di Maria Lucia De Luca
Riccardo Muti è nato a Napoli il 28 luglio 1941 ed è tra i più richiesti direttori d’orchestra del mondo. È sposato, con tre figli. Dopo gli studi universitari presso la facoltà di Filosofia, si diploma in pianoforte al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli e poi in composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano. Nel 1967 è già vincitore, primo italiano nella storia del concorso, della gara internazionale Guido Cantelli, imponendosi all’attenzione del mondo musicale. Nel ‘68 debutta nella direzione del Maggio Musicale Fiorentino conservandola sino all’80. Nel ‘71 esordisce al Mozart Festival di Salisburgo e da allora la manifestazione austriaca è una sua tappa fissa. Nel ‘72 diventa direttore musicale della Philharmonia Orchestra di Londra e dall’80 al ‘92 svolge lo stesso ruolo presso la Philadelphia Orchestra. Poi, nell’86, è chiamato come direttore musicale al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1988 dirige a Parigi, nella Cattedrale di Notre Dame, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, divenuta insieme a La traviata emblema del Teatro alla Scala nel mondo. Nell’89 nella Cattedrale di Salisburgo esegue sempre la Messa da Requiem in onore di Herbert von Karajan, e nel ‘92 dirige lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini in occasione delle celebrazioni del bicentenario del grande compositore. Nel ‘93 è ancora con la Philharmonia Orchestra per le celebrazioni del cinquecentenario di Colombo e sempre nello stesso anno dirige l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino agli Uffizi.
Il Rigoletto, La traviata, Falstaff, Mefistofele, Così fan tutte, Nabucco, Cavalleria rusticana: sono solo alcune delle celebri opere da lui dirette. Nel gennaio ‘99 il suo debutto sul podio della New York Philharmonic Orchestra riscuote entusiastiche reazioni da parte del pubblico e della critica d’oltreoceano. Nel dicembre 1999 dirige l’orchestra e il coro del Teatro alla Scala di Milano nel Concerto di Natale, nel gennaio 2000 il Concerto di Capodanno da Vienna, e nel luglio dello stesso anno, nel Teatro Bolsciòi di Mosca, la Nona Sinfonia di Beethoven nell’ambito della manifestazione Le vie dell’amicizia del Festival di Ravenna. Per l’inaugurazione dell’ultima stagione del Novecento ha scelto Fidelio di Ludwig van Beethoven. Lo scorso 7 dicembre ha inaugurato la Stagione 2000/2001, dedicata al centenario verdiano, con Il trovatore.
Nel corso degli anni è stato più volte chiamato sul podio dei Berliner Philharmoniker e dei Wiener Philharmoniker, con i quali, in particolare, il rapporto è intenso e significativo. Ospite abituale a Vienna, Riccardo Muti è stato insignito dell’Anello d’Oro, onorificenza da sempre riservata ai massimi direttori d’orchestra. A seguito di un concerto benefico per la raccolta di fondi per il restauro della casa di W. A. Mozart, il Mozarteum di Salisburgo lo ha insignito della medaglia d’argento, che è la massima onorificenza riconosciuta a un interprete mozartiano.
Molto significativa infine la testimonianza del suo impegno civile a capo della Filarmonica e del Coro Filarmonico della Scala in occasione di concerti tenuti in città simbolo della storia contemporanea più travagliata: Sarajevo nel luglio 1997, Beirut nel 1998 e Gerusalemme nel 1999 dove il Maestro ha diretto, nella suggestiva cornice della Piscina del Sultano, la Messa da Requiem: di Verdi.
Milano, primo giorno di primavera 2001. Il centro è pieno di gente, l’aria è tiepida e il sole e il frastuono esterno contrastano con l’oscurità e l’assoluto silenzio della platea: in un teatro alla Scala magico e semivuoto Riccardo Muti sta provando il Falstaff, l’ultima opera di Giuseppe Verdi, che conclude il ciclo delle celebrazioni del centenario verdiano. Ci offre un caffè nel suo camerino, tra le foto dei suoi maestri.
Maestro, quando ha deciso di diventare musicista?
La mia vita di musicista ha origini molto casuali, misteriose forse. Mio padre, che faceva il medico, aveva una bellissima voce da tenore e una grande passione per la lirica. In casa abbiamo sempre ascoltato la musica attraverso la radio oppure dalle bande, che allora erano molto più in auge di adesso. Sebbene ciascuno di noi figli fosse destinato a una professione, come succede nelle famiglie borghesi soprattutto nel sud – uno doveva fare l’architetto, l’altro l’ingegnere, un altro il notaio, un altro il medico; a me sembra che fosse destinata l’avvocatura – i miei genitori, soprattutto mio padre, desideravano che ci fosse insegnata la musica, intesa come disciplina che aiuta la persona a formarsi. Quindi tutti noi cinque fratelli siamo stati in un certo senso obbligati allo studio della musica attraverso il solfeggio e uno strumento.
A me è capitato il violino, per puro caso. In un anno la cui data si perde nelle nebbie, nel giorno di S. Nicola, che corrisponde alla Befana di oggi, ricevetti dei regali. Avevo sette anni e mi aspettavo le solite cose che desiderano i bambini, la pistola ad acqua, il trenino, il fucile di legno, e invece trovai un violino piccolissimo, un due quarti. Il giorno dopo mi fu detto che avrei cominciato lo studio della musica. Rimasi molto sconcertato, perché il tempo da dedicare al violino l’avrei dovuto sottrarre ad altre cose più divertenti.
Come fu questo primo incontro?
I miei inizi sono stati spaventosi, perché rifiutavo decisamente l’impegno a imparare la musica, tant’è vero che sono andato avanti per mesi senza capire come funzionava il pentagramma. Al punto che mio padre si stancò di vedermi così in difficoltà e disse a mia madre: lasciamo perdere, si vede che lui è completamente negato. Vi assicuro, non era il caso della persona di talento che gli altri non riconoscevano, ero veramente negato, non mi interessava. C’era qualcosa in me che si rifiutava di imparare.
Poi per un mistero, dopo mesi di vani tentativi in cui davanti agli insegnanti di solfeggio buttavo le note a casaccio, improvvisamente ho imparato l’ingranaggio. Di colpo una mattina mi sono messo davanti al pentagramma e tutto era chiaro. E da lì, con una velocità incredibile, in poche settimane ho fatto dei progressi straordinari diventando un vero solfeggiatore, capivo anche le combinazioni ritmiche più complicate, le assimilavo immediatamente.
