Reciprocità, gratuità, fraternità: la qualità dei rapporti umani diviene, all’interno di questa economia “del futuro” ma dalle radici lontane, il perno centrale. La domanda di beni relazionali è sempre più strategica, in un mercato guidato da una logica collaborativa e cooperativa
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Appassionato di economia, imprese emergenti e cooperazione, esperto di innovazione sociale e responsabilità sociale condivisa, Luca Raffaele è direttore generale di NeXt, presidente di Gioosto e coordinatore dell’Obiettivo 12, “Consumo e produzione responsabili”, all’interno dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). In questa intervista, oltre a illustrare i capisaldi dell’economia civile, racconta con entusiasmo le tante trasformazioni e rivoluzioni che questo approccio dal basso sta già realizzando.
Sinteticamente potremmo dire che l’economia civile propone un “umanesimo del mercato”, poiché l’attenzione alla persona non è rimandata alla sfera privata né a qualche forma di filantropia pubblica che si limita a curare le disfunzioni del mercato. Ci può spiegare meglio questo punto così fondamentale?
È un punto importantissimo. L’economia civile è un modello non alternativo alle economie tradizionali, ma si pone come l’Economia, nel senso che o l’economia è civile o non è economia.
Si tratta di un modello differente da tutti quelli che ci sono stati. Qui i tre attori (organizzazioni del mondo non profit, il mercato e lo Stato) devono saper convivere non solo in base al principio dello scambio equivalente (la premessa di un modello efficiente che in questo momento non ci rappresenta) e neanche in base al principio della redistribuzione della ricchezza, ma fondandosi sull’idea che ci sia una fratellanza e una reciprocità fra i soggetti che li compongono, i quali devono cooperare tra loro. Questa è la sostanza dell’economia civile: direi che serve un nuovo umanesimo, una nuova idea di mercato. Si fanno due grandi errori riguardo all’economia civile: pensare che sia un’“altra economia”, e che oltre all’economia tradizionale ci siano oasi felici dove si collabora e si è tutti amici; oppure che per realizzare un tipo di economia sostenibile, in questo caso civile, non ci sia bisogno del mercato. E invece il mercato è fondamentale. Certo dovrebbe essere un mercato di qualità sociale, dove la relazionalità, alla base del principio della reciprocità e della fratellanza, ha il primato. Questo è un aspetto che deve essere tenuto ben presente quando parliamo di economia civile.
In un articolo lei ha scritto che la realizzazione di una nuova economia non può essere affidata solamente a esperti e intellettuali, ma che occorrono «storie e volti che da semplici comparse diventino protagonisti dell’attualità, modelli che possano essere promossi e resi replicabili in altri territori». A che punto siamo?
Cominciamo con il dire che l’economia civile è un’economia che parte dal basso, che ripensando i modelli di consumo, di produzione e di risparmio riesce a creare grandi rivoluzioni. Insieme a una spinta che viene dall’alto, da parte di esperti e tecnici che propongono soluzioni, serve l’azione correttiva della società civile, di tutte quelle persone che contribuiscono con i loro saperi, attitudini e cultura a determinare il cambiamento non soltanto in seno alle proposte dei tecnici ma anche attraverso piccoli momenti di rivoluzione quotidiana.
Inoltre non dobbiamo far riferimento solo ai grandi miti, personaggi che hanno incarnato i princìpi dell’economia civile perché particolarmente illuminati o capaci di vedere prima di altri cosa andava fatto. Ognuno di noi può avere un modello replicabile.
Una figura come Adriano Olivetti ha prodotto una grande rivoluzione trasformando l’economia civile in pratica quotidiana nel vissuto della sua azienda, ma noi possiamo rendere attuali tutti i modelli di produzione che mettono al centro le persone, l’ambiente, le relazioni, oltre ovviamente alla sostenibilità economica, e individuare i mille Olivetti presenti intorno a noi, donne e uomini che hanno operato grandi rivoluzioni all’interno delle loro organizzazioni, facendoli conoscere di più.
