovo tantissime persone e delle attività programmate al dettaglio. Sembra non ci sia bisogno di me…ma non è così. Scopro territori inesplorati dietro l'angolo di casa: metto in contatto i miei colleghi di lavoro che condividono la mia fede o vi si stanno avvicinando per recitare insieme e affrontare in modo diverso l'attuale situazione critica. C'è chi pioniere ci nasce, chi ci diventa - come me - ma, lo sento, pioniere si resta, per sempre. (T.)

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Oggi, in un paese a maggioranza islamica

In prima persona

In prima persona

La sponda dell'utopia è il titolo della sfida che ho intrapreso il 16 novembre 2011.
Quel giorno l'ho incisa nel mio cuore scrivendola sul quadernino dei desideri, delle sfide e delle conquiste della mia vita, che brilla semiaperto al secondo ripiano del mio mobiletto; la prima pagina porta la data 11 settembre 2009, giorno in cui sceglievo il butsudan per accogliere il Gohonzon che avrei ricevuto il 29 novembre di quell'anno.
Ne ho fatta di strada in questi due anni, un cammino strabiliante... E se guardo indietro sfogliando le pagine, il cuore si riempie di gioia e gratitudine: sotto ogni preghiera c'è aggiunto a penna un grazie.
«La preghiera di colui che crede nella Legge mistica e la pratica assiduamente si realizzerà!».
Ho scritto questa sfida seguendo attentamente le indicazioni di una guida del Nuovo Rinascimento di ottobre 2004, sul valore della preghiera.
In questa guida si parla dell'importanza dell'obiettivo chiaro e concreto e di niji (una parola che pronunciamo ogni giorno in Gongyo). Niji significa a quel tempo, e indica il momento in cui abbiamo una grande difficoltà o vogliamo realizzare un nostro desiderio a ogni costo, sia personale che per kosen-rufu. È un momento chiave e il nostro ichinen è determinante.
In quel momento dobbiamo: stabilire lo scopo, determinare di realizzarlo, recitare Daimoku, agire.
L'obiettivo, diceva il presidente Makiguchi, crea il mezzo per raggiungerlo.
Se preghiamo con una decisione e con un obiettivo chiaro, allora si manifesterà la prova concreta.
Quindi scrivo sulla mia pagina bianca: 16 novembre 2011-31 dicembre 2011, l'impossibile diverrà possibile.
Obiettivo: recitare nel cast di La sponda dell'utopia, importante trilogia teatrale diretta da un grande regista italiano. Determino di realizzarlo. Recito Daimoku un'ora e mezza al giorno per questo scopo, con un forte ichinen.
Obiettivo per il mio cambiamento personale: migliorare il mio rapporto con l'uomo, col padre... Aprirmi all'amore. Obiettivi per kosen-rufu: il marito di Silvia viene a riunione e guarisce dal cancro, Valerio decide di ricevere il Gohonzon e passa l'esame di avvocato.
Queste sono le testuali parole, l'inizio di una trasformazione senza precedenti nel mio cammino.
L'obiettivo che avevo scelto era molto importante per me, nasceva da un desiderio profondo di dire al mondo intero che l'impossibile può diventare possibile. E a questo erano connesse anche le sfide per gli altri. Desiderare di rilanciare sull'evidente ostacolo apparentemente insormontabile!
La sponda dell'utopia è un kolossal teatrale che affonda le sue radici nella storia. Racconta l'intreccio delle vite di alcuni filosofi, scrittori e pensatori russi, tra cui Herzen, Turgenev, Belinskij, Marx... Personaggi realmente esistiti, con le loro passioni, gli amori, le paure, le contraddizioni; sia uomini che donne, tutti colti sulla sponda dell'utopia. Vite in bilico su quel crinale, pericoloso per i più: pionieri di idee e passioni, sbandieratori di utopia, essi immaginano e modificano con il pensiero il corso della storia, vite chiamate a risvegliare le menti e i cuori, per l'evoluzione dell'intera umanità.
E io mi sento esattamente così, nella mia missione per kosen-rufu: la rivoluzione umana si dipana sulla sponda dell'utopia. Volevo esserci ad ogni costo!