Quando poi mi misero il violino in mano, anche questa volta provai un senso di rigetto. Abitavo in una casa che aveva le finestre su una piazza dove i ragazzi giocavano a pallone, per cui il fatto di passare il pomeriggio con il violino a fare le note lunghe o a imparare a vibrare, sentendo i miei compagni giocare, fu un altro trauma. Che poi superai velocemente perché grazie a un mio insegnante, che è ancora oggi un mio carissimo amico, imparai così in fretta che ben presto si organizzò un concerto.
In un lontano luglio, all’aperto, in uno dei grandi chiostri del seminario pontificio di Molfetta debuttai suonando vari brani di Vivaldi, Curci e altri avendo un successo straordinario con tanto di recensione. Questo avveniva dopo neanche un anno di studi musicali.
E il pianoforte?
Dopo questo successo mi preparai velocemente per sostenere l’esame inferiore di violino a Bari. Proprio in questa occasione l’insegnante mi disse che per avere una preparazione migliore come violinista sarebbe stato meglio studiare anche il pianoforte. Cominciai, e mi innamorai perdutamente di questo strumento perché mi dava la possibilità di non dipendere da nessuno. Con il pianoforte potevo suonare da solo, mentre per il violino avevo bisogno di un accompagnatore, di un altro violinista, di altre persone. Probabilmente per essere sufficiente a me stesso, e forse perché avevo una natura più incline al pianoforte, poco alla volta abbandonai il violino e incominciai a studiare molto intensamente questo nuovo strumento, preparandomi in poco tempo per l’esame del quinto anno, da sostenere al Conservatorio di Bari, allora liceo musicale. Il direttore era Nino Rota, uno straordinario musicista che passava però pochissimo tempo a Bari, perché era spesso impegnato con le musiche dei film di Federico Fellini.
Il giorno degli esami successe una cosa molto strana e importante per il mio futuro: noi privatisti eravamo rimasti per ultimi, si erano fatte le due del pomeriggio sotto il sole tremendo di un luglio barese. A un certo punto vidi entrare un omino saltellante che chiese quante persone dovevano ancora sostenere l’esame. Era Nino Rota. Io avevo una certa paura, non volevo affrontare l’esame in quel momento e proposi di rimandarlo all’indomani. Lui mi disse: «Vieni con me». Mentre gli altri facevano l’esame mi portò in un’altra aula e mi chiese di suonare il brano che avevo preparato, la Polacca in sol diesis minore di Chopin, un pezzo che, seppur contemplato nei programmi del corso di complemento inferiore, nessuno esegue mai perché è di una grandissima difficoltà. La suonai e lui disse: «Tu fai l’esame oggi». Mi diedero dieci e lode. Mi ricorderò sempre che Rota annunciò il voto davanti a tutti dicendomi: «La commissione ha deciso di darti dieci e lode non per come suoni oggi ma per come potrai suonare domani». Su suo consiglio mi iscrissi al Conservatorio di Bari e da lì cominciò il mio martirio, perché iniziai a lavorare senza più smettere. La mattina andavo a scuola a Molfetta – frequentavo il liceo classico – il pomeriggio prendevo il pullman per Bari e la sera tornavo a casa.
Dopo un anno mio padre chiese il trasferimento a Napoli e mia madre, che era napoletanissima, fu molto felice di questa scelta. Ci teneva molto che la famiglia si trasferisse in quella città, considerata la capitale del sud, con una grande università, un conservatorio molto importante… Rota stesso mi presentò al maestro Vincenzo Vitale, un grandissimo caposcuola. La scuola pianistica napoletana risale a Sigmund Thalberg, emulo e rivale di Liszt, sepolto in questa città. La prima statua che si incontra nella Villa Comunale è quella di Thalberg. A Napoli finii il liceo e mi diplomai in pianoforte, anche questa volta con dieci e lode.
Quando ha pensato di intraprendere la carriera di direttore d’orchestra?
Il giorno del diploma Jacopo Napoli, direttore del Conservatorio, mi chiese: «Non vorrei far dirigere il saggio di fine anno a un insegnante. Dal modo in cui suoni il pianoforte credo che tu abbia la mentalità del direttore d’orchestra, non hai mai pensato di dirigere?». Fu un’intuizione. Risposi che non avevo mai neanche studiato composizione. Mi disse: «Non preoccuparti, oggi c’è l’incontro con l’insegnante che ti dice quello che devi fare». La mattina dopo andai a provare con l’orchestra degli allievi. Salii sul podio e dopo dieci secondi mi resi conto che avevo un’estrema naturalezza nel dirigere. Poco dopo l’insegnante telefonò a Jacopo Napoli e gli disse che quel giorno era nato un nuovo direttore. Feci il saggio e l’anno successivo cominciai a studiare composizione e direzione d’orchestra. Mi iscrissi alla classe di armonia principale e nell’arco di un anno conclusi il corso.
Il direttore del Conservatorio chiese poi il trasferimento a Milano e mi propose di seguirlo. Fu indetto il consiglio di famiglia, perché nessuno di noi aveva mai messo piede fuori casa, ma mi dissero di sì. Si cominciava a pensare che forse avevo la natura per fare questo mestiere, così strano per una famiglia come la mia. Mi trasferii a Milano, mi iscrissi alla classe di direzione d’orchestra con Antonino Votto, che era stato il braccio destro di Toscanini dal ‘21 al ‘29 alla Scala, e alla classe di composizione con Bruno Bettinelli. Feci i dieci anni di composizione in metà del tempo e Bettinelli, che è ancora vivo, si ricorda i miei studi di contrappunto. Votto è stato un insegnante fondamentale per me perché non mi ha insegnato, come si fa oggi, alla maniera americana, che rende la direzione d’orchestra una materia scientifica. Se uno studente aveva talento lui dava indicazioni per inquadrare e migliorare alcune cose, ma lasciava esprimere le sue qualità naturalmente, come stabiliva la vecchia scuola italiana. Insisteva invece sullo studio della composizione e sullo studio della lettura della partitura. Uscii dal Conservatorio di Milano molto irrobustito.
Quanto è stato importante il suo incontro con il grande Sviatoslav Richter?
