BS 200 / 1 maggio 2020

Gongyo, pratica assidua

Una cerimonia solenne che spalanca le porte al tesoro nascosto nella nostra interiorità

Quando un essere umano celebra questa cerimonia rivela la fonte di un'inesauribile energia vitale che fa emergere saggezza, compassione e coraggio. Anche senza capire esattamente il significato delle parole, la voce attraverso il tempo e lo spazio raggiunge tutti i Budda

Tornare ogni giorno alla sorgente


Gongyo significa “pratica assidua”.
E consiste nella recitazione di due capitoli del Sutra del Loto e del Daimoku.
In quel momento lo spazio in cui siamo, che sia vasto e prezioso o minuscolo e angusto, diventa il luogo che trascende ogni luogo. Il tempo si sospende, si dilata, si allarga a dismisura e potenzialmente diventiamo una cosa sola con l’universo.
Siamo nella Cerimonia nell’aria. E lì possiamo rivelare uno stato vitale nel quale osservare l’universo intero dal punto in cui ci troviamo. Ecco la bellezza: qualunque punto è il punto giusto per noi. Non ce n’è uno migliore per spostarsi e cambiare e aiutare gli altri e le altre a farlo.
Lì, in quel momento, quella scrittura vive.
Vive attraverso la nostra voce, vive attraverso la postura del corpo, vive con la nostra attenzione a quello che sta accadendo.
Gongyo è l’attenzione alla vita, scandita in ideogrammi.
È il nostro personale dialogo con l’universo.
Il nostro “a tu per tu” con l’infinito.
«Durante Gongyo celebriamo una cerimonia di lode al Gohonzon e alla grande Legge di Nam-myoho-renge-kyo. Si potrebbe dire che Gongyo è un inno alla Legge fondamentale dell’universo e al Budda. Allo stesso tempo lodiamo anche la vita eterna dell’universo e il mondo di Buddità inerente alla nostra vita» (Daisaku Ikeda, I capitoli Hoben e Juryo, Esperia, 2018, p. 12).
La recitazione di Gongyo e Daimoku è il cuore pulsante della nostra pratica buddista. Cuore pulsante perché parte tutto da lì, da quel gesto spontaneo e rivoluzionario di una vita che celebra la vita e si rinnova. Una vita che ogni giorno torna al punto di partenza, alla sorgente, e ricomincia da capo.
«Recitare Gongyo e Daimoku è il segreto per ritornare ogni giorno al mondo di kuon ganjo e ripartire da questo eterno punto originale» (Ibidem, p. 224).
Un’azione ripetuta eppure sempre nuova. È l’accensione del “motore principale”, per usare le parole del maestro.Cambia la percezione delle cose, le illumina al loro vero significato.
Ci sono circostanze estreme in cui chiunque, anche se non crede in alcunché, vorrebbe pregare. Quando accadono cose che lasciano senza fiato o quando abbiamo paura.
Ricordo una volta una passeggiata lungo la via Vandelli, sulle Alpi Apuane, passeggiata molto impegnativa che apriva però poi lo sguardo a un paesaggio mozzafiato. Su una cima che spalancava da una parte a una piana e dall’altra al mare. Lì un amico disse: «Ecco, ora proprio ora, mi piacerebbe credere in qualcosa per poter pregare. Pregare e ringraziare».
Bene noi abbiamo l’opportunità di andare lì sempre.
Ogni giorno.
Nella vita che scorre liscia ma anche quando qualcosa ci si para davanti inattesa. Come sta accadendo ora per l’emergenza sanitaria del coronavirus. Che interrompe un flusso che credevamo infinito. Spaventa e spacca. Rompe le attese.
Sospensione dei ritmi quotidiani, paure improvvise, dolore, scenari mutati in un tempo che non si sa definire. Il vuoto.
La pienezza del vuoto.
Un vuoto che si può riempire di rinascite.
«Per capirci meglio: quando, ancor oggi, gli esseri umani si trovano di fronte a un improvviso disastro naturale, si sentono minacciati o si trovano nella più disperata e terribile delle situazioni, istintivamente desiderano protezione per sé e per i propri cari. Quando un simile desiderio è molto concentrato diventa una preghiera, un atto fuori dalla logica o dalla razionalità, che anzi trascende questa dimensione. La preghiera è un momento nel quale si esprimono i desideri e le speranze più forti e pressanti che vivono in noi e si desidera con forza la loro realizzazione» (Preghiera e azione, Esperia, 2019, p. 3).
«Gongyo è un’azione quotidiana con la quale rendiamo i nostri cuori e le nostre menti puri e pronti a qualunque cosa la vita ci presenti» (Ibidem, p. 6).
Certe volte è un sussurro gentile all’universo, altre una voce tonante che afferma. Ma sempre, sempre, dobbiamo ricordarci che mentre facciamo Gongyo stiamo esprimendo una cerimonia di lode alla vita.
Noi siamo parte dell’universo eppure non ce ne accorgiamo. Non ci accorgiamo neppure del filo infinito e continuo che ci lega a ogni fenomeno. E che ogni fenomeno è parte di qualcosa di più grande.
Per comprenderlo serve qualcosa. Serve la fede.
«Fede vuol dire avere eterna speranza, è il segreto di una realizzazione personale senza limiti, il vero principio fondamentale dello sviluppo umano» (Ibidem, p. 1).
Serve la fiducia incrollabile e, per questo commovente, che la cerimonia che celebriamo ogni mattina e ogni sera di fronte al Gohonzon è la chiave della felicità autentica.
Quella che non si ferma a noi.
Ma oltrepassa, attraversa, incanta e illumina.