Avevo mandato un video, perché si richiedeva un provino fatto in video prima di poter accedere ai provini veri e propri. Sapevo che ne sarebbero arrivati migliaia e migliaia.
Allora una sera, dopo aver fatto Daimoku, decido di fare qualcosa di più, uno sforzo per andare oltre il mio limite ed essere pioniera, quindi mando alla produzione una mail con una lettera di motivazione che raccontava esattamente perché avrei voluto partecipare ai provini di questo grande spettacolo. Così facendo mi avvicinavo alla mia utopia!
Nel frattempo cominciavano a emergere dalla mia vita molti demoni, tra cui rabbia, paura, depressione e anche dolore fisico, poiché ero caduta su un ginocchio proprio durante un turno byakuren che dedicavo a questa sfida.
Una svolta importante è stata proprio la caduta, il dolore che avevo al ginocchio.
Stavo preparando il monologo che avrei portato al provino: Giovanna D'Arco. A un certo punto, mentre camminavo per strada zoppa col ginocchio dolente e soprattutto con la sofferenza di sentirmi sconfitta, ho sentito che quel dolore era molto utile per il personaggio di Giovanna, che potevo usarlo per sentirmi lei, e ho cominciato a camminare tra la gente come avrebbe fatto Giovanna, orgogliosa del suo dolore, delle sue ferite di guerra, per una guerra giusta e di pace: erano le ferite di un'eroina.
La trasformazione è stata istantanea. Il giorno dopo il ginocchio non mi faceva più male e avevo compreso il senso profondo di ringraziare l'ostacolo e di trasformare il punto di vista.
Perché quando stai andando nella direzione giusta, gli ostacoli emergono e affrontarli e vincerli è la strada per la vittoria. Fino a quel momento avevo vinto proprio grazie agli ostacoli e quindi ho continuato nella sfida colma di una fiducia nuova.
Facevo sempre la mia ora e mezza di Daimoku e sentivo che anche se non avessi realizzato l'obiettivo dello spettacolo, la mia sponda dell'utopia era già in essere, la mia vita si stava aprendo agli altri, alla saggezza istante per istante, alla fiducia, alla trasformazione del veleno in medicina, sentivo che questo cambiamento avrebbe portato una grande fortuna nella mia vita e il mio lavoro di attrice avrebbe avuto una grande svolta in ogni caso. Il tempo passava e io ero un po' provata dai molti ostacoli, ma certa ed entusiasta della trasformazione. Poi il 30 di novembre ero fuori con mia madre, con la quale sto ricostruendo e riscoprendo un rapporto autentico, ero nel pieno della mia creazione di valore, quando ricevo una telefonata: «Salve sono Claudia dalla produzione de La sponda dell'utopia...».
In quel momento ho cominciato a ridere, piangere, il mio cuore faceva tuffi di gioia, mentre la ragazza mi spiegava la paga, l'impegno... Allora io chiedo se avrei dovuto sostenere un provino, lei mi risponde di no. Che per ora stavano sentendo i candidati scelti e poi, dopo una telefonata di conferma, avremmo iniziato direttamente le prove. Ho pensato: «Nam-myoho-renge-kyo è grande, è più grande dell'immaginabile».
Sembrava un sogno. Mia madre è stata testimone di tutto questo e io le ho raccontato quello che stavo ottenendo grazie alla pratica e le ho detto: «La sfida è ancora aperta, bisogna restare concentrati, sai che il Daimoku della madre per il figlio è la causa positiva più potente che esista?».
Insomma mia madre ha cominciato a recitare quindici minuti al giorno per sostenere la mia sfida. L'impossibile stava diventando possibile.
Il pomeriggio mi telefona una mia cara amica attrice dicendomi che aveva saputo che ero stata presa perché l'aiuto regista è un suo amico. La sera viene da me per festeggiare, anche a lei racconto l'esperienza della pratica, ma le dico che niente è certo, che dobbiamo rimanere concentrati, nel centro delle cose e in contatto con la profondità della vita. Paola è sempre stata molto scettica sulla pratica, quella sera questa trasformazione ha un grande effetto anche in lei: recita i suoi primi cinque minuti di Daimoku.