Nel 1967, dopo aver vinto il Concorso Cantelli ebbi due scritture: un concerto a Catania, dove ottenni un grande successo, e poi il Maggio musicale fiorentino, dove fui proposto per accompagnare Sviatoslav Richter. (Indica una foto di Richter appesa nel camerino, accanto a quella di Antonino Votto, e dice: «In questa stanza ci sono le persone fondamentali della mia vita»). Richter accettò, ma chiese di incontrarmi prima. E così, una sera piovigginosa del novembre 1967 fui invitato all’Accademia Chigiana dove il grande pianista avrebbe dovuto suonare: il programma consisteva in un concerto di Mozart e nel Concerto di Britten in cinque movimenti, difficilissimo. Avevo intuito che lui voleva incontrarmi per vedere che musicista ero, e allora mi preparai benissimo. Entrai in un salone dell’Accademia dove c’erano due pianoforti a coda uno accanto all’altro e Richter in piedi vicino a uno dei due. Mi diede la mano e poi mi disse: «Prego, suoni la parte dell’orchestra». Fortunatamente mi ero preparato come solo un meridionale tosto può fare, sapevo che era una questione di attimi. Infatti eseguii l’introduzione del concerto di Mozart e vidi con la coda dell’occhio che Richter cominciava a guardarmi con un certo interesse. Suonammo tutto il concerto di Mozart, lui la parte solistica e io l’orchestra, e poi tutto il concerto di Britten in cinque movimenti. Alla fine si alzò e mi disse: «Se dirigi come suoni, sei un buon direttore». E così accettò.
Dopo il concerto a Firenze l’orchestra del Maggio chiese ufficialmente che diventassi il direttore. E così cominciò tutta la mia storia.
Poi Londra, Filadelfia, La Scala…
A Londra, nel 1972, successe la stessa cosa. Dopo la prova generale del concerto del mio debutto, senza aspettare neanche l’incontro con il pubblico, l’orchestra della Filarmonica di Londra mi richiese come direttore, per succedere al grande Otto Klemperer. E in modo simile andò anche con l’Orchestra Filarmonica di Filadelfia: il direttore Eugene Ormandy, che mi aveva visto di nascosto a Firenze nel 1970 mentre provavo l’oratorio di Beethoven Cristo sul monte degli ulivi con l’orchestra del Maggio, mi invitò. Feci il debutto a Filadelfia, fu un grande successo con il pubblico e con l’orchestra. Da allora venni invitato sempre, prima come direttore principale ospite e poi come direttore musicale, posizione che ho tenuto fino al 1992 con un grande successo discografico, tournée...
Inoltre nel 1971 ero stato invitato da Karajan a dirigere al festival di Salisburgo e alla Filarmonica di Berlino. Da allora ho sempre partecipato a questi eventi, tant’è vero che l’anno scorso a Salisburgo, dove mi hanno dato una altissima onorificenza, ho festeggiato trent’anni di continua presenza al festival.
Poi nell’86 il sovrintendente del Teatro alla Scala Carlo Badini e la commissione dell’orchestra – alcuni di loro, quasi tutti, sono ancora qui – mi chiesero se volevo assumere la direzione succedendo a Claudio Abbado. Esitai molto perché stavo benissimo a Filadelfia, però ritornare in Italia, fare qualcosa di importante per il “teatro del mondo” – per lo meno dal punto di vista lirico – è stata una cosa che mi ha molto stimolato. Ho accettato e ora sono ben quindici anni che sono qui…
Lei è molto amato dal pubblico anche perché ha proposto opere che non venivano eseguite da tanto tempo, tante opere di Verdi.
Il caso dell’assenza della trilogia di Verdi (Rigoletto, Il trovatore e La traviata, ndr) è uno dei misteri di questo teatro, perché nessuno al mondo avrebbe mai pensato che nel teatro alla Scala le opere più popolari di Verdi fossero le meno eseguite. Le ragioni vanno trovate nelle difficoltà di convincere un certo pubblico che alcuni grandi cantanti del passato non esistono più e che quindi si deve cercare oggi di ascoltare le opere con un criterio molto più moderno, di non rimpiangere il passato ma di guardare al futuro e di aiutare il futuro. Trasmettere al pubblico questo punto di vista è stata un’impresa importante, oltre che nei riguardi del repertorio verdiano anche nei confronti di Mozart, Gluck, delle opere neoclassiche di Spontini e Cherubini, del ‘700 napoletano di Pergolesi e Paisiello, del mondo wagneriano, del mondo della Scapigliatura con il Mefistofele di Arrigo Boito, delle opere di Puccini, Leoncavallo, delle opere contemporanee come Le baiser de la fée di Stravinskij o i Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc.
C’è un’opera, un brano, un compositore che preferisce?
No, ci sono degli autori che amo molto, come Mozart, Haydn, Brahms, Beethoven, Schumann, Tchaikovsky. Ma oltre a loro ho una grande passione per Aleksander Skrjabin, di cui ho inciso tutte le sinfonie con l’orchestra di Filadelfia e che ho diretto in molte parti del mondo. Con lui c’è una specie di strana identificazione, non per quel che riguarda la sua decadenza o la sua follia, ma certamente c’è un tormento in questo autore, una volontà di verità che me lo fa sentire molto vicino.
In Italia c’è un po’ la tendenza, a parte Verdi e Mozart, a identificarmi con il mondo neoclassico di Cherubini e di Spontini o di Gluck, rispetto ai quali vengo considerato una specie di direttore ideale. Ma questo è quello che dicono gli altri. Io invece penso che il mio interesse per la musica sia molto vasto. Certamente la purezza di linee e il rigore di questi musicisti me li rende molto vicini, a me che sono stato allevato con una disciplina molto rigorosa, in una famiglia eticamente votata al lavoro. Ciò che ho trasmesso fin da giovanissimo alle orchestre con cui ho lavorato è questa disciplina.
Con gli anni questo mio modo di essere si è un po’ addolcito: prima ero rigorosissimo, quasi non sorridevo mai mentre lavoravo. E non per volontà “ducesca”, ma per aver passato tutta la gioventù studiando, applicandomi, sentendo, per imposizione o per istinto, eticamente importante la posizione dell’individuo di fronte al proprio compito. Adesso col tempo qualcosa si è addolcito, probabilmente sono più incline a volte a sorridere di me e di quello che avviene intorno a me. Forse un segno non di saggezza ma di vecchiaia. Forse un immalinconimento.
Un concetto buddista molto importante è quello di itai doshin, “diversi corpi una sola mente”. Cioè tanti talenti diversi, tante persone diverse, e un unico scopo. Si può applicare questo principio a un’orchestra?
:IMM:Certamente. Io considero le persone che lavorano con me come collaboratori, non come dipendenti o sottoposti. Ogni musicista ha un’idea ben precisa di cos’è il gusto di un’esecuzione, di un’interpretazione. Sono tutti professionisti molto qualificati. Allora perché ci vuole il direttore d’orchestra? Perché altrimenti sarebbe il caos, cento persone che mettono in pratica cento idee diverse. Ci vuole qualcuno che abbia un’idea interpretativa e la trasmetta coinvolgendo gli altri. I musicisti seguono il direttore se la sua idea interpretativa è avvincente. Un musicista ad esempio può non essere d’accordo, spuò pensarla in un altro modo, ma se la visione del direttore è convincente e avvincente, lo segue. Perché per quanto uno lo possa chiedere con severità, il messaggio musicale è un messaggio d’amore. E la trasmissione avviene attraverso l’amore, o quanto meno il rispetto. Se manca l’uno o l’altro è impossibile ottenere risultati, il musicista non trova alcuna rispondenza, nel proprio animo, alla richiesta del direttore. In questo senso la nostra professione è difficilissima, quasi impossibile, va molto al di là della conoscenza della composizione e della partitura. Io preferisco sempre puntare al coinvolgimento, a convincere della bontà di una cosa. L’ideale sarebbe dare la possibilità a ciascuno, nei limiti ovviamente di un’armonia, di dare tutto verso questa idea interpretativa senza annullare se stesso. È un rapporto di estrema delicatezza, con decine di persone di indole e capacità diverse. Un’orchestra è una società e quindi chi dirige deve cercare di mettere insieme, di amalgamare tutti.
