Se c’è un campionato di lutti, per numero e tempistiche, sento di avere quantomeno il diritto di candidarmi.
Mi capita spesso di fare ironia su quelle che a tanti che apprendono la mia storia appaiono solo disgrazie. Partiamo da una consapevolezza: sono Maria Cristina, ho 38 anni, e non prendo la parola per rattristarvi. Sono grata delle esperienze vissute. Mi hanno reso una donna giovane, ricca interiormente e forte. E non sarebbe stato possibile se non avessi avuto la fortuna di praticare il Buddismo, di crescere all’interno della Soka Gakkai e di coltivare ogni giorno il legame con i nostri maestri. «La civiltà moderna ha tentato di ignorare la morte. Abbiamo distolto il nostro sguardo dalla più fondamentale delle preoccupazioni, cercando di ricacciare la morte nell’ombra», scrive Daisaku Ikeda in I misteri di nascita e morte (Esperia, p. 88).
Esattamente quattro anni fa c’è stata la sepoltura di mia nonna. La osservavo negli ultimi anni come un pezzo di storia che mi scivolava tra le mani e mi frustrava l’idea di non aver imparato da lei tutto ciò che aveva da insegnarmi. Ogni volta che mi accoglieva dicendomi «Uè Maria, Maria bella, vieni a sederti vicino a me», io pensavo all’immagine tramandata nel Buddismo di sedersi l’una accanto all’altra nella stanza delle orchidee per dialogare e sostenersi vicendevolmente. L’ho salutata ringraziandola e con la gioia nel cuore sentendo che stava passando il testimone colma di fiducia.
Non potevo immaginare che i ventuno giorni seguenti sarebbero stati i più difficili della mia vita, né che quella nel cimitero sarebbe stata l’ultima passeggiata con mio padre. In quei giorni si ammalarono di Covid lui e mia madre. Dopo poco risultò positivo anche mio fratello. Ero l’unica in casa a essere negativa. Ho sempre temuto, vivendo lontana dalla famiglia, che avrei rischiato di non esserci nei momenti più difficili. Invece il Daimoku è a tal punto potente e la vita a tal punto perfetta da farci essere lì dove è necessario che siamo. Se mia nonna non fosse morta, io non sarei stata lì.
In quei giorni, rinchiusi in casa, divisi, capii che in tanti anni di attività buddista mi ero allenata per arrivare a quel momento. Lavoravo da remoto, cucinavo per tutti, seguivo la salute di mio padre parlando con i medici, proteggevo mio fratello e in ogni momento possibile recitavo Daimoku. Determinai che mio padre sarebbe guarito. Le sue condizioni peggiorarono. L’ho visto l’ultima volta dal balcone salire sull’ambulanza mentre ci salutavamo. Undici giorni dopo è deceduto e del mio nucleo famigliare sono stata la sola a potermi occupare del suo funerale e della cremazione.
Dura, eh! E se vi dicessi che mio padre mentre moriva mi ha insegnato l’essenza dell’amore? Se vi dicessi che è morto esattamente nell’istante in cui ho profondamente determinato che lo avrei sostenuto qualunque cosa avesse scelto? Se vi dicessi che non esiste un dialogo che la preghiera non possa realizzare? Non esistono corpi, barriere, distanze. Quando preghiamo con il cuore sincero siamo tutt’uno con l’universo. Possiamo arrivare ovunque.
Di quel Daimoku ricordo lo sforzo immenso di sciogliere il mio attaccamento e subito dopo una gioia abnorme, il calore, l’amore, la bellezza, noi due condensati lì per l’eternità. Mio padre morendo mi ha anche insegnato che contano tutti i nostri istanti, cosa facciamo, cosa scegliamo, con chi siamo. Mi ha lasciato la consapevolezza del valore del tempo e un dialogo che nutro ogni giorno con lui attraverso il Daimoku.
Sedermi davanti al Gohonzon per me a volte è come accovacciarmi tra le braccia di mia madre che mi accolgono quando sono disperata, e altre è come una finestra da cui mi affaccio e parlo con mio padre, con mia nonna e con mio fratello, deceduto anche lui un anno e mezzo fa. La sua malattia mi ha consentito di lottare per difendere la vita fino all’ultimo istante e lui, nonostante a lungo si sia fidato nelle cure di falsi profeti, è morto riconoscendo il grande valore della vita e dell’amore.
In tre anni e mezzo ho salutato anche molte altre persone a me care, familiari, amici e alcune mie adorate studentesse adolescenti.
Sono una donna fortunata, così giovane e così consapevole di questo immenso mistero che è la vita, la morte. Sono necessari l’uno all’altra. Alimentare i tabù sulla morte non ci porterà a vivere meglio.
I lutti sono una montagna russa. Sono così intimi e pericolosamente corrosivi. Avere nostalgia di chi non è più presente può essere a tratti dilaniante, soffocante, inconsolabile. Eppure c’è una certezza nel mio cuore data dalla fede e dall’esperienza: noi ci ritroveremo sicuramente. Io continuerò a sceglierli vita dopo vita e loro sceglieranno me.
Il presidente Ikeda scrive: «I benefici che noi stessi otteniamo dalla pratica buddista si trasmettono ai defunti grazie alla luce dorata della pratica di Gongyo. Ecco il senso originale di eko (la preghiera per i defunti). [...] Eko viene da eten shuko che significa “apportare benefici agli altri”. La maniera migliore di pregare per i defunti è essere felici e aiutare gli altri a diventarlo. È per arrivare a questo che noi facciamo attività all’interno della Soka Gakkai. Questa è la conclusione che si può trarre dagli scritti di Nichiren» (NR, 545).
E questo è ciò che auguro a voi e a me. Diventiamo insieme sempre più felici per noi e per chi in questo momento è nella fase di latenza. La vita – come ci dice Ikeda Sensei – è come il moto ondoso: «Quando le condizioni saranno appropriate, quell’essenza vitale apparirà un’altra volta sotto forma di una nuova onda» (BS, 127, 48).
(Maria Cristina Fraddosio)