Dopo una settimana ricevo la chiamata di conferma: ero convocata per le prove, avevo il copione...
Ma il regista si riservava una settimana di "prova" per gli attori che non aveva incontrato.
Comincio ad avere paura, paura di perdere, di non farcela, una paura atavica. Mi viene l'influenza intestinale, il ciclo, dolori ovunque e il pomeriggio avrei avuto le prove per la ripresa di Alice, uno spettacolo che avevo messo in scena l'estate scorsa.
Mi ha sostenuto una mia amica, ex responsabile del mio gruppo, con queste parole: «Odette vola più in alto, tu sei già nello spettacolo, questo spettacolo è per kosen-rufu, pensa che otterrai un gran bel ruolo per parlare ai cuori di tutte le persone, la vittoria finale non esiste, si vince istante per istante e tu vinci, anzi noi vinciamo!».
Nonostante il malessere sono andata alle prove e ho fatto la mia più grande interpretazione, Alice è stato un successo, l'ostacolo è servito ancora una volta a migliorarmi.
E così è arrivato il 12 dicembre, inizio delle prove de La sponda dell'utopia, avevo determinato di creare un grande valore in questo spettacolo, di proteggerlo e di dedicarlo a kosen-rufu.
Il primo giorno a tavolino è stato un grande successo, il giorno dopo mi hanno telefonato per chiedermi gli estremi per preparare il contratto. Ma ancora non ci volevo credere.
I giorni sono passati in fretta e tutto faceva credere che saremmo stati tutti confermati per il cast dello spettacolo e così è stato. Ma io continuavo a non voler raccontare ai miei amici attori la mia esperienza, volevo proteggere questo castello di cristallo dalle invidie, dai rancori... Avevo paura che si potesse rompere. Mi sono resa conto che ero molto spaventata. E ho deciso ancora una volta di mettere una controtendenza. La mia esperienza è un grande incoraggiamento per tutti, per chi pratica e chi no, non posso perdere quest'occasione. Non è di cristallo, il mio castello è solido e non si rompe.
Per chi soffrirà per la mia fortuna, sentendosi meno fortunato, sarò io a incoraggiare: «Se l'ho fatto io puoi farlo anche tu! L'impossibile è possibile!».
E così ho cominciato a condividere questa grande fortuna e continuerò a farlo.
C'è stato poi ancora un ostacolo: ho avuto un ruolo che non mi aspettavo, più piccolo di quello che pensavo e non avevo proprio considerato la cosa. Mi sono sentita umiliata e svilita. A un tratto tutta la fortuna si tramutava in sofferenza dentro di me.
Eppure avevo affidato tutto al Gohonzon. Non capivo, ma sapevo che praticando avrei sentito la strada... E infatti ho riconosciuto il demone, ho detto: no io lo trasformo! E ho cominciato ad aprirmi con molto sforzo, cercando di incoraggiare altri attori che, se pur bravissimi, avevano avuto parti minori. Incoraggiando un ragazzo gli ho detto che dovevamo ringraziare per la terra che avevamo avuto anche se sembrava arida e senza frutti e che così facendo non solo avremmo raccolto i frutti, ma avremmo ottenuto nuove terre ben più grandi e di illimitata fortuna. Da lì è cambiato tutto.
Ho visto che il mio ruolo anche se piccolo è molto intenso e interessante, ho sentito che le persone erano ben disposte nei miei confronti e sto cercando di costruire rapporti di amicizia sinceri. Sono riuscita a uscire dalla bolla dell'illusione.
Ho scoperto che la vita è tutta una sfida e che l'obiettivo è sempre una partenza: sto rilanciando sulla felicità in amore, che "guarda caso" è anche il centro della mia scena nello spettacolo, il mio amico Valerio sta andando tutti i giovedì allo zadankai e la sua fede sta crescendo forte e rigogliosa, per ora nessuna novità dalla persona malata di cancro.
Ma sono certa che l'impossibile diverrà possibile e continuo a rilanciare per la mia felicità e per quella degli altri con obiettivi sempre più grandi, ringraziando ogni ostacolo. Questa è la mia sponda dell'utopia, questo è per me kosen-rufu!
(O. P.)