Capire quali sono i punti di forza e le aree di miglioramento di questi modelli di allora e di oggi è uno dei passi fondamentali per rendere concreta e applicabile l’economia civile. Non dobbiamo avere paura di indagare le problematicità dei diversi modelli esistenti, che sono tantissimi ma purtroppo scollegati. Dobbiamo semplicemente fare in modo che parlino tra loro e soprattutto alle persone, facendo capire che si può prendere spunto dall’esperienza di un imprenditore, di un’amministrazione pubblica, di un insegnante o di un’organizzazione del terzo settore. Altrimenti c’è il rischio che pensando all’economia civile ci si riferisca solo ai grandi intellettuali del settecento come Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Giacinto Dragonetti e altri, considerandoli come stimoli di un tempo ormai andato.
All’interno di NeXt c’è un’attenzione diretta agli effetti delle azioni a livello individuale. Non si tratta soltanto, come si diceva, di un pensiero bello ma distante, ma di un pensiero bello che cerca di essere anche utile, che verifica se le azioni portano un benessere oppure no…
È proprio questa la chiave: far capire che con i nostri gesti possiamo portare un cambiamento. I piccoli gesti quotidiani hanno importanza. Per me uno dei significati più importanti del Buddismo è che non si crede tanto nei grandi gesti rivoluzionari quanto nei piccoli istanti di cambiamento quotidiano, di sé o di sé con gli altri: questo abbiamo cercato di applicarlo anche in economia.
Il modello c’è. Si può chiamare economia civile, economia solidale, del bene comune, economia del noi, economia della felicità… l’importante è che al centro ci siano persone, ambiente e lavoro. Ci deve essere anche un rapporto con tutti e tre gli organi di cui si parlava all’inizio (Stato, organizzazioni/persone e mercato).
La nostra sfida è diffondere l’idea che investire in economia civile paga non solo perché è una scelta etica ma anche perché è conveniente. Se un imprenditore che abita nel nostro quartiere ha un impatto positivo per le persone che mette a lavorare, per il tessuto sociale che aggrega, per le ricadute ambientali, è un vantaggio per tutti. Inoltre, poiché investire in persone e ambiente ha un costo maggiore, abbiamo istituito i cosiddetti cash mob: al giorno e all’orario stabilito si va in gruppo ad acquistare i prodotti di un particolare esercente (libreria, negozio di abbigliamento, o altro) che rispondono a certi requisiti. Questi gesti hanno avuto un effetto incredibile sia sugli acquirenti, che si sono coordinati, hanno capito che la loro azione non era isolata ma poteva avere un impatto; sia sull’imprenditore, che avendo investito un costo extra ha avuto un riscontro in un mercato che lo riconosceva e lo premiava. Lo stesso vale per un bar che elimina le slot machine, dove l’esercente perde soldi ma viene premiato dalle persone che frequentano molto di più il suo esercizio, o per una banca che decide di non investire in armamenti, azzardo o settori controversi.
Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore della Soka Gakkai, parlava di competizione umanitaria, da sostituire alla competizione economica. Sembra riecheggiare la vostra idea di sostituire la competizione con la “coopetizione”.
Il competere, essere sul mercato ed essere sostenibile dal punto di vista economico, non è sbagliato di per sé. Non dobbiamo avere paura di questo. L’importante è stare sul mercato con una logica collaborativa e cooperativa, che permette di essere anche più “coopetitivi” perché, per esempio,collaborando e creando reti sul territorio si riescono ad avviare processi innovativi più duraturi e stabili, o perché si anticipa quello che sarà un contesto normativo sempre più stringente sugli aspetti sociali e ambientali, e potrei elencare tanti altri motivi. Ma questo non vuol dire che alla responsabilità socio-ambientale non debba affiancarsi una corretta sostenibilità economica, perché in tal caso, se non ho saputo fare bene i conti e non riesco a pagare gli stipendi a fine mese, sarei io il primo tra gli “incivili”.
È quindi l’idea di competizione che deve essere ripensata, e non vedere gli altri come soggetti da calpestare o da mettere dietro perché ci possono rubare la clientela. Siamo tutti potenziali partner, la domanda è così ampia che se ci mettiamo insieme possiamo tutti essere appagati e supporter l’uno dell’altro.
Alla luce dei princìpi fondanti dell’economia civile – reciprocità, gratuità, fraternità – la relazione tra le persone, tra chi assiste e chi è assistito, cambia completamente. Un’idea molto vicina al Buddismo, secondo il quale nulla esiste di per sé ma solo grazie a una relazione. Nichiren Daishonin, il fondatore della nostra scuola buddista, diceva: «Se si accende un fuoco per gli altri, si illuminerà anche la propria strada». Può farci degli esempi di applicazione di questa visione?
