image_print

Mediatore, attivista, fondatore del comitato 3 ottobre

Di origini eritree, Tareke Brhane è fuggito dal proprio paese a 17 anni per evitare la coscrizione a vita, andando incontro a violenze, prigionia e rischiando di morire. È arrivato in Italia nel 2005, dopo essere stato respinto al primo tentativo di attraversare il Mediterraneo. Da allora si è sempre impegnato a favore di chi, come lui, è stato costretto a rischiare la vita per sfuggire a situazioni drammatiche e cercare protezione in Europa. In particolare ha lavorato come mediatore culturale a Lampedusa e nell’Italia meridionale per Medici Senza Frontiere e Save the Children. Nel 2014, durante il XIV Summit dei premi Nobel per la pace, ha ricevuto la Medaglia per l’Attivismo sociale.
Vive a Roma, dove è presidente del Comitato 3 ottobre, organizzazione non profit fondata all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando 368 persone persero la vita. Dal 2016 si celebra in tale data la “Giornata della memoria e dell’accoglienza” non soltanto per commemorare le vittime di quel naufragio, ma per ricordare le migliaia di persone che muoiono annegate nel Mar Mediterraneo o restano bloccate ai confini orientali dell’Europa. (https://www.comitatotreottobre.it/)

Per arrivare in Italia ha fatto un viaggio difficilissimo, che è durato quattro anni. C’è stato un momento in cui ha avuto veramente paura?
Ho avuto paura quando mi sono separato da mia madre. Eravamo partiti insieme, ma a un certo punto siamo stati costretti a separarci, sia perché il viaggio ha un costo, sia perché ci vuole la forza di affrontarlo. Trovarmi in un contesto così difficile senza di lei mi ha fatto sentire solo. Mi terrorizzava morire nel deserto, guardavo quelle montagne di sabbia, dove basta un soffio di vento per esserne ricoperto nel giro di due secondi. Nel deserto si muore lentamente, anche dopo otto giorni, soffrendo, ci sono cadaveri e scheletri ovunque.
Un altro momento terribile è stato nelle carceri libiche, dove subisci tutte le cattiverie del mondo, dove stuprano davanti ai tuoi occhi tua moglie, tua madre, tua sorella, senza pietà. Lì ti viene proprio il terrore.
Passato questo, poi, quando ormai sei convinto che il domani potrebbe non arrivare, tutto quello che affronti diventa una cosa quasi normale. Come, per esempio, attraversare il Mediterraneo, che per me è stato quasi un paradiso, perché lì si muore dopo una sofferenza di dieci minuti, un’ora, un giorno al massimo. Vai giù e finisce tutto.

Ha mai pensato che non ne fosse valsa la pena? È mai stato sul punto di mollare?
Dopo aver vissuto di tutto, il primo giorno in Italia è stato spettacolare. Sono arrivato in un luogo che sognavo fin da piccolo, ad accoglierci c’erano le Ong, i giornalisti, le ambulanze… In una settimana ho ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.
Ma neanche 24 ore dopo, con addosso solo una maglietta, mi è stato intimato con la forza di andare via dalla struttura che mi aveva accolto e sono stato buttato nella stazione di Trapani. Era novembre. Lì mi sono detto: «Ho faticato, lottato, sopportato. Ma era questo quello che cercavo? Non so se vale la pena continuare a lottare». Però sentivo che non potevo permettermelo, perché avevo una madre, era una responsabilità enorme. Quindi ho cercato di resistere, di tentare. Dopo essere passato per Palermo sono arrivato a Roma, dove è stato un incubo, la mia pancia urlava dalla fame, ho dormito nelle stazioni, in giro, a un certo punto ero disposto a lavorare gratis in cambio di un posto per dormire e mangiare per riuscire ad affrontare l’inverno. Sono arrivato fino al punto di poter commettere un reato per avere un letto e un latte caldo, ero al limite della disperazione.
Perché finché si parla della Libia, dell’Eritrea, del Sudan c’è gente che ti sta a sentire, ma quando si cerca di raccontare le difficoltà che si incontrano qui, a volte anche di essere rifiutati completamente, si fa fatica a farsi ascoltare, o forse la gente ha paura. E ti devi abituare a digerire la cattiveria che subisci ogni giorno.