È una professione che può essere estremamente facile, banale e vile. Poi comincia a elevarsi e infatti si impara veramente, soprattutto nel rapporto con i musicisti, poco alla volta in tarda età. E quando si è vicini alla morte si sa che non si è imparato abbastanza. È una professione magica, ma purtroppo nel 99 per cento dei casi è un mestiere, e in qualche caso un mestieraccio.
Lei ha suonato a Sarajevo e in tanti altri luoghi martoriati dalla guerra. Dunque la musica può essere messaggera di pace?
Noi abbiamo suonato a Sarajevo, Beirut, Gerusalemme, Mosca. Quest’anno vi sarà un evento molto significativo perché con l’Orchestra Filarmonica della Scala faremo due concerti, uno a Jerevan, la capitale dell’Armenia, e l’altro a Istanbul, la città più rappresentativa della Turchia, con lo scopo di costruire un legame tra due popoli in conflitto da secoli. Un ponte tra Jerevan e Istanbul perché noi, l’orchestra della Scala e il festival di Ravenna, portiamo lo stesso impegno, lo stesso messaggio agli uni e agli altri, accomunandoli nel nostro intento di pace.
Io credo molto nella potenza della musica. Ho molto combattuto nel nostro paese perché la musica avesse una maggiore presenza in tutti i tipi di scuola. Non mi riferisco ai cori di Va’ pensiero o Libiam ne’ lieti calici, ma all’intenzione di avvicinare l’individuo alla conoscenza del messaggio musicale. Lo dice anche Shakespeare: un’umanità senza musica è bestiale. Nel nostro paese si fa ancora molto poco per la musica. C’è un trionfo di tante altre cose che porta a un degrado spirituale dell’umanità, della civiltà. E qui torniamo proprio all’importanza del vostro compito come istituzione buddista, come persone che si dedicano a un percorso spirituale per restituire dignità e valore all’esistenza umana. Il bene comunque in qualche modo va sempre avanti.
Che importanza ha la musica nella formazione dei bambini e dei giovani?
Anche le mucche, si legge sui giornali, sembra che ascoltando Mozart siano più serene e diano più latte, mentre si irrigidiscono sentendo Stravinskij. Ora non voglio dire che bisogna vivere solo di Mozart, anche se si potrebbe vivere solo di Mozart perché nella sua musica, quella sinfonica, cameristica e operistica, c’è il mondo, la vita, il teatro, la scena, la nostra vita come teatro e il teatro inteso come vita.
Io credo che la musica abbia delle influenze estremamente benefiche non solamente sul nostro apparato fisiologico: ci addolcisce, è un’amica, ci accompagna sempre. Anche in macchina, alla radio ci sono delle canzoni che si ascoltano volentieri. Naturalmente c’è musica e musica, ma non sono un fondamentalista: c’è il momento della Messa in si minore di Bach o della nona sinfonia di Beethoven, ci sono alcuni momenti in cui abbiamo bisogno di immergerci nella meditazione profonda e di entrare in contatto con il mondo metafisico o profondamente spirituale; ma c’è anche il momento in cui canzoni che hanno una loro ispirazione, una loro fattura molto ragguardevole possono accompagnarci e allietarci.
La musica fa parte del suono. Sono per istinto sicuro del fatto che l’universo si basa su un’armonia. Questo è ovvio, altrimenti un pianeta andrebbe contro l’altro. C’è un’armonia, e sicuramente un orecchio immenso in grado di sentire il rumore di queste sfere in movimento; un tempo si parlava dell’armonia delle sfere. Certamente il moto dei pianeti e delle stelle produce un suono che noi umani non possiamo percepire, però la nostra musica nasce, come tutto sulla Terra, come imitazione di qualcosa che c’è già nell’universo. Il suono, oltre a essere stato creato come imitazione del canto degli uccelli, è nato come una necessità di elevazione. La parola che si alza verso il canto manifesta il bisogno di sollevarci anche noi, di tendere verso l’alto, verso qualcosa che è fuori di noi, che vogliamo ma non possiamo raggiungere. La musica porta con sé un sentimento di grande nobiltà.
Quindi la musica e la religione, o meglio la musica e la spiritualità sono strettamente legate?
La musica e la spiritualità sono la stessa cosa, perché la musica non ha concretezza, non si vede. Non si tocca. Però ci entra dentro. E un’idea di musica che non tenga presente la trascendenza mi fa molta fatica accettarla. Vengo da una famiglia cattolica, non sono un praticante, però credo in una trascendenza di qualcosa di noi che ci appartiene e che rende me, lei, lui in un certo senso uniti, questo lo sento per istinto. La nostra unione è fatta di forze invisibili – per queste cose non bisognerebbe usare le parole, perché sono una diminuzione di concetti indefinibili. Vi è certamente una forza che fa parte di tutti noi, e penso che faccia parte anche degli animali, delle piante, questa forza vitale che è Dio, che è sopra di noi, attorno a noi, dentro di noi e che ci investe.