Intellettuali come Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti, Alessandra Smerilli hanno trattato in modo approfondito questo tema. Dobbiamo abbandonare l’idea che una persona bisognosa necessiti di un obolo. Tutto il contrario, le occorrono persone che la aiutino a rialzarsi e a gestire la propria vita e il proprio bisogno in modo autonomo, sapendo ovviamente che può collaborare con altri perché le difficoltà possono sembrare insormontabili. Uscire dagli schemi dell’assistenzialismo è allabase dell’economia civile e di tutti i modelli economici che tentano di operare un cambio di paradigma. Questo non esclude il dono, il terzo principio dell’economia civile; ma la gratuità non deve confondersi con l’altruismo o con la filantropia. La gratuità porta in qualche modo a mettersi accanto a una persona senza cercare di usarla a proprio vantaggio. Sempre in una logica di reciproco scambio.
Sia come individui sia come organizzazioni dovremmo sempre pensare a come creare valore condiviso con chi è allo stesso livello, né sotto né sopra di noi.
Un argomento toccato più volte in questa intervista è quello dei beni relazionali. La domanda di beni relazionali diventa sempre più strategica rispetto a quella di beni privati o di beni pubblici, poiché le relazioni di qualità sono la chiave del successo nei luoghi di lavoro e favoriscono la creazione di fiducia e di capitale sociale. Arrivando a dire che la vera determinante del benessere è legata alla produzione e al consumo di beni relazionali come l’amicizia, l’amore, la fiducia, l’impegno civile. Molto rivoluzionario. Ma come fare a operare concretamente questo cambiamento di paradigma così radicale?
È un punto importante, perché quella dei beni relazionali, insieme al principio della reciprocità, è la chiave di volta per cambiare il paradigma. Le risposte possono essere diverse perché il tema è molto vasto. Non c’è un’unica via. La reciprocità è il punto di partenza, poi c’è fraternità, gratuità, felicità pubblica, tutto quanto possa rendere quello scambio personale significativo, reciproco. Mentre nei vecchi modelli dell’economia mainstream il fine dello scambio è l’efficienza e la redistribuzione, il fine ultimo nell’economia civile è che attraverso i beni relazionali si metta al centro un tipo di fraternità che molto spesso viene cancellata da altri generi di miti, e quello dell’efficienza è uno tra questi. Per concretizzare tutte queste belle parole dovremmo realizzare mercati di qualità sociale dove gli aspetti di relazionalità e di reciprocità abbiano il primato.
Un’ultima domanda: riguardo a una problematica fondamentale come quella delle difficoltà di interazione tra generazioni, cosa si può fare per arrivare a collaborare?
Non esiste una risposta semplice. Innanzitutto ci dovrebbe essere un impegno da parte dei giovani, che se non acquisiscono un luogo di rappresentanza vera debbono prenderselo, anche in modo forte. Un’organizzazione di giovani che riescono a fare rete all’interno di un’azienda fa capire che non si tratta dell’istanza di un singolo in qualche modo leso, ma quella di più soggetti che vogliono essere parte attiva, protagonisti, che non devono essere penalizzati perché sono giovani, che non stanno rubando il lavoro a nessuno ma che anzi potrebbero migliorare quello di tutti.
Il dubbio è se dall’altra parte le persone meno giovani debbano sforzarsi, per esempio, di fissare per iscritto quote per i giovani all’interno dei loro organismi. Un’operazione di per sé insufficiente se non c’è una reale consapevolezza. Dovremmo stimolare un lavoro di aggiornamento, di formazione, calcando la mano sul fatto che è vantaggioso e conveniente, per le persone e per le organizzazioni, includere i giovani. Inoltre si tratta di una scelta etica che è giusto compiere. Ma i giovani devono fare la loro parte. La spinta e la voglia di cambiare le cose devono essere dirompenti.
Del resto, i soggetti che non cambiano in questa direzione sono destinati a fallire. I dati, gli studi, i progetti lo dimostrano: tutte le realtà che non vorranno adeguarsi coinvolgendo le donne, i giovani, o facendo inclusione sociale vera e non in chiave assistenziale, saranno fuori da qualsiasi processo. È questa la grande speranza. Possiamo anticipare quello che sarà obbligatorio domani, e per fortuna domani è già vicino.