(Gianna Mazzini)

 

Alcune domande su Gongyo


Perché nella cerimonia di Gongyo recitiamo sia due brani del Sutra del Loto sia il Daimoku?

La recitazione del Daimoku, Nam-myoho-renge-kyo, è la “pratica primaria” mentre la lettura dei capitoli Espedienti (giapp. Hoben) e Durata della vita (giapp. Juryo) è la “pratica di supporto”. Il ventiseiesimo patriarca Nichikan spiega la relazione tra la pratica primaria e quella di supporto paragonandole rispettivamente al cibo e al condimento. Il Daimoku è il riso, fonte primaria del nutrimento, e Gongyo è il condimento che ne esalta il sapore. Il vantaggio che deriva dalla pratica primaria è immenso. La pratica di supporto ha la funzione di accrescere e di accelerare il potere benefico della pratica primaria.
Anche all’epoca del Daishonin i suoi seguaci leggevano e recitavano questi due brani. In un Gosho egli scrive: «Fra tutti i ventotto capitoli, i capitoli Espedienti e Durata della vita sono particolarmente importanti. Tutti gli altri sono come loro rami e foglie. Ti consiglio quindi nella tua pratica giornaliera di leggere le parti in prosa dei capitoli Espedienti e Durata della vita» (La recitazione dei capitoli “Espedienti” e “Durata della vita”, RSND, 1, 63).
In un altro famoso scritto Nichiren afferma: «Sia che tu invochi il nome del Budda, che reciti il sutra o semplicemente offra fiori e incenso, tutte le tue azioni virtuose metteranno nella tua vita buone radici e benefici» (Il conseguimento della Buddità in questa esistenza, RSND, 1, 4). Commentando questo passo, Ikeda scrive: «“Invocare il nome del Budda” significa recitare il Daimoku di Nam-myoho-renge-kyo, il nome del Budda originale Nichiren Daishonin. “Recitare il sutra” significa fare Gongyo, cioè leggere i capitoli Hoben e Juryo del Sutra del Loto, che incarna l’essenza di tutti gli insegnamenti buddisti. Non solo Gongyo e Daimoku, ma tutte le nostre azioni per la causa del Buddismo e di kosen-rufu, per quanto possano sembrare insignificanti, si imprimono come buone cause nella nostra vita» (Buddismo oggi, Esperia, 1991, vol. 1, p. 139).