Per cui che cosa è la musica? Che cos’è la spiritualità? È un canto a questa forza che abbiamo dentro, e in tal senso il Dio dei cattolici, il Dio degli ebrei e quello dei buddisti è sempre la stessa cosa, perché è l’identificazione di questa grande, immensa, infinita forza che ci ha creato, che ci avvolge e che ci tiene insieme. Nel momento in cui si muore c’è sempre un ultimo sforzo e poi la sensazione di qualcosa che esce, che parte, che va via e si riconduce alla pace, scevro di tutte le miserie che il nostro corpo ci fa vivere, anche nei contatti umani che sono mediati dal nostro organismo, dal nostro essere simpatici e antipatici, belli e brutti, alti e bassi…
In fondo la pace è il ritornare in questa enorme sinfonia cosmica, dove la dignità è tutto, da quello che non si può concepire al giglio che si apre al mattino…
(Si ringrazia Giorgio Di Crosta per la sua preziosa collaborazione)
Riccardo Muti è nato a Napoli il 28 luglio 1941 ed è tra i più richiesti direttori d’orchestra del mondo. È sposato, con tre figli. Dopo gli studi universitari presso la facoltà di Filosofia, si diploma in pianoforte al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli e poi in composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano. Nel 1967 è già vincitore, primo italiano nella storia del concorso, della gara internazionale Guido Cantelli, imponendosi all’attenzione del mondo musicale. Nel ‘68 debutta nella direzione del Maggio Musicale Fiorentino conservandola sino all’80. Nel ‘71 esordisce al Mozart Festival di Salisburgo e da allora la manifestazione austriaca è una sua tappa fissa. Nel ‘72 diventa direttore musicale della Philharmonia Orchestra di Londra e dall’80 al ‘92 svolge lo stesso ruolo presso la Philadelphia Orchestra. Poi, nell’86, è chiamato come direttore musicale al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1988 dirige a Parigi, nella Cattedrale di Notre Dame, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, divenuta insieme a La traviata emblema del Teatro alla Scala nel mondo. Nell’89 nella Cattedrale di Salisburgo esegue sempre la Messa da Requiem in onore di Herbert von Karajan, e nel ‘92 dirige lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini in occasione delle celebrazioni del bicentenario del grande compositore. Nel ‘93 è ancora con la Philharmonia Orchestra per le celebrazioni del cinquecentenario di Colombo e sempre nello stesso anno dirige l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino agli Uffizi.
Il Rigoletto, La traviata, Falstaff, Mefistofele, Così fan tutte, Nabucco, Cavalleria rusticana: sono solo alcune delle celebri opere da lui dirette. Nel gennaio ‘99 il suo debutto sul podio della New York Philharmonic Orchestra riscuote entusiastiche reazioni da parte del pubblico e della critica d’oltreoceano. Nel dicembre 1999 dirige l’orchestra e il coro del Teatro alla Scala di Milano nel Concerto di Natale, nel gennaio 2000 il Concerto di Capodanno da Vienna, e nel luglio dello stesso anno, nel Teatro Bolsciòi di Mosca, la Nona Sinfonia di Beethoven nell’ambito della manifestazione Le vie dell’amicizia del Festival di Ravenna. Per l’inaugurazione dell’ultima stagione del Novecento ha scelto Fidelio di Ludwig van Beethoven. Lo scorso 7 dicembre ha inaugurato la Stagione 2000/2001, dedicata al centenario verdiano, con Il trovatore.
Nel corso degli anni è stato più volte chiamato sul podio dei Berliner Philharmoniker e dei Wiener Philharmoniker, con i quali, in particolare, il rapporto è intenso e significativo. Ospite abituale a Vienna, Riccardo Muti è stato insignito dell’Anello d’Oro, onorificenza da sempre riservata ai massimi direttori d’orchestra. A seguito di un concerto benefico per la raccolta di fondi per il restauro della casa di W. A. Mozart, il Mozarteum di Salisburgo lo ha insignito della medaglia d’argento, che è la massima onorificenza riconosciuta a un interprete mozartiano.
Molto significativa infine la testimonianza del suo impegno civile a capo della Filarmonica e del Coro Filarmonico della Scala in occasione di concerti tenuti in città simbolo della storia contemporanea più travagliata: Sarajevo nel luglio 1997, Beirut nel 1998 e Gerusalemme nel 1999 dove il Maestro ha diretto, nella suggestiva cornice della Piscina del Sultano, la Messa da Requiem: di Verdi.
Milano, primo giorno di primavera 2001. Il centro è pieno di gente, l’aria è tiepida e il sole e il frastuono esterno contrastano con l’oscurità e l’assoluto silenzio della platea: in un teatro alla Scala magico e semivuoto Riccardo Muti sta provando il Falstaff, l’ultima opera di Giuseppe Verdi, che conclude il ciclo delle celebrazioni del centenario verdiano. Ci offre un caffè nel suo camerino, tra le foto dei suoi maestri.
Maestro, quando ha deciso di diventare musicista?
La mia vita di musicista ha origini molto casuali, misteriose forse. Mio padre, che faceva il medico, aveva una bellissima voce da tenore e una grande passione per la lirica. In casa abbiamo sempre ascoltato la musica attraverso la radio oppure dalle bande, che allora erano molto più in auge di adesso. Sebbene ciascuno di noi figli fosse destinato a una professione, come succede nelle famiglie borghesi soprattutto nel sud – uno doveva fare l’architetto, l’altro l’ingegnere, un altro il notaio, un altro il medico; a me sembra che fosse destinata l’avvocatura – i miei genitori, soprattutto mio padre, desideravano che ci fosse insegnata la musica, intesa come disciplina che aiuta la persona a formarsi. Quindi tutti noi cinque fratelli siamo stati in un certo senso obbligati allo studio della musica attraverso il solfeggio e uno strumento.
A me è capitato il violino, per puro caso. In un anno la cui data si perde nelle nebbie, nel giorno di S. Nicola, che corrisponde alla Befana di oggi, ricevetti dei regali. Avevo sette anni e mi aspettavo le solite cose che desiderano i bambini, la pistola ad acqua, il trenino, il fucile di legno, e invece trovai un violino piccolissimo, un due quarti. Il giorno dopo mi fu detto che avrei cominciato lo studio della musica. Rimasi molto sconcertato, perché il tempo da dedicare al violino l’avrei dovuto sottrarre ad altre cose più divertenti.
Come fu questo primo incontro?
I miei inizi sono stati spaventosi, perché rifiutavo decisamente l’impegno a imparare la musica, tant’è vero che sono andato avanti per mesi senza capire come funzionava il pentagramma. Al punto che mio padre si stancò di vedermi così in difficoltà e disse a mia madre: lasciamo perdere, si vede che lui è completamente negato. Vi assicuro, non era il caso della persona di talento che gli altri non riconoscevano, ero veramente negato, non mi interessava. C’era qualcosa in me che si rifiutava di imparare.
Poi per un mistero, dopo mesi di vani tentativi in cui davanti agli insegnanti di solfeggio buttavo le note a casaccio, improvvisamente ho imparato l’ingranaggio. Di colpo una mattina mi sono messo davanti al pentagramma e tutto era chiaro. E da lì, con una velocità incredibile, in poche settimane ho fatto dei progressi straordinari diventando un vero solfeggiatore, capivo anche le combinazioni ritmiche più complicate, le assimilavo immediatamente.
