Gli esseri umani non possono diventare adulti da soli, hanno bisogno del sostegno dei genitori, ma anche di insegnanti, amici e in generale di altre figure di riferimento per continuare a svilupparsi. Questa realtà richiama il concetto di “origine dipendente” che, nella visione buddista, rende evidente che nessuno diventa quello che è senza l’interazione con gli altri che ha intorno, e dà grande valore alla qualità delle interrelazioni. In particolare la qualità di “genitore” nel Buddismo ha un’importanza fondamentale, poiché è una delle tre virtù del Budda, insieme a quelle di “sovrano” e “maestro”, e ha come caratteristica intrinseca la compassione, che Nichiren paragona spesso all’amore incondizionato di una madre. La genitorialità, secondo il Buddismo, è quindi una relazione tra esseri umani che si prendono cura di altri esseri umani non necessariamente legati da vincoli parentali.
Anche dal punto di vista psicologico la genitorialità è un’attitudine che non coincide necessariamente con la maternità e la paternità biologiche, ma è una parte fondante della personalità individuale, che inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco si interiorizzano i comportamenti, le aspettative e i desideri dei nostri genitori e delle altre figure adulte significative che si sono occupate di noi. Si tratta di uno spazio mentale e soprattutto relazionale in cui convergono la nostra storia affettiva, i legami, il senso dell’esistenza, il sentirsi parte di una storia, la capacità di contenere e regolare gli stati emotivi, la disposizione a cambiare, in un processo che può variare e rimodellarsi nel tempo.
Ovviamente l’evento della nascita di un figlio, di una figlia, attiva in un modo particolare e intenso questo spazio mentale e relazionale.
Secondo Erik Erikson, psicologo e psicoanalista statunitense, la fase più importante del processo evolutivo della genitorialità è quella che lui definisce “generatività”, che implica tutto ciò che fa dell’essere umano un individuo che si “occupa di”. Questa condizione, propria della maturità, è caratterizzata dalla virtù della “cura”, la cui mancanza rinchiude l’individuo in una concentrazione esclusiva su di sé che porta a un senso di stagnazione. La generatività, in tale concezione, è una forma d’impegno che si esprime nel prendersi cura delle persone, delle cose e delle idee, ed è anzitutto la preoccupazione di creare e dirigere una nuova generazione. Vi sono persone che concentrano questo impulso, di carattere eminentemente sociale e culturale, non (o non solo) sui propri figli, ma su altri interessi altruistici e creativi. Per dirla con le parole di Antonella Polimeni, attuale rettrice dell’Università Sapienza di Roma: «Cura è una parola che può avere tante declinazioni. Io […] ho visto crescere in me la cura come atto di responsabilità, cura della cosa pubblica e cura delle istituzioni» (M. N. De Luca, S. Fiori, Le appassionate, Feltrinelli, 2025, p. 174).
La capacità genitoriale, quindi, riguarda la disponibilità ad allargare il proprio spazio vitale e in ultima analisi ha che fare con l’altruismo, la generosità e la visione del domani, come scrive Daisaku Ikeda: «Far crescere le nuove generazioni significa creare un futuro nuovo. Attendo con impazienza di vedere i vivaci contributi che i giovani uomini e le giovani donne forniranno in ogni campo della società» (BS, 200).
Forse la genitorialità è un comportamento di speranza infinita.
(a cura di Maria Lucia De Luca e Vanessa Donaggio)