Fuori c’è il sole. Dentro l’ombra. Ho sospeso ogni azione, non lavoro oggi, chiudo la porta di casa e mi sento ingabbiata nei gangli di me, l’unica persona con cui passo la vita davvero. Approfondire il senso del “due ma non due” rischia di tirare fuori il senso profondo di resistenza alla mia felicità, l’oscurità. Sembra sia all’esterno, sempre. Guardo fuori, la mia casa, guardo dentro, le mie aspettative e i miei sogni. Non tornano i conti. Tra me e me, nel sottile e leggero ritmare della mia prosa interiore, brusii di gioie si alternano al brusio di delusioni e di rimandi. Dentro-fuori. È proprio vero che la casa, il proprio ambiente, rispecchiano dove sei e io sono in alto mare, in un gioco finto tra il fuori in cui c’è la speranza e un dentro dove ci sono macerie. Mi sembra la giusta metafora per raccontare quanto ho ancora da imparare, nonostante gli oltre vent’anni di pratica. La causa sembra fuori, ma il senso di colpa macina dentro.
Da quando una mia responsabile buddista, forse senza pensarci troppo, mi ha detto che il mio problema era la mia casa, mentre stavo soffrendo con forza per la malattia di mia madre, mi sono chiusa e ho chiuso tutte le porte. Questo, lo vedo bene ora, è proprio essere succubi dell’esterno. Far dipendere la propria vita da quello che viene da fuori, da cosa dicono gli altri, o ancora più subdolamente, non riconoscere che quel fuori ci riguarda. Ho fatto in modo che la mia casa diventasse un posto non frequentabile, così nessuno avrebbe potuto dirmi più niente.
Recito Daimoku e sento netto che tutto questo che sto scrivendo è specchio del mio senso di non amore per me stessa, è l’offesa fondamentale. È aver prestato il fianco al demone che mi ha attaccato proprio lì dove il mio cuore duole, nel non sentirmi amata. Decido di smettere di giudicarmi, fuori e dentro. Per fortuna ho un maestro, ho davvero la certezza, e tante prove me lo dimostrano, che fuori mi serve per guardarmi dentro. Apro al solito un libro di Sensei per cercare un consiglio e trovo una risposta forte e chiara: «La condizione vitale raggiunta dal Budda è tale che nulla e nessuno può fargli del male» (SSDL, 2, 6). Vado alla ricerca di questo.
Riparto ora. Nel Buddismo ho incontrato parole che prima mi sembravano paradossi. “Due ma non due”, un’espressione potente, è stato il cuore a capirla per primo, come si comprende un abbraccio prima di una spiegazione. Siamo diversi, tu ed io – eppure non siamo separati. Il tuo dolore mi parla. La tua gioia mi solleva. Come il mare e l’onda: distinti nella forma, inseparabili nella sostanza. Recitando Nam-myoho-renge-kyo ho imparato che ciò che separa può anche unire. Che il mio cambiamento interiore è un respiro nel mondo. Ogni cosa che accade “fuori” è, in qualche modo misterioso, anche “dentro” di me. Viviamo in tempi che urlano differenze, che spingono a scegliere da che parte stare. Ma io credo che il Buddismo ci inviti a stare al centro. Non nel senso di una neutralità passiva, ma in quello di un cuore vasto, capace di contenere il tutto – l’ombra e la luce, il mio e il tuo, senza volerli più dividere.
Mi abbraccio, senza paura, in un silenzioso senso di appartenenza. Sono pronta. Lentamente riapro la porta di una casa diversa, dove il Gohonzon non è una pergamena individuale ma lo spazio di condivisione del mondo di Buddità. Di tutti, anche del mio. (Ilaria Varriano)