Come si dovrebbe recitare Gongyo?

Scrive il presidente Ikeda in Preghiera e azione (Esperia, 2019): «Per godere di buona salute e realizzare giorno dopo giorno un grande progresso dovete fare Gongyo vigorosamente, mattina e sera […] con attenzione e senza fretta» (pp. 15-17). «Per vivere una giornata gioiosa con il vostro obiettivo chiaro in mente, al mattino fate Gongyo con profonda concentrazione» (p. 33).
Bisognerebbe inoltre considerare la recitazione di Gongyo come una cerimonia preziosa e importante, da svolgere con grande solennità.
«Gongyo è una cerimonia solenne. Quando un essere umano celebra questa cerimonia è come se spalancasse le porte al tesoro nascosto nella sua interiorità, rivelando la fonte dell’energia vitale, altrimenti sopita nei più reconditi recessi dell’essere. In questo modo è possibile far sgorgare un’inesauribile fonte di saggezza, compassione e coraggio» (Ibidem, p. 11).

Perché dobbiamo recitare mattina e sera?

Gongyo è un’azione quotidiana con la quale ci prepariamo per affrontare la giornata. Il Daishonin spiega che ogni carattere, ogni ideogramma di Gongyo è un Budda. Recitando con questa consapevolezza possiamo dare grande solennità a questa cerimonia, possiamo davvero decidere come andrà l’intera giornata.
Uno degli aspetti fondamentali della pratica di Gongyo è la costanza. La traduzione letterale della parola Gongyo chiarisce bene questo aspetto. Gon significa “impegnarsi con costanza", e gyo “pratica”. Potremmo tradurre l’intera espressione con “pratica assidua”. Alla luce di questo significato, espressioni come «faccio Gongyo ogni tanto» risultano totalmente contraddittorie.

Che senso ha fare Gongyo se non si capisce il significato delle parole che recitiamo?

«Un neonato che succhia il latte dalla propria madre ne riceve dei benefici – scrive al proposito il presidente Ikeda –, e questo succede senza conoscere nulla della composizione del latte. Lo stesso principio è valido per quanto riguarda la recitazione del Daimoku e la cerimonia di Gongyo. Naturalmente è meglio arrivare a capirne il significato, ma solo perché questo ci può aiutare a rafforzare la nostra fiducia nella Legge mistica; tuttavia, se questa comprensione non si accompagna alla pratica, rimane senza valore: è difficile abbracciare pienamente il significato profondo della Legge mistica esclusivamente attraverso un percorso razionale. […] Quindi, anche se non si capisce appieno il significato letterale di ciò che si sta dicendo, le voci, attraverso il tempo e lo spazio, raggiungono tutti i Budda, i bodhisattva e le divinità buddiste, cioè le funzioni protettive intrinseche nella vita e nell’universo e, benché in maniera invisibile, l’intero universo si attiva per realizzare le nostre preghiere» (Ibidem, pp. 12-13).

Se siamo troppo stanchi o malati dobbiamo comunque fare Gongyo?

«Quando siete ammalati – spiega Ikeda – non è necessario sforzarsi di fare a tutti i costi un Gongyo completo. Se questo sforzo irragionevole dovesse far peggiorare le vostre condizioni, anziché produrre un beneficio potrebbe arrecare un danno e annullare la gioia della fede. In alcuni casi va bene limitarsi a recitare solo Daimoku. Il Buddismo è ragione: perciò ogni persona dovrà giudicare con saggezza cosa è meglio fare affinché il Gongyo sia sempre una pratica gioiosa» (I capitoli Hoben e Juryo, Esperia, 2018, p. 9).
«La cosa essenziale è abbracciare il Gohonzon con tutta la propria vita e non abbandonarlo mai. […]. È buona cosa sfidarsi in piccoli ma continui miglioramenti: è importante sviluppare una “fede come l’acqua che scorre”, senza sosta e tranquillamente, come un fiume che diventa pian piano sempre più grande fino a quando si ricongiunge all’immenso oceano» (Preghiera e azione, p. 14 e seguenti).

