Quando rifletto sul mio percorso di genitore penso a qualcosa che è nato dentro di me grazie alla relazione formata con il Buddismo di Nichiren, con il maestro Daisaku Ikeda e con i miei genitori. Ho compreso che esserlo non ha a che fare con l’avere o meno figli, ma con la capacità di desiderare la mia felicità insieme a quella degli altri in un equilibrio nuovo, umano, profondo.
Infatti è stato solo nel 2007, a 26 anni, pochi mesi dopo aver iniziato a praticare, che ho percepito un desiderio netto, pulito, mai provato prima: essere padre. Sono gay da sempre e non riuscivo a comprendere, con la mente, che sarei potuto essere padre, davvero.
Ma nel tempo, accompagnando la mia vita e le mie scelte con il Daimoku, grazie alle varie attività e responsabilità nella Soka Gakkai che mi portavano a sostenere e incoraggiare gli altri membri, era come se la genitorialità avesse cominciato a guidare ogni aspetto della mia vita, che ne fossi consapevole o meno. Molto prima di diventare padre ha allargato la mia visione del mondo, permettendomi di apprezzare la gratitudine verso me stesso e le mie radici. Mi ha anche portato ad accettare le condizioni – se così vogliamo chiamarle – di una società a volte limitante, con ciò che io chiamo “profonda comprensione”. Mi ha insegnato che la gratitudine di poter fare la mia rivoluzione umana è il fondamento di un movimento sano di trasformazione, che non forza il cambiamento ma accoglie e venera l’esistenza nel presente.
Nel 2013 ho incontrato Claudio e nel novembre 2015 ci siamo trasferiti nel Regno Unito, ufficialmente per un’offerta di lavoro ricevuta da lui. Dal mio punto di vista, però, si apriva una nuova luce: vivevamo in un paese in cui essere genitori per persone dello stesso sesso, o per single di qualunque orientamento, era legale da molti anni. Dopo il primo periodo di assestamento decidemmo di muovere i primi passi in quella direzione. All’inizio, guidati soprattutto da me, intraprendemmo la strada della gestazione assistita, ma alla fine ci fermammo.
E guardammo all’adozione.
Facemmo un primo corso introduttivo. Era tanta la paura e tanti gli incontri con i responsabili del percorso. Ci fu assegnata un’assistente sociale che ci accompagnò per otto mesi: parlò con noi ogni settimana, a volte insieme, a volte in sessioni individuali. Rivivemmo tutta la nostra vita, dovemmo raccontare tutto, anche le cose più intime. Lo facemmo con serenità.
Ottenemmo l’idoneità a febbraio 2022.
Dopo l’estate arrivò una prima telefonata, ma la cosa non andò in porto. Qualche settimana dopo arrivò un’altra chiamata: insieme a un maschietto e una femminuccia, una bambina dal nome curioso si era affacciata nella nostra vita. Decidemmo per lei. Fummo approvati dalla sua assistente sociale. Eravamo i suoi genitori, non l’avevamo mai vista.
Passarono i mesi e a gennaio il medico ci comunicò alcuni presunti problemi di salute. Ricordo che le antiche paure fecero capolino: «Sarò in grado?». Ero spaventato. Ma quel legame, anche se invisibile, anche se ancora non ci eravamo incontrati, si era già instaurato. Con Claudio dicemmo: «È nel nostro diritto tirarci indietro se non ce la sentiamo, ma… it’s either her or nobody else [o lei o nessun’altra]».
Fu anche grazie a questa frase, nella fase finale del processo di adozione davanti alla commissione, che venimmo approvati come i nuovi genitori della nostra piccola e grande Joy.
Joy è entrata nella nostra vita dopo un lungo cammino, è l’effetto visibile di un percorso invisibile. Il nome Sachie, scelto da Sensei, in giapponese può significare “Colei che porta felicità”. Lui non sapeva che avevamo già pensato per lei a un nome con un significato simile.
A volte leggo commenti di persone contrarie o favorevoli alla gestazione per altri. È un crimine? Non lo è? Da più di un anno dirigo un dipartimento a livello mondiale e mi capita di affrontare tematiche di questo genere con colleghi di tutto il mondo. A volte mi sento libero di parlare della mia genitorialità, a volte meno. Ma, nonostante questo, non mi sento limitato, anzi mi sento baciato dalla fortuna. Poterne parlare in un contesto mondiale mi fa sentire diverso, nel senso di “portatore di qualcosa di raro”.
Penso che il tema della genitorialità tra persone dello stesso sesso, così come da parte di tutte le minoranze – perché nel Regno Unito tutti possono adottare – sia un tema complesso. Se non avessi incontrato il Buddismo e percepito che l’essere padre rappresentava l’opportunità della mia vita per trasformare me stesso e diventare felice insieme agli altri, forse sarei caduto nell’errore di vedere i limiti imposti dalla società solo come una privazione dei miei diritti.
Per me, invece, è stata l’occasione per guardare in faccia la realtà, soffrirne, e prendere sul serio la possibilità che questo Buddismo mi ha offerto: trasformare la mia vita da dentro. Essere gay, essere stato costretto a cambiare paese, a imparare una nuova lingua, ad affrontare la sofferenza della distanza – non solo fisica ma anche emotiva – tutto questo fa parte del mio cammino.
E poi penso all’adozione, questo percorso davvero particolare che stiamo vivendo. Joy esisteva già. Ha dei genitori biologici. Ha avuto dei genitori affidatari per undici mesi. E poi ha incontrato noi. E penso, ogni giorno, che se non avessi detto “sì” quel giorno, la vita di Joy, la mia e quella di Claudio forse non si sarebbero mai incrociate.
Penso al futuro che ci attende. Sono preoccupato a volte. Soffrirà? Soffriremo? Cerco ogni giorno di rimanere ancorato alla sola certezza che ho: andrò avanti insieme al mio maestro passo dopo passo, cercando di essere un buon marito, un buon padre e soprattutto un buon amico verso di me.
Quando ci si allena, dentro di sé, ad accogliere la vita, a proteggerla, a sostenerla, allora si diventa genitori. Non serve un certificato, non servono condizioni perfette. Serve un cuore che decide, ogni giorno, di abbracciare la responsabilità della felicità propria e altrui. Per questo credo profondamente di essere diventato padre nel 2007, quando ho abbracciato il Buddismo. Joy non ha fatto che rendere visibile qualcosa che già esisteva. (Matteo Pisani)