Nella mia infanzia e adolescenza mi sono sempre sentita una pecora nera in qualsiasi circostanza, una diversa. Ho sempre sentito una divisione profondissima tra me e gli altri. Come se questi altri fossero un universo distante e irraggiungibile.
Prima di incontrare il Buddismo, durante i miei studi universitari, mi sono imbattuta nel concetto di Ubuntu, un pensiero nato in seno alla cultura Bantu, nell’Africa subsahariana, e che ha molte traduzioni. Quella che mi ha sempre affascinata è “io sono perché noi siamo”, che somiglia a qualcosa come “sono quello che sono, in virtù di ciò che tutti siamo”. Da questo concetto si è sviluppata un’intera filosofia di cui Nelson Mandela è stato divulgatore.
Ricordo l’emozione che provai la prima volta che lessi sul libro di antropologia questo termine, non riuscivo a spiegarmi il perché ma mi sentii subito avvolta da qualcosa.
Quando poi, nel 2015, ho incontrato il Buddismo, ho scoperto quanto quell’Ubuntu che mi aveva innamorata anni prima fosse connesso con la religione che stavo abbracciando. La non dualità tra il nostro io e quello delle altre persone ha a che fare con la meravigliosa immagine della rete di Indra, secondo cui tutte le vite sono collegate e nessuna persona è mai davvero sola, tutti e tutte abbiamo incisi nel nostro cuore gli incontri che abbiamo fatto, i dialoghi che abbiamo costruito, le sofferenze che ci sono state inflitte, le persone con cui siamo cresciuti o anche solo che abbiamo incrociato per pochi istanti. Io sono perché noi siamo. Ubuntu.
Approfondire questo concetto e sperimentarlo significa sentirsi parte di un’unica grande vita, a partire dalla profonda relazione con nostra madre, che ci ha portati all’interno del suo corpo quando fisicamente eravamo “due ma non due”.
E il nostro venire al mondo quante vite ha cambiato? Nella vita di quante persone c’è un pezzo di noi?
Ciò non significa certo che le nostre singolarità non siano da celebrare, ma significa che il nostro unico modo di essere è strettamente connesso e può fare la differenza nella vita di tutte le persone che incrociamo sulla nostra strada.
E allora sarà bellissimo vedere la nostra vita armonizzarsi con quella delle altre persone, come se fossimo un corpo di ballo dove i ballerini, singolarmente bravissimi, danzano con un unico respiro come se fossero un corpo unico, e se un compagno sbaglia o va fuori tempo qualcuno lo aiuta e recupera al posto suo, perché sono insieme, e insieme sono uno spettacolo. Ne I misteri di nascita e morte il presidente Ikeda scrive: «Nulla e nessuno esiste isolatamente. Ogni entità individuale crea il proprio ambiente, che influenza tutte le altre esistenze. Tutti i fenomeni sono interrelati e si sostengono reciprocamente, formando un cosmo vivente» (Esperia, p. 22).
Possiamo scegliere, dunque, di essere quel ballerino che aiuta il compagno che va fuori tempo, possiamo scegliere di lasciare un pezzo di noi a chiunque incontriamo, perché quello che lasciamo alle altre persone si moltiplicherà, crescerà, e lo ritroveremo, chissà, tra tanti anni, nella vita di uno sconosciuto, che è quello che è perché noi siamo quello che siamo.
(Gabriella Olivieri)