Partecipano Maria Lucia De Luca, Mirko Lugli, Rossella Maci, Marina Marrazzi, della redazione di Buddismo e società
Quanto si discostano il pensiero occidentale e le sue declinazioni concrete dal concetto buddista fondante di “due ma non due”? Quanto questo concetto può diventare un principio di trasformazione della realtà?
Vinicio: La prima considerazione è che senz’altro è ancora valida la distinzione tra l’atteggiamento, o la mentalità, occidentale e quella orientale – una distinzione che rimonta all’antichità. A sostegno possiamo richiamare alcuni capisaldi della tradizione classica. Il primo che viene citato sempre è Aristotele, con il famoso principio “non è possibile che una cosa sia e al tempo stesso non sia”, un principio di logica distintiva ma anche di conoscenza e di giudizio, cioè di approccio alla realtà e al mondo. Un concetto che passa anche nella cultura latina come indirizzo militare, politico, pratico e anche di vita, espresso dal celeberrimo detto “divide et impera”. Con il diffondersi del Cristianesimo, al giudizio distintivo, si è rafforzato il giudizio per distinzione gerarchica: non solo, orizzontalmente, una cosa diversa dall’altra, ma anche, verticalmente, una cosa superiore o inferiore rispetto all’altra. Questo modo di pensare e giudicare è arrivato fino ai nostri giorni.
In tanti modi viene rappresentata la differenza con l’Oriente. Trovo, tra i più immediati e più belli, e anche più efficaci per la loro semplicità e capacità comunicativa, quanto in poche righe dice Rabindranath Tagore nel libro Sadhana. La realizzazione della vita, quando distingue l’origine della civilizzazione occidentale da quella indiana (e per estensione da quella orientale): la civiltà occidentale si è sviluppata nelle città e quindi tra mura che hanno stabilito divisioni, sviluppato un approccio della differenza, della diffidenza, del sospetto verso l’altro, e anche una vocazione al dominio cioè all’allargamento delle proprie mura e proprietà verso la realtà esterna; e questo ha dato l’impronta a una modalità di intendere il compimento della vita come acquisizione, come “avere”, cioè aumentare la capacità di possesso, di controllo, di dominio. In India, per contro, la civilizzazione si è sviluppata nelle foreste, immersi nella natura, a contatto con le forze e le diverse forme di vita, e questo ha creato subito un senso non solo di legame profondo, e quindi di coappartenenza, ma anche un senso di impegno a mantenere un equilibrio per non danneggiare la natura, per poi non ricevere danni, di conseguenza, dalla natura stessa. E, così, nella cultura indiana, per estensione nelle civilizzazioni orientali, ha preso piede l’idea che la realizzazione ha a che fare con la capacità di creare armonia. Quindi, non l’aumento nell’avere ma l’aumento nell’essere.
Dobbiamo però dire che la dialettica Oriente/Occidente è cambiata molto negli ultimi secoli: soprattutto negli ultimi decenni, con il processo di mondializzazione è aumentato enormemente il movimento dei popoli rendendo le nostre società sempre più multiculturali, multietniche, e ciò comporta una potenziale sensibilità e apertura verso le altre culture. La stessa diffusione del nostro Buddismo in Europa e in Occidente, come in Italia, è segno che c’è una vocazione nell’Occidente stesso a una forma di pensiero, di approccio, diverso, nuovo rispetto a quello della tradizione: la ricerca di una sintonia con l’essere, con gli altri, con l’ambiente. Si tratta di un lento ma progressivo avvicinamento anche reciproco, perché siamo in un contesto che diversi interpreti qualificano come “occidentalizzazione del mondo” (Tokyo assomiglia un po’ a New York, per certi versi), che porta a una sorta di compenetrazione tra queste due dimensioni.
Abbiamo tanti elementi di avvicinamento, non dobbiamo cadere nella trappola di distinguere troppo nettamente. Prima ho citato Aristotele col principio distintivo, ma possiamo citare ancora prima Eraclito con il principio secondo cui “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”, che rivela l’idea della esistenza di qualcosa che è e contemporaneamente non è, perché il mutamento la trasforma di continuo. Oppure pensiamo all’esperienza dei mistici, come il più famoso Meister Eckhart: un coglimento della realtà essenziale attraverso un’esperienza spirituale simile a un’estasi.