E poi come è andato avanti?
Come sono andato avanti… (ride). Da piccolo sognavo di fare il pilota, ero bravo nelle materie scientifiche, ma non è stato possibile. Sono finito nel Sud Italia a raccogliere i pomodori, le patate, le olive, sottopagato a 15 euro al giorno, ho lavorato negli alberghi come lavapiatti, tentando in contemporanea di studiare per fare il pilota, il mio sogno… non avrei mai pensato che un giorno avrei fatto l’attivista, avrei parlato di diritti.
In Italia hanno azzerato gli studi che avevo fatto nel mio paese, così ho rifatto le elementari, le medie, le superiori. Poi ho dovuto decidere: o mangiare o studiare. Ho scelto giustamente il pane e così mi sono integrato per le strade, ho imparato la lingua stando in strada. E anche grazie a tante semplici persone, quasi a mia insaputa sono diventato l’avvocato di tutti, mi chiamavano in questura o in tribunale per tradurre ai migranti appena arrivati. Poi sono stato assunto da Medici Senza Frontiere. Inizialmente avevo paura di salire sulle motovedette della Guardia costiera, non avevo un bel rapporto con il mare, ancora sentivo quell’incubo.
Da lì non mi sono più fermato, ho lavorato con Save the Children e poi ho fondato un’organizzazione, il Comitato 3 ottobre, nata per riconoscere quella data come “Giornata della memoria e dell’accoglienza” e per mettere a punto una procedura per il riconoscimento delle salme (vedi la petizione “Basta guerre invisibili! Basta vittime senza nome!” lanciata recentemente su change.org). Abbiamo tante famiglie che ancora oggi aspettano notizie dei loro figli, mariti, mogli morti in quel naufragio, vogliamo tentare almeno di dare un nome a queste persone e poi tentare di aprire canali umanitari.
Grazie al Comitato 3 ottobre abbiamo portato al Parlamento italiano ed europeo una proposta di legge, che il Senato italiano ha approvato il 16 marzo 2016 istituendo ufficialmente la Giornata della memoria e dell’accoglienza. 

Quali iniziative avete messo in atto per celebrare questa giornata?
Abbiamo puntato sui ragazzi e le ragazze delle scuole. Da circa cinque anni siamo riusciti a creare a Lampedusa, in occasione del 3 ottobre, un evento unico in Europa, in cui si riuniscono giovani da 20 regioni italiane e da 26 paesi europei. Partecipano Organizzazioni non governative, agenzie dell’Onu, autorità locali, nazionali ed europee, giornalisti… Siamo diventati talmente tanti, e scomodi, che è difficile essere attaccati, perché abbiamo tutte le voci, i migranti, i sopravvissuti, le comunità Lgbt, le varie religioni (ebrei, musulmani, cristiani). Insomma cerchiamo di mettere tutti insieme, per una settimana, con dibattiti, workshop, convegni, spettacoli teatrali.
Inoltre incontriamo ragazzi e ragazze in tutto il territorio nazionale e in vari paesi europei, finora abbiamo coinvolto 60 mila studenti, oltre 340 scuole, che ogni anno aumentano. Non solo, in comuni come Roma, Bologna, Torino, Foligno, Pesaro, siamo riusciti a far dedicare piazze, strade, giardini alle vittime del mare. Ogni anno organizziamo, all’interno del Parlamento europeo, un’iniziativa di due giorni in cui portiamo delegazioni di scuole di varie parti d’Italia e d’Europa, occupando simbolicamente il Parlamento per due giorni. Quasi costringiamo le autorità a dialogare con noi.
Così nel giro di poco ci siamo trovati a ricoprire un ruolo abbastanza importante sia a livello nazionale sia a livello europeo.

Di cosa ha bisogno un migrante, quando arriva in Italia, per integrarsi? E di cosa abbiamo bisogno noi, paese che accoglie, per includere davvero chi arriva?
Un migrante, quando arriva, ha sicuramente bisogno di informazioni corrette, deve sapere cosa può ottenere, i diritti e i doveri. È importante anche fornire un supporto psicologico, perché è un trauma difficile da superare. E la formazione è fondamentale: la maggior parte di chi arriva ha tanta buona volontà.
In Italia, invece, si tende a parcheggiare le persone che arrivano, lasciandole per un anno in un centro di accoglienza, trattandole come bambini, dando loro latte e biscotti, senza aiutarle a formarsi un’autonomia. Persone che nel paese di provenienza erano capifamiglia vengono trattate da vittime, non da individui che, se dotati degli strumenti giusti, possono compiere tanti cambiamenti. Inoltre sul territorio c’è un vuoto totale, perché i cittadini italiani molto spesso non sanno niente delle persone che arrivano, della loro storia, non hanno gli strumenti per aiutarle a integrarsi.

E dunque, per noi che siamo qui che cosa è importante imparare?
La prima cosa che vi chiediamo, al di là del buonismo, è di informarvi prima di giudicare. Poi di trattarci in modo paritario.
A chi lavora in questi ambiti, direi di includere queste persone nei progetti. Invece di etichettarle come il migrante, il rifugiato, il poverino, invitarle alle conferenze a raccontare la loro storia o fare raccolte fondi in televisione, occorre coinvolgerle, molte hanno un bagaglio culturale, possono incidere, dare risposte, trovare soluzioni.
Si può pure fare un progetto molto bello, ma senza includere le loro voci il cambiamento non arriva, abbiamo fallito tutti quanti, abbiamo sprecato soldi.
Io, per esempio, sono partito da zero e ora svolgo un ruolo davvero importante senza neanche averlo cercato né voluto. Spero di continuare, anche sapendo che non è semplice, perché essendo di colore sono sempre trattato come il migrante arrivato con la barca. È una lotta continua.