Cosa succede se saltiamo Gongyo?

«Se si coltiva la fede nel Gohonzon non ci sarà alcun genere di punizione o conseguenza negativa per un motivo di questo genere, quindi vi prego di stare tranquilli. Il Daishonin ha affermato che anche un solo Daimoku contiene benefici infiniti. […] La pratica non è un obbligo, ma un diritto. Il Gohonzon non vi chiederà mai di recitare ma, più vi sforzate nella fede, facendo Gongyo e recitando Daimoku, più potrete ottenere dalla vita. […] Il Buddismo è nato per liberare le persone, non per obbligarle» (Ibidem).

(a cura di Lodovico Prola)


Dal diario del giovane Ikeda


Talvolta leggendo le esperienze dal nostro maestro, Daisaku Ikeda, può capitare di pensare che le abbia realizzate per una sua specifica peculiarità, che noi non abbiamo. Eppure studiando la sua vita comprendiamo che le nostre fragilità le ha vissute anche lui. Anche lui ha faticato a praticare correttamente, a essere costante. Anche lui ha impiegato tempo a imparare Gongyo. Lo racconta nel Diario giovanile (Esperia, 2019). È il 1949 quando inizia a scriverlo. Ha ventun anni ed è trascorso un anno e mezzo dall’incontro con il suo maestro Josei Toda. Da allora, per 11 anni, fino al 1960 il giovane Daisaku annota i suoi pensieri. «Le mie condizioni fisiche sono piuttosto malandate. La salute prima di tutto. Gongyo è l’unico mezzo per migliorarla», scrive il 4 dicembre del 1949 mentre la tubercolosi lo tormenta. L’anno successivo va a vivere da solo e racconta: «La signora che abita accanto a me mi ha ripreso perché ho fatto Gongyo tardi la notte disturbando le altre persone che dormivano». La guerra è finita da poco. Uragani e nubifragi si abbattono sul Giappone. L’economia è in crisi e il cibo scarseggia. Ma Ikeda non molla. A gennaio del 1951 affina i suoi obiettivi e tra questi c’è: «Portare avanti una pratica costante di Gongyo mattina e Gongyo sera». Il mese successivo lo ribadisce: «Sono giunto alla conclusione che l’unica cosa che posso fare è […] non trascurare mai la pratica di Gongyo perché è la forza trainante per tutte le attività della nostra vita». Le sue condizioni fisiche non accennano a migliorare e allora rilancia: «Devo fare Gongyo mattina e Gongyo sera in modo completo e corretto, perché è solo così che posso comprendere chiaramente la causa del mio problema». Ogni avvenimento della sua vita lo riconduce alla pratica. Anche quando sogna: «Un incubo mi ha svegliato. Un sogno di morte. […] Sto riflettendo seriamente sulla mia incapacità di fare un Gongyo perfetto». I primi benefici si manifestano: «Mi sembra – scrive – di essere in salute e di buon umore […] Non devo trascurare Gongyo». Nonostante gli costi fatica, non retrocede: «Gongyo mattina è veramente un momento cruciale perché determina la vittoria o la sconfitta della giornata, se questo nostro giorno di vita sarà un giorno di prosperità o di declino». Nel frattempo muoiono il suo maestro e il suo papà. Pochi giorni prima della nomina a terzo presidente della Soka Gakkai, tra le sue ultime determinazioni annota: «Baserò tutto su Gongyo». Da allora il Buddismo è fiorito in 192 paesi del mondo. Grazie Sensei!

(Maria Cristina Fraddosio)

buddismoesocieta.org