Quanto il concetto di “due ma non due” può diventare un principio di trasformazione della realtà? Il principio di non dualità nel Buddismo di Nichiren Daishonin disegna un quadro ricco, complesso, un affresco molto ampio e importante che riguarda le dieci non dualità (vedi box in fondo).
È chiaro che non significa semplicemente aderire a questi dieci codici, bensì incarnarli nella pratica, e ciò consiste nel fare esperienza di kyochi-myogo, la fusione di realtà oggettiva e saggezza soggettiva, fare esperienza della manifestazione della saggezza del Budda nella realtà concreta, e quindi è un potenziale immenso di trasformazione. Questo implica senz’altro che il principio di non dualità sia inteso dal punto di vista della pratica religiosa, ma non vuol dire che chi non crede, chi non pratica, usando questo principio non avrà benefici.
Perché questo principio ha un valore su diversi terreni.
Dal punto di vista dottrinale è un concetto stratificato nella cultura indiana più antica che poi si è trasferito a diverse scuole buddiste cambiando di senso e di accezione. Il termine sanscrito è advaita, ed è alla base di una certa tradizione dei Veda, quindi dell’Induismo.
In termini scientifici il principio di non dualità porta enormi benefici. Infatti oggi tanti scienziati guardano al Buddismo e alle tradizioni orientali, pensate ad esempio alla scuola della neurofenomenologia, dove biologi e filosofi hanno cercato, proprio nel pensiero orientale e particolarmente nella tradizione buddista ampia, concetti chiave per aiutare a comprendere il legame tra mente e cervello e la complessità dell’umano. Oppure pensiamo all’Ottocento, alla scoperta della psicosomatica: se, da un lato, dobbiamo riconoscere di dovere a Cartesio la capacità, avendo separato mente e corpo, di individuare fisicamente il luogo delle malattie e di fare una diagnostica esatta proprio in base al metodo del guardare al dato evidente, da un altro lato, la psicosomatica rivela non solo come questa distinzione mentale corporale sia artificiale, ma come risulti, in definitiva, controproducente per la medicina stessa. E oggi tanta medicina va in questa direzione.
Il beneficio che la scienza può trarre da un approccio di tipo non dualista sarebbe innanzitutto l’abbandono del radicalismo, dell’atteggiamento razionale ed empirico, cioè dal formulare leggi solo da quello che si osserva, da quel che si misura. Questo già accade, pensiamo alla fisica teorica, ad esempio, che cerca di interpretare speculativamente fenomeni che non sono osservabili/misurabili. Il secondo beneficio è l’interdisciplinarità. Abbiamo assistito nell’ultimo cinquantennio alla differenziazione dei saperi, addirittura alla iperspecializzazione, e oggi ci si accorge invece che c’è bisogno della collaborazione delle discipline perché i fenomeni, in quanto complessi, non si spiegano sulla base dei singoli saperi. È chiaro che questo beneficio della scienza porta al pluralismo delle prospettive.
È così anche per la filosofia, che si sta sempre più aprendo al dialogo con le scienze. Dall’approccio a una concezione non dualista verrebbe il beneficio dell’approccio pluralista – evitare le polarizzazioni, le contrapposizioni e via discorrendo – e verrebbe anche un atteggiamento di rinuncia all’analisi troppo razionalizzante. C’è anche una robusta tradizione filosofica che ha per tanto tempo coltivato il filosofare in forme non interamente razionali, tra ragione e fede, ad esempio. Pensiamo ai filosofi cristiani che hanno irrobustito considerevolmente la tradizione filosofica occidentale.
Cosa ne pensate voi di questo quadro? Vi torna?