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La mia sponda dell'utopia

Incontro con Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace 1980

di Silvia Manco

«Non ci sono frontiere o restrizioni che limitino il cuore umano. Il cuore è capace di trascendere qualunque distanza e di creare legami vitali di magnifica compenetrazione e mutua comprensione» (Daisaku Ikeda).
Questa è una parte del messaggio che il presidente Ikeda ha scritto in occasione della presentazione del libro di dialoghi con Adolfo Perez Esquivel che ha avuto luogo a Buenos Aires nel dicembre 2011.
I dialoghi che il presidente Ikeda intraprende ormai da molti anni con uomini e donne di cultura, studiosi, accademici, scienziati e politici ci insegnano il potere illimitato del cuore che ci rende unici e ci consente di realizzare qualsiasi cosa.
Dovendomi recare a Buenos Aires per motivi professionali, ho pensato che sarebbe stata una buona idea poter incontrare il professor Esquivel per consegnargli a mano l'invito a partecipare a un evento che l'organizzazione con cui collaboro sta realizzando.
Adolfo Perez Esquivel è un pacifista argentino che ha lottato contro gli abusi della dittatura militare negli anni settanta. Dopo il colpo di stato di Jorge Rafael Videla ha contribuito alla formazione de El Ejercito de Paz y Iusticia, un'associazione per i diritti umani che si è prodigata anche per assistere le famiglie delle vittime del regime e della guerra delle Falklands. Arrestato nel 1975 dalla polizia brasiliana e nel 1976 in Ecuador, nel 1977 è stato fermato, torturato e tenuto in stato di fermo per quattordici mesi senza processo dalla polizia argentina.
Per i suoi sforzi contro la dittatura e a favore dei diritti umani nel 1980 è stato insignito del Premio Nobel per la pace. Ancora oggi, a ottant'anni, è in prima linea in questa lotta ed è presidente della Lega internazionale per i diritti umani e la liberazione dei popoli e membro del Tribunale popolare permanente.
Per tutti questi motivi era mio desiderio incontrarlo. Incontrare una persona, amica del mio maestro, che ha fatto un voto nella vita: quello di lottare per la gente e di non lesinare i suoi sforzi con l'obiettivo di contribuire attivamente a renderla felice.
Ma... mi dicono che il professore, per alcune questioni accadute in passato, non vuole incontrare l'associazione che rappresento.
«Non ti riceverà mai», mi aveva detto infatti il mio collega, prima che io partissi.
«Ma cosa dici - ho risposto - mai non esiste, per me».

Ho iniziato a praticare ventuno anni fa e da allora grazie alle guide del mio maestro e al Gosho ho imparato a non considerare impossibile alcunché.
Sono consapevole ogni giorno, ogni momento, che grazie all'allenamento fatto nella divisione giovani e nelle byakuren, così come grazie agli sforzi per creare armonia con tutte le persone seguendo le guide e gli incoraggiamenti di Sensei, ho costruito e continuo a costruire delle fondamenta solide, per cui la parola mai per me non esiste, così come la parola impossibile.
Nel 2001 in Giappone al Corso giovani Sensei disse: «Non dovete mai dire "ormai"». Da allora ho tirato fuori tutti i sogni che avevo lasciato nel cassetto e ho realizzato ciò che credevo irrealizzabile.
E ogni giorno è una sfida per tirare fuori i sogni nascosti e decidere di realizzarli.
Sensei stesso ci raccontava che desiderando da sempre suonare il pianoforte, a sessantacinque anni ha deciso di prendere lezioni e ha imparato. E spesso durante le riunioni generali o anche in riunioni più piccole ha suonato per rallegrare le persone e per trasmettere l'incoraggiamento a sfidarsi sempre e a non darsi mai per vinti.
Così insegna il mio maestro, e quando qualcuno mi dice che una cosa è impossibile scatta in me come un desiderio impellente e incontrollabile di dimostrare che grazie alla fede in Nam-myoho-renge-kyo l'impossibile diventa possibile.