Quando poi mi misero il violino in mano, anche questa volta provai un senso di rigetto. Abitavo in una casa che aveva le finestre su una piazza dove i ragazzi giocavano a pallone, per cui il fatto di passare il pomeriggio con il violino a fare le note lunghe o a imparare a vibrare, sentendo i miei compagni giocare, fu un altro trauma. Che poi superai velocemente perché grazie a un mio insegnante, che è ancora oggi un mio carissimo amico, imparai così in fretta che ben presto si organizzò un concerto.
In un lontano luglio, all’aperto, in uno dei grandi chiostri del seminario pontificio di Molfetta debuttai suonando vari brani di Vivaldi, Curci e altri avendo un successo straordinario con tanto di recensione. Questo avveniva dopo neanche un anno di studi musicali.
E il pianoforte?
Dopo questo successo mi preparai velocemente per sostenere l’esame inferiore di violino a Bari. Proprio in questa occasione l’insegnante mi disse che per avere una preparazione migliore come violinista sarebbe stato meglio studiare anche il pianoforte. Cominciai, e mi innamorai perdutamente di questo strumento perché mi dava la possibilità di non dipendere da nessuno. Con il pianoforte potevo suonare da solo, mentre per il violino avevo bisogno di un accompagnatore, di un altro violinista, di altre persone. Probabilmente per essere sufficiente a me stesso, e forse perché avevo una natura più incline al pianoforte, poco alla volta abbandonai il violino e incominciai a studiare molto intensamente questo nuovo strumento, preparandomi in poco tempo per l’esame del quinto anno, da sostenere al Conservatorio di Bari, allora liceo musicale. Il direttore era Nino Rota, uno straordinario musicista che passava però pochissimo tempo a Bari, perché era spesso impegnato con le musiche dei film di Federico Fellini.
Il giorno degli esami successe una cosa molto strana e importante per il mio futuro: noi privatisti eravamo rimasti per ultimi, si erano fatte le due del pomeriggio sotto il sole tremendo di un luglio barese. A un certo punto vidi entrare un omino saltellante che chiese quante persone dovevano ancora sostenere l’esame. Era Nino Rota. Io avevo una certa paura, non volevo affrontare l’esame in quel momento e proposi di rimandarlo all’indomani. Lui mi disse: «Vieni con me». Mentre gli altri facevano l’esame mi portò in un’altra aula e mi chiese di suonare il brano che avevo preparato, la Polacca in sol diesis minore di Chopin, un pezzo che, seppur contemplato nei programmi del corso di complemento inferiore, nessuno esegue mai perché è di una grandissima difficoltà. La suonai e lui disse: «Tu fai l’esame oggi». Mi diedero dieci e lode. Mi ricorderò sempre che Rota annunciò il voto davanti a tutti dicendomi: «La commissione ha deciso di darti dieci e lode non per come suoni oggi ma per come potrai suonare domani». Su suo consiglio mi iscrissi al Conservatorio di Bari e da lì cominciò il mio martirio, perché iniziai a lavorare senza più smettere. La mattina andavo a scuola a Molfetta – frequentavo il liceo classico – il pomeriggio prendevo il pullman per Bari e la sera tornavo a casa.
Dopo un anno mio padre chiese il trasferimento a Napoli e mia madre, che era napoletanissima, fu molto felice di questa scelta. Ci teneva molto che la famiglia si trasferisse in quella città, considerata la capitale del sud, con una grande università, un conservatorio molto importante… Rota stesso mi presentò al maestro Vincenzo Vitale, un grandissimo caposcuola. La scuola pianistica napoletana risale a Sigmund Thalberg, emulo e rivale di Liszt, sepolto in questa città. La prima statua che si incontra nella Villa Comunale è quella di Thalberg. A Napoli finii il liceo e mi diplomai in pianoforte, anche questa volta con dieci e lode.
Quando ha pensato di intraprendere la carriera di direttore d’orchestra?
Il giorno del diploma Jacopo Napoli, direttore del Conservatorio, mi chiese: «Non vorrei far dirigere il saggio di fine anno a un insegnante. Dal modo in cui suoni il pianoforte credo che tu abbia la mentalità del direttore d’orchestra, non hai mai pensato di dirigere?». Fu un’intuizione. Risposi che non avevo mai neanche studiato composizione. Mi disse: «Non preoccuparti, oggi c’è l’incontro con l’insegnante che ti dice quello che devi fare». La mattina dopo andai a provare con l’orchestra degli allievi. Salii sul podio e dopo dieci secondi mi resi conto che avevo un’estrema naturalezza nel dirigere. Poco dopo l’insegnante telefonò a Jacopo Napoli e gli disse che quel giorno era nato un nuovo direttore. Feci il saggio e l’anno successivo cominciai a studiare composizione e direzione d’orchestra. Mi iscrissi alla classe di armonia principale e nell’arco di un anno conclusi il corso.
Il direttore del Conservatorio chiese poi il trasferimento a Milano e mi propose di seguirlo. Fu indetto il consiglio di famiglia, perché nessuno di noi aveva mai messo piede fuori casa, ma mi dissero di sì. Si cominciava a pensare che forse avevo la natura per fare questo mestiere, così strano per una famiglia come la mia. Mi trasferii a Milano, mi iscrissi alla classe di direzione d’orchestra con Antonino Votto, che era stato il braccio destro di Toscanini dal ‘21 al ‘29 alla Scala, e alla classe di composizione con Bruno Bettinelli. Feci i dieci anni di composizione in metà del tempo e Bettinelli, che è ancora vivo, si ricorda i miei studi di contrappunto. Votto è stato un insegnante fondamentale per me perché non mi ha insegnato, come si fa oggi, alla maniera americana, che rende la direzione d’orchestra una materia scientifica. Se uno studente aveva talento lui dava indicazioni per inquadrare e migliorare alcune cose, ma lasciava esprimere le sue qualità naturalmente, come stabiliva la vecchia scuola italiana. Insisteva invece sullo studio della composizione e sullo studio della lettura della partitura. Uscii dal Conservatorio di Milano molto irrobustito.
Quanto è stato importante il suo incontro con il grande Sviatoslav Richter?
Nel 1967, dopo aver vinto il Concorso Cantelli ebbi due scritture: un concerto a Catania, dove ottenni un grande successo, e poi il Maggio musicale fiorentino, dove fui proposto per accompagnare Sviatoslav Richter. (Indica una foto di Richter appesa nel camerino, accanto a quella di Antonino Votto, e dice: «In questa stanza ci sono le persone fondamentali della mia vita»). Richter accettò, ma chiese di incontrarmi prima. E così, una sera piovigginosa del novembre 1967 fui invitato all’Accademia Chigiana dove il grande pianista avrebbe dovuto suonare: il programma consisteva in un concerto di Mozart e nel Concerto di Britten in cinque movimenti, difficilissimo. Avevo intuito che lui voleva incontrarmi per vedere che musicista ero, e allora mi preparai benissimo. Entrai in un salone dell’Accademia dove c’erano due pianoforti a coda uno accanto all’altro e Richter in piedi vicino a uno dei due. Mi diede la mano e poi mi disse: «Prego, suoni la parte dell’orchestra». Fortunatamente mi ero preparato come solo un meridionale tosto può fare, sapevo che era una questione di attimi. Infatti eseguii l’introduzione del concerto di Mozart e vidi con la coda dell’occhio che Richter cominciava a guardarmi con un certo interesse. Suonammo tutto il concerto di Mozart, lui la parte solistica e io l’orchestra, e poi tutto il concerto di Britten in cinque movimenti. Alla fine si alzò e mi disse: «Se dirigi come suoni, sei un buon direttore». E così accettò.