Maria Lucia: Sì mi torna. Ad esempio con la scoperta della fisica quantistica gli scienziati si sono trovati di fronte a qualcosa che funziona, che si usa, ma di cui non c’è ancora una spiegazione definitiva. E la teoria dei quanti si basa su una non-dualità conclamata, ossia il principio di indeterminazione di Heisenberg (secondo cui non è possibile misurare contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella elementare, perché effettuando una delle due misure lo stato della particella si modifica). C’è quindi un continuo approfondimento scientifico ma anche filosofico dello sguardo su qualcosa che c’è ma che non necessariamente si può spiegare.
Ma noi pensavamo anche al principio della non-dualità come strumento di trasformazione della società.
Vinicio: A livello sociale effettivamente la riflessione si può integrare, perché non è un punto di poco conto. E sarei curioso di sentire il vostro feedback, particolarmente dai più giovani, perché la situazione sociale contemporanea è molto complessa e dare una sintesi non è facile e occorre farlo con cautela. Grossomodo possiamo dire questo: siamo in un’epoca in cui a livello planetario domina un ordinamento di tipo democratico basato sul modello del liberalismo, cioè l’idea che le democrazie debbano rispettare i diritti delle persone, il vissuto delle persone, e in linea generale non impongono uno stile di vita ai cittadini ma riconoscono che c’è un diritto individuale di realizzare la propria vita. Dalla Rivoluzione francese in poi questo è l’orientamento del liberalismo nelle democrazie, che però oggi è sotto attacco. Intanto per la deriva del cosiddetto neo-liberalismo, la spinta a esaltare la politica economica e quindi i grandi mercati, addirittura a farli funzionare in autonomia rispetto agli organismi dei governi dando mano libera alla logica del profitto.
Dall’altro c’è la deriva autoritaria dei governi, il che vuol dire che si sta lottando contro l’istituzione stessa della democrazia perché si disconoscono organi di controllo come il Parlamento, si chiedono azioni di governo più rapide, pieni poteri per i ministri, eccetera eccetera.
A questo discorso si lega un’altra dinamica parallela e intrecciata: dal Secondo dopoguerra ha preso sempre più piede un modo di partecipazione alla vita democratica caratterizzato dalle lotte per il riconoscimento dei diritti civili, lotte per la pace, lotte per l’ambiente, lotte per il riconoscimento dei diritti gender, lotte delle minoranze etniche… Questo ha creato un movimento molto importante e ha trasformato anche la società, rafforzando il senso della dignità e del valore individuale. Al tempo stesso, anche qui si va profilando una criticità: tendiamo a vivere dentro democrazie dove sembra indebolirsi il senso di responsabilità verso la cosa comune, verso quello che dobbiamo preservare come comunità e come società. Tende a dominare un forte investimento sul proprio gruppo, sui propri interessi: i gruppi particolaristici lottano per l’affermazione dei propri diritti, per essere riconosciuti, e questo diventa il modo di realizzare la partecipazione politica. È comprensibile, ma contemporaneamente c’è il rischio di arrivare al disconoscimento del valore comune, del bene sociale. Ecco: l’approccio non dualista mirerebbe invece a dare importanza tanto alla dignità del singolo individuo e dei singoli gruppi quanto al valore e alla dignità degli altri, tanto alla dignità del bene del singolo quanto alla dignità del bene comune.
E quindi è uno strumento di una forza enorme per favorire quell’orientamento che il nostro maestro, in particolare nelle Proposte di pace, ha sempre messo in evidenza. Grazie a idee come la cittadinanza globale ad esempio, o all’idea della trasformazione multiculturale della società, si possono costruire forme come il modello degli scambi culturali, il modello dell’amicizia, il modello della lode reciproca, ovviamente fondate su questi nostri principi buddisti che sono un valore effettivo, uno strumento potente per trasformare la società. Perché, invece, più noi mettiamo l’accento sulle differenze e più costruiamo muri e creiamo nemici, generiamo conflitti e favoriamo la frammentazione del mondo. Non so se questo quadro vi torna.
Rossella: Quest’ultimo argomento mi ha fatto riflettere su come anch’io nella mia quotidianità sono impegnata in determinate campagne sociali in modo importante, in prima linea, però effettivamente mi rendo conto che tra me e i miei i coetanei, anche loro molto attivi, c’è un po’ questo andarsi a specializzare su singoli argomenti o su temi che ci stanno a cuore, perdendo senza rendercene conto l’idea di diventare cittadini globali che include tutto, come appunto sottolinea spesso Sensei.
