La nostra pratica promette grandi traguardi. Trasformazioni e rivoluzioni. Commoventi ricompense e conquiste inimmaginabili, di fronte alle quali, di primo acchito, possiamo ritenerci molto male equipaggiati. Posso scalare una montagna a piedi nudi?
Eppure, la chiave di accesso a tali imprese non consiste nel dotarsi di capacità speciali da acquisire chissà come, quanto piuttosto in
un processo di sottrazione.
Ne La raccolta degli insegnamenti orali si legge: «La parola “benefici” (kudoku) indica la ricompensa rappresentata dalla purificazione dei sei organi di senso. […] L’elemento ku […] si riferisce ai meriti ottenuti eliminando il male, mentre l’elemento toku o doku si riferisce alla virtù che si acquisisce operando il bene» (BS, 118, 52).
Eliminare il male e far emergere il bene: ecco di cosa è fatto il beneficio.
Niente a che vedere con rinunce, ascesi, ridimensionamenti di aspettative: è piuttosto uno sgombrare il campo dai rumori di fondo che disturbano la ricerca di sintonia con la vita profonda.
Quel “purificare i sensi” corrisponde così a liberare gli organi e la mente da tutto ciò che fa da ostacolo, come quei pensieri che continuiamo a produrre, spesso involontariamente, che ci riparano dall’ignoto ma ci impediscono di procedere verso la nostra meta: tristezze che sembrano destino, convinzioni persistenti sulle nostre incapacità e mancanze. Il Buddismo le chiama ignoranza o oscurità fondamentale.
«Non credere, dubitare dell’esistenza della natura di Budda in noi e negli altri [...] è la causa fondamentale che impedisce al mondo di Buddità di emergere […]. Sradicare questo dubbio e far emergere il mondo di Buddità è la legge causale più importante che rende possibile cambiare il karma» (D. Ikeda, MDG, 455).
Quando di fronte al Gohonzon ci accingiamo all’impresa più emozionante che c’è, andare a cercare la nostra natura più vera, lì dobbiamo lasciare gli ingombri. Non si scala una ripida montagna con uno zaino pesantissimo ripieno di ogni cosa… Molto meglio salire in leggerezza confidando che all’arrivo si troverà calore e cibo in abbondanza, e panorami e pensieri nuovi che non avremmo mai potuto portare con noi.
A ben guardare questo togliere è l’azione che sta alla base dell'affidarsi al Gohonzon: quel tuffo sotto la superficie di ciò che già sappiamo e controlliamo per attingere all’energia che ci trascende come esseri prevedibili, esseri dei nove mondi. Come quando una preoccupazione o una sofferenza smettono di ostacolarci, di essere “demoni”, e diventano preghiera. Allora finiamo di angosciarci per far emergere un altro stato vitale: ecco che in quel momento si realizza un “operare il bene” al suo massimo grado di espressione. Si capisce allora perché la nostra pratica è una religione e non una filosofia di vita: per sperimentare quell’energia che travalica il limite del solito ovvio spazio vitale ci vuole trascendenza [vale a dire quel passaggio – che si realizza al nostro interno – che ci porta oltre l’ambito di ciò che possiamo sperimentare senza la preghiera].
E ci vuole fede: la fiducia che in quell’oltre ci aspetta la risposta alle nostre domande più vere, la cura per le nostre ferite più inconfessabili, la ricompensa che non ci sogniamo più di poter meritare. (Marina Marrazzi)