Dopo il concerto a Firenze l’orchestra del Maggio chiese ufficialmente che diventassi il direttore. E così cominciò tutta la mia storia.
Poi Londra, Filadelfia, La Scala…
A Londra, nel 1972, successe la stessa cosa. Dopo la prova generale del concerto del mio debutto, senza aspettare neanche l’incontro con il pubblico, l’orchestra della Filarmonica di Londra mi richiese come direttore, per succedere al grande Otto Klemperer. E in modo simile andò anche con l’Orchestra Filarmonica di Filadelfia: il direttore Eugene Ormandy, che mi aveva visto di nascosto a Firenze nel 1970 mentre provavo l’oratorio di Beethoven Cristo sul monte degli ulivi con l’orchestra del Maggio, mi invitò. Feci il debutto a Filadelfia, fu un grande successo con il pubblico e con l’orchestra. Da allora venni invitato sempre, prima come direttore principale ospite e poi come direttore musicale, posizione che ho tenuto fino al 1992 con un grande successo discografico, tournée...
Inoltre nel 1971 ero stato invitato da Karajan a dirigere al festival di Salisburgo e alla Filarmonica di Berlino. Da allora ho sempre partecipato a questi eventi, tant’è vero che l’anno scorso a Salisburgo, dove mi hanno dato una altissima onorificenza, ho festeggiato trent’anni di continua presenza al festival.
Poi nell’86 il sovrintendente del Teatro alla Scala Carlo Badini e la commissione dell’orchestra – alcuni di loro, quasi tutti, sono ancora qui – mi chiesero se volevo assumere la direzione succedendo a Claudio Abbado. Esitai molto perché stavo benissimo a Filadelfia, però ritornare in Italia, fare qualcosa di importante per il “teatro del mondo” – per lo meno dal punto di vista lirico – è stata una cosa che mi ha molto stimolato. Ho accettato e ora sono ben quindici anni che sono qui…
Lei è molto amato dal pubblico anche perché ha proposto opere che non venivano eseguite da tanto tempo, tante opere di Verdi.
Il caso dell’assenza della trilogia di Verdi (Rigoletto, Il trovatore e La traviata, ndr) è uno dei misteri di questo teatro, perché nessuno al mondo avrebbe mai pensato che nel teatro alla Scala le opere più popolari di Verdi fossero le meno eseguite. Le ragioni vanno trovate nelle difficoltà di convincere un certo pubblico che alcuni grandi cantanti del passato non esistono più e che quindi si deve cercare oggi di ascoltare le opere con un criterio molto più moderno, di non rimpiangere il passato ma di guardare al futuro e di aiutare il futuro. Trasmettere al pubblico questo punto di vista è stata un’impresa importante, oltre che nei riguardi del repertorio verdiano anche nei confronti di Mozart, Gluck, delle opere neoclassiche di Spontini e Cherubini, del ‘700 napoletano di Pergolesi e Paisiello, del mondo wagneriano, del mondo della Scapigliatura con il Mefistofele di Arrigo Boito, delle opere di Puccini, Leoncavallo, delle opere contemporanee come Le baiser de la fée di Stravinskij o i Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc.
C’è un’opera, un brano, un compositore che preferisce?
No, ci sono degli autori che amo molto, come Mozart, Haydn, Brahms, Beethoven, Schumann, Tchaikovsky. Ma oltre a loro ho una grande passione per Aleksander Skrjabin, di cui ho inciso tutte le sinfonie con l’orchestra di Filadelfia e che ho diretto in molte parti del mondo. Con lui c’è una specie di strana identificazione, non per quel che riguarda la sua decadenza o la sua follia, ma certamente c’è un tormento in questo autore, una volontà di verità che me lo fa sentire molto vicino.
In Italia c’è un po’ la tendenza, a parte Verdi e Mozart, a identificarmi con il mondo neoclassico di Cherubini e di Spontini o di Gluck, rispetto ai quali vengo considerato una specie di direttore ideale. Ma questo è quello che dicono gli altri. Io invece penso che il mio interesse per la musica sia molto vasto. Certamente la purezza di linee e il rigore di questi musicisti me li rende molto vicini, a me che sono stato allevato con una disciplina molto rigorosa, in una famiglia eticamente votata al lavoro. Ciò che ho trasmesso fin da giovanissimo alle orchestre con cui ho lavorato è questa disciplina.
Con gli anni questo mio modo di essere si è un po’ addolcito: prima ero rigorosissimo, quasi non sorridevo mai mentre lavoravo. E non per volontà “ducesca”, ma per aver passato tutta la gioventù studiando, applicandomi, sentendo, per imposizione o per istinto, eticamente importante la posizione dell’individuo di fronte al proprio compito. Adesso col tempo qualcosa si è addolcito, probabilmente sono più incline a volte a sorridere di me e di quello che avviene intorno a me. Forse un segno non di saggezza ma di vecchiaia. Forse un immalinconimento.
Un concetto buddista molto importante è quello di itai doshin, “diversi corpi una sola mente”. Cioè tanti talenti diversi, tante persone diverse, e un unico scopo. Si può applicare questo principio a un’orchestra?
:IMM:Certamente. Io considero le persone che lavorano con me come collaboratori, non come dipendenti o sottoposti. Ogni musicista ha un’idea ben precisa di cos’è il gusto di un’esecuzione, di un’interpretazione. Sono tutti professionisti molto qualificati. Allora perché ci vuole il direttore d’orchestra? Perché altrimenti sarebbe il caos, cento persone che mettono in pratica cento idee diverse. Ci vuole qualcuno che abbia un’idea interpretativa e la trasmetta coinvolgendo gli altri. I musicisti seguono il direttore se la sua idea interpretativa è avvincente. Un musicista ad esempio può non essere d’accordo, spuò pensarla in un altro modo, ma se la visione del direttore è convincente e avvincente, lo segue. Perché per quanto uno lo possa chiedere con severità, il messaggio musicale è un messaggio d’amore. E la trasmissione avviene attraverso l’amore, o quanto meno il rispetto. Se manca l’uno o l’altro è impossibile ottenere risultati, il musicista non trova alcuna rispondenza, nel proprio animo, alla richiesta del direttore. In questo senso la nostra professione è difficilissima, quasi impossibile, va molto al di là della conoscenza della composizione e della partitura. Io preferisco sempre puntare al coinvolgimento, a convincere della bontà di una cosa. L’ideale sarebbe dare la possibilità a ciascuno, nei limiti ovviamente di un’armonia, di dare tutto verso questa idea interpretativa senza annullare se stesso. È un rapporto di estrema delicatezza, con decine di persone di indole e capacità diverse. Un’orchestra è una società e quindi chi dirige deve cercare di mettere insieme, di amalgamare tutti.