Mirko: In questi giorni, approfondendo questo principio, ho riflettuto su come la non dualità si possa compiere pienamente solo nell’azione. Finché resta un costrutto teorico, una chiave di lettura della vita o dei fenomeni, rimane incompleta. Solo quando riusciamo a tradurla in pratica prende realmente forma. E la prima azione attraverso cui possiamo incarnare questo principio è il dialogo. Nel dialogo tra me e l’altro – “due” soggetti distinti – un elemento essenziale è l’ascolto. È proprio nell’ascolto autentico e attento che si manifesta il “non due”, e si sprigiona quella forza trasformativa che il dialogo può generare.
Vinicio: Grazie, sono d’accordo, sono osservazioni molto profonde.
Maria Lucia: Il fatto che non è solo “non due” ma anche “due” significa avere la consapevolezza che l’altro è davvero altro da te. Per me questo è un concetto fondamentale, non pensare che l’altro sia uguale a me. E quindi ogni volta che mi metto in relazione con qualcuno devo rispettare questa dualità, in una relazione dinamica in cui si cresce insieme. Da questo punto di vista la nostra comunità ci aiuta molto, perché generalmente ci ritroviamo con persone che non abbiamo scelto prima, è davvero una buona palestra.
Vinicio: È davvero così, tante persone, tante situazioni noi le incontriamo grazie alle esperienze che facciamo nella nostra organizzazione, che anche per questo è straordinaria. Quando questo diventa una pratica quotidiana, uno stile di vita, perché legato alle nostre attività, allora si creano legami veri. Noi, poi, portiamo fuori questo modo di fare, anche inconsapevolmente, e diventa una trasformazione del modo di stare al mondo che fa tutt’uno con la nostra trasformazione del cuore. Perché poi, alla fine, questa palestra del cuore, questo esercitare la compassione è sempre legato alla capacità di sentire e riconoscere l’altro.
Jürgen Habermas, filosofo originariamente legato alla Scuola di Francoforte, ad esempio riconosce che nessun mammifero nasce così radicalmente dipendente come l’essere umano – così a lungo dipendente dalle cure altrui. Questo senso di dipendenza profonda verso gli altri è uno dei fattori che nutre la coappartenenza, l’essere profondamente legati. E man mano che riscopriamo questo, valorizziamo la nostra e altrui umanità, riconosciamo che tante cose in realtà non sono di nostra proprietà. Questi vestiti che indosso non li ho fatti io, la lingua che parlo non l’ho inventata io, questi occhiali non li ho fatti io… siamo eredi di culture che ci sono state trasmesse, ecco perché ragioniamo non come gli antichi ma come persone di quest’epoca. Perché siamo esseri sociali, esseri storici, e quindi questo aspetto della relazione con gli altri ci forma.
Come spiegheresti il concetto di funi ai tuoi studenti non buddisti? Cos’è il “non due”?
Vinicio: Sicuramente non lo spiegherei dal punto di vista del valore dottrinale – perché implicherebbe la tematizzazione del credo, e io mi occupo di filosofia teoretica – e neanche lo presenterei come principio esistenziale, perché quest’ultimo ha a che vedere con una scelta personale di esistenza: l’approccio non dualista da questo punto di vista vuol dire scegliere di mettere da parte il pensiero giudicante, (s)valutante, distinguente e scegliere invece un approccio che cerca di liberarsi dei pregiudizi, che sceglie la bontà, l’amore, la compassione. Come tante esperienze spirituali che si hanno al di là della scelta religiosa, è scegliere il pacifismo, scegliere l’emancipazione attraverso la crescita interiore. Ecco, questo vuol dire praticare la non dualità a livello esistenziale.