Buenos Aires, 30 novembre 2011. La prima cosa che mi colpisce appena citofono è che la segretaria mi viene ad accogliere fino al portone, mi fa accomodare e mi dice che il professore non è ancora arrivato.
La seconda è l'arrivo di una signora sulla settantina con il bastone; entrando dice alla segretaria: «Ho appuntamento con Adolfo», così senza titoli, senza formalità, e sedendosi accanto a me mi chiede: «Sei anche tu qui per la riunione di dialogo?».
«Non so - dico - ho appuntamento con il professore». Mi sento un po' stupida nel mantenere questa formalità, lei lo ha chiamato Adolfo, però mi dico che forse sono amici.
«Per l'appunto», risponde lei sorridendo.
Dopo qualche istante la segretaria torna e le dice che la riunione è già iniziata e la conduce verso un lungo corridoio. Poi saprò che l'associazione si occupa di educazione alla pace e ai diritti umani e organizza gruppi di ascolto per la tutela dei diritti civili e politici con avvocati ed esperti.
La terza cosa che mi colpisce è che quando entra Esquivel e ci presentano, lui mi stringe la mano e mi dà un bacio sulla guancia, alla maniera argentina, così come fanno tutti lì, senza formalità, come se ci conoscessimo.
Respiro di nuovo, credo di aver trattenuto il fiato per un po'. Nel mio cappottino alla moda tutta impettita mi rendo conto ancora una volta che "è il cuore che conta".
Decido di far parlare il mio cuore in questo incontro e, come dice Sensei, di stabilire una relazione con l'interlocutore nei primi trenta secondi di dialogo.
Saliamo tre rampe di scale interne, lui davanti a me guizza agilmente fermandosi su ogni piano e affacciandosi in ogni stanza per salutare affettuosamente tutti gli impiegati, finché arriviamo nella sala riunioni, un'accogliente piccola stanza tutta di legno, con molti libri e fotografie, mi chiede di accomodarmi, mi guardo attorno e vedo su uno scaffale un grande libro di fotografie del presidente Ikeda.
Non posso fare a meno di sorridere felice. Mi sembra come se ci fosse anche Sensei in questo incontro, e in effetti c'è.
Sono nell'ufficio di Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace. Sono qui per invitarlo a una conferenza. Mi fa un elenco dei suoi impegni dei prossimi mesi, da una parte all'altra della terra per incontri e convegni. Soprattutto incontri con i giovani, mi dice. «Bisogna trasmettere ai giovani», aggiunge.
Appena gli dico che da qualche anno invitiamo i giovani a partecipare attivamente alle nostre conferenze riconsidera l'invito: «Sì - ripete - è molto importante trasmettere ai giovani».
Chiama la segretaria per studiare l'agenda e capire come inserire la data tra tre conferenze già confermate.
«È un po' difficile - mi dice - sai, ho appena compiuto ottant'anni!». Sorride. Io spalanco gli occhi, mi sembra che ne abbia la metà. Lo stato vitale di un ragazzo.
Iniziamo a parlare dei possibili temi da affrontare nella conferenza, come secondo lui andrebbero trattati, come secondo lui si lotta per la gente, quale deve essere l'impegno dopo l'incontro.
Mentre parla si anima, ed emerge da ogni sua parola e gesto questo spirito indomito, nonostante gli anni di carcere, nonostante le torture, nonostante le vessazioni.
Gli dico di aver letto che è stato appena pubblicato in lingua spagnola il libro La forza della speranza, una raccolta dei suoi dialoghi con Daisaku Ikeda, il mio maestro aggiungo, e che la presentazione avverrà proprio a Buenos Aires.
Gli chiedo come faccia ad avere tanta energia per continuare a lottare per la gente dopo tutto quello che ha passato, come faccia a non perdere la speranza a dispetto delle circostanze.
Mi risponde: «Sai, il titolo del libro lo ha scelto Ikeda, non io, perché per Ikeda è molto chiaro questo concetto della speranza. Questo libro nasce dopo quattro anni di dialogo. Secondo me il giorno in cui si perde la speranza è il giorno in cui una persona è vinta. Sconfitta. C'è bisogno della speranza, c'è bisogno della resistenza. C'è bisogno di spiritualità e di rafforzare la vita interiore. Nessuno può darti quello che non ha. Per questo c'è bisogno di trovare una pace interiore. Bisogna saper ascoltare. Bisogna saper ascoltare il silenzio. Bisogna comprendere che una goccia d'acqua è tutto il mare e che tutto il mare è in una goccia d'acqua. Nel tutto c'è l'uno e l'uno è nel tutto. Questo lo dice anche il tuo maestro - mi dice sorridendo. Noi siamo parte di questo mondo e non siamo proprietari di questa terra. La vita è questo. In quarant'anni di lotta in varie zone, a dispetto delle situazioni ho sempre incontrato un sorriso. Questo è quello che mi ha sempre colpito. Anche nelle zone più difficili e nelle situazioni più tragiche. Se c'è un sorriso c'è speranza».
Mi sorride quest'uomo gentile e forte, negli occhi la determinazione incrollabile di lottare per la gente e di trasmettere ai giovani.
«Io ancora insegno, una volta a settimana - aggiunge. Non bisogna perdere il contatto con i giovani, bisogna dare ai giovani dei temi sui cui possano continuare a lavorare».
Mi saluta calorosamente congedandomi. Nell'altra stanza lo aspettano per il gruppo di dialogo.

Uscendo dall'ufficio scrivo alla segretaria di Roma ringraziandola per essere stata tenace e avere organizzato per me l'incontro. Mi risponde: «Tu eri convinta che ti avrebbe ricevuta, ed è questo che lo ha reso possibile».
Dice il presidente Ikeda, citando Jose Martì:
«Desiderare di voler vincere è di per sé vittoria».

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Aprire la strada

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