È una professione che può essere estremamente facile, banale e vile. Poi comincia a elevarsi e infatti si impara veramente, soprattutto nel rapporto con i musicisti, poco alla volta in tarda età. E quando si è vicini alla morte si sa che non si è imparato abbastanza. È una professione magica, ma purtroppo nel 99 per cento dei casi è un mestiere, e in qualche caso un mestieraccio.
Lei ha suonato a Sarajevo e in tanti altri luoghi martoriati dalla guerra. Dunque la musica può essere messaggera di pace?
Noi abbiamo suonato a Sarajevo, Beirut, Gerusalemme, Mosca. Quest’anno vi sarà un evento molto significativo perché con l’Orchestra Filarmonica della Scala faremo due concerti, uno a Jerevan, la capitale dell’Armenia, e l’altro a Istanbul, la città più rappresentativa della Turchia, con lo scopo di costruire un legame tra due popoli in conflitto da secoli. Un ponte tra Jerevan e Istanbul perché noi, l’orchestra della Scala e il festival di Ravenna, portiamo lo stesso impegno, lo stesso messaggio agli uni e agli altri, accomunandoli nel nostro intento di pace.
Io credo molto nella potenza della musica. Ho molto combattuto nel nostro paese perché la musica avesse una maggiore presenza in tutti i tipi di scuola. Non mi riferisco ai cori di Va’ pensiero o Libiam ne’ lieti calici, ma all’intenzione di avvicinare l’individuo alla conoscenza del messaggio musicale. Lo dice anche Shakespeare: un’umanità senza musica è bestiale. Nel nostro paese si fa ancora molto poco per la musica. C’è un trionfo di tante altre cose che porta a un degrado spirituale dell’umanità, della civiltà. E qui torniamo proprio all’importanza del vostro compito come istituzione buddista, come persone che si dedicano a un percorso spirituale per restituire dignità e valore all’esistenza umana. Il bene comunque in qualche modo va sempre avanti.
Che importanza ha la musica nella formazione dei bambini e dei giovani?
Anche le mucche, si legge sui giornali, sembra che ascoltando Mozart siano più serene e diano più latte, mentre si irrigidiscono sentendo Stravinskij. Ora non voglio dire che bisogna vivere solo di Mozart, anche se si potrebbe vivere solo di Mozart perché nella sua musica, quella sinfonica, cameristica e operistica, c’è il mondo, la vita, il teatro, la scena, la nostra vita come teatro e il teatro inteso come vita.
Io credo che la musica abbia delle influenze estremamente benefiche non solamente sul nostro apparato fisiologico: ci addolcisce, è un’amica, ci accompagna sempre. Anche in macchina, alla radio ci sono delle canzoni che si ascoltano volentieri. Naturalmente c’è musica e musica, ma non sono un fondamentalista: c’è il momento della Messa in si minore di Bach o della nona sinfonia di Beethoven, ci sono alcuni momenti in cui abbiamo bisogno di immergerci nella meditazione profonda e di entrare in contatto con il mondo metafisico o profondamente spirituale; ma c’è anche il momento in cui canzoni che hanno una loro ispirazione, una loro fattura molto ragguardevole possono accompagnarci e allietarci.
La musica fa parte del suono. Sono per istinto sicuro del fatto che l’universo si basa su un’armonia. Questo è ovvio, altrimenti un pianeta andrebbe contro l’altro. C’è un’armonia, e sicuramente un orecchio immenso in grado di sentire il rumore di queste sfere in movimento; un tempo si parlava dell’armonia delle sfere. Certamente il moto dei pianeti e delle stelle produce un suono che noi umani non possiamo percepire, però la nostra musica nasce, come tutto sulla Terra, come imitazione di qualcosa che c’è già nell’universo. Il suono, oltre a essere stato creato come imitazione del canto degli uccelli, è nato come una necessità di elevazione. La parola che si alza verso il canto manifesta il bisogno di sollevarci anche noi, di tendere verso l’alto, verso qualcosa che è fuori di noi, che vogliamo ma non possiamo raggiungere. La musica porta con sé un sentimento di grande nobiltà.
Quindi la musica e la religione, o meglio la musica e la spiritualità sono strettamente legate?
La musica e la spiritualità sono la stessa cosa, perché la musica non ha concretezza, non si vede. Non si tocca. Però ci entra dentro. E un’idea di musica che non tenga presente la trascendenza mi fa molta fatica accettarla. Vengo da una famiglia cattolica, non sono un praticante, però credo in una trascendenza di qualcosa di noi che ci appartiene e che rende me, lei, lui in un certo senso uniti, questo lo sento per istinto. La nostra unione è fatta di forze invisibili – per queste cose non bisognerebbe usare le parole, perché sono una diminuzione di concetti indefinibili. Vi è certamente una forza che fa parte di tutti noi, e penso che faccia parte anche degli animali, delle piante, questa forza vitale che è Dio, che è sopra di noi, attorno a noi, dentro di noi e che ci investe.
Per cui che cosa è la musica? Che cos’è la spiritualità? È un canto a questa forza che abbiamo dentro, e in tal senso il Dio dei cattolici, il Dio degli ebrei e quello dei buddisti è sempre la stessa cosa, perché è l’identificazione di questa grande, immensa, infinita forza che ci ha creato, che ci avvolge e che ci tiene insieme. Nel momento in cui si muore c’è sempre un ultimo sforzo e poi la sensazione di qualcosa che esce, che parte, che va via e si riconduce alla pace, scevro di tutte le miserie che il nostro corpo ci fa vivere, anche nei contatti umani che sono mediati dal nostro organismo, dal nostro essere simpatici e antipatici, belli e brutti, alti e bassi…
In fondo la pace è il ritornare in questa enorme sinfonia cosmica, dove la dignità è tutto, da quello che non si può concepire al giglio che si apre al mattino…
(Si ringrazia Giorgio Di Crosta per la sua preziosa collaborazione)