Mi sembra che la strategia migliore per presentare questo principio agli studenti dell’università sia il livello esperienziale. E mi servirei di alcune pagine chiave de La vita mistero prezioso, ad esempio, e de I misteri di nascita e morte di Daisaku Ikeda, libri straordinari per chi pratica e per chi non pratica, perché sono un tentativo di dialogo tra una visione filosofica che deriva da una dottrina religiosa e il mondo della scienza e della filosofia. Per comprendere fino in fondo questi testinon c’è bisogno di praticare il Buddismo, basta disporsi, leggere con interesse, e lì vengono fatti esempi molto chiari del principio di non dualità, dalla psicosomatica al concetto bergsoniano del tempo, all’equivalenza tra materia ed energia nell’equazione di Einstein e=mc2. Ecco imboccherei questa strada, cioè spiegherei il principio di non dualità attraverso il livello esperienziale, intendendo qui l’esperienza conoscitiva, non solo quella di tutti i giorni.
Marina: Ma rispetto al pensiero olistico o alla psicosomatica, ora entrati molto nella nostra mentalità, mi sembrava che nel “non due” del Buddismo ci fosse un qualcosa da capire in più.
Vinicio: Noi stessi che pratichiamo il Buddismo ci approcciamo al concetto di non due su piani differenti. Dovremmo lavorare intorno al tema delle dieci non dualità, tematizzate da Miao-lo in Annotazioni su parole e frasi del Sutra del Loto in riferimento proprio agli aspetti unici, meravigliosi e misteriosi del Sutra del Loto. Quindi noi dovremmo ragionare capendo l’esatto significato di questi principi, perché ad esempio la non dualità di mente corpo non è come la non dualità di bene male.
Perché c’è differenza all’interno delle non dualità? Perché nella non dualità di bene e male, ad esempio, non si sta dicendo che queste due realtà coabitano e quindi noi le dobbiamo accettare per come sono, come invece accade nel principio mente corpo.
Quando parliamo di non dualità di bene e male, non possiamo dire che abbiamo bisogno di coltivare il male per provare il bene o di coltivare il bene per provare il male. È un atteggiamento che dice che l’esistenza del bene è possibile perché c’è il male e l’esistenza del male è possibile perché c’è il bene. Occorre, dunque, coltivare e affermare il bene, respingendo il male – per quanto, quest’ultimo resti in latenza. Anche nel Budda è in latenza il grande male.
E lo stesso vale quando parliamo di altre forme di non dualità, per esempio la non dualità di illusione e Illuminazione, perché tra essere illusi ed essere illuminati c’è una bella differenza. Qui il principio di non dualità opera in modo diverso, nel senso che non sei stato eletto per manifestare la Buddità, non sei speciale, non sei unico, ma è un’esperienza che passa proprio per l’illusione. E il rapporto con l’illusione ci permette due cose: uno di crescere, di sviluppare la saggezza di vivere, e due di salvare gli altri, cioè di dedicarci agli altri (perché ne comprendiamo le situazioni e le sofferenze, essendoci passati anche noi). Se arrivasse da un altro pianeta un Budda perfettamente illuminato ma che non sa nulla di noi, non parla nessuna delle nostre lingue, a che servirebbe?
Quindi come si fa a mettere ordine in questi principi? Qual è il principio ordinatore di queste dieci non dualità?
Il principio di fondo può individuarsi nelle tre verità, santai, cioè tre cose diverse, tutte e tre vere anche se contraddittorie. Sono: la verità della non sostanzialità, la verità dell’esistenza temporanea e la verità della via di mezzo.
La verità della non sostanzialità è uno dei concetti più profondi che abbiamo perché si rifà, anche questo, alla tradizione sanscrita, la più antica.
Dobbiamo al filosofo Nagarjuna l’aver approfondito la visione della sunyata, cioè quella che è chiamata vuoto, nulla, che nel nostro Buddismo è concepita invece nel senso di ku, una dimensione carica di potenzialità, simile a un grande oceano da cui emergono le onde, questa l’immagine che spesso Sensei richiama quando parla della vita: durante la vita siamo onda poi ritorniamo in ku, la vita finisce, l’onda dell’esistenza individuale ritorna nel grande oceano della vita.
