In questi giorni ho ritrovato delle vecchie polaroid relative ai compleanni della mia adolescenza. Osservando quelle immagini, quei ricordi congelati, mi è tornata in mente la piccola me, ancora in costruzione, che guardandosi allo specchio faceva fatica a riconoscere e ad amare l’immagine riflessa.
Mi ricordo anche di un giorno in cui i miei genitori, entrambi praticanti, mi raccontarono di come nel Buddismo parlare di “Budda” era qualcosa che riguardava anche me.
Si, perché “tutte e tutti noi siamo Budda”. Ma cosa significa? Pensai.
«Quando una persona è illusa è chiamata comune mortale, ma una volta illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un gioiello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni derivate dall’oscurità innata della vita è come uno specchio appannato, che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’Illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando Nam-myoho-renge-kyo» (Il conseguimento della Buddità in questa esistenza RSND, 1,3).
Ho letto queste parole di Nichiren quando ero al liceo, un ambiente scolastico duro, in cui continuamente alcuni professori ci dicevano che le infinite ore di studio e l’impegno costante non erano mai abbastanza, perché eravamo «delle patate che non sarebbero mai diventate delle pepite d’oro». E grazie a questo scoraggiamento quotidiano ho iniziato a crederci anche io.
Per fortuna, però, quelle parole del Daishonin iniziarono a scaldare il mio cuore già sconfitto.
Perché “l’oscurità innata della vita” in quel momento era rappresentata dall’idea di non essere abbastanza, di non valere, di essere una persona mediocre. Mentre secondo il Buddismo ognuno e ognuna di noi possiede dentro di sé un potenziale illimitato, un tesoro prezioso che niente e nessuno può portarci via. Perché siamo unici e perfette nella nostra diversità.
Razionalmente lo trovavo un concetto meraviglioso, ma non credevo fosse possibile, almeno non per me. Ma ho deciso di fidarmi. Perché quando si inizia ci fidiamo, sperimentiamo la preghiera, la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo. È stato bellissimo fare Daimoku per riconoscermi, per trovare dentro di me quella stanza libera dall’oscurità, libera da quel pensiero che bloccava la mia crescita, libera di credere che anche io sono un Budda. Ma ancora più meraviglioso è stato scoprire che la porta di quella stanza è sempre accessibile. Ogni volta che, recitando Nam-myoho-renge-kyo, riesco a elevare lo stato vitale e a riconoscere che è possibile decidere chi realmente voglio essere e non lasciare che sia l’ambiente a definirmi.
Daisaku Ikeda scrive: «Essenzialmente, ognuno è un Budda, questa è la nostra “realtà”. La luce della saggezza fa risplendere il mondo di Budda. La nostra Buddità inizia a risplendere quando abbiamo la saggezza di capire che siamo Budda» (SSDL, 1, 442).
Essere Budda è quindi una realtà, ma recitare Nam-myoho-renge-kyo fa emergere la saggezza per guardarci allo specchio e riconoscerlo, per scoprire quel tesoro riflesso.
Ripensandoci, dopo tanti anni, sono fiera di aver creduto alle parole di Nichiren, di essermi fidata e di aver lucidato quello specchio ogni giorno e di continuare a farlo. Perché ora l’immagine riflessa la riconosco e ho imparato a credere in lei, in me.
Non ho più paura di guardarmi, anzi sono felice di poter crescere e migliorare in coerenza con la strada che ho deciso di percorrere; di ripartire sempre da me, domandarmi: oggi chi vuoi vedere allo specchio? (Rossella Maci)