La seconda, la verità dell’esistenza temporanea, che chiama in campo il tema della temporalità, ci dice invece della fenomenicità, cioè la verità dei fenomeni, la verità che i fenomeni che abbiamo davanti sono reali. Questa verità dice che c’è una realtà dei fenomeni che è caratterizzata dal mutamento nel tempo, che assomiglia molto a quel mutamento nel tempo di cui parlava Eraclito.
Infine c’è la terza verità, la verità della via di mezzo, una terza dimensione che riconosce che questi due aspetti sono profondamente connessi tra di loro. Via di mezzo vuol dire proprio terza via. Cioè una visione mediativa, ma anche alternativa agli atteggiamenti dualisti. Ecco, la dottrina delle tre verità ci aiuta a capire in che modo si coordinano questi discorsi differenti che si fanno per ciascun principio che vede l’uso del concetto di funi.
Secondo il principio di non dualità tra realtà fondamentale e tutti i fenomeni non esiste nessuna verità “più vera” dietro ogni fenomeno contingente e, allo stesso tempo, ogni fenomeno non è soltanto ciò che appare. È corretto dire che se non c’è separazione tra realtà fondamentale e tutti i fenomeni non c’è separazione fra assoluto e relativo, cioè fra assoluto e me? E che questa è la base teorica della possibilità, insegnata dal Sutra del Loto, di conseguire la Buddità da parte di tutti gli esseri viventi?
Vinicio È senz’altro un concetto che aiuta a ripensare in modo profondo e a risolvere questioni filosofiche in riferimento alla definizione di realtà, al rapporto conoscitivo o riflessivo che noi abbiamo con la realtà. Al momento, in Occidente questa visione di non dualità in campo filosofico tende a essere ancora osteggiata, perché viene letta come un approccio anti-trascendente alla realtà, cioè contrario all’idea che c’è un principio creatore superiore alla realtà. Sebbene siamo in un’epoca dove domina una cultura, anche filosofica, scientista e secolarizzante, la visione di marca cristiana continua ad avere i suoi riverberi profondi. L’altro fronte su cui una visione del genere continua a essere in certa misura sotto attacco viene dal fatto che siamo in un’epoca ancora caratterizzata da un principio di razionalismo materialistico, di empirismo, nonostante i tanti cambiamenti in corso. La tipica obiezione della filosofia occidentale al non dualismo è che contraddice l’esperienza: io vedo, faccio esperienza delle differenze, se mi si dice che queste differenze non esistono, allora si vuole intendere che l’esperienza stessa che io faccio non esiste; e questo non è accettabile.
Ritorna il modo di ragionare di rigida distinzione. Domina un discorso che tende a contrapporre due visioni. Da una parte l’idea del principio ultimo come fondante, come base, come trascendente, il divino – che è molto presente nella cultura occidentale. Dall’altra il principio del razionalismo empirico, dell’esperienzialismo: esiste solo ciò che vedo. Accanto, però, al riconoscimento che la vita è piena di aspetti misteriosi, inconoscibili, profondi, e di scoperte che stanno stupendo gli scienziati stessi, per tanti versi.E
Essenzialmente avete posto due quesiti: sul primo sono pienamente d’accordo, perché è esattamente ciò che insegna il principio di kyochi myogo, la fusione di realtà oggettiva (che in Occidente può essere riconducibile all’idea di assoluto) e saggezza soggettiva (della persona). Dove per saggezza soggettiva non si intende la mia o la tua saggezza, ma la saggezza innata dell’individuo.
Per quanto riguarda la seconda domanda – è corretto dire che questa è la base teorica della possibilità di conseguire la Buddità da parte di tutti gli esseri viventi? – qui stiamo affrontando la questione su tutto un altro piano, perché questo non è più un terreno di filosofia, di speculazione, ma di pratica della fede e dobbiamo intendere il principio di non dualità dal punto di vista del suo significato nella pratica religiosa.
Sarei dell’avviso di fare leva sul principio fondante che rende unico l’insegnamento del Sutra del Loto, secondo cui la natura di Budda è innata in ogni essere vivente, da cui scaturisce la possibilità di conseguire la Buddità. È la premessa fondamentale su cui tutto il resto si regge. Quindi direi che è così perché tutti gli esseri viventi possono conseguire la Buddità.
Sensei in tante occasioni, per esempio ne Il mondo del Gosho, incoraggia a radicarsi nell’idea che sia noi sia gli altri abbiamo la natura di Budda. E a continuare a crederci fino in fondo, anche quando gli altri commettono del male, o ci fanno male, o vediamo il male attorno a noi.
Continuare a credere nella natura di Budda è una fonte di speranza e ci spinge nel mondo della fede, non si tratta più di una questione o prospettiva filosofica. E c’è da sottolineare ancora una cosa: se è vero che il principio di non dualità mi fa andare con fiducia assoluta davanti al Gohonzon, allo stesso tempo non devo aspettarmi la “grazia” o la “salvezza” dal Budda o dal Gohonzon o da chissà quale “forza superiore”. Devo credere che io posso manifestare questa natura di Budda, perché la possiedo.
Questa è una fonte incredibile di fiducia. E il principio di non dualità mi dice anche che la circostanza che sto vivendo non è anomala, non è una circostanza di difetto, non sono manchevole di niente. La premessa per riuscire a trasformare la propria vita e la propria condizione è accettarla, e capire che non è casuale quello che viviamo, non è qualcosa che disturba il cammino della nostra rivoluzione umana, ma, precisamente, è il cammino della nostra rivoluzione umana. Esserne consapevoli dà un’enorme speranza.
A volte, anche in modo improvviso, ci troviamo ad affrontare difficoltà e sofferenze così gravi da farci sprofondare nella disperazione. Riflettendo sul principio della non dualità di vita e ambiente, può nascere il pensiero che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in noi stessi, se l’ambiente ci rimanda una realtà tanto dolorosa. Ma questa interpretazione è in realtà contraria al significato di questo principio. In che modo, allora, la non dualità di vita e ambiente può diventare una chiave per risvegliare la speranza e trovare la forza di lottare?
Vinicio Grazie per la domanda, molto concreta, in cui si rivela lo spirito dei giovani che vanno subito all’essenziale.
Qui dobbiamo intendere il principio di non dualità dal punto di vista del suo significato nella pratica religiosa, della fede.Di fronte alle tempeste della vita, grazie alla non dualità potremo, certo, capire che tutto scorre e che quindi anche le sofferenze mutano con la speranza che prima o poi si attenueranno. Oppure pensare che sì, sto soffrendo tanto, ma in fondo so che c’è qualcosa di profondo, di significativo, nella vita. Sì, però la sofferenza rimane.
Quindi una cosa è comprendere il principio di non dualità, una cosa invece è credere, attraverso questo principio, di avere il potere di cambiare. Perché la non dualità non dice semplicemente che due cose sono collegate, ma che sono collegate in un modo tale per cui parte da noi il principio del cambiamento. Quindi il principio del potere viene dal vivente, che prega, che sa pregare, che può pregare ed è quindi capace di cambiare il suo karma manifestando la Legge mistica.
Abbracciare la non dualità dal punto di vista della fede vuol dire riconoscere il potere di trasformare questa realtà e contemporaneamente riconoscere che tale trasformazione dipende da noi.
Il tema di fondo è il potere della fede, che ci permette di attivare la possibilità di trasformare la realtà in base al principio della non dualità. E infatti Nichiren da nessuna parte dice “sforzati di accumulare le ore di Daimoku” o “sforzati di accumulare gli anni di pratica”, ma incoraggia ad accumulare il potere della fede.
Questo è il grande principio di trasformazione che possiamo attivare al di là della tempesta che stiamo affrontando, delle situazioni che ci colgono anche alla sprovvista. E in sé ci incoraggia sempre a costruire un forte io che si erga come una torre sopra il mare in tempesta.
È una questione anche di scelta di vita, perché il tema della fede va assieme con il tema del coraggio. Io qui ritorno su quel principio di kyochi myogo che abbiamo richiamato più volte, che non è solo dottrinale ma si può praticare nel concreto. Tanti di noi sanno che questo tipo di esperienza non capita tutti i giorni, molte volte accade grazie a esperienze difficili, dolorose, perché quando prendiamo coraggio e pratichiamo davanti alle situazioni estremamente dure, la nostra capacità di credere si rafforza molto. Ricordo un passaggio da Il mondo del Gosho in cui Sensei dice che proprio il potere del coraggio fonde la nostra vita con la forza vitale fondamentale e si traduce in una speranza senza limiti che non muore mai, per quanto disperata sia la situazione.
Perché dice così? Perché noi siamo capaci di manifestare la fusione di realtà e saggezza proprio quando facciamo una pratica di fede profonda e prendiamo coraggio. Allora la vita si fonde con il Gohonzon, con la Legge fondamentale.
Qui non si intende una speranza di tipo psicologico, una sorta di auto suggestione, si tratta di un potere che attiva risorse spirituali molto profonde che sono radicate nella vita. Questo vuol dire che anche una persona fortemente depressa o che ha vissuto una tragedia può manifestare questa innata speranza come un flusso incredibile di gioia della Legge mistica e quindi attivare un potere di cambiamento molto profondo. Ecco perché il grande potere della fede è il tema che viene messo in campo ed ecco perché non possiamo parlarne se non in termini religiosi.
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Le dieci non dualità
1) non dualità di corpo e mente. Ciò che si osserva nella meditazione è una sola mente o un solo pensiero (giapp. ichinen), che è un insieme indivisibile di corpo e mente;
2) non dualità di interno ed esterno. Anche se l’oggetto della meditazione è diviso in due – l’oggetto interno o regno della mente (entità psicosomatica), e l’oggetto esterno, o mondo esterno dei fenomeni fisici e spirituali – questi due sono non duali, perché un’unica mente incarna le tre verità e include tutti i tremila regni;
3) non dualità del risultato della pratica e della vera natura della vita. Questo significa che la vera natura della vita, o il vero aspetto di tutti i fenomeni, non è differente da ciò che si consegue tramite la pratica buddista. La vera natura spinge una persona verso la pratica e la pratica le permette di manifestare la vera natura;
4) non dualità di causa ed effetto. “Causa” qui indica le persone comuni ed “effetto” indica la Buddità. Non dualità di causa ed effetto significa che la natura di Budda inerente alla persona comune è la stessa natura manifestata dal Budda;
5) non dualità dell’impuro e del puro. Poiché l’ignoranza (o illusione) e l’Illuminazione sono due espressioni della stessa mente ed essenzialmente sono una sola cosa, la mente impura avvolta nell’ignoranza è essa stessa la mente pura illuminata;
6) non dualità della vita e del suo ambiente. Sia il Budda come essere vivente, sia la terra del Budda come ambiente esistono in un’unica mente e sono quindi non duali;
7) non dualità del sé e degli altri. “Sé” indica il Budda che insegna, e “altri” indica le persone comuni, che imparano e si illuminano. Ma essi sono non duali perché sia il Budda sia le persone comuni incarnano le tre verità e sono dotati di tutti i tremila regni. In altre parole, sia il sé (la Buddità) sia gli altri (i nove mondi) sono innati in un’unica mente;
8) non dualità di pensiero, parola e azione. Il Budda salva le persone tramite le sue tre categorie di azione: pensiero, parola e comportamento. Queste tre categorie del Budda non sono diverse da quelle delle persone comuni perché derivano dai tremila regni inerenti in entrambi. Inoltre, queste tre categorie esistono in un’unica mente in quanto insieme psicosomatico e sono quindi una sola cosa;
9) non dualità degli insegnamenti provvisori e di quelli veri. Il Budda predica gli insegnamenti provvisori (i tre veicoli) e il vero insegnamento (l’unico veicolo) secondo le capacità delle persone. Poiché tali insegnamenti provengono entrambi dalla mente illuminata del Budda, tuttavia, essi sono non duali;
10) non dualità dei benefici. Anche se le persone ricevono diversi benefici secondo il livello dell’insegnamento del Budda che praticano (come quello provvisorio e quello vero), sia il Budda sia le persone in definitiva godono dello stesso beneficio, proprio come le piante in un campo sono tutte nutrite ugualmente dalla pioggia.
(Da Il dizionario del Buddismo, Esperia)